Anno LXIV, 2022, Numero 2-3, Pagina 104
LA RUSSIA DA GORBAČËV A PUTIN
Quando nel 1985 Michail Gorbačëv assunse l’incarico di Presidente dell’URSS, il mondo iniziò ad osservare la politica della nuova dirigenza sovietica con grande curiosità ma, nello stesso tempo, con diffidenza. Davvero l’URSS sarebbe cambiata? Davvero iniziava una nuova fase politica che avrebbe posto fine agli anni della Guerra fredda? La svolta che aveva portato Gorbačëv alla guida del partito e del Paese si era resa necessaria a seguito di una profonda crisi che la Russia stava attraversando sia al proprio interno che all’estero. La corsa agli armamenti imposta dalla presidenza USA di Ronald Reagan che era arrivata ad ipotizzare uno scudo spaziale per contrastare una possibile aggressione, stava dissanguando le già esauste finanze russe e il perdurare della occupazione dell’Afghanistan si stava rivelando un disastro sia in campo militare che in quello politico. Le vittime cadute in guerra e l’alto numero di feriti (circa mezzo milione) stava provocando una crisi di credibilità del regime nonché proteste in piazza dei familiari delle vittime. Da qui la svolta epocale di eleggere alla guida del Paese un uomo relativamente giovane per gli standard sovietici.
Gorbačëv iniziò da subito una campagna di rinnovamento che diede vita a quella che è nota come l’epoca della perestrojka (ristrutturazione) e della glasnost (trasparenza). Una epoca in realtà molto breve, durò sei anni, ma sconvolse gli equilibri mondiali e si concluse con lo scioglimento dell’URSS. La sua politica ebbe due effetti tra loro contrastanti: raccolse ampi consensi in campo internazionale, senza però riuscire a eliminare l’ombra del sospetto e della paura nel campo occidentale; all’interno del Paese il rinnovamento auspicato portò alla sua frantumazione senza superare gli endemici problemi legati alla corruzione, ai gravi ritardi in campo economico e industriale che imponevano alla popolazione una generale condizione di povertà. Fu coraggioso nel porre fine alla occupazione dell’Afghanistan nel 1988, interrompendo così le sanzioni che l’Occidente aveva promosso contro l’URSS dall’anno della invasione avvenuta nel 1979. Non intervenne per contrastare le proteste popolari contro i regimi comunisti che si stavano svolgendo in Polonia o in Romania. Di fatto poneva fine alle pressioni sui Paesi vicini ed alleati. Non si oppose alla prima guerra del Golfo voluta dagli USA nel 1991. Si prodigò in una serie di incontri bilaterali con il Presidente USA Reagan (Ginevra, novembre 1985, e Reikiavik, ottobre 1986) e poi con il suo successore Bush (Malta, dicembre 1989), visitò gli Stati Uniti (novembre 1987) con l’obiettivo di sostenere una campagna per la riduzione degli armamenti[1] e per mostrare la volontà di avviare nuove relazioni pacifiche con l’antagonista di un tempo. Numerose furono anche gli incontri con i leaders europei con l’obiettivo di favorire l’avvicinamento della allora Comunità europea alla nuova URSS. Da qui l’idea della Casa comune europea a più riprese proposta sino alla stesura della Carta di Parigi per una nuova Europa nel novembre 1990. Questi sforzi di un avvicinamento con l’Occidente furono vissuti con grande interesse, ma, allo stesso tempo, persisteva un’ombra. Restava cioè il dubbio che l’URSS fosse veramente in grado di porre fine alla contrapposizione politica e militare. Le difficoltà di questo dialogo con le istituzioni e i governi occidentali sono ricordati da uno stretto collaboratore di Gorbačëv e suo consigliere economico Ivan Ivanov[2], che ben descrisse le difficoltà nel dialogare con le istituzioni europee e internazionali nel far comprendere gli sforzi del nuovo corso imposto dalla perestrojka. Questa incomprensione si palesa anche nel fallito tentativo di Gorbačëv di far entrare l’URSS nel FMI nel 1986, per una ostilità politica, giustificata dall’Occidente con motivazioni di natura tecnica.[3] Il paradosso di questo atteggiamento lo si vide nel 1998, quando l’URSS ormai non esisteva già più e la Russia di Eltsin venne accolta nel FMI, con il Paese ormai prossimo al default.
La Casa comune europea.
Il mondo occidentale accolse con grande entusiasmo Gorbačëv quando intervenne a Strasburgo nel luglio del 1987 in occasione di una riunione del Consiglio d’Europa che, per l’occasione, vide la partecipazione straordinaria dei parlamentari europei. Nel suo discorso ebbe modo di richiamare un principio importante a proposito del rispetto delle sovranità nazionali più volte violato in passato dall’URSS[4] affermando che: “l’idea dell’unità europea deve essere ripensata collettivamente (…) qualsiasi tentativo di limitare la sovranità degli Stati — sia amici che alleati — è inammissibile”. Si trattava di una nuova dottrina che favoriva l’apertura a compromessi politici e, addirittura, a forme di liberalizzazioni in pieno contrasto con le teorie dell’ortodossia sovietica suggerite sino ad allora da Michail Suslov, sostenitore dell’intervento armato nel caso gli alleati si fossero allontanati dalla guida politica di Mosca. L’intervento di Gorbačëv a Strasburgo fu certamente importante, ma ancora di più fu quello che tenne il 1° agosto, dinanzi al Soviet Supremo. Gorbačëv fu estremamente coraggioso, perché dinanzi all’organo più rappresentativo dell’identità sovietica indicò una svolta e una sfida ai suoi oppositori in seno al Partito. A proposito della politica mondiale disse: “l’inammissibilità e l’assurdità di una soluzione bellica dei problemi e dei conflitti tra Stati; la priorità dei valori universali; la libertà di scelta; la riduzione degli armamenti e il superamento del confronto militare; la necessità della cooperazione economica tra est ed ovest e la internazionalizzazione degli sforzi nel campo della ecologia; la correlazione tra politica ed etica (…). Ogni popolo decide autonomamente le sorti del proprio Paese e sceglie il sistema e il regime che preferisce e nessuno può, con qualsiasi pretesto, intromettersi dall’esterno e imporre le proprie concezioni a un altro Paese”.[5]
Si trattava di aperture che i suoi oppositori gli rimproverarono, perché così agendo erano convinti che avrebbe portato l’URSS alla dissoluzione: fare concessioni agli Alleati, aprire al dialogo con gli USA e con l’Occidente, favorire forme di liberalizzazione, porre fine al centralismo di Mosca, significava aprire una crisi di regime.[6] In base a queste nuove scelte l’URSS non intervenne per reprimere le proteste anticomuniste nei diversi Paesi membri del Patto di Varsavia sino ad arrivare ad accettare l’abbattimento del Muro di Berlino nel novembre 1989 avviando così la riunificazione tedesca. Scelte che valsero a Gorbačëv il premio Nobel per la Pace nel 1990; quello fu il momento più alto della perestrojka, ma anche l’inizio della parabola discendente. Il riformismo di Gorbačëv non piacque né ai conservatori del partito, né ai progressisti radicali, il suo principio di una riforma senza distruzione dell’apparato si scontrò con la dura realtà. Lo sforzo riformista che tanto successo stava riscuotendo all’estero, non trovò un valido appoggio da parte del mondo Occidentale che non gli garantì un sostegno politico, economico e finanziario nel suo Paese ma, anzi, assistette con una forma di compiacimento allo sgretolamento dell’URSS senza valutarne le possibili conseguenze. Quando, nel maggio del 1990, Eltsin fu eletto Presidente del Soviet Supremo della Repubblica Russa, nel suo intervento invocò la piena sovranità della Repubblica Russa rispetto alle altre 14 Repubbliche che, insieme, costituivano l’URSS. Era la stessa costituzione sovietica a consentirlo. La Costituzione dichiarava le repubbliche sovietiche Stati sovrani con il diritto di separarsi dall’Unione anche se, di fatto, sino ad allora era stato esercitato un potere fortemente centralizzato da parte di Mosca. La perestrojka, come ha lasciato scritto lo stesso Gorbačëv, puntava a rendere autonome le singole repubbliche dando vita così ad una vera federazione.[7] Eltsin nello stesso tempo, si dimise dal PCUS dichiarando: “Il vecchio sistema è crollato prima che il nuovo cominciasse a funzionare e la crisi sociale si è fatta ancor più acuta. Ma cambiamenti radicali in un Paese così vasto non possono passare in modo indolore, senza difficoltà e sconvolgimenti”. La sfida a Gorbačëv il cui motto era “riforma senza distruzione” era così lanciata e divenne ancor più evidente dopo il golpe dell’agosto 1991 quando un gruppo di militari nostalgici lo rapì.[8] Il golpe fallì miseramente con Eltsin che mobilitò le piazze ottenendo la liberazione di Gorbačëv che da quel momento venne emarginato. Il successo di Eltsin contro il golpe raccolse il pieno sostegno dei leaders occidentali, Gorbačëv rappresentava ormai il passato.
Così poca la strada percorsa, così tanti gli errori commessi.[9]
L’ascesa di Eltsin segna una svolta che porterà a mutare non solo il volto della Russia. Nel corso del 1991, in pochi mesi, l’URSS si dissolse e 14 repubbliche proclamarono la propria indipendenza e sovranità prendendo come esempio quanto dichiarato da Eltsin nella Repubblica Russa. Nello stesso tempo Eltsin annunciò lo scioglimento del Patto di Varsavia che legava all’URSS i paesi dell’est europeo che erano stati liberati dall’Armata Rossa nel corso della Seconda guerra mondiale. Questi atti segnarono la caduta dei regimi comunisti in quegli stessi paesi. L’atto conclusivo che sancì la fine dell’URSS avvenne la notte del 25 dicembre quando Gorbačëv rassegnerò le proprie dimissioni con il passaggio dei poteri a Eltsin. In diretta tv fu ammainata dal Cremlino la bandiera rossa con la falce e il martello e venne issata la bandiera a strisce bianco blu e rossa di epoca zarista. Si apriva in Russia un periodo di torbidi politici e di abbandono della politica estera a causa dei conflitti interni che imposero una chiusura su se stessa sia della Russia sia delle nuove repubbliche alle prese con la stesura di nuove costituzioni, con la definizione dei confini, con la ripartizione del Tesoro della Banca centrale e quella ancor più drammatica della ripartizione degli armamenti, tra cui quelli nucleari. Occorsero lunghi anni per disegnare il nuovo volto della Russia che, con Eltsin, si aprì al libero mercato pur essendone totalmente impreparata dopo oltre settanta anni di economia controllata dallo Stato.
La dissoluzione dell’impero sovietico ruppe i fragili equilibri a livello mondiale lasciando gli USA come unica superpotenza che, da quel momento, intervenne in numerosi focolai di guerra e tensione cercando di svolgere il ruolo di poliziotto dell’ordine internazionale, spesso senza riuscirvi. In quegli stessi anni si ebbero due altri importanti avvenimenti: l’ascesa della Cina come potenza economica, che presto avrebbe svolto anche una leadership politica, e il passaggio della Comunità europa ad Unione con il Trattato di Maastrich. È importante il richiamo a Maastricht, perché per l’Europa si trattò di un passaggio epocale. Tuttavia, il Trattato ebbe un senso di incompiutezza, come le relazioni con la Russia dimostrarono, portando a conseguenze che ancora oggi viviamo: la mancata assegnazione all’Unione di competenze in campo di politica estera, di difesa e di politica industriale. Mentre la Russia viveva una profonda crisi istituzionale e politica nel passare dalla economia di Stato a quella di libero mercato, l’Unione Europea non svolse e non propose una politica economica e finanziaria comune che sarebbero state invece indispensabili per sostenere la nuova Russia. Le iniziative intraprese furono di fatto lasciate ai singoli Stati membri dell’Unione e tra questi la Germania svolse il ruolo principale. La UE, nel frattempo, dimostrò la propria inconsistenza nel corso della drammatica crisi in Jugoslavia la cui dissoluzione nel 1991 fu un’altra delle conseguenze del crollo dell’URSS. Lo stesso accadde quando la UE pretese di svolgere un ruolo nella crisi in Libia. Anche in questo caso, come già in Jugoslavia, fu necessario richiedere l’intervento degli USA, ma senza conseguire un successo, e la questione libica resta tuttora aperta. Di fatto la UE si affidò agli USA nella gestione delle crisi internazionali (per es. in Iraq o in Afghanistan) e assecondò, anzi favorì, l’allargamento ad est, prima alla Nato (la Polonia fu la prima) e poi alla stessa UE, dei Paesi un tempo satelliti dell’URSS.[10] L’allargamento ad est sia della UE che della Nato senza un coinvolgimento e una condivisione con la Russia hanno generato una serie di incomprensioni che hanno favorito, nel tempo, un avvicinamento sempre più stretto di Mosca con Pechino e il rafforzamento, nell’ala nazionalista e oltranzista presente in Russia, di una sindrome da accerchiamento da parte dell’Occidente. Lo stesso Gorbačëv, pur critico nei confronti delle leaderships che l’hanno seguito, ha avuto modo di contestare pesantemente gli USA perché “sono convinti che solo il dominio e un approccio unilaterale possono garantire un ruolo guida nella politica mondiale”.[11] Mentre negli Stati Uniti la fragilità della Russia degli anni Novanta veniva vista come un successo della propria politica e la UE mostrava la propria debolezza assecondando le scelte statunitensi, il primo paese che dimostrò una apertura politica verso Mosca fu il governo di Pechino: le rivalità di un tempo su chi tra Russia e Cina fosse legittimato a sostenere nel mondo il ruolo di guida del comunismo era oramai un ricordo del passato. La Cina si avvicinò alla Russia non certo in modo disinteressato, approfittando della inconsistenza della UE e della volontà degli USA di mantenere il più a lungo possibile quel gigante ed antico avversario in una condizione di debolezza. Fu così che nel 1996 Pechino promosse una Organizzazione per la Cooperazione (detta di Shangai o SCO) con l’obiettivo di coinvolgere la Russia e alcune repubbliche asiatiche dell’ex-URSS. L’Organizzazione doveva favorire la cooperazione in campo economico e militare per contrastare il separatismo e il terrorismo di quegli anni in Asia centrale. Quello fu il primo atto di un avvicinamento che successivamente andò rafforzando le relazioni in campo economico e militare tra Pechino e Mosca. L’iniziativa cinese aveva un chiaro scopo: favorire un proprio ruolo in Asia a discapito degli USA e di una Russia indebolita. Inoltre, aveva l’obiettivo di garantire l’unità territoriale ai propri confini per evitare il sorgere di spinte separatiste a carattere politico, etnico e religioso dopo quanto stava accadendo nella regione caucasica con la guerra in Cecenia.[12]
La guerra in Cecenia e la disastrosa situazione finanziaria in cui si dibatteva la Russia, incapace di gestire la transizione verso una economia di libero mercato, portarono la Banca centrale a dichiararne il default nell’agosto del 1998, con la popolazione che era ritornata al baratto poiché il rublo aveva perso qualsiasi valore e i prezzi cambiavano nel giro di poche ore: era lo spettro di una nuova Weimar. A quel punto, con Eltsin gravemente malato, le redini del governo, l’anno successivo, vennero affidate al suo delfino: Vladimir Putin. Quello stesso anno la Russia entrò a pieno titolo nel FMI. Gli USA e la UE avevano assistito sino all’ultimo senza intervenire al tracollo russo, una cosa che non sarebbe stata dimenticata.
Io non dimentico.
Le vicende che hanno visto la dissoluzione dell’URSS portano Putin a ripetere spesso nei suoi interventi pubblici che non può dimenticare l’atteggiamento oltraggioso e provocatorio che, ai suoi occhi, l’Occidente aveva tenuto negli ultimi anni.[13] Tuttavia, inizialmente i suoi mandati furono concentrati nel ristabilire l’ordine interno, agendo da subito con durezza verso i possibili oppositori. Riprese la guerra in Cecenia ponendovi fine, in modo sanguinoso, nel 2009, rafforzando, con la sua azione, l’immagine dell’uomo forte, ma solo dopo numerosi attentati che avevano sconvolto l’opinione pubblica russa.[14] Crebbe intorno a lui la cerchia dei cosiddetti oligarchi che altri non erano se non gli ex-funzionari che, per conto del Partito, avevano controllato le aziende di Stato. Una volta crollata l’URSS questi ex-funzionari si ritrovarono ad essere i diretti responsabili delle diverse industrie. Fu così che in pochi mesi uomini senza alcuna particolare dote o capacità manageriale ne assunsero il controllo; il loro unico merito era stato quello di essere stati uomini dell’apparato. La fedeltà al nuovo Presidente li favorì nell’accumulare enormi ricchezze, anche perché chi non sosteneva il nuovo regime che andava consolidandosi rischiava la vita o la prigione – una situazione che tuttora perdura.
Se il primo obiettivo di Putin fu ristabilire l’ordine interno e avviare nuove relazioni con le ex-repubbliche ora divenute nazioni indipendenti, il secondo puntava a far rientrare la Russia nell’agone internazionale. Era questione di tempo, ma le intenzioni erano già ben chiare quando svolse il suo intervento alla Conferenza sulla Sicurezza a Monaco nel febbraio 2007. In quella occasione dichiarò: “Il mondo cambia e noi non possiamo agire in base a schemi che si formarono dopo la Seconda Guerra Mondiale.[15] Perfino con gli alleati non si può più parlare come in passato. Nuovi pericoli si manifestano, nuovi centri di forza si delineano e tutto ciò deve essere messo nel conto, perché può accadere che qualcuno ne resti scottato. E noi dobbiamo creare una situazione più sicura, perché se non lo faremo sorgeranno continuamente conflitti”.[16] Parole forti, pronunciate quando la Russia stava ancora conducendo la guerra in Cecenia, ma che preannunciavano la volontà di tornare a svolgere un ruolo di superpotenza. Nello stesso intervento ebbe parole sferzanti verso i Ministri degli Esteri europei presenti, accusandoli, senza giri di parole, di sudditanza alle decisioni della Nato e degli Stati Uniti.
Gli anni che vanno dal 1985 sino agli inizi del nuovo millennio possono pertanto essere ricordati come anni sprecati dagli europei nel non svolgere un’azione politica e industriale comune verso un orso ferito che pure aveva un disperato bisogno di aiuto e che certamente sarebbe tornato ad esercitare presto un ruolo in campo internazionale, inevitabile per un paese di dimensioni continentali, con enormi ricchezze naturali e con una popolazione di quasi 150 milioni di abitanti.[17] Il rientro a pieno titolo della Russia nella politica internazionale avvenne con la crisi ucraina sul finire del 2013 quando il governo di Kiev guidato dal Presidente Janukovyc non firmò l’associazione con la UE, ma preferì sottoscrivere un accordo economico proposto da Putin che prevedeva aiuti finanziari per $ 300 mld. Si trattava di un aiuto non previsto dalla UE anche se era noto che nella primavera del 2014 era in scadenza un rimborso al FMI che la Banca centrale ucraina non era in grado di soddisfare, il che avrebbe causato il default del paese. Gli avvenimenti che da quel momento si succedettero in Ucraina sono noti. Il governo in carica dovette fuggire sotto la pressione delle proteste popolari che in maggioranza chiedevano l’avvio dell’associazione alla UE e accusavano il governo di essersi venduto alla Russia. Nel corso delle manifestazioni vi furono molteplici scontri e attentati che causarono numerose vittime, mentre parte della regione del Donbass, con il sostegno russo, proclamava la propria indipendenza da Kiev con la creazione delle Repubbliche Popolari di Lugansk e Donetsk. Putin cavalcò questa crisi accusando l’Occidente di aver fomentato la caduta del governo e garantì aiuti finanziari e militari ai secessionisti del Donbass, per altro la regione più ricca del paese. Forte della posizione acquisita, sostenne nel 2014 il referendum secessionista in Crimea che rientrò così nell’ambito della Federazione Russa. Da quel momento ebbe inizio una guerra silente tra il nuovo governo di Kiev, in generale filoccidentale, e la regione secessionista filorussa. L’Occidente avviò come risposta le prime sanzioni contro la Russia. La situazione nella regione è poi precipitata nel febbraio 2022 con l’inizio della cosiddetta “operazione speciale” voluta da Putin con l’obiettivo di impedire in ogni modo sia l’adesione dell’Ucraina alla UE, sia l’adesione alla NATO, che per altro stava valutando le ipotesi di adesione della Georgia e della Moldavia, entrambe nazioni che un tempo facevano parte dell’URSS.
La guerra in Ucraina si presta a numerose considerazioni che andrebbero approfondite, perché lo scontro in atto cambia gli equilibri mondiali. Non è più solo la rivendicazione della Russia di svolgere un ruolo negli equilibri mondiali o la difesa della propria sovranità da parte della Ucraina, è molto di più. Si mostra ancora una volta che non esistono periferie nella politica mondiale e che l’Europa è diventata un focolaio di crisi per la politica mondiale come anticipava nel 2019 Gorbačëv che si poneva la domanda: come è potuto accadere? [18] La sua risposta è che i fatti che hanno sconvolto l’Ucraina sono da ricondurre alle scelte compiute dagli europei nel corso degli anni Novanta. Come si è cercato di sottolineare, l’allargamento ad est della UE e della NATO hanno sì rafforzato l’Occidente ed indebolito la Russia, ma purtroppo non si è attivata allo stesso tempo alcuna politica che desse garanzie, ma soprattutto aiuti tangibili a Mosca. Se da una parte era ed è comprensibile l’atteggiamento degli USA che puntavano e puntano a indebolire sempre e comunque la Russia, dall’altra parte la UE non ha svolto alcun ruolo di mediazione quando invece gli spazi per agire sarebbero e sono più che mai necessari, sia in campo politico che economico. Per poter agire occorre però disporre della autorità politica che dia gli indirizzi. Non è casuale il fatto che la guerra in corso in Ucraina mostri in modo inequivocabile i ritardi che la UE ha accumulato sino ad oggi. Non disponendo di un governo, dinanzi ad una guerra alle proprie porte ha scoperto la propria impotenza in settori strategici quali la politica estera e di difesa, la politica energetica ed industriale. La UE è fragile e per molti aspetti impotente, ma la guerra sta mostrando un’altra fragilità ed è quella che riguarda la Russia di Putin nonostante i roboanti proclami bellici. La guerra sta mostrando come anche una possente armata mal guidata e con minori capacità tecnologiche rispetto agli armamenti occidentali garantiti all’esercito ucraino, possa far crollare in poche settimane la credibilità di una superpotenza. Una superpotenza certamente in termini di quantità per numero di uomini e mezzi, ma debole sul fronte dell’intelligence e delle nuove tecnologie. Senza entrare sull’andamento bellico e nella doverosa condanna alla aggressione voluta da Putin, è evidente che aver cambiato in pochi mesi sei comandanti in capo dell’esercito e aver fatto ricorso all’arruolamento forzato di oltre 300.000 giovani mostrano le difficoltà di una guerra che, nelle intenzioni, doveva essere rapida come una blitzkrieg. Non è questa la sede per valutare sul piano militare il corso della guerra, anche perché gli scenari rischiano di mutare rapidamente qualora il conflitto si allargasse alla Bielorussia o la situazione politica interna in Russia o in Ucraina dovesse in qualche modo precipitare. Nel contesto generale vi è una sola certezza, ed è che la guerra è destinata a concludersi anche se è impossibile dire in quali termini e in quanto tempo. Ed è in quel momento che si dovrà procedere ad una nuova fase in cui la UE dovrà contribuire per garantire all’Ucraina un aiuto materiale per le distruzioni subite, mentre con la Russia si dovrà avviare una nuova collaborazione politica. La Russia è parte integrante della storia europea ed è impensabile poterla isolare per sempre. La UE ha bisogno della Russia non solo per le sue ingenti ricchezze naturali, ma anche la Russia ha bisogno della UE, perché non può permettersi di cedere alle lusinghe cinesi per un lungo periodo di tempo e perché il cuore pulsante della Russia è in Europa e non in Asia.
Ci abbiamo provato.[19]
Abbiamo richiamato gli errori commessi dal mondo occidentale e in particolare dagli europei negli anni sul finire del secolo scorso, per limiti politici e incapacità di agire. Il punto è ora di evitare il ripetersi di quegli stessi errori e per fare questo è necessario che la UE intervenga là dove la Russia è più fragile e bisognosa. L’economia di mercato, la politica industriale, il settore agricolo e la qualità media della vita in Russia sono gli indicatori della fragilità del paese. Nonostante gli sforzi compiuti dagli anni Novanta con l’apertura al libero mercato, la Russia non è un paese leader nell’economia industriale. Nel settore dell’industria manifatturiera dipende in gran parte dell’import che nel corso della guerra e in base alle previsioni è destinato a crollare per tutto il 2023, impoverendo il paese.[20] A indicare il livello di povertà è stato lo stesso ex-primo ministro Medvedev che, nel 2019 dichiarò che 19 milioni di russi (il 14% della popolazione) vivono al di sotto della soglia della povertà.[21] È nota l’importanza del settore energetico ed estrattivo in Russia: è la prima voce dell’export. La seconda voce è rappresentata dal settore agricolo in cui sono impegnati 14 ml di addetti, ma che interessa circa 60 ml di cittadini che vivono in aree rurali che non dispongono di strade asfaltate. Il 45% non dispone di acqua potabile e il 5% non ha accesso alla rete fognaria. Si tratta di dati oggi uguali a quelli del 1990.[22] La resa per ettaro dei campi agricoli è inferiore del 10% rispetto a quelli della UE, un segnale del ritardo nell’adottare le nuove scoperte scientifiche ad un settore vitale non solo per la Russia. Inoltre, la qualità della vita del cittadino russo, dai tempi dell’URSS ad oggi, è certamente migliorata, ma non è migliorata in termini di una maggiore tutela della salute. La vita media di un uomo in Russia è infatti di 66 anni: più è alta l’aspettativa di vita più è alto il livello di sviluppo di una nazione. La vita media nella UE è di 20 anni superiore. Quando nel 2018 la Duma propose una revisione del sistema pensionistico fermo ai tempi dell’URSS (con la possibilità di andare in pensione a 55 anni) per portare l’età pensionabile a 66 anni, vi furono violente proteste di piazza e Putin fece ritirare la proposta di legge.
Oltre agli aspetti economici che impattano su quelli sociali, la Russia dovrà ritrovare un ruolo anche tra i Paesi vicini, un tempo parte integrante del suo territorio. La guerra e il suo andamento hanno indebolito la solidarietà, a volte imposta, da parte delle Repubbliche asiatiche con cui la Russia intrattiene rapporti economici e militari privilegiati. Queste Repubbliche, nel corso delle prime votazioni all’ONU di condanna dell’aggressione all’Ucraina, si erano astenute o non avevano partecipato al voto,[23] mostrando solidarietà a Putin. Nel corso della riunione della Russia con le Repubbliche asiatiche svoltasi ad Astana nell’ottobre 2022, alcuni Presidenti invece hanno preso le distanze. Il Presidente del Tagikistan ha chiesto espressamente a Putin di “portare rispetto” verso le ex-Repubbliche dell’URSS e i Presidenti di Uzbekistan e Kazakistan si sono dichiarati preoccupati per la comparsa di una nuova cortina di ferro a seguito della guerra, chiedendo il rispetto della integrità territoriale ucraina.[24] Queste prese di posizione, impensabili sino a pochi mesi prima, sono un segnale delle difficoltà che Putin subisce: da una parte le pressioni dell’ala più oltranzista, dall’altra quella favorevole ad un compromesso[25] e in più la pressione dei Paesi asiatici che mostrano segnali di distanza da Mosca in un momento di debolezza. Senza dimenticare che anche Cina e India spingono per una fine della guerra. In un contesto così complesso il ruolo che la UE potrebbe svolgere è enorme. Mettere a disposizione, con accordi specifici, le capacità industriali europee e il know-how tecnologico nei settori agricoli e manifatturieri rappresenterebbero una svolta epocale nei rapporti con la Russia. È però chiaro che occorrono due condizioni. In primis in Russia Putin o il suo successore dovranno mostrare la disponibilità a riaprire un dialogo con i paesi europei, dall’altro la UE dovrà avviare le riforme necessarie perché possa interloquire con una sola voce: senza una politica estera e industriale comune andrebbe incontro di nuovo ai vecchi problemi. Si tratterà comunque di un processo lungo, perché la guerra trascinerà per anni rancori e diffidenze. Come europei il compito in questo arco temporale è quello di avviare nella UE le riforme per disporre di quella autorità politica che oggi manca e che ha favorito gli errori del passato. Per lungo tempo gli europei hanno preferito demandare agli USA scelte strategiche fondamentali di cui oggi, in gran parte, paghiamo le conseguenze. Qualora la ragionevolezza non dovesse tornare nella leadership russa perché continueranno a prevalere i falchi, a maggior ragione si porrebbe il problema di rafforzare il governo dell’Unione. È tempo di scelte radicali per poter almeno dire al mondo “ci abbiamo provato”. Questo in fondo era ed è l’obiettivo indicato dai cittadini che hanno partecipato alla Conferenza sul futuro dell’Europa.
Stefano Spoltore
[1] START 1, Strategic Arms Reduction Treaty, e Trattato INF, Intermediate Range Nuclear Forces Treaty.
[2] I. Ivanov, Perestrojka e mercato globale, Milano, IPSOA Scuola d'impresa, 1989, pp. 33-76.
[3] M. Ruffolo, L’URSS vuole entrare nel FMI, La Repubblica, 17 agosto 1986.
[4] Si pensi agli interventi sovietici in Ungheria (1956) o in Cecoslovacchia (1968) e a quello in Afghanistan (1979).
[5] M. Gorbačëv, La Casa Comune Europea, Milano, Mondadori, 1989, pag. 193.
[6] C. De Carlo, Le riforme in un regime sono i primi sintomi di un imminente crollo, QN, 6 dicembre 2022.
[7] M. Gorbačëv, La posta in gioco, manifesto per la pace e la libertà, Milano, Baldini + Castoldi, 2020, p. 143. Un segno delle difficoltà di Gorbačëv in patria ancora in anni recenti, è dato dal fatto che questo libro non è stato pubblicato in Russia, bensì in lingua tedesca in Germania nel 2019 con il titolo Was jetzt auf dem Spiel steht.
[8] È opportuno ricordare come uno dei golpisti, all’epoca maggiore dell’esercito, non subì alcuna conseguenza per la sua insubordinazione. Proseguì nella carriera militare e Putin, nell’estate del 2022, lo ha nominato Comandante in Capo dell’esercito russo nella cosiddetta operazione speciale contro l’Ucraina: il generale Surovikin.
[9] S.A. Esenin, poeta russo, citato in V.Salamov, I racconti della Kolyma, Milano, Adelphi, 2009, p. 19. L’opera di Salamov descrive la sua esperienza negli anni Cinquanta nei gulag e anticipa di pochi anni il più noto Arcipelago Gulag di A. Solženicyn.
[10] L’allargamento ad est della Nato ebbe inizio nel 1999, mentre nel 2004 fecero il loro ingresso tutti i paesi un tempo membri del Patto di Varsavia. Nella UE l’allargamento ai paesi dell’est ebbe inizio nel 2004 e nel 2007 tutti i paesi un tempo satelliti dell’URSS divennero membri effettivi. L’allargamento ad est favorì senza dubbio il consolidamento delle democrazie in quei paesi.
[11] M. Gorbačëv, La posta in gioco ..., op. cit., p. 102.
[12] Si veda S. Spoltore, Russia e Cina per un nuovo ordine mondiale, Il Federalista, 63, n. 2-3 (2021), p. 117.
[13] A titolo di esempio: Askanews, Putin: io non dimentico, 3 dicembre 2015. Più recentemente: Lettera di Putin ai russi, intopic.it, 19 giugno 2020.
[14] Il caso più clamoroso fu l’azione ordinata per stroncare l’assedio di un commando ceceno al Teatro di Dubrovka (26 ottobre 2002) dove fu condotta una operazione che portò alla eliminazione del commando composto da 39 elementi, ma vide anche la morte di 129 ostaggi uccisi nello scontro dai reparti speciali inviati da Mosca per ordine di Putin.
[15] Usò proprio questo termine quando in Russia la Seconda guerra mondiale viene ricordata come Guerra patriottica.
[16] https://www.resistenze.org/sito/os/mo/osmo7b13-001073.htm. Al link indicato il testo integrale.
[17] Si veda: F.Rossolillo, L’Ucraina e l’equilibrio mondiale, Il Federalista, 57 n.1 (2005), p. 31.
[18] M. Gorbačëv, La posta in gioco ..., op. cit., p. 108.
[19] La risposta di Gorbačëv alla domanda del regista Herzog che gli chiedeva quale epigrafe avrebbe voluto sulla sua tomba. Documentario intervista del dicembre 2019.
[20] Le previsioni del Consiglio europeo indicano nel 2021 un import di € 248mld, che nel 2022 scendono a € 133 per crollare nel 2023 a € 94.
[21] M. Gorbačëv, La posta in gioco ..., op. cit., p. 153.
[22] F.Scaglione, Agricoltura russa, dall’izba alla holding. Lettera da Mosca, 5 dicembre 2020.
[23] Kazakistan, Tagikistan si erano astenuti mentre Uzbekistan e Turkmenistan non avevano partecipato alla votazione.
[24] Si vedano D. Cancarini, Ora che l’Asia Centrale sfida la Russia, Il Fatto, 22 ottobre 2022; D. Cancarini, Guerra Russia Ucraina dipendenza da Mosca, Il Fatto, 13 aprile 2022.
[25] G. Savino, Cosa sta succedendo dentro il sistema di potere di Putin, www.valigiablu.it, 17 dicembre 2022.
Anno LXIV, 2022, Numero 1, Pagina 41
CORSI E RICORSI
NELLA POLITICA ESTERA DEGLI USA
Introduzione.
Occuparsi della politica estera americana e valutare attentamente le decisioni prese nel merito dalle amministrazioni statunitensi in carica è sempre stato visto come un aspetto fondamentale dell’analisi politica. Un’uguale rilevanza assume tuttavia oggi un’analisi che prenda in esame le motivazioni di queste decisioni e cerchi di capire qual è il ruolo che le diverse Presidenze degli Stati Uniti hanno ritenuto che il potere americano dovesse assumere.
La nascita della potenza americana.
I Padri fondatori degli Stati Uniti d’America avevano certamente chiara l’idea che uno Stato americano sarebbe diventata una potenza a livello continentale e, in prospettiva, globale. Come è noto, la svolta federale, decisa alla Convenzione di Filadelfia e poi sancita nella Costituzione del 1787, servì principalmente per evitare lo sfaldamento dell’Unione confederale e, in un cero senso, per perfezionare gli obiettivi che mossero l’indipendenza dalla madrepatria. In Democrazia in America Tocqueville identifica “due elementi perfettamente distinti, che altrove si sono spesso combattuti, ma che in America si sono incorporati uno nell’altro e combinati meravigliosamente. Voglio dire lo spirito di religione e lo spirito di libertà”.[1] Questa diffusione universale, quasi sacrale, dei valori che troviamo già negli albori del pensiero politico americano è poi esposta chiaramente per la prima volta con notevole peso politico nella Dichiarazione di Indipendenza. Una citazione di Jefferson fa comprendere molto chiaramente che l’orizzonte dei Padri fondatori non era limitato al successo degli USA ma volto al progresso dell’intera umanità: “riteniamo di agire in forza di obblighi non ristretti ai limiti della nostra società. È impossibile non essere consapevoli che stiamo agendo per tutta l’umanità; che circostanze negate ad altri, ma concesse a noi, ci hanno imposto il dovere di dimostrare qual è il grado di libertà e di autogoverno in cui una società può arrischiarsi a lasciare i suoi singoli membri”.[2] Un contributo fondamentale a questa visione era dato anche dal sistema istituzionale che permetteva in linea di principio di accogliere comunità sempre più vaste di persone e di territori in modo pacifico e con la garanzia dell’autogoverno.
Questa concezione abbastanza ingenua venne declinata in senso più strategico trent’anni dopo durante la presidenza di Monroe. La Dottrina Monroe, coniata in un momento estemporaneo e instabile di unità nazionale a seguito della Guerra del 1812 detta Era of Good Feelings, asseriva che il nuovo mondo non sarebbe più stato soggetto alla colonizzazione da parte delle potenze europee e che gli USA, pur rimanendo neutrali nella gestione delle colonie esistenti, avrebbero considerato un atto ostile e un attacco alla propria sicurezza qualsiasi ingerenza nei confronti di quelle ex-colonie che avevano dichiarato l’indipendenza. Si tratta sostanzialmente dell’intento di stabilire una sfera d’influenza americana radicalmente distinta da quella europea, in un contesto di continuità dell’isolazionismo dalle questioni europee.
Theodore Roosevelt raccolse l’eredità di un secolo di straordinario sviluppo industriale ed economico per superare la semplice opposizione al colonialismo della Dottrina Monroe e mostrare al mondo la prospettiva di potenza globale degli USA. La spinta ideale del Destino Manifesto e della “diffusione della civiltà” era sempre cruciale e forte, come dimostrano le stesse parole di Roosevelt: “L’espansione della civiltà produce la pace (…). L’espansione di tutte le grandi potenze civilizzate significa vittoria di legge, ordine e giustizia”.[3] Egli adoperò la classica politica di potenza, in modo non dissimile a quanto accadeva in Europa, con l’uso della forza militare e le minacce di pesanti ritorsioni, per garantire la stabilità interna e la difesa e l’ampliamento degli interessi esclusivi americani a scapito di quelli delle potenze europee. Dopo il conseguimento dell’egemonia continentale, le basi per diventare una superpotenza erano poste e l’obiettivo della politica di potenza americana diventò (dopo la momentanea battuta d’arresto causata dalla Grande Depressione) il mantenimento della stabilità degli equilibri mondiali.
Revival neo-Rooseveltiano nella competizione USA-Cina.
Sicuramente il confronto con la Cina è stato il tema intorno a cui ruotava l’intera presidenza Trump, e anche uno dei punti di maggiore fragilità dell’intera strategia americana. Nel fuoco incrociato di questo scontro sono finite le organizzazioni multilaterali e, più in generale, i rapporti globali che si erano consolidati dopo la caduta dell’URSS. Con la giustificazione che gran parte delle responsabilità dell’aumento delle diseguaglianze fossero da attribuire alla globalizzazione tout court, venne inaugurata in effetti una politica di progressivo svuotamento delle organizzazioni internazionali, che, unita ad una visione utilitaristica del mondo e ad una scarsa fiducia nei confronti degli alleati, portò ad un notevole sconvolgimento dell’ordine internazionale
Nadia Schadlow, che è stata Deputy National Security Advisor for Strategy nell’amministrazione Trump, sviluppa lucidamente la strategia della politica estera dell’amministrazione Trump, in un saggio intitolato significativamente La fine dell’illusione americana,[4] intorno a tre punti. Innanzitutto, il criterio d’interpretazione del mondo dopo il crollo dell’URSS seguito dai presidenti e dalla società americana risponderebbe ad una “illusione dell’ordine liberale”: ciò sarebbe motivato dal fatto che la globalizzazione avrebbe dovuto portare prosperità a tutti, mentre ha causato l’aumento delle diseguaglianze e la perdita del potere d’acquisto delle famiglie americane. La seconda critica riguarda le organizzazioni internazionali: esse avrebbero dovuto “affrontare le grandi sfide e far emergere una governance globale con il sostegno della leadership americana”, mentre, vittime della loro eccessiva burocrazia, sono diventate uno strumento cinese (la Cina fu ammessa al WTO nel 2001 con l’auspicio di favorire un percorso verso la democrazia) per stabilizzare ulteriormente il suo regime totalitario e rafforzarsi in modo unilaterale sul piano globale sfruttando l’interdipendenza economica e rafforzare il potere e il controllo del Partito; avrebbero inoltre introdotto una mentalità tendente a minimizzare l’importanza della sovranità nazionale. Il terzo punto è la constatazione della decrescita del potere militare americano, ormai sfidato in ogni campo e che fa troppo affidamento su alleati regionali, spesso non all’altezza.
La politica estera di Trump, definita da Emma Ashford “unilateralismo belligerante”,[5] non è affatto un totale disengagement, non rifiuta l’ottica unipolare, ma, anzi, la porta all’estremo dando la priorità alla primazia militare e agli interessi degli USA a scapito dell’ottica liberale e della promozione della democrazia. In altre parole, nella visione di Trump la globalizzazione, identificata come un cambiamento radicale, richiede, di concerto, un cambiamento radicale della strategia e della visione del mondo. Tuttavia, a dispetto degli obiettivi di rafforzare gli USA ed ostacolare la crescita della Cina, questa strategia, avvicinandosi ad una classica politica imperiale (già percorsa in passato dagli stessi Stati Uniti) e rifiutando l’eccezionalità del ruolo americano di demiurgo di un ordine liberale unificato, favorisce l’emergere di un diverso e ugualmente influente polo di potere globale. Questa politica aggressiva sul piano internazionale ha avuto anche conseguenze sulla politica interna: l’esecutivo ha espresso lati apertamente autoritari manifestatisi chiaramente quando il Presidente ha istigato un folto gruppo di facinorosi accorsi ad un suo comizio ad assaltare il palazzo del Congresso per impedire la certificazione dell’elezione di Joe Biden, fatto che si configura come un tentativo di condizionare con la violenza un processo democratico.
Biden e la forza dell’esempio.
Gli USA vivono un clima politico molto confuso, passato dalla fiducia nell’ineluttabilità della diffusione su scala globale di un ordine liberale guidato dagli USA (quasi un universalismo liberale), al fatalismo che il dominio americano dei primi anni 2000 sia stato un’anomalia, una parentesi chiusa sotto i colpi della Cina e della Russia e del crollo del consenso bipartisan sulla politica estera americana. A ben vedere la crescente partitizzazione e la polarizzazione di ogni questione travolgono anche la politica estera e rendono gli USA un attore globale estremamente imprevedibile. Per questo e soprattutto perché una nazione profondamente divisa deve trovare almeno un terreno comune di dialogo — per garantire sia la stabilità interna sia la credibilità internazionale — in un saggio di presentazione della sua visione programmatica di politica estera americana Biden, allora candidato alle primarie del Partito Democratico, parla di politica estera per la classe media.[6]
Secondo il neopresidente i temi che interessano maggiormente alla classe media sono la rivitalizzazione della democrazia americana e la sicurezza economica. Biden scrive che la democrazia è “non solo il fondamento della società americana, ma anche la fonte del nostro potere”,[7] collegando molto chiaramente a doppio filo la politica interna degli USA con la leadership globale e la visione del mondo. Per il Paese più potente del mondo la politica estera e la politica interna devono raggiungere un equilibrio cruciale per la stabilità del mondo, un equilibrio tuttavia che è anche fragile e sensibile, come appare chiaro dalla critica verso Trump che avrebbe minato la credibilità americana e, di conseguenza, gli equilibri mondiali e il primato della democrazia nel mondo. La sicurezza economica, invece, trova fondamento nella politica commerciale che deve essere plasmata in modo da permettere a tutti i cittadini di condividere il successo del paese per mezzo di investimenti in ricerca e sviluppo e — resistendo alla tendenza globale verso il protezionismo che danneggerebbe gravemente gli USA — ritrovare la leadership nella regolamentazione del commercio affinché “le regole dell’economia internazionale non siano manipolate contro gli Stati Uniti”.[8] Biden identifica poi i due competitor strategici, la Cina e la Russia. La Cina è un antagonista diretto, verso cui gli USA devono essere rigidi, costruendo “un fronte unito di alleati e partner”,[9] nell’affrontare le violazioni dei diritti umani e nell’impedire il dominio del mercato da parte delle aziende di Stato cinesi avvantaggiate da pratiche commerciali sleali. Al contempo è necessario cooperare con Pechino dove esistono convergenze di interessi, in particolare sul cambiamento climatico. Quanto alla Russia, una NATO forte — che deve dotarsi di un aumento delle capacità militari per affrontare anche attacchi non convenzionali come la corruzione, la disinformazione e la guerra cibernetica — è il presupposto per contenere le azioni destabilizzatrici del Cremlino.
Il tentativo di Biden è di recuperare influenza e assumersi responsabilità globali mobilitando azioni collettive. Gli strumenti richiedono sempre una dose di politica di potenza, ma rimane la necessità di fare uso di tutte le potenzialità, a partire dalla diplomazia che deve ricostruirsi a partire dalla credibilità globale. Questa visione riprende il ruolo storico degli USA, abbandonato da Trump, ma con alcuni distinguo. Biden si impegna a terminare le cosiddette forever wars, per l’altissimo costo, politico ed economico di simili interventi su larga scala; mentre considera sostenibili ed efficaci le “operazioni chirurgiche” condotte con pochi uomini e il supporto dell’intelligence. L’obiettivo è dunque una smobilitazione dai teatri in cui un intervento diretto non porterebbe a maggiori benefici rispetto alla responsabilizzazione e al coordinamento con gli alleati, per concentrare la presenza militare, stazionaria o in azione, dove è più necessario. La linea politica generale è il consolidamento delle alleanze e l’aumento della pressione su quegli attori che si sono integrati nell’ordine post Guerra Fredda con l’intento di perseguire obiettivi divergenti o contrastanti rispetto a quelli degli USA per impedire loro di creare ulteriore instabilità, ma scongiurando al contempo la creazione di sfere di influenza separate.
Strategie di autolimitazione.
Richieste di una politica estera più limitata sono sempre esistite negli USA, già a partire dalla guerra ispano-americana del 1898 e generalmente assumono più visibilità nei momenti di passaggio della storia. La differenza è che oggi c’è la percezione di trovarsi in uno snodo storico come è stato nel dopoguerra o dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ma senza che ci sia una chiara strada su cui procedere. Un chiaro segnale dell’importanza di questo tema è costituito dall’attenzione che una parte della dottrina, i cosiddetti restainer, ha riservato al tema dell’insostenibilità degli obiettivi della politica estera americana.
Si tratta in realtà di posizioni che erano già state sviluppate prima della Presidenza Biden, e in particolare da Barry Posen nel 2013.[10] Secondo Posen, gli USA godono di una posizione geografica estremamente favorevole, avendo vicini non minacciosi e con una debole forza militare a nord e sud e due oceani ad est e ad ovest. Non esisterebbero, inoltre, minacce militari dirette al proprio territorio, né Paesi nella posizione di portarne. Tuttavia, la garanzia della protezione americana e la stessa presenza di basi militari spingerebbero alcuni alleati ad approfittarne per sfidare Stati più potenti, facendo affidamento sul salvataggio americano in ultima istanza. Le stesse alleanze costituite a fini di equilibrio di potere e di garanzia di stabilizzazione regionale tenderebbero dunque a trasformarsi in cause di instabilità. Tutto questo obbliga, secondo Posen, gli USA ad essere direttamente politicamente coinvolti e ad intervenire, anche militarmente, in scenari in cui non è compromessa direttamente la loro sicurezza. In questa situazione vengono sacrificate le popolazioni locali che, sentendosi svuotate di qualsiasi peso politico, diventano platealmente ostili alla presenza americana radicalizzandosi in espressioni nazionalistiche. Secondo Posen è dunque necessario che gli USA smantellino il più possibile la presenza militare all’estero e si limitino ad interventi chirurgici e limitati quando strettamente necessario. La prima “sforbiciata” riguarda la NATO: gli USA dovrebbero ritirarsi dall’alleanza e lasciare agli Europei la gestione della sicurezza del continente trasferendo eventualmente le strutture di comando all’Unione Europea. Va ricordato che queste valutazioni sono state fatte in un periodo in cui non era immaginabile una competizione strategica mondiale con la Cina e i rischi maggiori non erano le guerre tra Stati, ma la destabilizzazione interna e l’emergere di attori sub-statali di matrice terroristica e la proliferazione delle armi atomiche.
Una versione più attuale e “moderata” di restrainment è stata espressa da Mara Karlin e Tamara Cofman Wittes,[11] due importanti consulenti del Dipartimento della Difesa. Il punto fermo è sempre porre un chiaro limite all’impegno di “poliziotto del mondo” per evitare di essere trascinati in conflitti, a fronte di pesanti costi politici sia in patria, sia in ottica di credibilità internazionale. L’analisi non rifiuta la presenza militare americana offshore ma la concepisce in una diversa prospettiva. La convinzione di fondo è che una strategia non possa basarsi sul trovare il giusto mezzo del coinvolgimento degli USA perché questo “giusto mezzo” non esiste. Prendendo ad esempio lo scenario mediorientale, una presenza militare esclusivamente operativa (cioè di coordinamento militare e informativo con gli alleati, ma non con un coinvolgimento in prima persona) ha comunque implicazioni strategiche attive sui conflitti in corso nell’area e politiche rispetto alle relazioni con gli alleati. Anche il proposito di sostituire il coinvolgimento militare solamente con la diplomazia non sarebbe un’alternativa percorribile poiché la diplomazia senza la minaccia credibile dell’uso della forza non porta risultati degni di nota. Gli USA dovrebbero, invece, intervenire direttamente solamente dove è necessario per interessi di sicurezza nazionale e in mancanza di un alleato regionale in grado di affrontare efficacemente la minaccia. A differenza di Posen, le ragioni di questo orientamento sono meglio esplicitate, e trovano fondamento nella diminuzione di importanza del petrolio del Golfo per gli americani a fronte di una crescente autonomia energetica e nella convinzione che né Russia né Cina riusciranno ad esercitare un’egemonia in Europa e in Medio Oriente. Gli USA dovrebbero comunque mantenere alcune priorità: proseguire il sostegno alla libertà di navigazione per la marina militare e il traffico commerciale, combattere il terrorismo e sostenere la stabilità e la sicurezza degli alleati, con i giusti investimenti in cooperazione militare e aiuti economici.
Conclusione. Un nuovo Trump all’orizzonte?
La presidenza Biden sembra avere accolto alcune di queste posizioni limitatamente al Medio Oriente e, infatti, il repentino ritiro dall’Afghanistan sembra rispondere a molte delle analisi proposte da Karlin e Wittes. Al contempo la grand strategy resta quella di tenere in vita una sorta di internazionalismo liberale ristretto ai paesi alleati in cui il ruolo degli USA è affrontare le minacce all’ordine globale secondo obiettivi realisticamente raggiungibili.[12] L’aspetto di instabilità notato da tutti gli osservatori riguarda tuttavia la percezione del ruolo americano da parte dell’elettorato. Gli Stati Uniti sono un Paese in cui esiste da un lato una profonda spaccatura sui valori che dovrebbero caratterizzare la politica — non limitato alle singole policy —, dall’altro una convergenza sulla necessità di limitare l’attività internazionale. La linea d’azione di Biden appare quindi come il tentativo di accogliere alcune posizioni del restrainment per creare un nuovo consenso interno su cui poi ricostruire le basi del ruolo globale degli USA, interpretato nel modo classico come garante di un ordine mondiale.
A ben vedere, però queste visioni presentano un difetto. Se riteniamo che il “momento unipolare” sia finito (come molti segnali fanno credere a noi e, ciò che più conta, a buona parte dell’elettorato americano), allora tutte queste strategie perdono di fondamento. Sostenere che non possa emergere una potenza nemmeno lontanamente influente come gli Stati Uniti significa porsi al di fuori della storia: lo abbiamo visto alcuni mesi fa, quando la Russia ha iniziato una guerra di invasione assolutamente convenzionale contro l’Ucraina. Siamo dunque di fronte al rischio di un mondo instabile in cui le organizzazioni internazionali attualmente esistenti non possono sostituire il ruolo degli USA, ma, anzi, diventano ancora più irrilevanti e in cui l’Unione europea, priva di sovranità e dipendente dai suoi Stati membri, rischia di scomparire oppure perdere di rilevanza nel mondo.
Il ritorno dei conflitti inter-statali, dopo quelli intra-statali e cibernetici che hanno dominato gli ultimi decenni, mostra chiaramente come non solo la democrazia sia molto fragile, ma anche l’ordine liberale che ha garantito la prosperità europea degli ultimi ottanta anni non sia scontato. Una presidenza che si basi sui valori e sulle politiche che hanno guidato l’azione di Donald Trump rischia dunque di tornare attuale e di inserirsi perfettamente all’interno di un mondo in cui solo l’anarchia internazionale la fa da padrona. Generalmente gli americani hanno sempre eletto presidenti al passo coi tempi: Joe Biden e anche noi europei dovremmo tenerlo sempre presente. In questo scenario è quindi necessario per gli europei intraprendere con decisione, approfittando dell’occasione aperta dalla Conferenza sul futuro dell’Europa per cambiare i trattati, il percorso per la costruzione di un’unione politica dotata almeno delle competenze in politica estera e fiscale in modo da non dipendere più dalla precarietà dell’alleato americano ma essere un attore globale forte per sostenere la stabilità e la risoluzione diplomatica dei conflitti.
Paolo Milanesi
[1] Alexis de Tocqueville, L’origine degli angloamericani e l’influenza che essa ha avuto sul loro avvenire, in La democrazia in America, trad. it. Milano, BUR, 2016, pp. 54.
[2] Paul Leicester Ford (a cura di), The writings of Thomas Jefferson, New York, G.P. Putnam’s Sons, 1892-1899, vol. VIII, pp. 158-59, cit. in Henry Kissinger, Ordine mondiale, Milano, Mondadori, 2015, p. 236.
[3] Theodore Roosevelt, Expansion and Peace, in The strenuous life, New York, P.F. Collier and Sons, 1899, p. 29.
[4] Nadia Schadlow, The End of American Illusion, Trump and the world as it is, Foreign Affairs, 99 n. 5, (September/October 2020), pp. 35-45.
[5] Emma Ashford, Strategies of restraint, remaking America’s broken foreign policy, Foreign Affairs, 100 n. 5, (September/October 2021), p. 130.
[6] Joseph R. Biden, Why America must lead again. Rescuing U.S. foreign policy after Trump, Foreign Affairs, 99 n. 2, (March/April 2020), p. 68.
[7] Ibidem, p. 65.
[8] Ibidem, p. 70.
[9] Ibidem, p. 71.
[10] Barry R. Posen, Pull Back, a case for a less activist foreign policy, Foreign Affairs, 92 n. 1, (January/February 2013), pp. 116-128.
[11] Mara Karlin e Tamara Cofman Wittes, America’s Middle East Purgatory, the case for doing less, Foreign Affairs, 98 n. 1, (January/February 2019), pp. 88-100.
[12] Mira Rapp-Hooper e Rebecca Friedman Lissner, The open world, what America can achieve after Trump, Foreign Affairs, 98 . 3, (May/June 2019), pp. 18-25.
Anno LXIV, 2022, Numero 1, Pagina 38
UN ESERCITO COMUNE EUROPEO
PER LE SFIDE DELLA STORIA
L’aggressione armata perpetrata dall’esercito russo nei confronti dello Stato ucraino ha riportato l’orrore della guerra sul territorio europeo, smentendo coloro che immaginavano un mondo pacifico, liberal-democratico e illuminato dalla guida statunitense. La recente tragedia dimostra pienamente la fragilità dell’attuale assetto mondiale, nel quale, nonostante l’esistenza di organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, i rapporti tra Stati sono tuttora regolati non dal diritto, ma dalla forza.
In un’Europa che è costretta oggi ad accettare il fatto che la guerra non sia un retaggio del passato, né un problema esclusivo del Terzo e Quarto Mondo, è cruciale comprendere che la ricerca della pace non può essere etichettata come una mera utopia. È necessario criticare il concetto passivo che si ha di essa, per capire invece che la pace è una tensione attiva, che si basa sull’eliminazione della causa che conduce agli scontri tra Stati: la divisione del mondo in Stati sovrani. Per raggiungere l’obiettivo della pace, l’Unione Europea — l’unione regionale che ha raggiunto, rispetto alle altre organizzazioni internazionali, un grado di sviluppo molto avanzato — deve dunque avere il coraggio di sovrastare il paradigma, superato ma ancora storicamente presente nell’immaginario collettivo, dello Stato-nazione, per dar vita a un’unione politica. Solo in questo modo sarà possibile creare un esercito europeo e trasformare l’Unione Europea da attore poco influente a livello di conflitti internazionali quale è ora, a Stato padrone del proprio destino e in grado di agire in conformità ai propri valori.
La vasta maggioranza degli Stati membri dell’Unione Europea sono membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (21 su 27 totali UE). Sorta il 4 aprile 1949 con la firma del Trattato di Washington, la NATO è un’organizzazione militare a scopo difensivo. L’articolo 5 del suo trattato istitutivo prevede in particolare che “le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell'America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale (…)”. Ne consegue che tutti i suoi membri devono essere in grado di provvedere alla sicurezza dei paesi alleati. Per questa ragione nel 2014, pochi mesi dopo l’invasione della Crimea, al summit NATO del Galles fu deciso che si sarebbe dovuto invertire il declino delle spese per la difesa. Come criterio omogeneo atto a valutare l’impegno per l’alleanza fu stabilito che entro dieci anni la spesa per la difesa di ogni Stato membro dovesse ammontare come minimo al 2% del PIL nazionale. Benché di per sé esso non sia un valore indicativo dell’effettiva efficienza e capacità difensiva di un paese, questo fu valutato come il miglior modo per una divisione paritaria dello sforzo per la sicurezza europea e nord-atlantica.
Tra i paesi che hanno superato le aspettative della NATO in investimenti militari vi è la Germania, che deteneva poco prima dell’invasione russa ai danni dell’Ucraina un budget per la difesa nettamente inferiore rispetto alla minima soglia indicata come sufficiente dall’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (1,4% del PIL nel 2020[1]). Uno Stato che invece, con la dichiarazione del Cancelliere Olaf Scholz al Bundestag del 27 febbraio 2022, ha annunciato, oltre al mantenimento dell’impegno NATO di portare la spesa per la difesa oltre la soglia minima del 2% PIL entro il 2024, anche un investimento immediato di 100 miliardi di euro[2] nel proprio sistema difensivo.
La Germania è un paese il cui riarmo fu una delle questioni più delicate da risolvere dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale. Chiaramente in questo momento non si parla di un riarmo tedesco, ma di un investimento molto più consistente rispetto al passato: si passerebbe da una spesa di 52,765 miliardi di dollari del 2020[3] (1,4%del PIL) a una spesa ipotetica totale di 76, 928 miliardi di dollari (2% del PIL tedesco 2021[4]), ai quali vanno sommati i 100 miliardi di euro stanziati in aggiunta. Entro il 2024 la Germania diventerà dunque il terzo paese al mondo per spese militari complessive, dietro a USA e Cina, anche se è bene chiarire che il Trattato di non Proliferazione Nucleare (NPT), entrato in vigore nel 1970, impedisce agli Stati che — come la Germania — non detenevano il nucleare a scopi bellici entro quella data di sviluppare testate nucleari.
Dopo la creazione della NATO nel 1949, e nei primi anni di Guerra Fredda sul suolo europeo, fu evidente che la Repubblica Federale Tedesca (RFT), ancora priva di mezzi militari, necessitasse di un esercito per fungere da baluardo difensivo per tutta la parte occidentale del continente, trovandosi proprio al confine con il blocco est-europeo controllato dall’URSS. La Francia, spaventata da questa prospettiva, propose nel 1950 di istituire una Comunità di difesa europea (CED), in modo da impedire ipotetici futuri tentativi di aggressione armata per mano tedesca e dotare l’Europa occidentale di un’efficace sistema difensivo. La proposta fu colta da Altiero Spinelli, che suggerì all’allora primo ministro italiano Alcide de Gasperi di proporre l’inserimento di un articolo, che poi diventerà l’art.38 del trattato CED, che prevedesse la creazione, a fianco della CED, di una Comunità politica europea. Nel 1954 il Parlamento francese bocciò la ratifica del trattato CED, ponendo la fine al tentativo più vicino alla creazione di uno Stato federale europeo. Alla Germania fu concesso un riarmo graduale e di bassa entità, sotto l’ancoraggio alla NATO, nella quale la RFT entrò a far parte nel 1955.
A quasi settant’anni di distanza, nonostante il progressivo sviluppo dell’integrazione europea, l’Unione Europea si trova ancora priva di una comunità politica e di un esercito comune, e il problema della difesa viene ancora affrontato, come manifesta l’esempio della Germania, attraverso un aumento delle spese militari nazionali.
La creazione di un esercito europeo, sotto il controllo di uno Stato federale europeo, consentirebbe di superare l’inefficienza e mal allocazione delle risorse dei singoli Stati per la sicurezza: l’aumento delle spese militari da parte di ogni singolo Stato nazionale membro NATO rende le spese degli Stati UE più ricchi — Francia e Germania — simili a quelle della Russia, che spende 61,713 miliardi di dollari per il proprio esercito (2020).[5] Un dato che deve tenere conto anche della differenza tra spesa e reale capacità distruttiva, in quanto con una spesa simile la Russia detiene comunque il secondo arsenale nucleare al mondo. Tentare di risolvere il problema da un punto di vista nazionale fa sì che ogni Stato europeo preso singolarmente non riesca dunque a garantire per sé la propria sicurezza.
La sicurezza rappresenta una delle sfide cui gli Stati nazionali europei sono in grado di far fronte solo in virtù dell’ombrello nordatlantico. Una difesa comune europea riuscirebbe invece a gestire le sfide alle quali gli europei si trovano di fronte, sfide che possono essere affrontate solo se si interviene alla radice dei problemi che le causano: superare le divisioni nazionali e creare un esercito comune europeo, anche tra un gruppo ristretto di Stati, gestito da una Unione federale.
Daniele Berardi
[1] https://www.sipri.org/databases/milex; Stockholm International Peace Research Institute.
[2] Deutscher Bundestag – 20. Wahlperiode – 19. Sitzung. Berlin, Sonntag, den 27. Februar 2022.
[3] https://www.sipri.org/databases/milex; Data for all countries from 1988–2020 in constant (2019) USD.
[4] https://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.MKTP.CD?locations=DE.
[5] https://www.sipri.org/databases/milex; Data for all countries from 1988–2020 in constant (2019) USD.
Anno LXIV, 2022, Numero 1, Pagina 35
IL RITORNO DEL LATO TRAGICO DELLA STORIA
À ce retour brutal du tragique dans l’Histoire,
nous nous devons de répondre
par des décisions historiques.[1]
L’invasione russa dell’Ucraina impone al mondo un brusco ritorno a una precisa logica delle relazioni internazionali, la politica di potenza, per la quale l’interesse nazionale non solo è prioritario, ma così strabordante che la sua tutela può e deve prevedere la minaccia e la reazione, se non bellica almeno economica. Ciò traspare in primo luogo e nella forma più tremenda nelle recenti dichiarazioni del Presidente della Federazione Russa: “Whoever tries to hinder us, and even more so to create threats for our country, for our people, should know that Russia's response will be immediate and will lead you to such consequences that you have never experienced in your history.”[2]
L’invasione dell’Ucraina ha senza dubbio portato a un’esacerbazione di questa logica, ma dobbiamo riconoscere che essa, pur con forme diverse, si estende ora all’intero spettro dei protagonisti politici della vicenda. Prendiamo in considerazione alcune parole del Presidente Biden, in reazione ai fatti bellici: “He thought [Putin] the West and NATO wouldn’t respond. And he thought he could divide us at home. Putin was wrong. We were ready. (…) Let me be clear, our forces are not engaged and will not engage in conflict with Russian forces in Ukraine. Our forces are not going to Europe to fight in Ukraine, but to defend our NATO Allies – in the event that Putin decides to keep moving west. For that purpose, we’ve mobilized American ground forces, air squadrons, and ship deployments to protect NATO countries including Poland, Romania, Latvia, Lithuania, and Estonia.”[3]
La tesi è confermata anche dal discorso della Presidente von der Leyen alla plenaria del Parlamento europeo del 1° marzo 2022: “This is a moment of truth for Europe. Let me quote the editorial of one Ukrainian newspaper, the Kyiv Independent, published just hours before the invasion began: ‘This is not just about Ukraine. It is a clash of two worlds, two polar sets of values.’ They are so right. This is a clash between the rule of law and the rule of the gun; between democracies and autocracies; between a rules-based order and a world of naked aggression. How we respond today to what Russia is doing will determine the future of the international system. The destiny of Ukraine is at stake, but our own fate also lies in the balance. We must show the power that lies in our democracies; we must show the power of people that choose their independent paths, freely and democratically. This is our show of force.”[4]
Le dichiarazioni dei leader citati e anche i provvedimenti concreti di reazione all’aggressione russa si pongono ovviamente su un piano politico, ma anche morale, diverso, non paragonabile alle affermazioni ideologiche e alle decisioni belliche del Cremlino. Tuttavia, non possono sottrarsi alla logica della politica di potenza che, una volta innescata, impone a tutti gli attori coinvolti di reagire mettendo in atto misure aggressive e avanzando minacce in risposta a quelle ricevute.
Questa riemersione della politica di potenza è strettamente legata a una forte riabilitazione della retorica nazionalista. Ciò si manifesta soprattutto nelle motivazioni ideologiche che guidano l’aggressione russa, connotate da una violenta manipolazione politica dei fatti storici e della memoria, ma anche in questo caso dobbiamo aspettarci che le influenze travalichino spontaneamente i confini e contaminino sia i diretti aggrediti, che gli alleati e gli osservatori attoniti. L’ordine neo-liberale post Guerra Fredda sembra saltare per aria e con esso il principio di deterrenza, che oggi pare non sia più la temibile spada di Damocle paradossalmente utile per moderare i conflitti internazionali, ma una leva per fare la guerra con la discreta sicurezza che non ci sarà un intervento esterno, almeno sul piano militare. A onor del vero, non è il ritorno della storia tout court; è il ritorno del lato tragico della storia nel continente europeo.
Se si distoglie lo sguardo dai fatti bellici che, mentre scrivo, continuano a sconvolgere il mondo e se si sceglie di adottare una prospettiva ampia e di lungo periodo, ci si rende conto che il mondo è attraversato da un pernicioso processo di ridefinizione degli equilibri e di riassestamento della distribuzione del potere tra i diversi attori politici. La comprensione precisa delle cause di questo processo e dei possibili esiti meriterebbe non solo un’analisi approfondita, ma ricerche dispendiose, interdisciplinari e anche un maggiore dispiegamento temporale del fenomeno stesso.
Tuttavia, ritengo che si possano distinguere almeno tre aspetti evidenti: i) la progressiva erosione della capacità degli USA di essere i guardiani dell’ordine internazionale, sia per fattori di crisi endogeni, sia esogeni; ii) la progressiva crescita dell’influenza politica e/o economica esercitata da attori de facto non-allineati (e.g. Cina e Russia); iii) lo stallo che impedisce al processo di integrazione europea di maturare in un esito pienamente politico e di colmare un vuoto di potere sempre più evidente.
Di fronte al disordine, a vuoti di potere, alla ridefinizione degli equilibri internazionali, quindi a nuove minacce e opportunità (a seconda della prospettiva adottata), emergono ambizioni divergenti e la logica delle divisioni e della politica di potenza trova terreno fertile. È importante comprendere i fatti bellici che sconvolgono il mondo oggi alla luce di questo processo profondo: Putin osa così tanto non semplicemente per adempiere al dovere della riunificazione nazionale; né per l’assurda e deprecabile motivazione di denazificare il governo ucraino; né solamente per contrastare la tendenza filoccidentale manifestatasi negli ultimi anni in una regione che tradizionalmente rientrava nella sfera d’influenza russa; ma perché il leader del Cremlino percepisce la precarietà del vecchio ordine a guida NATO e coglie — giustamente — un’enorme debolezza politica in seno all’Europa.
Il fenomeno è in corso di svolgimento e non è possibile prevedere con esattezza gli esiti di queste turbolenze, che oggi si manifestano in una forma tragica in Ucraina ma che potrebbero indurre tremendi riverberi altrove. Tuttavia, ritengo che la nostra comprensione, seppur parziale e transeunte, possa comunque poggiare su due consapevolezze. La prima è che dobbiamo accettare l’erosione del mondo unipolare a guida statunitense. La seconda si concreta nel fatto che la maggiore o minore capacità incisiva occidentale sulla definizione di un nuovo equilibrio mondiale stabile — che sarà in ogni caso multipolare — e di relazioni internazionali pacifiche dipenderà anche dalla volontà europea di compiere un passo in senso federale, di imporsi come potenza di pace, esercitando il proprio peso politico e diplomatico — che inevitabilmente è direttamente proporzionale anche alla capacità militare — per ristabilire con gli altri protagonisti un nuovo equilibrio e riprendere assieme a loro quel lungo e non lineare cammino per la costruzione di un mondo che, di fronte alla sempre maggiore interdipendenza materiale, saprà riconoscere l’esigenza di imporsi regole più stringenti per evitare di capitolare nuovamente nel caos.
La Conferenza sul futuro dell’Europa anticipa provvidenzialmente l’esigenza appena espressa. L’esito di questo esperimento di democrazia partecipativa sovranazionale è chiaro e ulteriormente legittimato dai drammatici sviluppi di queste settimane: più democrazia europea, meccanismi democratici per definire la politica dell’UE, maggiore efficacia e capacità di azione delle istituzioni europee.
In una fase così tragica e cruciale, queste aspettative non possono essere tradite, ma anzi devono essere accolte e realizzate attraverso riforme concrete che portino alla nascita di una vera sovranità europea democratica; per il futuro d’Europa, per il futuro del mondo!
8 aprile 2022
Andrea Apollonio
[1] Emmanuel Macron, Address to the Nation, 2/03/2022, https://www.elysee.fr/emmanuel-macron/2022/03/02/adresse-aux-francais-ukraine.
[2] Full text: Putin’s declaration of war on Ukraine, The Spectator, 24/02/2022, https://www.spectator.co.uk/article/full-text-putin-s-declaration-of-war-on-ukraine.
[3] Remarks of President Joe Biden – State of the Union Address As Prepared for Delivery, 1/03/2022, https://www.whitehouse.gov/briefing-room/speeches-remarks/2022/03/01/remarks-of-president-joe-biden-state-of-the-union-address-as-delivered/.
[4] Speech by President von der Leyen at the European Parliament Plenary on the Russian aggression against Ukraine, 1/03/2022, https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/SPEECH_22_1483.
Anno LXIII, 2021, Numero 2-3, Pagina 115
RUSSIA E CINA UNITE
PER UN NUOVO ORDINE MONDIALE
Nell’inverno del 2013 il governo di Kiev decise di non sottoscrivere l’adesione all’Unione europea e, allo stesso tempo, di avviare trattative con Mosca per siglare un accordo economico finanziario ritenuto più vantaggioso. Quella decisione creò una frattura in seno al paese tra i sostenitori dell’adesione alla UE e i sostenitori di un accordo con la Russia. La ricca regione del Donbass, a maggioranza etnica russa, proclamò a quel punto la propria indipendenza con il pieno sostegno della Russia. Ebbe così inizio una guerra mai dichiarata apertamente tra l’esercito regolare di Kiev e quello separatista che in otto anni di guerra ha visto morire oltre 14.000 persone, per lo più civili, e un esodo dalla regione di oltre 1.500.000 cittadini di cui circa 900.000 diretti verso la Russia. La successiva decisione della Russia nel 2014 di riportare la Crimea entro i propri confini tramite un referendum aggravò ulteriormente la crisi con l’Ucraina e con il mondo occidentale. Vennero allora imposte alla Russia una serie di sanzioni economiche e finanziare proposte dal governo USA (all’epoca era Presidente Obama) con l’appoggio dell’Unione europea.
La crisi Ucraina si è riaccesa drammaticamente nel gennaio del 2022 dal momento che la Russia intende contrastare con ogni mezzo il possibile ingresso di quel paese nel novero delle nazioni NATO. Contrastare l’allargamento della NATO ai paesi un tempo alleati o satelliti dell’URSS è una questione considerata vitale nell’ottica di Mosca.[1] In questi ultimi anni le richieste di adesione alla NATO sono state prospettate da parte degli USA ai governi di Moldavia e Georgia, altre richieste di adesione sono pervenute direttamente da alcune nazioni, la più recente proprio da parte della Ucraina. Si tratta di nazioni che erano parte integrante del territorio dell’URSS. Non va poi dimenticato che anche la Finlandia (nazione da sempre dichiaratasi neutrale) sta valutando di presentare la richiesta al governo di Washington[2] per diventarne membro. Queste ulteriori adesioni porrebbero le truppe e le basi della NATO direttamente a ridosso dei confini della Russia che non potrebbe più contare sulla presenza di Stati cuscinetto che, nella logica di Mosca, devono rappresentare un limite invalicabile dalla fine della Seconda Guerra Mondiale (o Guerra Patriottica come invece viene definita in Russia e prima ancora nell’URSS). Quel limite era già stato violato nel 2004 con l’adesione alla NATO di Estonia e Lettonia, ma in quegli anni, a Mosca, Putin stava ancora definendo l’assetto del paese e in politica estera il paese risultava indebolito dopo oltre un decennio di profonda crisi interna.
Gli anni successivi al dissolvimento dell’URSS erano stati i più tormentati e l’assetto con i nuovi equilibri di potere interni avevano avuto la prevalenza su qualsiasi altra questione. Furono necessari oltre dieci anni per ridefinire i confini della nuova Russia dopo la frammentazione del suo territorio che vide la nascita di tredici nuove Repubbliche indipendenti con le quali disegnare i confini, definire la spartizione del tesoro della Banca Centrale, dell’arsenale atomico e degli armamenti, nonché contrastare tentativi di colpo di Stato o sedare nel sangue ulteriori tentativi secessionisti nel Caucaso. Tutte questioni che si sovrapponevano alla lotta intestina a Mosca per la conquista del potere che, dopo l’uscita di scena di Gorbaciov, l’ascesa e caduta di Eltsin, vide prevalere la figura di Vladimir Putin.
Quando si aprì la crisi ucraina nel 2013 la situazione interna russa si era stabilizzata e il governo di Mosca poteva tornare ad esercitare la propria politica estera con ritrovata autorevolezza. L’assetto di potere era ora ben definito. Mosca rispose alle sanzioni occidentali avviando intese sempre più strette e vincolanti con la Cina in campo economico, energetico e militare, cosa impensabile sino a pochi anni prima.
Il quadro internazionale era mutato in modo radicale. Gli anni di difficoltà della Russia erano coincisi con l’ascesa a potenza economica della Cina che esercitava, ed esercita ancor di più oggi, una grande influenza politica e militare in vaste regioni dell’Asia e dell’Africa. La delocalizzazione in Cina di molte attività industriali da parte degli Occidentali, nel tempo, l’hanno resa una potenza in grado di determinare la produzione di intere linee di prodotti per il mondo intero. Alla forza militare di cui dispone, la Cina può così far pesare anche la propria capacità industriale sino al punto di poter condurre guerre economiche riducendo (o aumentando a seconda dei propri interessi) la vendita ed esportazione di alcuni beni, per esempio nel settore auto o in quello dell’informatica, vitali per l’industria europea.
Verso un nuovo equilibrio: Russia e Cina alleate in politica estera.
La instabilità politica derivante dalla dissoluzione dell’URSS negli anni Novanta, indusse la Cina a promuovere nel 1996 una Organizzazione per la Cooperazione (detta di Shangai o SCO) che coinvolgesse la Russia e alcune delle giovani repubbliche ex-sovietiche con cui condivide i confini: Kazakistan, Tagikistan e Kirghizistan. L’obiettivo principale della Organizzazione era quello di favorire la cooperazione in campo economico, politico e militare per contrastare il separatismo e il terrorismo in Asia Centrale. Negli anni l’Organizzazione, che tra l’altro ha l’obiettivo di mediare eventuali contrasti tra le nazioni che ne fanno parte, si è ampliata e vi hanno aderito anche Uzbekistan, India e Pakistan.[3]
L’Organizzazione ebbe l’effetto di aprire un nuovo canale di comunicazione diretto tra Pechino e Mosca. Il desiderio principale della Cina era quello di garantire unità territoriale ai propri confini per evitare spinte separatiste a carattere politico, etnico o religioso (oltre a quello storico nel Tibet) dopo quanto era accaduto in Russia. Si trattava di un desiderio che Mosca condivideva pienamente.
Negli stessi anni gli Stati Uniti assumevano una leadership a livello mondiale, che li metteva però spesso in gravi difficoltà dovendo operare, militarmente, dal Medio Oriente all’Africa e persino in Europa nella ex-Jugoslavia. Non è questa la sede per rievocare i numerosi focolai di tensione sorti negli anni di fine secolo XX e agli inizi del nuovo, ma, mentre gli Stati Uniti cercavano di agire in tutti gli scenari con gli europei in alcuni casi al seguito, la Russia si avviava a stabilizzarsi al proprio interno e la Cina diventava una potenza economica garantendosi l’ingresso nel WTO nel 2001 e avviando allo stesso tempo un ampio progetto di rinnovamento delle forze armate.
La Russia di Putin e la Cina erano ora pronte a condividere l’obiettivo di contrastare gli Stati Uniti come unica superpotenza. Un contesto generale nel quale l’Unione europea svolgeva un ruolo da spettatore o di passivo sostenitore delle scelte politiche USA o militari nell’ambito della NATO.
La crisi in Ucraina consolidò l’intesa tra Mosca e Pechino che negli anni si è ampliata in campo militare senza che per questo fosse necessario la firma di un Trattato ad hoc. L’aiuto che la Cina garantì alla Russia in tutte le sedi internazionali nel sostenere le sue ragioni in Ucraina venne presto ricambiato. E di recente Pechino ha ribadito che l’allargamento della NATO all’Ucraina è una provocazione dell’Occidente che crea solo nuove tensioni, la stessa tesi sostenuta dalla Russia. Mosca da parte sua difende il diritto della Cina nel controllare gli atolli nelle acque del Mar Cinese Meridionale,[4] ma, fatto ancor più rilevante per Pechino, Mosca sostiene il diritto di Pechino nel rivendicare la propria sovranità sull’isola di Taiwan e nell’imporre la propria legislazione ad Hong Kong.
La condivisione e il reciproco sostegno in politica estera tra Pechino e Mosca si sta manifestando in modo ancor più palese nel corso del 2022, ponendo il mondo Occidentale, e in particolare gli USA, in grave difficoltà nel dover gestire fronti così impegnativi (Ucraina e Taiwan), avendo di fronte due potenze pronte a sostenersi. Le difficoltà degli Stati Uniti, già emerse sotto la presidenza Obama e aggravatesi con quella di Trump, sono accentuate dalla incapacità di agire da parte della Unione europea, vittima delle proprie debolezze: ha una forte dipendenza dalla Russia negli approvvigionamenti energetici; ha una forte dipendenza dalla Cina nella fornitura di prodotti industriali ad alto valore tecnologico. La mancanza di un potere europeo in grado di esprimere una propria politica estera e di difesa nonché una propria politica energetica ed industriale la pongono dinanzi alla propria fragilità ed inconsistenza ad agire per essere credibile. Questa inconsistenza vede l’Unione europea nella condizione di sostenere le scelte politiche degli USA seppur passivamente e spesso in modo confuso e contraddittorio.[5]
Stati Uniti e Unione europea sperimentano pertanto le proprie difficoltà dinanzi alla coincidenza di interessi che legano Russia e Cina. Se la UE ai propri confini non è in grado di gestire in modo autonomo il confronto-scontro in atto in Ucraina da ben nove anni e ricorrono alla NATO per tutelarsi, gli Stati Uniti sembrano ancor più in difficoltà nelle acque del Pacifico, segnatamente nel tratto del Mar Cinese. Mentre in Europa sono aperti dei canali diplomatici per evitare il precipitare della crisi in una guerra aperta, nell’area del Pacifico la Cina ha lanciato una sfida ben precisa e senza appello: Taiwan deve rientrare a pieno titolo sotto la sovranità di Pechino entro il 2050.[6]
È dall’inizio della crisi ucraina che Russia e Cina conducono esercitazioni militari e navali in modo congiunto nelle acque di tutto il mondo. La prima volta fu nel 2015, nel Mar Mediterraneo, successivamente nel Mar Baltico, nel Mar del Giappone e nel Mar Cinese Meridionale (qui anche con truppe di marines per simulare la conquista di una isola). Infine, nel gennaio di quest’anno, a navi delle flotte russa e cinese si sono aggiunte navi della flotta dell’Iran a largo del Golfo di Oman[7] allarmando l’intero mondo arabo, e non solo, per le implicazioni che comporta questa collaborazione militare nel già difficile quadro della situazione medio orientale.
Ma ancor di più: la Russia garantisce a militari e a ingegneri civili cinesi l’utilizzo delle proprie basi nell’area dell’Artico in previsione della costruzione di porti da condividere e per svolgere insieme trivellazioni nella ricerca di nuovi pozzi petroliferi o di gas.[8] A seguito dello scioglimento dei ghiacci, le previsioni indicano che entro il 2050 le navi mercantili che dal Pacifico raggiungono i porti del Nord Europa potranno transitare lungo le coste artiche per sei mesi all’anno contro gli attuali tre. Questa via di navigazione diventerà pertanto sempre più strategica per la navigazione commerciale riducendo i costi e i tempi oggi necessari per il transito lungo il canale di Panama. Controllare l’Artico e disporre di porti amici diverrà strategico non solo per lo sfruttamento delle sue ricchezze naturali, ma anche per il controllo dei traffici non solo mercantili.[9] Si rinnova così la capacità delle due potenze di sviluppare strategie di lungo termine. Questa condivisione di interessi suscita grandi preoccupazioni negli USA poiché, nel caso la crisi in Europa e la crisi nel Pacifico dovessero deflagrare in contemporanea per una precisa intesa tra Mosca e Pechino, non sarebbero in grado di gestire contemporaneamente i due fronti. In particolare, sarebbe la crisi nel Pacifico, nelle acque del Mar Cinese Meridionale, a vedere gli USA sconfitti nonostante il possibile aiuto militare legato ai recenti accordi siglati in ambito QUAD (Usa, Giappone, Australia e India) o in ambito AUKUS (USA, Regno Unito e Australia).
A prevedere una piena sconfitta e, di conseguenza, l’annessione di Taiwan alla Cina, è lo stesso Comando Strategico che lo ha ammesso in una audizione al Congresso degli Stati Uniti nell’aprile del 2021.[10]
Taiwan rappresenta comunque la falsa coscienza del mondo intero. Solo 14 nazioni la riconoscono come Stato sovrano, il resto del mondo intrattiene solo rapporti commerciali.[11] Vi è infatti un veto da parte del governo di Pechino che ha deciso di non intrattenere relazioni diplomatiche con gli Stati che rifiutano di riconoscere che la Cina Popolare è una e indivisibile e che Taiwan è solo una provincia ribelle. Al mondo manca il coraggio di riconoscere la legittimità ad esistere di Taiwan per timore di rompere i rapporti con Pechino e gli Stati Uniti, da questo punto di vista, hanno precise responsabilità allorché nel 1972 decisero di accettare il principio di “una sola Cina” su precisa richiesta di Pechino (all’epoca era Presidente R.Nixon).
In Ucraina e lungo le coste di Taiwan si assiste a continue prove di forza da parte di Russia e Cina, nel tentativo, congiunto, di saggiare le reazioni dell’Occidente e di verificarne la capacità di reazione. Non altrimenti si spiegano le continue esercitazioni navali congiunte o le continue violazioni dello spazio aereo di Taiwan da parte dei caccia cinesi.[12] Il contesto nel Pacifico è ulteriormente complicato dalla instabilità nelle acque del Mar Giallo e del Mar del Giappone, per le continue minacce da parte della Corea del Nord, il che ha indotto il Giappone, stretto alleato degli USA, a rileggere la propria carta costituzionale per consentire un aumento delle spese militari e prevedere la costruzione di portaerei.[13] Si tratta di acque presidiate da importanti porti militari sia russi che cinesi.
Conclusione.
Il mondo uscito dal crollo dell’URSS ha destabilizzato interi continenti e gli Stati Uniti si sono dimostrati incapaci di garantire da soli un nuovo ordine che garantisse pace e stabilità. In questa incapacità rientrano anche precise responsabilità degli europei che non hanno saputo avviare una diversa politica di vicinato con la nascente nuova Russia. Gli Stati Uniti, assecondati dalla UE, hanno così continuato a percepire la Russia come un possibile nemico da contrastare. Anziché cogliere la novità derivante dal crollo del sistema sovietico, l’Occidente ha continuato ad agire per indebolire la Russia rafforzando la propria presenza ad est nell’ambito della NATO. Una grande occasione per favorire nuove relazioni tra la Unione europea (allargatasi ai paesi un tempo sotto l’influenza sovietica) e la Russia è andata così perduta. Ma d’altronde una Unione europea senza un proprio governo e senza una propria politica estera come avrebbe potuto agire diversamente? Inoltre, l’allargamento della UE ad est poneva anche in evidenza le paure che queste nuove nazioni continuavano e continuano ad avere nei confronti della vicina potenza russa che per lungo tempo li aveva sottomessi. Da questo punto di vista l’ingresso nella UE garantiva a questi paesi un aiuto nello sviluppo delle loro economie e un consolidamento delle loro giovani democrazie, e, allo stesso tempo, l’ingresso come membri della NATO dava garanzie in termini di sicurezza militare.
Mentre questo scenario si andava costruendo in Europa, in Estremo Oriente emergeva la Cina come nuova potenza dapprima economica ed oggi anche militare. Sul piano economico, la mancanza di una politica industriale ed energetica, mostra oggi le contraddizioni e le debolezze della UE. La delocalizzazione di molte attività produttive pone la Cina nelle condizioni di utilizzare l’economia come uno strumento politico a tutti gli effetti, come ammesso dalla stessa Commissione europea[14] che evidenzia la dipendenza dell’Europa dalla Cina in settori strategici. Il sapere di essere deboli dovrebbe indurre pertanto i governi ad individuare soluzioni di prospettiva per evitare, come sta accadendo, di vedere l’industria europea in difficoltà negli approvvigionamenti sia di prodotti finiti che di materie prime, indirizzate invece principalmente verso la Cina e le altre nazioni dell’Estremo Oriente che oggi, insieme, rappresentano il polmone industriale del mondo intero, a riconferma di come il commercio internazionale sia passato dall’area atlantica a quella del Pacifico.
L’eterno dilemma del mondo alla ricerca di un equilibrio che contrasti le mire egemoniche vede oggi tre grandi potenze continentali confrontarsi in modo aperto: Stati Uniti, Russia e Cina ce lo ricordano ogni giorno. È altrettanto evidente come un continente risulti assente o comunque marginale ed è la stessa Commissione europea a ricordarcelo così come i recenti interventi pubblici del Presidente Macron o del Cancelliere Scholz. Non resta, come recitava un antico detto latino, che passare dalle parole ai fatti compiendo scelte radicali che diano alla Unione europea l’assetto federale di cui necessita per esercitare la propria sovranità.
I prossimi mesi saranno pertanto decisivi alla luce delle decisioni che i Capi di governo, in sede di Consiglio europeo, prenderanno sulla base delle proposte che i cittadini europei hanno formulato in seno alla Conferenza sul futuro dell’Europa. Alla Conferenza sono state presentate precise idee per abolire il diritto di veto, per garantire all’Unione un proprio potere fiscale e di bilancio, per dare maggiori poteri al Parlamento europeo nel definire le linee di una politica estera. Si tratta di questioni vitali per il futuro della Unione e per garantire un maggior equilibrio nella gestione dei problemi del mondo.
Stefano Spoltore
[1] Sulla crisi Ucraina e sulla politica di Putin si veda: S. Spoltore, L’Ucraina tra Est e Ovest, Il Federalista, 56 n. 1-2 (2014), p. 87, https://www.thefederalist.eu/site/index.php/it/indice-it/2-non-categorizzato/1419-lucraina-tra-est-e-ovest, e Id., La sfida della Russia, Il Federalista, 60 n. 1 (2018), p. 35, https://www.thefederalist.eu/site/index.php/it/note/2370-la-sfida-della-russia.
[2] Le richieste di adesione alla NATO devono essere presentate al governo degli USA che successivamente provvede ad inoltrarle al comando NATO a Bruxelles per essere approvate da tutti gli Stati membri (occorre l’unanimità). Per la richiesta per il possibile ingresso della Finlandia nella NATO cfr.: A. Lombardi, La Finlandia sfida Putin: “Pronti a valutare l’adesione alla NATO”, La Repubblica, 2 gennaio 2022.
[3] Si veda: P. Pizzolo, Il Kazakistan, la Russia e il nuovo grande gioco in Asia centrale, Affari Internazionali, 14 gennaio 2022, https://www.affarinternazionali.it/kazakistan-grande-gioco-russia/.
[4] Si veda S. Spoltore, L’Oceano della discordia, Il Federalista, 57 n. 3 (2015), p. 204, https://www.thefederalist.eu/site/index.php/it/note/1476-loceano-della-discordia.
[5] D. Teurtrie, Gli europei fuori gioco, Le Monde diplomatique il Manifesto, febbraio 2022.
[6] Dichiarazioni al Congresso del Popolo di Xi Jinping, Agenzia AGI, 9 ottobre 2021; L’ascia di Xi Jinping su Taiwan: la Cina realizzerà la riunificazione, chiunque cerchi di dividere il paese non farà una bella fine, La Stampa, 9 ottobre 2021.
[7] Golfo Persico. Mosca si addestra con Teheran e Pechino nell’antipirateria, www.agcnews.eu, 20 gennaio 2022. Inoltre, la scorsa estate il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha visitato Teheran e successivamente Ankara per stringere accordi in campo energetico e militare.
[8] E. Comelli, Patto Russia-Cina nel nome del gas: alle olimpiadi di Pechino nasce l’asse contro la NATO, Quotidianonazionale, 5 febbraio 2022, https://www.quotidiano.net/esteri/patto-russia-cina-nel-nome-del-gas-a-pechino-nasce-lasse-contro-la-nato-1.7328041. L’accordo economico siglato in occasione della apertura dei giochi olimpici di Pechino, oltre a rinnovare l’intesa nell’Artico, valido 25 anni, ha portato anche alla firma di un contratto di fornitura alla Cina, da parte della Russia, di 100 milioni di tonnellate di petrolio in dieci anni attraverso il Kazakistan, dove nel gennaio 2022 le truppe di Mosca sono intervenute per ristabilire l’ordine dopo che le proteste popolari avevano messo a rischio il governo amico filorusso.
[9] L. Rossi, Russia e Cina nell’Artico: una relazione ambigua, Affari Internazionali, ottobre 2020, https://www.affarinternazionali.it/archivio-affarinternazionali/2020/10/russia-e-cina-nellartico-una-relazione-ambigua/, e R. Tani, La Russia si mostra sempre più assertiva nel teatro artico, Panorama Difesa, n. 397, giugno 2020.
[10] L’audizione è stata sostenuta dall’ammiraglio Charles Richard, comandante del Comando Strategico. Si veda: E’ di nuovo tempo di “pensare all’impensabile”, Panorama Difesa, n. 414, gennaio 2022, http://www.edaiperiodici.it/panorama-difesa/numeri/dettaglio/pd-gennaio-2022.
[11] I Paesi che riconoscono Taiwan come Stato sono: Belize, Città del Vaticano, Guatemala, Haiti, Isole Marshall, Nauru, Palau, Paraguay, Saint Kitts e Nevis, St. Lucia, St. Vincente, Granadine, Swatini e Tuvalu.
[12] Le incursioni extra territoriali da parte dei caccia cinesi erano state 380 nel 2020, salite a oltre 600 nel 2021.
[13] C. Martorello, Il rinnovato concetto di potere navale in Asia, Panorama Difesa, n. 400, ottobre 2020, p. 54.
[14] J. Oertel, J. Tollmann, B. Tsang, Climate superpowers: how EU and China can compete and cooperate for a green future, Policy brief dell’European Council on Foreign Relations, 3 dicembre 2020, https://ecfr.eu/publication/climate-superpowers-how-the-eu-and-china-can-compete-and-cooperate-for-a-green-future/.
[13] C. Martorello, Il rinnovato concetto di potere navale in Asia, Panorama Difesa, n. 400, ottobre 2020, p. 54.
[14] J. Oertel, J. Tollmann, B. Tsang, Climate superpowers: how EU and China can compete and cooperate for a green future, Policy brief dell’European Council on Foreign Relations, 3 dicembre 2020, https://ecfr.eu/publication/climate-superpowers-how-the-eu-and-china-can-compete-and-cooperate-for-a-green-future/.
[12] Le incursioni extra territoriali da parte dei caccia cinesi erano state 380 nel 2020, salite a oltre 600 nel 2021.
[13] C. Martorello, Il rinnovato concetto di potere navale in Asia, Panorama Difesa, n. 400, ottobre 2020, p. 54.
[14] J. Oertel, J. Tollmann, B. Tsang, Climate superpowers: how EU and China can compete and cooperate for a green future, Policy brief dell’European Council on Foreign Relations, 3 dicembre 2020, https://ecfr.eu/publication/climate-superpowers-how-the-eu-and-china-can-compete-and-cooperate-for-a-green-future/.
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