Anno LVIII, 2016, Numero 1, Pagina 26
Democrazia complessa
Le riflessioni di questa nota prendono spunto dal dibattito che è in atto in Europa a seguito degli esiti degli ultimi referendum e in vista di altri che sono in programma, direttamente o indirettamente collegati al destino dei nostri paesi e del nostro continente. I temi di questo dibattito sono stati ben riassunti in un articolo di Jean Quatremer su Libération in cui l’autore arriva ad affermare che “...l’irruzione del referendum di iniziativa popolare nel campo diplomatico complica notevolmente la situazione, rendendo fragile un processo già complesso”.[1]
Complicazioni che sono ben evidenti quando si considera il caso del referendum su Brexit che influenzerà sicuramente nel male o nel bene il processo d’integrazione europea. Infatti, se i britannici sceglieranno di uscire dall’Unione europea, ci saranno effetti destabilizzanti sia per il Regno Unito, sia per l’Unione, dove i populisti ed i nazionalisti dei vari paesi potranno rilanciare le loro rivendicazioni antieuropee. Se invece i britannici decideranno di rimanere nell’Unione e nel quadro del mercato unico, si tratterà di dar seguito ai contenuti dell’accordo raggiunto tra Unione europea e Regno Unito nel febbraio scorso, in base al quale l’approfondimento istituzionale dell’eurozona nella più ampia Unione non solo è prevista, ma non dovrebbe più essere ostacolata dal governo di Londra. Il fatto è che la situazione complessa in cui vivono gli europei e l’umanità non deriva solo dalle difficoltà che incontra il processo di integrazione europea nell’avanzare, ma anche e soprattutto dalla globalizzazione dei processi produttivi, economici, finanziari, che influenzano ogni settore della nostra vita e di quella degli Stati, minando in molti casi il funzionamento e la legittimità dei meccanismi su cui si basa la democrazia.
A questo proposito Federico Rampini nel suo libro L’età del caos[2] ha messo bene in rilievo il problema della crisi della democrazia – la “democrazia stanca” – nel mondo occidentale, ormai incapace di dare soddisfacenti risposte alle richieste dei propri cittadini, indicando come i principi liberaldemocratici, così come li ha definiti Francis Fukuyama nel suo testo Political order and political decay, non sono più rispettati oggi in gran parte degli Stati a regime democratico.[3]
* * *
Lo strumento referendario è stato più volte utilizzato recentemente per dar modo, si è detto da parte di chi ha sostenuto la necessità di farli, alla volontà popolare di esprimersi su temi che riguardano i rapporti di questo o quel paese con l’Unione europea e le politiche condotte dall’Unione europea. Ma il metodo referendario è da considerarsi sempre un vero strumento di esercizio della democrazia? Per quanto riguarda l’Europa, i referendum nazionali sono strumenti validi per governare i problemi a livello europeo oppure sono stati usati, e finiscono inevitabilmente per essere usati, strumentalmente dai populisti in funzione anti europea? Secondo Jean Quatremer, la risposta a queste domande è no. Anzi, in questo quadro il metodo referendario mette a rischio la tenuta dell’Europa. “È terribilmente difficile vincere un referendum se la questione è europea. Eufemismo dicono a Bruxelles. Dal Trattato di Maastricht del febbraio nel 1992, non si contano che referendum negativi: Danimarca, Svezia, Irlanda, Francia, Olanda, Grecia e senza dubbio Regno Unito. Nel dicembre scorso i danesi hanno rifiutato di rinunciare, col 53% dei voti, alla deroga che il loro paese aveva ottenuto nel 1992 nel settore della giustizia e della polizia. La somma dei malcontenti, nei confronti sia dell’Europa sia del governo in carica, costituisce quasi sempre una maggioranza che è difficile rovesciare, ‘la congiura delle forze nazionali non fa che rinforzare chi tiene per il no’, come nota un diplomatico di Bruxelles: ‘c’è anche una incapacità di dimostrare il valore aggiunto dell’Unione in periodo di crisi’. C’è un’incompatibilità dell’istituzione del referendum con il sistema politico dell’Unione europea, ...perché il referendum praticato al livello nazionale garantisce di volta in volta la possibilità di esercitare un potere di blocco a una minoranza di europei. Un referendum paneuropeo sulle questioni che rilevano le competenze dell’Unione, come nel caso dell’accordo di associazione con la Turchia, permetterebbe di superare questo limite. Ma non esiste attualmente alcun consenso tra gli Stati per instaurare tale procedura: per essi, la democrazia si esercita essenzialmente in un quadro nazionale. Il referendum può dunque rimettere ogni volta in causa qualsiasi consenso difficilmente raggiunto tra gli Stati e nelle istituzioni europee, anche quelli raggiunti a maggioranza qualificata degli Stati. Ma, stando così le cose, chi oserà più applicare domani una direttiva o un regolamento legalmente adottato nell’ambito dell’Unione, ma che è rigettabile o rigettato tramite un referendum? ‘Il referendum può diventare uno strumento di ricatto da parte di certi Stati, come già succede per la Gran Bretagna, l’Ungheria, la Polonia, o per i movimenti euroscettici, che paralizzerà durevolmente l’Unione’ mette in guardia un alto funzionario. D’altra parte, proprio perché è difficile per i pro-europei denunciare questi referendum nazionali senza essere accusati di voler tenere ai margini i popoli, gli euroscettici avranno buon gioco a dirsi indignati e a cavalcare il malcontento: la trappola è perfetta”.[4]
I populisti, generalmente propugnatori e vincitori di simili referendum, mettono sotto accusa l’Unione europea accusandola di tutte le crisi che hanno vissuto i cittadini negli ultimi anni: da quella economica, alla disoccupazione, all’aumento dell’imposizione fiscale, al debito degli Stati, all’incapacità di far fronte alle migrazioni e al terrorismo. Esempi di questi atteggiamenti sono ormai diffusi dappertutto. Basti pensare ai movimenti di Marine Le Pen in Francia, di Matteo Salvini e di Beppe Grillo in Italia, al Freiheitliche Partei Österreichs in Austria, e ad Alternative für Deutschland in Germania. Tutti movimenti che hanno usato e stanno usando gli strumenti della comunicazione di massa e via Internet per amplificare le paure e coagulare il malcontento sui loro programmi elettorali.
è altresì indubbio che la democrazia liberale è più o meno in crisi in molti paesi dell’area occidentale, non solo nei paesi dell’Unione, come scrive Federico Rampini nel suo libro L’età del caos.[5]
In questo libro Rampini si sofferma anche sulla sofferenza della democrazia americana, prendendo in considerazione la definizione di democrazia liberale di Francis Fukuyama presentata in Political order and political decay, in cui rileva che una democrazia liberale compiuta dovrebbe fondarsi su tre ingredienti ben distinti.
“Il primo”, scrive Rampini riferendosi a Fukuyama, “è quello che noi spesso identifichiamo con la ‘democrazia’ tout court: elezioni libere a suffragio universale e segreto, pluraliste, con una vera competizione tra forze politiche diverse, accompagnate dalla libertà di espressione e di stampa”. Sotto questo aspetto, quasi tutti i paesi dell’area occidentale rispettano più o meno completamente questo requisito.
“Il secondo ingrediente”, prosegue Rampini, “è uno Stato che sa governare, fa rispettare la propria autorità e garantisce i servizi essenziali ai propri cittadini”. A questo proposito si può osservare che non sempre tutti gli Stati nazionali europei hanno saputo governare compiutamente, dando risposte adeguate ai propri cittadini in termini di efficienza: perché non avevano o non hanno ancora un assetto istituzionale adeguato; oppure perché, come accade oggi anche a causa della crisi economica e del debito accumulato, non sono più in grado di sostenere le spese per mantenere il modello di Stato sociale europeo del recente passato.
“Il terzo ingrediente è quello che gli angloamericani definiscono the rule of law, lo Stato di diritto, (ma che non sarebbe sbagliato tradurre letteralmente, e in modo più esplicito, il governo della legge, ndr); questo sta a significare che tutti sono sottoposti alle stesse leggi, anche i ricchi e i potenti, inclusi quindi gli stessi governanti”. A questo proposito è facile osservare che il rispetto delle regole e della legge in alcuni Stati è diventato solo formale, e in alcune aree di essi spesso la malavita organizzata ha la meglio sulla legalità. Mentre i divari in termini economici e sociali in molti di essi tendono ad aumentare.
Da tutto ciò emerge, secondo Rampini, che “se manca uno dei tre ingredienti non siamo in presenza di una vera democrazia liberale. La Cina ha uno Stato capace di governare con efficacia, i suoi governi negli ultimi trent’anni hanno gestito una fase di sviluppo, aumento del benessere e dell’occupazione; ma non ha libere elezioni e neppure uno Stato di diritto... L’India ha libere elezioni, ha istituzioni giuridiche abbastanza imparziali ancorché lente e farraginose, ma ha uno Stato molto inefficace nel garantire servizi essenziali ai cittadini. La Russia di Boris Eltsin e, poi, le ‘primavere arabe’ hanno dimostrato che cosa può succedere se si conquistano libere elezioni, ma manca tutto il resto: è il caos, a cui segue spesso un ritorno di autoritarismi... Il guaio è che la storia non procede in modo lineare, e quei tre ingredienti non arrivano necessariamente insieme, o nell’ordine giusto per generare un equilibrio stabile”.
Le considerazioni di Fukuyama, riprese da Rampini, mettono in luce tutta la difficoltà dell’affermazione delle regole democratiche nei vari paesi, anche se alcuni Stati, come ad esempio la Germania, forse per la sua struttura istituzionale federale o per la buona conduzione politica, si trovano oggi in condizioni migliori di altri. In Europa evidentemente ciò non basta a garantire una rispondenza alle esigenze della gente nei settori che richiedono risposte di governo a livello continentale per affrontare le sfide mondiali.
Sul piano europeo la risposta a questo problema era stata individuata da Altiero Spinelli nel 1957, quando aveva rilevato come “l’impotenza degli Stati europei in materia di politica estera, militare, economica e sociale, non è conseguenza di errori di questo o quel governo, che potrebbero essere corretti da governi diversi. E’ dovuta al fatto che gli Stati nazionali con tutte le loro istituzioni pubbliche e private – dai governi, ai parlamenti, ai partiti, ai sindacati – sono capaci solo di elaborare volontà politiche di ispirazione nazionale, poggianti su strumenti di esecuzione nazionali, tese verso fini nazionali, mentre i problemi fondamentali della politica estera, militare, economica e sociale non sono più di dimensioni nazionali.
Ma nessuna democrazia può mantenersi alla lunga, quando il meccanismo dell’elaborazione della volontà politica della comunità funziona a vuoto... L’egoismo immediato delle nazioni, delle classi, degli individui, appare più importante di qualsiasi più nobile aspirazione, la quale per realizzarsi dovrebbe proiettarsi in un futuro su cui non è più ragionevole contare. L’unico sentimento forte e tenace che ancora riesce a affermarsi nella vita degli Stati d’Europa è il desiderio di gruppi privilegiati di sfruttare fino alla fine, senza scrupoli, senza preoccupazione del domani, i vantaggi che il vecchio regime elargisce loro. Questo regime non è più democratico che in apparenza; in realtà è e non può che essere lo strumento di potenza di gruppi monopolistici e corporativi, di cricche di alti funzionari, di diplomatici, di generali, di politicanti dalla vista corta e dall’ambizione meschina”.[6]
Da quando Spinelli ha scritto queste parole, l’importanza dei fattori esterni che condizionano la vita degli Stati è aumentata e negli ultimi decenni si è aggiunto un altro elemento fondamentale che rende sempre più difficile governare: si tratta dell’evoluzione del nuovo modo di produrre originato dalla rivoluzione scientifica e tecnologica e dallo sviluppo di Internet e delle sue innumerevoli applicazioni in campo produttivo, amministrativo, finanziario e in quello delle relazioni sociali.
Questo mutamento è stato ben analizzato dal sociologo Manuel Castells,[7] che ha definito la nostra epoca l’età dell’informazione, con la nascita della società in rete: il processo di globalizzazione, secondo Castells, è diverso dal concetto di internazionalizzazione del passato, che non avrebbe potuto svilupparsi in modo così forte senza l’informatizzazione della società. Del resto, il complesso intreccio internazionale delle attività economiche (per quanto riguarda i flussi finanziari, di merci, di lavoro), degli spostamenti delle persone, non si sarebbe così accentuato senza la costante globalizzazione del sistema dello scambio di informazioni, che coinvolge individui, società e istituzioni. Insieme ad un accentuato liberismo in campo commerciale ed economico, è questo modo di comunicare, che avviene in tempo reale, a promuovere a sua volta ulteriore innovazioni, delocalizzazioni, deregolamentazioni, ecc.
Proprio la nascita dei reticoli globali, che non producono né vendono direttamente, ma coinvolgono nel processo produttivo migliaia di imprese mondiali attraverso delocalizzazione e franchising, determina la difficoltà di caratterizzare in senso nazionale le imprese e di sottoporle strettamente alle regolamentazioni e leggi nazionali in termini di legalità, tassazione e controllo democratico.
Per questo nessuna analisi sul funzionamento dello Stato dal punto di vista del rispetto dei principi democratici può quindi ormai prescindere da quella del sistema mondo in cui viviamo, in cui gli innumerevoli intrecci esistenti tra gli attori dell’economia mondiale creano una complessa rete di rapporti che influiscono in maniera determinante sul futuro delle società nei diversi Stati, e rendono problematico l’esercizio del governo democratico a tutti i livelli. Di fronte alla crescente complessità dei problemi da capire e da affrontare aumentano così le paure della gente e le richieste di garantire una maggiore sicurezza al proprio Stato. Ma questo è sempre più in difficoltà a fornire risposte adeguate a domande del tipo: come ci si può difendere dalla crisi dei mutui innescata dagli USA? Che potere può esercitare lo Stato rispetto a quello delle multinazionali finanziarie? Come si può controllare l’ondata migratoria da altri continenti?
Così il malcontento e l’indignazione dei cittadini nei confronti del proprio Stato finiscono per coinvolgere la sfera economica, quella della sicurezza e altri importanti fattori che in un mondo aperto e interrelato sono fondamentali per garantire sviluppo e benessere, alimentando la disoccupazione, il desiderio di creare barriere e muri, e l’avversione per soluzioni di governo continentale.
In Europa la complessità del sistema in cui ci troviamo immersi mette quotidianamente in evidenza l’inadeguatezza delle risposte di governo in senso democratico sia a livello locale che nazionale che europeo. Il fatto è che a fronte di questa complessità il sistema istituzionale di governo è rimasto ad un livello di sviluppo inadeguato e, rispetto allo sviluppo del modo di produrre ed alle esigenze di governo continentali e mondiali, possiamo ben dire primitivo.
Da questo punto di vista è fondamentale il contributo che ha fornito Francesco Rossolillo, che ha messo bene in rilievo come “le istituzioni, nella misura in cui non esistono soltanto sulla carta, ma funzionano realmente, sono le regole del gioco della vita politica, cioè i canali attraverso i quali le istanze che emergono nella società civile dalla dialettica delle classi, dei ceti, dei gruppi e degli individui prendono la forma determinata e cosciente di scelte politiche, guidate in quanto tali da un orientamento di valore. Ciò significa che queste stesse istanze, da generici fatti sociali, diventano precisi fatti politici, cioè elementi di una situazione di potere... Nella vita politica normale la lotta si svolge nel quadro delle istituzioni esistenti, che ne costituiscono appunto le regole e fanno emergere, sotto la spinta delle forze sociali, le scelte alternative attorno alle quali il conflitto si svolge. L’assetto istituzionale in quanto tale, perciò, non è in gioco nella lotta politica, non è messo in discussione, è accettato dalle parti in conflitto. Ciò significa che, nella vita politica normale, l’assetto istituzionale è sostenuto dal consenso di tutte le forze politiche che si confrontano nel suo quadro, e quindi della grande maggioranza delle forze sociali di cui le prime mediano le istanze... L’assetto istituzionale... delimita la sfera dei valori sociali condivisi da tutte le componenti della società, e in quanto tali sottratti alla lotta politica. Sono questi i valori che fondano la convivenza di un corpo sociale. Il consenso generale è quindi il fondamento sociale sul quale le istituzioni si reggono. Quando il consenso generale viene a mancare si ha crisi delle istituzioni. Ciò accade quando l’evoluzione del modo di produrre fa nascere nella società civile bisogni e fermenti ideali che l’assetto istituzionale esistente non è più in grado di trasformare in scelte politiche... La crisi dell’assetto istituzionale è sempre anche, per sua natura, crisi dei valori che fondano la convivenza civile. L’incapacità delle istituzioni di esprimere i bisogni reali della società civile fa sì che il dibattito politico perda il contatto con la realtà e metta in vista alternative false”.[8]
Oggi la crisi delle istituzioni e del consenso riguarda sia gli Stati in cui la democrazia è nata e si è sviluppata, sia il livello europeo dove, non essendo stata completata l’unione politica, le istituzioni attuali non riescono a fornire risposte adeguate alla crisi economica e finanziaria con piani di sviluppo economico per l’occupazione, con un’organizzazione di intelligence per contrastare il terrorismo, con una gestione unitaria di regolamento e accoglienza dei flussi migratori, con una politica estera e della difesa unica.
Per uscire da queste contraddizioni, come scriveva Mario Albertini, bisognerebbe creare un sistema di governo democratico a livello europeo. “Bisogna osservare”, scriveva Albertini, “circa il dinamismo del processo, che la dislocazione del trattamento dei problemi dagli Stati all’integrazione europea trasforma la situazione di fondo, nel senso che in questo modo il contenuto della vita politica, economica e sociale sfugge agli Stati e viene inglobato dall’integrazione, passando dalla divisione all’unità. Ecco le conseguenze. La prima riguarda i governi, in quanto la maggiore unità di fondo fa crescere in numero e in importanza i problemi che subiscono l’alternativa della soluzione nell’unità e della mancata soluzione nella divisione.
La seconda riguarda invece un processo concomitante di particolare importanza, in quanto nutre ed incalza l’iniziativa politica che può portare a termine l’integrazione. Trasferendo i problemi dai quadri nazionali a quello europeo, essa li trasferisce anche a un quadro nel quale essi non possono essere trattati in modo democratico per la mancanza del meccanismo indispensabile: la cittadinanza, le elezioni, la lotta dei partiti, il parlamento, il governo. In ciò sta la crisi della democrazia e della partecipazione dei cittadini alla vita politica: dove c’è la democrazia ci sono sempre meno decisioni importanti da prendere, mentre dove bisogna prenderle la democrazia non c’è ancora. Ma come i problemi passano dagli Stati al quadro europeo, così la democrazia non può non manifestare la tendenza a riesprimersi nel quadro europeo”.[9]
L’evidente degenerazione del sistema di governo democratico in Europa è aggravata dalla complicata architettura istituzionale dell’attuale Unione europea a 28 paesi. Il fatto è che la creazione dell’Unione, nata come esigenza di pace, ricostruzione e sviluppo economico, non ha ancora varcato la soglia dell’unità politica, possibile solo in un sistema di tipo federale capace di supplire in certi settori cruciali alle deficienze e inadeguatezze dello Stato nazionale. Oggi abbiamo due livelli di governo in Europa, che non sono né pienamente coordinati né veramente indipendenti, entrambi in crisi. Una crisi aggravata dal fatto che gli intrecci nei campi economici, sociali, politici e militari sono diventati talmente forti a livello mondiale da mettere in discussione la stessa tenuta e realizzabilità del progetto europeo. E, nella misura in cui i vari livelli di rappresentanza non riescono più a dare risposte adeguate ai problemi, aumentano le contraddizioni e le spinte a chiudersi entro confini sempre più stretti, anche se palesemente inadeguati, a ritornare al difendere le frontiere e alle contrapposizioni del passato, cioè ai prodromi delle guerre.
Come superare questo quadro, per quale obiettivo battersi?
Come abbiamo visto, il federalismo risponde all’esigenza di governare una democrazia complessa, articolata, su un’area coperta da più Stati e livelli di rappresentanza. Come ha messo in evidenza Mario Albertini, “...sotto il profilo politico, il federalismo, e cioè lo Stato federale, rappresenta l’ultima grande scoperta di uno strumento di governo democratico. La democrazia diretta fu il governo democratico degli uomini appartenenti all’ambito di una città, e non realizzò alcuna divisione dei poteri per garantire la libertà. La democrazia rappresentativa fu il governo democratico degli uomini appartenenti ad una nazione e realizzò la divisione formale tra il potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Il sistema federale corrisponde ad un ampliamento ancora maggiore dell’ambito del governo democratico: è il governo degli uomini appartenenti ad uno spazio supernazionale, e che può giungere fino al mondo intero. Esso realizza la divisione sostanziale dei poteri, dividendo la sovranità tra governo federale e governi degli Stati membri”.[10]
E, come ha precisato Francesco Rossolillo “le caratteristiche essenziali che distinguono il modello del federalismo post-industriale... da quello classico sono essenzialmente:
a) la pluralità dei livelli in cui si articola il governo federale, dal quartiere al livello mondiale, passando per tutta una serie di ambiti intermedi;
b) l’istituzione del bicameralismo federale a tutti i livelli, con la sola ovvia eccezione del più basso;
c) l’introduzione del sistema elettorale detto ‘a cascata’, la cui caratteristica essenziale è costituita dalla rigorosa regolamentazione – ancorata nella costituzione – della successione temporale delle elezioni dei corpi legislativi dei vari livelli, a cominciare dal più basso, per garantire la trasmissione più fedele possibile della volontà generale dagli ambiti comunitari nei quali naturalmente si forma a quelli che, per le loro crescenti dimensioni, sono via via più lontani dalla sua fonte originaria; e per assicurare una razionale coordinazione tra i livelli nei quali si articola la programmazione federale”.[11]
Il concetto di democrazia non può dunque esaurirsi in una definizione che, una volta data è immutabile. Ma deve adeguarsi al grado di sviluppo del corso della storia, adattando ed innovando il sistema istituzionale, allargando la sfera della sovranità, promuovendo nuovi livelli di autogoverno e responsabilità, tutelando la libertà in nuovi campi, ma nel quadro del rispetto dei valori della pace, del diritto e della giustizia.
Bisogna infatti considerare, per usare ancora le parole di Francesco Rossolillo, che “oggi la teoria ‘classica’ della democrazia non è più considerata ‘scientifica’ e tende ad essere sostituita da un approccio più ‘realistico’ che, sulla scia di Schumpeter, vede nella democrazia soltanto un insieme di regole che disciplinano la lotta per il potere. Ma la verità è che, se la democrazia è oggi certamente anche questo, essa è, in una prospettiva che non rimanga appiattita sul presente, molto più di questo... ciò significa che la storia della democrazia non è finita, che l’idea di democrazia non ha ancora estrinsecato la totalità delle proprie determinazioni...”.[12]
In questa ottica la realizzazione della federazione europea potrà determinare un deciso salto democratico non solo nel processo di unificazione europea, ma anche dal punto di vista dello sviluppo della democrazia nel mondo e per il mondo. Come sappiamo, la sua realizzazione, se avverrà, non coinvolgerà fin dall’inizio tutti i paesi dell’Unione europea: essa potrà partire solo nell’ambito dei paesi dell’eurozona, che hanno già ceduto la sovranità monetaria, o da quelli che vorranno farlo. Per questo, chi crede nella necessità di affermare la democrazia e di consolidarla, dovrà impegnarsi a percorrere questa strada, e non a ripercorrere quella nazionale.
Certamente l’evoluzione democratica dello scenario mondiale non dipende solo dall’Europa unita, ma è altrettanto certo che il vuoto di potere che si creerebbe in questa parte del mondo a causa della mancata unificazione politica di gran parte di essa, rischierebbe di approfondire le contraddizioni a livello mondiale con imprevedibili e potenzialmente catastrofiche conseguenze sul piano della sicurezza economica, ecologica e militare globale. Gli eventi incalzano: bisogna guadagnare il tempo, la volontà e la capacità politica necessari per affrontarli con istituzioni adeguate.
Anna Costa
[1] Jean Quatremer, Les conséquences délétères du ‘non’ néerlandais, Coulisses de Bruxelles, 10 aprile 2016, http://bruxelles.blogs.liberation.fr/recherche/?pattern=non+n%C3%A9erlandais.
[2] Federico Rampini, L’età del caos, Milano, Mondadori, 2015.
[3] Francis Fukuyama, Political order and political decay, New York, Farrar Straus Giroux, 2014.
[4] Jean Quatremer, ibidem.
[5] Federico Rampini, op. cit., pp. 44-45.
[6] Altiero Spinelli, Manifesto dei federalisti europei, Milano, Guanda, 1957, pp. 36 e ss..
[7] Manuel Castells, La nascita della società in rete, Milano, Università Bocconi, Paperback, 2008
[8] Francesco Rossolillo, Il ruolo delle istituzioni nella lotta per l’Europa, Il Federalista, 17, n. 3 (1975), p. 149.
[9] Mario Albertini, Nazionalismo e federalismo, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 242–243.
[10] Mario Albertini, ibidem, p. 57.
[11] Francesco Rossolillo, Per un nuovo modello di democrazia federale, Il Federalista, 27, n. 2 (1985), pp. 88 e ss..
[12] Francesco Rossolillo, ibidem.
Anno LVII, 2015, Numero 1-2, Pagina 71
LO STATO TRA GLOBALIZZAZIONE,
RICCHEZZA E DEBITO:
LA SFIDA DELL’EUROZONA
La richiesta di cambiare in qualche modo il funzionamento dell’economia globalizzata, o quantomeno il tentativo di controllarne alcuni aspetti, si è fatta strada, da tempo, in vari paesi, dagli Stati Uniti all’Europa, ma è diventata più pressante da quando la crisi ha fatto emergere le molte distorsioni del sistema vigente.
Molti economisti e politici hanno rivolto le loro critiche a una liberalizzazione troppo spinta, a una politica spesso asservita ai grandi poteri economici e finanziari, ai profondi divari di ricchezza che la mondializzazione dell’economia e della finanza ha creato.
Tra questi, quello che ha suscitato maggior dibattito, è stato Thomas Piketty che nella sua opera Il capitale nel XXI secolo, ha presentato un’ampia analisi di dati storici e ha sicuramente dato un notevole contributo nel mettere in evidenza alcuni aspetti delle distorsioni dell’economia globalizzata, favorendo la ricerca delle cause dei divari di ricchezza presenti nel mondo e indicando, tra le possibili soluzioni, il ricorso alla tassazione dei grandi capitali. Ma tanti altri oltre a lui, da premi Nobel per l’economia a opinion leader, a economisti hanno messo in rilievo l’incidenza positiva e negativa che il processo di globalizzazione ha avuto sulle economie dei principali paesi mondiali. Un’osservazione accomuna tutte queste analisi: la constatazione che molti Stati si trovano alle prese con l’impoverimento dei loro bilanci e, di conseguenza della capacità di pianificare la loro politica, in relazione non solo al problema dell’indebitamento, che generalmente è andato crescendo nel tempo, ma anche alla evasione ed elusione fiscale delle grandi imprese globali.
Come osserva Piketty, “Il mondo è ricco: sono gli Stati ad essere poveri. Il caso più estremo è quello dell’Europa, che è insieme il continente in cui i patrimoni privati sono i più alti del mondo e che incontra più difficoltà a risolvere la crisi del debito pubblico”[1]. Emblematico, a questo proposito, è il caso dell’Italia che ha il debito rispetto al PIL più alto dei paesi dell’Eurozona, dopo la Grecia, ma ha un risparmio nazionale pari al 10% del reddito nazionale ed un risparmio privato pari al 15% del reddito nazionale[2]. E ancora: “...nelle prime otto economie sviluppate del pianeta, si osserva una graduale diminuzione del rapporto tra capitale pubblico e reddito nazionale, contestuale alla crescita del rapporto tra capitale privato e reddito nazionale...”. Siamo, cioè, di fronte ad “un processo di privatizzazione del patrimonio nazionale”[3].
Secondo Piketty, l’Europa ha risparmiato di più, nel tempo, rispetto agli Stati Uniti, atteggiamento accentuato negli ultimi decenni per effetto dell’invecchiamento della popolazione europea, soprattutto in alcuni paesi. I patrimoni privati europei “oggi si stanno avvicinando alle sei annualità di reddito nazionale, contro più di quattro annualità degli Stati Uniti”[4]. Il problema è che, se il reddito sale nei periodi di crescita durante i quali si attiva una sorta di circolo virtuoso, viceversa nei periodi di crisi la gente è più restia a spendere, non mette in circolazione abbastanza denaro e il risparmio è spesso in gran parte improduttivo per la crescita dell’economia del paese, perché indirizzato a investimenti su titoli di stato o in immobili, piuttosto che a finanziare l’attività di impresa.
E’ tuttavia importante rilevare, scrive Piketty, la indeterminatezza della nozione stessa di reddito nazionale e di PIL.
Se il reddito nazionale “misura l’insieme dei redditi di cui dispongono i residenti di un dato paese nel corso di un anno” e “il PIL misura l’insieme di beni e servizi prodotti nel corso di un anno sul territorio di un determinato paese”, che non sempre è di proprietà nazionale, può capitare per esempio che “un paese nel quale il complesso delle imprese e del capitale è di proprietà straniera può benissimo avere, una volta dedotti i profitti e gli interessi all’estero, un prodotto interno lordo molto elevato ma un reddito nazionale nettamente più basso. Mentre un paese che possiede buona parte del capitale di altri paesi può disporre di un reddito nazionale molto più elevato rispetto al suo prodotto interno”[5]. Questa situazione è indicativa di ciò che può succedere ai paesi fortemente indebitati verso l’estero: “oggi la realtà è che la disuguaglianza del capitale è molto più un fattore interno che esterno: contrappone più i ricchi e i poveri all’interno di ciascun paese che tra un paese e l’altro”[6].
Il debito: un male necessario?
Gli Stati si sono sempre indebitati per promuovere ed attuare le loro politiche, ma il peso del debito si è fatto sentire più gravemente sui paesi più deboli in occasione della crisi finanziaria.
Il debito si è formato nel tempo in relazione a: 1) andamenti ciclici negativi dell’economia (soprattutto negli anni Settanta) e cattive scelte politiche; 2) costo dello Stato sociale, anche per l’invecchiamento della popolazione e conseguente aumento della spesa pubblica; 3) crisi finanziaria e aiuto alle banche; 4) speculazione internazionale e oscillazioni dello spread.
Riguardo a quest’ultimo punto, alcuni Stati, i PIGS, tra cui l’Italia, hanno rischiato di andare in default, ogniqualvolta è aumentata la sfiducia dei risparmiatori nei confronti dei titoli di Stato, sempre sottoposti alle valutazioni delle agenzie di rating, ed al severo giudizio dei mercati rispetto a situazioni debitorie gravi e a situazioni politiche incerte.
Storicamente, coma osserva Piketty, il debito è stato percepito in modo diverso. “I socialisti del 1800 diffidavano del debito pubblico che percepivano – non senza una certa preveggenza – come uno strumento al servizio dell’accumulazione del capitale privato”, in quanto “il rimborso del debito avveniva a prezzi molto elevati, avvantaggiando chi aveva prestato soldi allo Stato e accrescendo il livello dei patrimoni privati”. Successivamente “nel XX secolo si è sviluppata una visione totalmente diversa del debito pubblico fondata sulla convinzione che l’indebitamento potesse diventare uno strumento al servizio di una politica di spesa pubblica e di redistribuzione sociale a favore dei ceti più modesti. Inoltre nel XX secolo il valore del debito è stato intaccato dall’inflazione e rimborsato con denaro di scarso valore”. Oggi, prosegue Piketty, agli inizi del XXI secolo “una tale visione progressista del reddito pubblico continua a suscitare il favore di molti, ma l’inflazione… è sparita”[7]. Ma anche a questo si può rimediare, pur di alimentare il debito: basta considerare gli effetti dell’inflazione su periodi sempre più lunghi e collegarli a strumenti finanziari nuovi.
In un recente articolo su Le Monde Didier Morteau scrive che gli Stati hanno modificato “progressivamente la struttura dei loro debiti, emettendo una quantità di obbligazioni indicizzate sull’inflazione, proponendo agli investitori una cedola ‘reale’ molto bassa, ma indicizzando in contropartita il capitale da rimborsare sull’inflazione. Così nel più grande silenzio, la Gran Bretagna ha emesso nel 2014 un’obbligazione al 2068, la più lunga della storia, dando una cedola reale dello 0,125%, ma il cui valore di rimborso sarà uguale al capitale dovuto, maggiorato da 54 anni di inflazione!”[8].
Tuttavia, secondo diversi osservatori, non è solo il debito pubblico che dovrebbe preoccupare i mercati in quanto, “il vero problema europeo è il debito privato”, come scrive Benoît Bloissère[9]. L’indebitamento pubblico in Europa è inferiore al debito privato. Nella zona euro questo tasso è del 126% del PIL alla fine del 2014 contro “solamente” il 92% del debito pubblico.
Come nota The Economist, un altro fattore che sta contribuendo a distorcere lo sviluppo dell’economia mondiale è rappresentato dall’aiuto che i governi stessi hanno dato e continuano a dare all’aumento del debito privato, consentendo ai propri cittadini e alle imprese di stornare dal loro imponibile il costo del denaro preso a prestito e di favorire così l’investimento dei capitali verso beni reali e soprattutto verso il settore immobiliare piuttosto che verso investimenti più produttivi. L’accumulo nel tempo di questa pratica, pone ormai dei seri problemi di governo dell’economia nel suo complesso.
“Il costo – e il danno – sono immensi”, scrive il rapporto dell’Economist. “Nel 2007, prima della crisi finanziaria, il valore annuale delle tasse sul reddito in Europa era circa il 3% del Pil – 510 miliardi di dollari – e in America circa il 5% del PIL – 725 miliardi di dollari. Ciò significa che i governi delle due sponde dell’atlantico stavano ormai spendendo di più per rendere meno caro il costo del debito che, per esempio, per la difesa. Anche oggi, con interessi tendenti a zero, i costi del governo americano per gli aiuti al debito rappresentano più del 2% del PIL: più di quanto spende per tutte le politiche per l’aiuto ai poveri. Collegato a questo, c’è il fatto che in questo modo si è incentivato l’indebitamento privato per l’acquisto di immobili, aumentando il prezzo delle case e gonfiando gli investimenti in beni reali piuttosto che favorire gli investimenti in attività produttive e che possono creare sviluppo”. Con il passare del tempo, prosegue The Economist “questo stato di cose ha fatto sì che i benefici sulla tassazione venissero largamente goduti dai più ricchi, accentuando così le diseguaglianze”. E conclude: “Per questo le decisioni delle grandi società finanziarie restano orientate più verso la massimizzazione dell’assistenza alla tassazione sul debito piuttosto che sull’incentivazione degli investimenti produttivi”[10].
Gli Stati sono in difficoltà, ma non solo per la crisi.
L’analisi fatta nel 1991 da Robert Reich[11] era riuscita ad anticipare ciò che sarebbe capitato nel momento in cui l’innovazione tecnologica, con l’avvento della società telematica, la capacità produttiva dell’impresa rete e la contemporanea liberalizzazione nel settore finanziario a livello mondiale avrebbero fatto sempre più sinergia tra loro. Questo fenomeno è iniziato a partire dagli anni Ottanta con Reagan e Thatcher e si è poi amplificato con l’ingresso nel mercato della Cina. E’ così aumentato incredibilmente il volume degli scambi a livello mondiale ed ovviamente i grandi colossi finanziari hanno a loro volta sfruttato l’occasione per espandere affari e profitti.
Nel tempo, lo spostamento di capitali ed i flussi finanziari che si sono creati prima verso l’Asia e poi, di ritorno per investimenti, verso gli USA hanno contribuito a determinare quegli squilibri che hanno trovato nella crisi dei subprime il fattore scatenante di una crisi che dagli USA si è rapidamente propagata nel resto del mondo. Le conseguenze catastrofiche della crisi si sono abbattute sugli Stati evidenziando le loro debolezze economiche e la loro inadeguatezza in termini di politiche sbagliate e di dimensioni statuali, incidendo pesantemente anche sugli indirizzi economici e politici di grandi paesi, nei quali si è sviluppato un atteggiamento più protezionistico sul piano commerciale ed industriale e difensivo contro le fughe di capitali e l’evasione fiscale. Un atteggiamento in generale di ripensamento dei meccanismi di liberalizzazione del mercato globale.
Seppure non si possano negare i grandi vantaggi che la prima fase della liberalizzazione ha dato allo sviluppo dell’economia, anche se in modo squilibrato, già il premio Nobel per l’economia Stiglitz aveva notato che: “L’economia moderna, con la sua fiducia nel libero mercato e nella globalizzazione, aveva promesso prosperità a tutti. La tanto decantata new economy – le strabilianti innovazioni che avevano caratterizzato la seconda metà del Novecento, comprese la deregulation e l’ingegneria finanziaria – doveva consentire una più efficace gestione del rischio, permettendo di porre fine al ciclo economico. Pure non avendo eliminato le fluttuazioni economiche, la combinazioni fra new economy ed economia moderna le tenevano se non altro sotto controllo. O almeno è quanto ci avevano raccontato”[12].
Da tempo gli Stati europei sono diventati spazi sempre più permeabili ai grandi mutamenti della globalizzazione e alle sfide politiche ed economiche che hanno una dimensione mondiale. Sono, quindi, sempre meno in grado di farvi fronte singolarmente o nel contesto europeo che è solo parzialmente integrato.
Nel sistema economico nazionale, i cui cardini sono lo Stato, le imprese e le famiglie, la sostenibilità del sistema si basa sul funzionamento integrato dei suoi componenti, che sono tesi al soddisfacimento dei propri interessi, ma orientati alla sopravvivenza del sistema stesso. Ma, con l’affermarsi della globalizzazione, un elemento del sistema è diventato sempre più estraneo a questo tipo di sistema: si tratta della grande impresa e di parte del sistema finanziario che operano, sempre più, seguendo logiche ed interessi del mercato globale, nel tentativo di reggere il confronto con la competizione in ambito mondiale, anche a scapito del mantenimento dell’occupazione e della stessa produzione materiale nel territorio nazionale d’origine.
Ora, come è noto, lo Stato si finanzia principalmente attraverso tasse, imposte e i titoli di Stato. Ma, mentre le prime sono a basso o a costo zero, sui secondi si devono pagare periodicamente degli interessi. Le imposte sul reddito sono diventate entrate sempre meno consistenti, soprattutto in questi ultimi anni e per diversi motivi. In proposito si può ricordare che: a) per effetto della crisi i redditi si sono molto ridotti e quindi anche le relative imposte pagate; b) a causa di un’alta evasione fiscale, presente in diversi paesi, e mai efficacemente combattuta, continuano ad essere sottratte risorse agli Stati; c) per l’impoverimento del tessuto produttivo industriale e commerciale e del relativo reddito di settore si è eroso l’ammontare delle imposte, accentuato dalla delocalizzazione delle grandi imprese e dalla difficoltà da parte delle amministrazioni fiscali nazionali di definire il reddito tassabile di imprese con capacità d’azione globale.
Per contro è cresciuto fortemente il debito per l’emissione di titoli da parte degli Stati per finanziare i propri sistemi di welfare e le proprie spese. Non deve quindi stupire che da più parti si levino appelli per ristabilire una maggior giustizia nella gestione della fiscalità da parte degli Stati. Si tratta di un’esigenza che riguarda tutti gli Stati, fortemente danneggiati da una globalizzazione finanziaria senza regole e da comportamenti fiscali elusivi dei grandi rentiers e delle imprese mondiali.
I dati sono noti. Secondo l’OCSE, circa il 60% del commercio mondiale passa attraverso le grandi reti di imprese ma “la libertà dei movimenti dei capitali, la presenza di intermediari e di paradisi fiscali permette alle multinazionali una relativa opacità nella determinazione dei ‘prezzi di trasferimento’, attraverso i quali esse rivendono a se stesse i prodotti nelle diverse tappe della loro lavorazione fino alla loro commercializzazione… I paesi sviluppati ci perdono non solamente in termini di posti di lavoro, ma anche – come i paesi poveri – di una parte della loro base fiscale”[13].
Ecco perché già all’indomani della crisi, sull’onda dell’indignazione sull’operato del sistema finanziario, negli Stati Uniti erano maturate azioni governative di controllo volte a una più efficace trasparenza delle transazioni e dei conti bancari.
Per esempio, dal 2014 è stato stipulato un accordo tra gli Stati Uniti e alcuni paesi europei denominato FACTA (Foreign Account Tax Compliance Act), per lo scambio di informazioni con gli USA che entrerà in vigore tra qualche anno. Anche in Europa alla fine del 2013, il Parlamento europeo “ha approvato... una risoluzione che obbliga gli Stati membri a raccogliere e condividere automaticamente i dati sui redditi da lavoro dipendente, i compensi agli amministratori, le assicurazioni sulla vita, pensioni, plusvalenze e dati bancari”[14]. I casi emblematici di questo stato delle cose sono ormai di pubblico dominio. Per esempio Apple dovrebbe versare allo Stato italiano circa 879 milioni di euro perché per cinque anni avrebbe pagato un’aliquota dello 0,05%, invece del 27% sui profitti. Il tutto grazie a un’organizzazione finanziaria delle sue attività globali che, sfruttando le debolezze del sistema giuridico interstatale, ha potuto far capo all’Irlanda, paese a fiscalità avvantaggiata. In questo modo si sono attribuite ad Apple Sales International con base in Irlanda i profitti generali dell’attività commerciale svolta in Italia[15].
Mentre si sta ancora pesantemente criticando l’ondata di liberalizzazione che ha dato origine alla crisi, la competizione tra imprese e Stati è sempre più forte a livello mondiale e si cercano quindi nuove strategie commerciali mondiali. Con altri obiettivi e in quadri diversi rispetto a quanto accaduto nel secolo scorso.
Come ha scritto Alain Frachon, su Le Monde “la globalizzazione economica potrebbe conoscere se non una regressione, un singolare rallentamento... . A Washington, ...i senatori democratici hanno maltrattato i progetti libero-scambisti del Presidente americano. Dal 2013, Obama ha lanciato due grandi programmi di liberalizzazione commerciale. Il Partenariato transatlantico di commercio e investimenti (TTIP) è destinato a creare una zona di libero scambio totale tra gli Stati Uniti e l’Unione europea. Il Partenariato transpacifico (TPP) deve permettergli di instaurare la stessa cosa tra l’America e una dozzina di Paesi del Pacifico – a cominciare dal Giappone, ma con l’esclusione della Cina… Obiettivo: mettere l’America al centro di una zona commerciale integrata coprente circa i due terzi dell’economia mondiale... . Al di là delle critiche specifiche, il progetto di Obama si scontra – negli Stati Uniti come in Europa o in Giappone – con un riflesso di difesa di fronte a una nuova tappa della mondializzazione”[16].
L’area euro tra privilegi e rischi.
Frequentemente si mette l’accento sulla pesante situazione dell’economia europea e sulla perdita di competitività dell’Europa nel mondo. E’ anche però necessario rendersi conto, che su una popolazione mondiale che nel 2012 contava più di 7 miliardi di abitanti e che nel 2050 si attesterà sui 12 miliardi di persone, la popolazione dell’Unione è l’8%, 540 milioni di abitanti, e l’Unione europea detiene il 21% del PIL mondiale. L’Europa, nel complesso, è tuttora avvantaggiata rispetto ad altre aree del mondo.
Interessante e di immediata percezione è il dato del reddito medio mensile che nell’UE è di 2040 euro, contro i 1150 di Russia e Ucraina, i 780 dell’America Latina, i 580 della Cina, che ha però il 19% della popolazione mondiale, i 240 euro dell’India, che ha il 18% della popolazione mondiale, e i 200 euro dell’Africa. Certo hanno maggiori quote di reddito mensile gli Stati Uniti e il Canada con 3050 euro ed il Giappone con 2250 euro[17].
Ma all’interno dell’Europa permangono grandi distorsioni nel funzionamento dell’economia, come per esempio nel diverso trattamento fiscale delle grandi imprese. Alcuni Stati, anche in Europa, hanno mantenuto lo status di paradisi fiscali, attraendo capitali e risorse a discapito di altri Stati, che hanno dovuto caricare un maggior peso fiscale sulle fasce più deboli e sulle imprese medie.
Sino ad oggi, attraverso il tax ruling, cioè attraverso accordi fiscali segreti tra multinazionali e autorità fiscali, le grandi aziende possono decidere in quale paese è più conveniente pagare le tasse in Europa. Una situazione fortemente distorsiva delle regole del mercato unico. Per questo la Commissione europea ha deciso di rendere illegali questi accordi sotto banco, anche se sono “gli stessi che hanno permesso al paese del Presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker, ex-premier del Lussemburgo, di attirare sul proprio circoscritto territorio miliardi di euro grazie a tassazioni irrisorie, addirittura sotto l’1%... . Che ci sia molto da lavorare è chiaro sia al Parlamento che alla Commissione, che hanno definito lo stop al segreto del tax ruling il primo passo verso la trasparenza finanziaria. Il Commissario europeo agli affari economici Pierre Moscovici ha annunciato che a giugno verrà presentato un pacchetto di proposte che mirerà ad una maggiore equità nella tassazione europea alle imprese”[18].
Massimo Bordignon ha osservato in proposito che “...mentre i capitali e le imprese sono divenuti completamente mobili, la tassazione sugli stessi è rimasta saldamente nelle mani nazionali, con l’effetto di generare problemi crescenti di concorrenza fiscale tra i diversi paesi. Le imposte sui capitali sono scese ovunque in Europa, scaricando l’onere fiscale sui cespiti non mobili, cioè in sostanza sui redditi da lavoro. Un effetto perverso e alla radice di fenomeni di crescita della disuguaglianza che osserviamo in Europa. Forse è giunto il momento di dire che ci sono paesi che, avendo una moneta comune ed esigenze di armonizzazione diverse, devono necessariamente intraprendere politiche comuni, a cominciare dalla fiscalità. E se qualcuno, per esempio il regno Unito, non ci sta, la faranno quelli che ci stanno”[19]. E così prosegue: “Serve poi, ...una forma d’integrazione positiva, oltre a quella negativa del mercato unico: finora non ci siamo riusciti anche per la resistenza di una serie di paesi, che probabilmente hanno già deciso che dell’euro non vogliono saperne. A questo punto bisogna operare una cesura netta, e trovare meccanismi istituzionali e decisionali che permettano di funzionare in un’unione più ristretta. Ci vogliono più istituzioni federali, sovranazionali per i paesi dell’euro, perché l’UEM, così com’è, non funziona... . Le modifiche istituzionali rilevanti che abbiamo fatto negli ultimi due anni a seguito della crisi, maggiori che nei precedenti dieci, mostrano come ci sia una consapevolezza crescente degli attuali limiti della governance europea. Tuttavia bisogna essere onesti fino in fondo. Questo processo si può concludere solo con un’attribuzione molto più forte di sovranità alle istituzioni europee, che richiedono di essere ulteriormente legittimate sul piano democratico”[20].
Il caso Italia.
Riferendosi all’Italia Piketty rileva che “negli anni Settanta il patrimonio pubblico netto era leggermente positivo, per poi diventare ampiamente negativo a partire dagli anni Ottanta e novanta, in seguito all’accumularsi di enormi deficit pubblici... .Tra il 1970 e il 2010, la ricchezza pubblica è diminuita di circa un’annualità del reddito nazionale, mentre nel medesimo periodo i patrimoni privati sono passati da appena due annualità e mezza del reddito nazionale nel ‘70 a quasi 7 annualità nel 2010, con una crescita di 4 annualità e mezza. In altri termini, la diminuzione del patrimonio pubblico equivale a un quinto o a un quarto della crescita dei patrimoni privati, fatto tutt’altro che trascurabile”[21].
Questo anche perché “anziché pagare le tasse per equilibrare i bilanci pubblici, gli italiani – o quantomeno la media degli italiani – hanno prestato denaro al governo acquistando buoni del Tesoro o attivi pubblici, accrescendo così il loro patrimonio privato senza accrescere il patrimonio nazionale... . Di fatto, in Italia, tra il 1970 e il 2010 malgrado un notevolissimo risparmio privato (15% reddito nazionale) il risparmio nazionale è stato inferiore al 10%. In altri termini, più di un terzo del risparmio privato è stato assorbito dal deficit pubblico”[22].
Le conseguenze sono ovvie. In base ai dati OCSE “La crisi ha allargato la forbice tra ricchi e poveri.Anche in Italia dove l’1% della popolazione detiene il 14,3% della ricchezza nazionale netta (definita come la somma degli asset finanziari e non finanziari, meno le passività), praticamente il triplo rispetto al 40% più povero, che detiene solo il 4,9%”[23].
Anche se bisogna notare che nonostante le criticità rilevate dall’OCSE, “l’Italia resta il paese dell’area euro con la minor percentuale di famiglie indebitate, il 25,2%, davanti a Slovacchia (26,8%), Austria (35,6%) e Grecia (36,6%), e ben lontana dai livelli delle altre due grandi economie dell’eurozona, Francia (46,8%) e Germania (47,4%), della Gran Bretagna (50,3%) e degli Usa (75,2%). Inoltre solo il 2,3% delle famiglie ha un rapporto debito-asset superiore al 75%, e solo il 2,8% ha un rapporto debito-introiti superiore al 3%“[24].
Che fare?
Le distorsioni dell’economia mondiale dipendono, oltre che dalla difesa degli interessi consolidati, anche dalla difficoltà di comprendere e agire in un contesto sempre più complesso e interdipendente. Notevoli sono le carenze dimostrate dalla scienza economica per affrontare il problema. Come ha osservato François Bourguignon “E’ stata soprattutto la convergenza degli interessi di tutti gli attori del settore finanziario la ragione per la quale la volontà di riforma è stata così debole. In questo settore più che in altri è l’economia politica che conta... . Se si sono capiti meglio i meccanismi che rendono i mercati finanziari economicamente inefficaci, le misure che consentono di correggere queste distorsioni e, più generalmente l’articolazione tra mercati finanziari e economia reale, restano poco conosciuti”[25]. Tra i rimedi, Piketty propone la tassazione dei capitali più elevati, con un imposta progressiva, anche se lui stesso riconosce i limiti di questa proposta in assenza di una qualche forma di regolamentazione mondiale. A livello europeo questa avrebbe certamente un senso, se ci fosse un sistema di governo capace di utilizzare queste risorse per promuovere sviluppo e occupazione.
La battaglia per una tassazione progressiva e più equa è certamente una battaglia che va fatta, pena il venir meno non solo delle conquiste raggiunte nel secolo scorso con l’affermazione del welfare state, ma anche della coesione e della solidarietà sociali[26]. Ma è una battaglia che si può fare solo a partire da un ordinamento giuridico e statuale definito, che richiede tempo e costruzione del consenso politico necessario per condurla a buon fine. Ci sono voluti decenni per affermare nel mondo occidentale il principio della tassazione progressiva, ma da quasi quaranta, a partire dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti questo trend è diventato fortemente negativo con governi sia conservatori sia progressisti.
Se vogliono contribuire a sciogliere questi nodi gli europei devono fondare un nuovo ordinamento statuale. Devono cioè innanzitutto combattere e vincere una battaglia politica.
Quel che è necessario fare è noto. L’economista francese e premio Nobel per l’economia nel 2014, Jean Tirole ha recentemente scritto: “noi Europei dobbiamo accettare la perdita di sovranità che va di pari passo con il vivere sotto lo stesso tetto. E per fare questo, dobbiamo redimerci e schierarci uniti per l’ideale europeo, il che di questi tempi richiede coraggio”[27].
In effetti, come ha ricordato Barry Eichengreen, “Se c’è una sola lezione da trarre dagli smacchi recenti dell’Europa è che l’unione monetaria senza unione fiscale e politica non funzionerà: se l’Europa continua a beneficiare di un tasso di crescita favorevole senza prendere le decisioni difficili necessarie per rimediarle, queste riforme diventeranno sempre più difficili da realizzare”[28].
Questa è la sfida di fronte alla quale si trova l’eurozona.
Anna Costa
[1] Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Milano, Bompiani, 2014, p. 862.
[2] Thomas Piketty, op. cit. p. 283.
[3] Thomas Piketty, op. cit. p. 280.
[4] Thomas Piketty, op. cit. p.252.
[5] Thomas Piketty, op. cit. p. 74-75.
[6] Thomas Piketty, op. cit. p. 76.
[7] Thomas Piketty, op. cit. p. 201-203.
[8] Didier Morteau, Un pari dangereux sur l’inflation, Le Monde économie, 14 maggio 2015.
[9] Benoît Bloissère, Sauvons l’Europe, 29 maggio 2015.
[10] The great distortion, The Economist, 16 maggio 2015.
[11] Robert Reich, L’economia delle nazioni, Milano, Il Sole 24 Ore, Società Editoriale Media Economici, 1993.
[12] Joseph Stiglitz, Bancarotta, Torino, Einaudi, 2010.
[13] Franck Dedieu, Benjamin Masse-Stemberger, Adrien De Tricornot, Inévitable protectionnisme, Parigi, Gallimard, 2012, p. 33 e ss.
[14] Qui Finanze, 13 gennaio 2014.
[15] Huffington Post del 24 marzo 2015.
[16] Alain Franchon, Mondialisation, l’heure du doute, Le Monde, 22 maggio 2015.
[17] Thomas Piketty, op. cit. dati da tab. 1.1 p. 104. Secondo recenti dati del FMI, negli ultimi cinque anni la Cina ha aumentato la sua ricchezza di 7 mila miliardi di dollari, gli USA di 3 mila miliardi di dollari e l’Europa intera di 2,2 mila miliardi di dollari. E, se si misura la ricchezza mondiale in base alla parità di potere d’acquisto, nel 2014 la Cina è il primo paese al mondo, e supera, anche se di poco e per la prima volta, gli Stati Uniti. Tuttavia, se si sommasse il PIL di tutti gli Stati europei, l’Europa è ancora la prima potenza economica mondiale.
[18] Gianluca De Falco, Evasione fiscale delle multinazionali, sarà davvero debellata?, Il fatto24ore.it, 21 marzo 2015.
[19] Massimo Bordignon, Europa la casa comune in fiamme, Bologna, Il Mulino, pp. 50-51.
[20] Massimo Bordignon, op. cit. p. 52-53.
[21] Thomas Piketty, op. cit. p. 281.
[22] Thomas Piketty, op. cit. p. 282.
[23] Italia, al 20% della popolazione il 61,6% della ricchezza nazionale, La Repubblica, 22 maggio 2015.
[24] Ibid.
[25] François Bourguignon, Remarques sur la mondialisation, la crise et la science économique, Commentaire, n. 146, estate 2014, p. 351.
[26] Anthony B. Atkinson, Inequality: What Can Be Done?, Harvard University Press, 2015.
[27] Jean Tirole, Più coraggio negli ideali UE, Il Sole24Ore, 19 marzo 2015.
[28] Barry Eichengreen, Le Poison de la croissance en Europe, Le Monde, 7 maggio 2015.
Anno LVII, 2015, Numero 1-2, Pagina 83
IL PARADOSSO DELLA POTENZA TEDESCA
La crisi economico-finanziaria mondiale avviatasi nel 2007-2008 negli Stati Uniti si è sviluppata in Europa in modo acuto a partire dal 2010 e si è espressa in particolare nella precarietà dell’unione monetaria (con il rischio concreto della sua disgregazione e, quindi, del collasso del processo di unificazione europea) e nell’accentuato squilibrio economico, sociale e territoriale fra i paesi forti e i paesi deboli dell’Unione economica e monetaria. In sostanza fra il nucleo centrale guidato dalla Germania, di cui fanno parte Benelux, Austria e Finlandia (con la Francia in una situazione intermedia) e i paesi periferici, i più importanti dei quali sono Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia. Questo squilibrio, che si manifesta in una pluralità di divari (relativi a tasso di sviluppo, disoccupazione, squilibri interni agli Stati, fasce di povertà, produttività, competitività, squilibri commerciali e nella bilancia dei pagamenti, indebitamento e connesso spread) è la ragione preminente della precarietà dell’euro. Esso è d’altra parte il fattore fondamentale alla base del rafforzarsi delle tendenze nazionalistiche contrarie all’unificazione europea a cui si accompagnano contrapposizioni di tipo nazionalistico fra i paesi europei. Alle accuse di egoismo nei confronti dei paesi economicamente forti, che trarrebbero vantaggi dall’integrazione a danno dei paesi deboli, si contrappongono accuse di parassitismo e mancanza di disciplina economico-finanziaria nei confronti dei paesi in difficoltà. In questo contesto si segnalano diffuse preoccupazioni circa il ruolo egemonico della Germania nell’UE che evocano i fantasmi di un passato in cui la “questione tedesca” è stata il fondamentale fattore conflittuale sfociato nelle guerre mondiali. In riferimento a queste preoccupazioni e al dibattito che si è sviluppato attorno ad esse va segnalato il libro di Hans Kundnani (research director presso l’European Council on Foreign Relations e associate fellow presso l’Istituto di Studi Germanici dell’Università di Birmingham), The Paradox of German Power (London, Hurst Company, 2014). Attraverso una ricostruzione storica sintetica ma di alto livello del rapporto fra Germania ed Europa dall’epoca della unificazione nazionale fino all’attuale crisi dell’unificazione europea l’autore si chiede in sostanza se e in quali termini abbia senso oggi parlare di “questione tedesca”. Ritengo che, presentando nei suoi aspetti essenziali il discorso svolto da Kundnani, e cercando di chiarirne pregi e limiti, si possa contribuire al raggiungimento di una visione adeguata della questione tedesca.
In riferimento al periodo fra l’unificazione nazionale e il 1945, Kundnani sostiene la tesi del ruolo determinante della Germania nella genesi e nello svolgimento delle due guerre mondiali, che sono state nella loro essenza due tentativi di imporre l’egemonia tedesca sull’Europa. Fra di essi c’è dunque continuità, anche se è evidente la profonda differenza fra il regime guglielmino e quello nazionalsocialista, caratterizzato dagli spaventosi crimini interni e di guerra propri di un perfetto sistema totalitario. Alla base della politica egemonica tedesca c’è l’intreccio di due fattori: uno strutturale e l’altro ideologico.
Il fattore strutturale è costituito fondamentalmente dalla posizione di “semiegemonia” in Europa in cui la Germania si è venuta a trovare in seguito all’unificazione nazionale del 1871: di fatto, la Germania raggiunse una dimensione di eccessiva potenza, e quindi incompatibile con uno stabile equilibrio di potenza in Europa, ma d’altra parte non sufficiente per realizzare una stabile e pacifica egemonia. Questa situazione strutturale era destinata a spingere le altre potenze europee a formare coalizioni per bilanciare il peso tedesco. Ciò a sua volta non poteva non far nascere in Germania il timore nei confronti di tali coalizioni (l’incubo delle coalizioni e, quindi, dell’accerchiamento) che spingeva a misure per proteggersi da esse. Ma queste misure inevitabilmente minacciavano le altre potenze e quindi acceleravano la formazione della coalizioni. Questa dialettica strutturale – esempio classico del dilemma della sicurezza – ebbe un’impennata decisiva allorché la Germania negli anni Novanta del XIX secolo avviò la Weltpolitik, cioè la partecipazione senza più le remore che aveva avuto Bismarck alla gara imperialistica. L’obiettivo era quello di costituire un grande impero coloniale e di raggiungere in tal modo dimensioni corrispondenti a quelle delle grandi potenze mondiali (Gran Bretagna, Russia e Stati Uniti) e di ottenere quindi lo spazio vitale di sviluppo indispensabile per evitare la decadenza a cui erano destinati gli Stati nazionali europei. Lo strumento fondamentale della Weltpolitik fu la costruzione di una potente flotta d’alto mare che doveva essere in grado di superare l’egemonia navale mondiale britannica. Essendo il primato navale la fondamentale garanzia della sicurezza britannica, la decisione tedesca costrinse Londra, oltre che a rafforzare la sua marina, a schierarsi con la duplice alleanza franco-russa, che divenne la triplice intesa contrapposta alla triplice alleanza, i cui pilastri stabili erano la Germania e l’Impero austro-ungarico, data la relativa debolezza dell’Italia e la sua incerta posizione. L’equilibrio europeo assunse pertanto una configurazione bipolare, il che rese inevitabile il passaggio da un grave conflitto fra due potenze appartenenti ai blocchi contrapposti (nel caso l’Austria-Ungheria e la Russia) a un conflitto generale. Kundnani ritiene dunque che nella genesi della prima guerra mondiale il fattore decisivo non sia rappresentato da errori di calcolo o colpe dei protagonisti (in particolare della Germania), bensì da una causa sistemica, cioè dalla posizione tedesca di semiegemonia con il connesso oggettivo sviluppo verso il bipolarismo. Proprio per superare la estremamente difficile e instabile posizione semiegemonia, la Germania ha perseguito, una volta scoppiata la guerra, l’obiettivo dell’egemonia sull’Europa, cioè il superamento dell’equilibrio delle potenze in Europa che implicava il costante pericolo dell’accerchiamento e bloccava la prospettiva di diventare una potenza mondiale.
In seguito alla sconfitta del 1918 la potenza tedesca subì importanti limitazioni a causa della perdita delle colonie, di vasti territori in Europa, di importanti sbocchi economici e a causa di pesanti limitazioni negli armamenti e del peso delle riparazioni di guerra imposti dal Trattato di Versailles. Ma la configurazione di base dell’Europa rimase invariata. In una situazione in cui la pace continuava a dipendere dalla balance of power – anche a causa dell’inconsistenza del tentativo di sostituire la politica di potenza con il sistema di sicurezza collettivo fondato sulla Società delle Nazioni, priva di un proprio potere coercitivo – la Germania si trovò di fatto ad essere in termini relativi più potente di prima, dal momento che gli altri imperi erano collassati, la Francia era esaurita per l’enorme sforzo bellico e pure la Gran Bretagna era fortemente indebolita. In questo quadro di equilibrio instabile e di generale decadenza economica dell’Europa, la Germania di Weimar perseguì l’obiettivo di recuperare la sovranità limitata da Versailles, di ottenere la parità formale con le altre potenze, di recuperare i territori perduti a vantaggio della Polonia. Questo obiettivo, condiviso dalla grandissima maggioranza delle forze politiche tedesche, fu perseguito cercando di sfruttare le divergenze fra le potenze occidentali e la tensione fra queste e l’Unione Sovietica ma con modalità diplomatiche e pacifiche, anche se era un dato di fatto che il revisionismo avrebbe portato ad uno squilibrio nel sistema europeo ancora più acuto di quello prebellico. La situazione cambiò in conseguenza della crisi del 1929, che ebbe conseguenze disastrose in Europa e in particolare in Germania, in cui si restrinsero fortemente le prospettive di sviluppo economico, già indebolite in seguito alla sconfitta del 1918. In questo quadro giunse al potere il partito nazista e poté costruire uno Stato totalitario avente come obiettivo della propria politica estera non solo il revisionismo rispetto alla sistemazione di Versailles, ma il perseguimento consequenziario e con i mezzi più brutali dell’egemonia sull’Europa, in modo da superare definitivamente la condizione di semiegemonia. La guerra scatenata da Hitler con questo disegno si concluse invece con la sconfitta definitiva della Germania e nello stesso tempo con il superamento della centralità del sistema europeo degli Stati ed il suo assorbimento nel sistema mondiale dominato da USA e URSS.
Sottolineata l’importanza della semiegemonia come fattore strutturale centrale della politica tedesca che sfociò sulle due guerre mondiali, Kundnani richiama anche l’attenzione sul fattore ideologico, costituito dal nazionalismo, il quale ha rafforzato la spinta oggettiva proveniente dal fattore strutturale. Il nazionalismo tedesco era caratterizzato, come tutti i nazionalismi delle grandi potenze, dalla tendenza a perseguire in modo prioritario l’interesse nazionale e, quindi, nel quadro anarchico dei rapporti internazionali, a sfruttare ogni occasione per incrementare la propria potenza ed estendere il proprio spazio economico. A questa tendenza di associavano peraltro tre caratteristiche che la distinguevano dalle potenze occidentali europee, in particolare dalla Gran Bretagna e dalla Francia.
La prima e più significativa era il rifiuto della liberaldemocrazia che aveva le sue radici nell’illuminismo e che si era affermata nell’Europa occidentale e nell’America settentrionale. Dopo il fallimento della rivoluzione del 1848, si affermò nella Prussia, e poi nell’intera Germania unificata sulla base dell’egemonia prussiana, un sistema politico con aspetti formali democratici, come il suffragio universale, ma con il potere effettivo concentrato nelle mani della monarchia e dell’esercito (dominato dalla classe dei grandi proprietari terrieri, gli Junker), in sostanza un sistema autoritario illiberale. La connotazione autoritaria dello Stato nazionale tedesco si esasperò, dopo la parentesi weimariana in cui si cercò di realizzare un sistema liberaldemocratico, con l’avvento al potere del nazionalsocialismo, che costruì un organico ed efficiente sistema totalitario e, su tale base, poté perseguire senza più alcun ostacolo interno il secondo tentativo egemonico.
Accanto alla tendenza illiberale-autoritaria (che viene generalmente definita “Sonderweg”, cioè percorso particolare rispetto all’occidente), la seconda caratteristica del nazionalismo tedesco è individuata nella idea della missione tedesca. Nella classe dirigente dello Stato nazionale tedesco si affermò la convinzione che il sistema politico-sociale tedesco fosse non solo diverso da quello proprio dell’occidente, ma nettamente superiore ad esso. Pertanto, che il rafforzamento della potenza tedesca e quindi il perseguimento dell’egemonia in Europa fossero anche la via per diffondere gli aspetti fondamentali di questo sistema al di fuori della Germania. Un orientamento che si esasperò con il nazionalsocialismo.
Viene infine sottolineata (in modo peraltro meno approfondito) una terza peculiarità del nazionalismo tedesco, cioè il socialimperialismo e bonapartismo, con cui si intende la spinta all’imperialismo in quanto strumento per risolvere-controllare le tensioni interne connesse con il sistema politico-sociale autoritario e infine totalitario.
La visione proposta da Kundnani, e qui sinteticamente riassunta, delle ragioni profonde che stanno alla base della politica tedesca va nella giusta direzione nello sforzo di comprendere la questione tedesca superando i limiti della semplice cronaca degli avvenimenti e le semplificazioni fuorvianti sulle colpe della nazione tedesca. In effetti l’autore si rifà esplicitamente all’interpretazione sviluppata da Ludwig Dehio (specialmente al concetto di semiegemonia) che della questione tedesca è in assoluto la più chiarificatrice e rimane insuperata[1]. Non si può però non rilevare che Kundnani tralascia due fondamentali chiarimenti proposti dall’ultimo grande esponente della scuola rankiana[2].
In primo luogo non prende in considerazione il discorso relativo al legame esistente fra la posizione della Prussia e quindi della Germania nel sistema degli Stati e il carattere autoritario del suo sistema politico. Dehio si riallaccia alla teoria imperniata sulla distinzione fra Stati insulari e Stati continentali sviluppata da Alexander Hamilton nel saggio ottavo del Federalist[3], dalla scuola rankiana[4] e da John Robert Seeley5]. Gli Stati insulari (esempi fondamentali: la Gran Bretagna e gli Stati Uniti), godendo di una posizione strategica privilegiata per l’assenza di minacce provenienti da potenti vicini, sono stati storicamente caratterizzati da una politica estera relativamente più pacifica e da una evoluzione interna in direzione di strutture politico-costituzionali e sociali liberali, elastiche e decentrate, mentre gli Stati continentali (quali la Prussia-Germania, l’Austria e in minor misura la Francia) sono stati caratterizzati al contrario da una politica estera relativamente più aggressiva e bellicosa e, correlativamente, dalla tendenza all’accentramento autoritario al loro interno. Questa differenza è legata in ultima analisi all’influenza determinante della politica estera su quella interna. Negli Stati continentali l’esigenza di sicurezza caratterizzata dalla necessità di difendere confini terrestri contro il pericolo di un attacco per via di terra ha imposto un orientamento tendenzialmente più offensivo (che cerca non di rado di prevenire l’avversario con l’attacco di sorpresa) e determinato la formazione di enormi apparati militari impiegabili con la massima rapidità possibile e, quindi, reso inevitabile l’affermarsi per la propria sopravvivenza di strutture politiche accentrate ed autoritarie in grado di realizzare una mobilitazione rapida e completa a fini difensivi e offensivi di tutte le energie disponibili. Tutte queste servitù hanno invece pesato nettamente meno sui paesi insulari, data la loro favorevole posizione strategica e la connessa possibilità di una difesa assicurata essenzialmente dalla flotta da guerra, evitando la costosa, in termini economici ma soprattutto politico-sociali, creazione degli enormi eserciti di terra degli Stati continentali e dei connessi apparati burocratici accentrati, implicanti fatalmente il rafforzamento del momento dell’autorità rispetto a quello della libertà nella vita dello Stato. In questo contesto la Prussia-Germania appare come lo Stato continentale per eccellenza, circondata da potenti vicini e ossessionata dalla oggettiva prospettiva della guerra su più fronti. Ed è perciò comprensibile che le tendenze liberaldemocratiche abbiano avuto comparativamente minori possibilità di affermarsi in confronto con le altre grandi potenze europee.
Il che non giustifica minimamente le tendenze autoritarie-totalitarie e i loro crimini interni ed internazionali ma chiarisce la situazione oggettiva che ha decisamente favorito il loro prevalere contro le tendenze liberaldemocratiche che pur sono state presenti nell’esperienza prussiano-tedesca. Se non si tiene conto del potente condizionamento derivante dalla posizione nel sistema degli Stati (il cosiddetto “primato della politica estera”), non si capisce adeguatamente la questione tedesca e si finisce per cadere nella inconsistente teoria dei caratteri nazionali che tendenzialmente sbocca nell’idea assurda dell’anima demoniaca della nazione tedesca[6].
L’altra fondamentale chiarificazione proposta da Dehio e che Kundnani non utilizza in modo adeguato è il discorso sulla crisi storica degli Stati nazionali europei come filo conduttore dell’epoca delle guerre mondiali. Esso non è alternativo alla tesi della semiegemonia ma rafforza nettamente la sua capacità esplicativa. Quando Kundnani parla dell’imperialismo guglielmino precisa che esso venne giustificato con l’esigenza di ampliare lo spazio statale e quindi economico tedesco in una situazione in cui lo sviluppo industriale apriva il futuro al dominio su scala mondiale degli Stati di dimensioni continentali. Però questa argomentazione viene presentata essenzialmente come una giustificazione ideologica dell’imperialismo, mentre in realtà, come chiarisce Dehio, questa giustificazione era una risposta al problema reale costituito dalla crisi storica degli Stati nazionali europei, le cui dimensioni erano davvero strutturalmente superate nel contesto dell’avanzata rivoluzione industriale che richiedeva effettivamente dimensioni statali continentali. Di fronte a questa sfida si poneva una alternativa drastica: o l’unificazione europea pacifica e federale (che a partire dalla fine del XIX secolo comincia faticosamente ad emergere nel dibattito politico-culturale), o l’ampliamento delle dimensioni statali su base imperialistica. Proprio perché in tutte le classi dirigenti delle potenze europee non c’era ancora alcuna disponibilità in direzione della prima scelta, prevalse la scelta imperiale che si sviluppò logicamente in disegno egemonico europeo da parte del più forte Stato nazionale europeo che partiva da una posizione semiegemonica.
La spinta egemonica tedesca che si manifesta con le guerre mondiali rientra nella continuità dei tentativi egemonici che nel corso della storia moderna hanno perseguito i più forti Stati continentali europei nel momento in cui sono giunti all’apice della loro potenza, prima la Spagna, poi la Francia e infine la Germania. Nel caso della Germania il dato nuovo è il tentativo egemonico come risposta imperiale (con la “spada di Satana” come ha detto Einaudi) alla crisi storica degli Stati nazionali europei, il cui fallimento ha coinciso con il crollo della potenza degli Stati nazionali e con l’apertura di una nuova fase storica, il cui filo conduttore è rappresentato dalla spinta all’unificazione pacifica dell’Europa (con la “spada di Dio”)[7]. Il fatto che Kundnani non colga adeguatamente questo aspetto che caratterizza la questione tedesca nell’epoca che va dall’unificazione nazionale al crollo del 1945, indebolisce la capacità chiarificatrice della sua visione e non gli permette di capire in modo soddisfacente la problematica dell’unificazione europea. Con ciò veniamo alla sua visione della evoluzione tedesca dopo il 1945 che comincio con il ricostruire nei suoi aspetti essenziali.
Questa evoluzione si articola in due fasi che presentano secondo l’autore significative differenze: la fase dal 1945 alla riunificazione nazionale del 1990 e la fase dalla riunificazione alla crisi europea 2010-2014. La prima fase ha come filo conduttore il superamento nella Germania di Bonn del nazionalismo nei suoi due aspetti fondamentali sopraricordati.
Anzitutto, nel contesto dell’esaurimento storico della potenza tedesca (un fenomeno che coinvolge in sostanza tutti gli Stati nazionali europei e quindi anche quelli usciti formalmente vincitori dalla seconda guerra mondiale) e della connessa stabile egemonia degli Stati Uniti sull’Europa occidentale, viene sradicata la tendenza espansionistica e, quindi, la tendenza all’uso della potenza militare come strumento decisivo per ottenere la sicurezza e lo sviluppo economico. Queste esigenze vengono perseguite attraverso lo stabile inquadramento nella Comunità atlantica a guida americana e nel processo di integrazione europea, che vengono considerate come le basi insostituibili per la realizzazione della riunificazione nazionale. L’impiego delle forze militari tedesco-occidentali, che vengono ricostituite dopo il fallimento della Comunità europea di difesa con forti limitazioni degli armamenti e soprattutto inquadrate strettamente nella NATO, è consentito, su base costituzionale (un limite che verrà superato alla fine degli anni ’90), solo nell’area europea per la difesa della Comunità atlantica. In sostanza il modello a cui tende ad espirarsi la Germania occidentale è quello della “potenza civile”, che non significa soltanto potenza commerciale contrapposta a potenza militare, ma Stato la cui politica estera ha come obiettivo fondamentale il superamento della politica di potenza (la sicurezza fondata essenzialmente sulla forza militare nazionale), cioè la realizzazione di un monopolio multilaterale dell’uso della forza analogo al monopolio dell’uso della forza nel contesto domestico, in altre parole la pace in senso kantiano[9].
L’altro aspetto fondamentale del nazionalismo tedesco che, in collegamento con l’inquadramento nella Comunità atlantica e nell’integrazione europea, viene radicalmente superato nell’esperienza dalla Germania di Bonn è l’opposizione ai valore liberaldemocratici occidentali, il Sonderweg. Qui si realizza quella che Einrich August Winkler definisce la lunga marcia verso l’occidente, la quale trova la sua conclusione con la riunificazione nazionale[ix]. La Germania occidentale diventa uno dei più avanzati Stati liberaldemocratici del mondo, anche per la struttura federale interna e per il sistema dell’economia sociale di mercato. In collegamento con l’occidentalizzazione (la Westbindung), in cui si inquadra la sua europeizzazione (la scelta in direzione della “Germania europea” in contrapposizione alla scelta in direzione della “Europa tedesca”) si manifesta la condanna sempre più sistematica e coinvolgente del passato autoritario e ancor più di quello totalitario, con il riconoscimento dei suoi crimini spaventosi. La Germania occidentale è il paese che, esprimendo un forte senso di colpevolezza storica, ha fatto più di tutti i conti con il passato. La sua identità si è venuta fondando proprio sulla condanna radicale dei crimini commessi dal nazionalismo specialmente nella sua fase finale totalitaria. Si parla in effetti su un’identità tedesca fondata nell’orrore per Auschwitz (Auschwitz Identität).
Se la questione tedesca appare superata nell’esperienza della Germania di Bonn (la cui conclusione con la riunificazione nazionale è addirittura percepita, sulla scia di Winkler, come l’equivalente tedesco dell’idea di Francis Fukuyama della “fine della storia”), successivamente agli avvenimenti del 1989-1990, che hanno introdotto un mutamento geopolitico drammatico come quello del 1871, la situazione cambia in modo evidente. Nel nuovo quadro internazionale l’evoluzione tedesca dalla riunificazione nazionale fino al 2014 è in effetti caratterizzata dal progressivo riemergere della questione tedesca con un crescendo che ha la sua manifestazione più netta negli anni della crisi europea iniziata nel 2010.
Il dato fondamentale è rappresentato dal ripresentarsi di una situazione di semiegemonia tedesca, con caratteristiche diverse rispetto a quella precedente il 1945, e cioè non geopolitiche – gli Stati nazionali europei hanno perso definitivamente il ruolo di grandi potenze –, bensì geoeconomiche. In sostanza nel quadro dell’integrazione europea la Germania è diventata troppo grande sul piano economico per stare alla pari con i suoi vicini ai quali tende perciò a imporre le sue posizioni circa il governo dell’economia europea e le modalità con cui affrontare la crisi. D’altra parte è troppo piccola per assumere un ruolo di egemonia piena con tutti i costi che ciò comporterebbe. In altri termini si è prodotto un profondo squilibrio rispetto ai partner, ma c’è il rifiuto di assumersi gli oneri per rilanciare le loro economie. Questi dovrebbero consistere in misure per ridurre i surplus commerciali, per permettere un moderato aumento dell’inflazione, per agire come consumatore in ultima istanza, per realizzare una organica solidarietà comprendente forme di mutualizzazione dei debiti e il lancio di un piano Marshall per le economie indebitate dell’Europa. Questo approccio è per contro sistematicamente rifiutato e al suo posto c’è la monocorde insistenza sulla austerità, la quale rende più difficile il ritorno alla crescita per i paesi periferici, acutizza il loro squilibrio rispetto alla Germania e peggiora la crisi. La conseguenza più generale e preoccupante della politica tedesca nel quadro dell’integrazione europea è una crescente instabilità, che si manifesta nel riemergere dei nazionalismi e nella tendenza alle coalizioni che cercano di limitare la preponderanza tedesca. Non si tratta certamente di coalizioni diplomatico-militari implicanti la prospettiva di conflitti, inconcepibili fra gli Stati nazionali europei che hanno cessato in modo irreversibile di essere potenze autonome, ma si sta comunque sviluppando una instabilità che mette a serio rischio l’integrazione europea.
L’affermarsi di una situazione di semiegemonia tedesca nel quadro dell’integrazione europea con le sue inquietanti implicazioni è accompagnata, nella visione di Kundnani, dal riemergere in Germania di tendenze nazionalistiche. Non viene messa assolutamente in discussione la storicamente consolidata scelta in direzione della liberaldemocrazia e non si profilano velleità geopolitiche, ma destano preoccupazione alcuni sviluppi. Intanto si nota un’insistenza da parte di personalità politiche importanti (si citano in particolare Egon Bahr, Helmut Schmidt e Gerhard Schröder) e di intellettuali sul ritorno alla normalità che viene intesa come il perseguimento degli interessi nazionali e della sovranità senza essere condizionati dal ricatto di Auschwitz. Significativa è anche la insistita presentazione della politica economico-sociale tedesca (il Modell Deutschland) come modello più valido in assoluto, che i partner europei devono pertanto imitare e che si cerca effettivamente di imporre attraverso la posizione economica dominante della Germania – in sostanza una rinascita in forme nuove e certamente meno coercitive dell’idea della missione tedesca propria del periodo che si è concluso nel 1945. Degni di attenzione sono anche alcuni segnali dell’incrinarsi del legame con l’occidente. Al riguardo vengono in particolare ricordati: il mancato appoggio all’occupazione (e al cambiamento di regime) dell’Irak nel 2003; la mancata partecipazione all’intervento in Libia del 2011; la posizione nei confronti della Russia in occasione della crisi ucraina, che richiama per certi aspetti la politica del pendolo fra Est ed Ovest nel periodo fra le due guerre mondiali, e che era riaffiorata in certi aspetti della Ostpolitik di cui fu architetto Egon Bahr. Una forma di appannamento dello Westbindung è anche considerata la dura critica nei confronti delle teorie e delle pratiche neoliberiste anglosassoni e, in questo quadro, allo sviluppo economico fondato su un debito senza freni.
Ricordati gli aspetti essenziali della visione proposta da Kundnani dell’evoluzione tedesca dal 1945 ad oggi, ritengo che si debbano apprezzare molte interessanti informazioni e osservazioni, ma che si debbano altresì rilevare dei limiti che rendono insoddisfacente il suo sforzo di chiarire la questione tedesca riemersa dopo la riunificazione nazionale.
Comincio da un limite circoscritto che si manifesta nel discorso sull’allentamento del legame tedesco con l’occidente. L’aspetto chiaramente inaccettabile di questo discorso è rappresentato dalla commistione fra un concetto di occidentalizzazione intesa come coerente adesione ai valori liberaldemocratici, i quali hanno le loro radici nell’Illuminismo (di cui Kant è stato uno dei più lucidi esponenti) e hanno trovato le prime applicazioni pratiche nei paesi occidentali (e in particolare nei paesi anglosassoni e nella Francia), e un’idea di legame con l’occidente consistente nell’allineamento sistematico con le politiche americane. Sulla base della loro posizione egemonica mondiale gli Stati Uniti hanno indubbiamente svolto un ruolo di grandissimo valore in particolare nella lotta contro i totalitarismi e nel processo di pacificazione, integrazione e democratizzazione dell’Europa, e in parte anche nella decolonizzazione. Ma dopo la fine della guerra fredda hanno compiuto scelte tutt’altro che costruttive e fra queste rientrano in particolare l’avventurismo internazionale dell’Amministrazione di Bush figlio e anche la politica nei confronti della Russia post-sovietica – scelte riconducibili alla tendenza velleitaria a costruire un ordine mondiale fondato più sulla propria egemonia che su di un sistema pluripolare cooperativo. La resistenza della Germania nei confronti di queste scelte ha a che fare con il buon senso e non con il distacco dall’occidente. E lo stesso si può dire circa le critiche al neoliberismo, che è destinato a indebolire il sistema liberaldemocratico mentre l’economia sociale di mercato ne è un indispensabile fattore di consolidamento.
Ciò detto, il limite fondamentale di Kundnani è l’incapacità di inquadrare in modo adeguato la questione tedesca (come si presenta dopo la riunificazione nazionale) nel processo di integrazione europea. E’ sostanzialmente giusto sottolineare che il rapporto fra Germania ed Europa è contrassegnato da una situazione semiegemonica, che comporta un grave squilibrio rispetto ai partner e la conseguente tendenza a imporre la propria visione sul modo di superare la crisi economica e quindi la propria linea di politica economica. Ma questa argomentazione non è adeguatamente chiarificatrice se non viene collegata all’incompletezza dell’integrazione europea.
Il punto è che l’integrazione europea – come risposta alla crisi storica degli Stati nazionali europei che nella fase in cui essi erano grandi potenze è stata la causa di fondo dell’imperialismo egemonico tedesco – ha costituito il quadro decisivo del superamento della questione tedesca emersa nel periodo 1871-1945. Sono stati certamente importantissimi il crollo della potenza degli Stati nazionali e la conseguente egemonia americana che hanno sradicato i rapporti di potenza fra gli Stati europei, aprendo la strada alla loro cooperazione pacifica duratura. D’altra parte in questo contesto l’integrazione europea, favorita nel suo avvio dal Piano Marshall che subordinò un aiuto vitale al superamento delle chiusure nazionali, è stata determinante in quanto via per il superamento pacifico delle asfittiche dimensioni economiche degli Stati nazionali. Questi hanno potuto così perseguire il loro sviluppo economico, e quindi il recupero del ritardo rispetto agli Stati Uniti, tramite la pacifica costruzione di un sistema economico di dimensioni continentali invece che attraverso la ricerca imperialistica degli spazi vitali. Il progresso economico (e conseguentemente sociale) non più bloccato dai protezionismi nazionali, assieme al superamento della politica di potenza (la guerra è diventata praticamente impossibile fra gli Stati nazionali europei) è stato il fattore decisivo del progresso democratico generale in Europa, che, nel caso della Germania, ha significato la sua occidentalizzazione nel senso del superamento delle radicate tendenze autoritarie.
D’altra parte l’integrazione europea è incompleta dal momento che non è ancora giunta ad una piena federalizzazione ed è qui la causa di fondo degli squilibri fra paesi forti e paesi deboli e, in particolare, fra la Germania e i suoi partner. In effetti questo squilibrio è legato al mancato passaggio da un’integrazione economica essenzialmente negativa (cioè l’eliminazione degli ostacoli al libero movimento delle merci, delle persone, dei capitali e dei servizi, di cui è una componente essenziale l’unificazione monetaria in quanto elimina il protezionismo legato alla fluttuazione dei cambi) a una integrazione economica positiva (cioè forti politiche di coesione economica, sociale e territoriale, in modo da poter affrontare gli squilibri inevitabilmente prodotti dal mercato non adeguatamente governato). L’aver integrato economicamente paesi con forti differenziali di crescita, di produttività e di efficienza senza introdurre una strutturale solidarietà (che con i cosiddetti fondi strutturali ha un carattere appena embrionale) non poteva non produrre, pur nel quadro di una crescita complessiva dell’economia europea, i gravi squilibri che conosciamo e che sono all’origine della precarietà dell’euro e del diffondersi delle tendenze nazionalistiche. Se ciò è chiaro, deve essere altresì chiaro che l’integrazione economica positiva, e quindi una organica solidarietà fra paesi forti e deboli, richiedono un sistema istituzionale sopranazionale efficiente (e quindi implicante l’eliminazione senza residui dei diritti di veto nazionali) e democraticamente legittimato (le istituzioni sopranazionali devono fondarsi sul consenso dei cittadini europei raccolto contestualmente nei paesi forti ed in quelli deboli)[10].
Ciò significa una scelta federale in senso pieno, la quale è dunque la condizione per salvare l’integrazione europea e nello stesso tempo il quadro in cui si supera la questione, gravida di pericoli, del rapporto fra la Germania e suoi partner europei. Se in effetti si apre una concreta prospettiva di sviluppo economico armonico che coinvolga l’insieme dei paesi europei, sono destinate ad essere superate le preoccupazioni suscitate dalla posizione economicamente dominante della Germania. D’altra parte il passaggio da un sistema prevalentemente confederale (qual è quello attuale dell’UE) ad uno federale è destinato a relativizzare gli squilibri politici legati alle dimensioni demografiche (la Germania non ha nessuna colpa se è il paese più popoloso dell’UE), dal momento che si deciderebbe inderogabilmente a maggioranza e quindi senza veti nazionali, sia pure con le ponderazioni proprie dei meccanismi federali. Va anche sottolineato che la piena federalizzazione, che deve ovviamente comprendere una politica estera, di sicurezza e di difesa unica, comporterebbe anche l’introduzione, oltre alla solidarietà economico-sociale, di una organica solidarietà fra i membri dell’UE relativamente alle questioni della sicurezza. Ciò porterebbe al superamento degli atteggiamenti opportunistici consistenti nell’essere più consumatori che produttori di sicurezza, il che è un fenomeno diffuso nell’ambito dell’UE e riguarda anche la Germania.
Se il problema è quello della federazione, la difficoltà è rappresentata dalla resistenza strutturale dei governi nazionali ai trasferimenti di sovranità, pur essendo essi d’altro canto costretti dalla situazione storica di impotenza in cui si trovano gli Stati nazionali, a portare avanti una politica di integrazione europea. In questo contesto si deve rilevare che fra i grandi Stati europei la Germania è quello relativamente più disponibile rispetto a una consequenziaria scelta federale. Certamente tende a frenare un sistema di organica solidarietà da realizzarsi in un quadro intergovernativo, cioè al di fuori di un vero sistema federale fondato su decisioni democratiche a maggioranza. E ciò è comprensibile perché nel sistema intergovernativo i governanti nazionali, dei quali è richiesto l’accordo unanime per realizzare una politica economica europea implicante la solidarietà dei più forti rispetto ai più deboli, sono responsabili di fronte agli elettori nazionali e non agli elettori europei (si pensi a cosa avverrebbe se le politiche economiche a livello nazionale dovessero essere decise da un consiglio di presidenti di regioni decidenti all’unanimità!). La posizione dei responsabili politici tedeschi è in effetti contraria ad una “unione dei trasferimenti”, ma è anche integrata dalla affermazione secondo cui i trasferimenti di risorse devono essere collegati ai trasferimenti di competenze, in altre parole a un sistema federale. La questione di fondo da risolvere è se mai l’atteggiamento recalcitrante rispetto a una chiara scelta federale da parte del partner europeo più importante della Germania e cioè della Francia, la quale insiste sulla solidarietà sul piano economico-sociale, e anche su quello della sicurezza, ma è ancora dominata da un sovranismo antifederalista. Qui risiede la “questione francese”.
In conclusione, Kundnani centrando la sua analisi della questione tedesca sulla chiave interpretativa della semiegemonia (riemersa dopo la riunificazione nazionale) apre un discorso di ben diverso livello rispetto a quello contenente tesi tipo “il ritorno del quarto Reich” o “i tedeschi sono sempre gli stessi”, il cui sottofondo, anche se non chiaramente esplicitato, è il mito dell’anima demoniaca della nazione tedesca. La sua analisi di tipo sistematico, che si rifà al Dehio, è però incompleta proprio perché di Dehio non vengono utilizzati gli insegnamenti fondamentali sull’influenza della posizione dello Stato nel sistema degli Stati, sulla sua evoluzione interna, sulla crisi storica degli Stati nazionali europei, sull’integrazione europea come quadro del superamento dei rapporti e quindi degli squilibri di potenza, nella misura in cui venga portata al suo pieno compimento. Pertanto nell’analisi del Kundnani la questione tedesca non è chiarita in modo soddisfacente e in definitiva non se ne vede la soluzione, sicché aleggia nel suo libro un senso di rassegnato pessimismo tanto riguardo alla Germania quanto riguardo al futuro dell’Europa.
Sergio Pistone
[1] I testi fondamentali di Dehio a cui Kundnani fa riferimento sono: Equilibrio o egemonia (1948), ultima ed. it., Bologna, Il Mulino, 1988; La Germania e la politica mondiale del XX secolo (1955), ed. it. Milano, Comunità, 1962. Viene anche preso in considerazione l’ottimo lavoro di un autore che può essere considerato un allievo di Dehio: David P. Calleo, The German Problem Reconsidered. Germany and the World Order 1971 to The Present, Cambridge, Cambridge University Press, 1978.
[2] Rinvio a Sergio Pistone, Ludwig Dehio, Napoli, Guida, 1977.
[3] Cfr. l’edizione curata da Lucio Levi: Alexander Hamilton, John Jay, James Madison, Il Federalista, Bologna, Il Mulino, 1997.
[4] Rimando a: Sergio Pistone, F. Meinecke e la crisi dello Stato nazionale tedesco, Torino, Giappichelli, 1969; Id. (a cura di), Politica di potenza e imperialismo. L’analisi dell’imperialismo alla luce della dottrina della ragion di Stato, Milano, Franco Angeli, 1973.
[5] Cfr. John Robert Seeley, L’espansione dell’Inghilterra (1883), ed. it. Bari, Laterza, 1928. Vedi anche Luigi Vittorio Majocchi, John Robert Seeley, Il Federalista, 31, n. 2 (1989), pp. 164-195.
[6] E’ utile ricordare qui una considerazione di Alan I.P. Taylor in Storia della Germania (1945), ed. it., Milano, Longanesi, 1961: “Se un cataclisma naturale avesse creato un vasto mare fra i tedeschi ed i francesi, il carattere tedesco non sarebbe stato dominato dal militarismo. Se (ipotesi più facilmente concepibile) i tedeschi fossero riusciti a sterminare gli slavi loro vicini, così come gli anglosassoni nel Nordamerica riuscirono a sterminare gli indiani, l’effetto sarebbe stato lo stesso che sugli americani: i tedeschi sarebbero diventati sostenitori dell’amore fraterno e della riconciliazione internazionale”.
[7] Cfr. Luigi Einaudi, La guerra e l’unità europea, a cura di Giovanni Vigo, Bologna, Il Mulino, 1986. In generale sulla teoria della crisi storica degli Stati nazionali sviluppata dalla scuola federalista (con cui Dehio converge) si veda Mario Albertini, Il federalismo, Bologna, Il Mulino, 1993.
[8] L’autore fa riferimento in particolare a Hans Maull, Germany and Japan. The New Civilian Powers, Foreign Affairs, inverno 1990-1991.
[9] L’opera fondamentale a cui si fa riferimento è Einrich August Winkler, Germany: The long Road West, 2 volumi, Oxford, Oxford University Press, 2007.
[10] Cfr. Sergio Pistone, Il dibattito in Germania su democrazia e unificazione europea: il confronto fra Habermas e Streeck, Il Federalista, 55, n. 2-3 (2013).
Anno LVII, 2015, Numero 1-2, Pagina 97
LA RIFLESSIONE FEDERALISTA IN FRIEDRICH VON HAYEK
Molti intellettuali liberisti amano spesso citare autori liberali del passato per dare una base più solida alle loro tesi. Tra i più citati figura sicuramente Friedrich Von Hayek, che viene usato soprattutto quando si tratta di rafforzare la critica, o meglio il rifiuto, dell’idea di Europa federale. Generalmente questo rifiuto si accompagna all’accusa rivolta alla pubblica amministrazione europea di essere burocratica e pletorica, ma spesso finisce per dipingere scenari dispotici, in cui un governo tirannico di stampo sovietico mette a repentaglio la libertà, la democrazia e i diritti civili dei cittadini europei. Nel condurre questa speculazione intellettuale, questi pensatori equiparano questi principi alla difesa della sovranità nazionale, coerentemente con l’idea che questi principi siano difendibili esclusivamente a livello nazionale e coerentemente con un’interpretazione malintesa del principio hayekiano di “individualismo metodologico” nelle relazioni internazionali, che, essenzialmente, nell’interpretazione che ne viene fatta, diventa “nazionalismo metodologico”. Questo errore interpretativo deriva dall’idea di non considerare gli individui come soggetti di diritto internazionale e, conseguentemente, dal fatto di non porli al centro della riflessione.
Von Hayek invece focalizzava la sua analisi sull’individuo e nel corso della sua produzione intellettuale fu sempre molto attento a mettere in rilievo questo aspetto del suo pensiero. Nel periodo tra le due guerre, e fino all’inizio della Guerra fredda, egli elaborò una propria teoria delle relazioni internazionali che si contrapponeva decisamente a quella dei pensatori e dei politici liberali del XIX secolo, che a suo dire erano stati incapaci di capire e di affrontare le tensioni economiche e politiche che avevano portato alle due guerre mondiali. In particolare riteneva che il principale fallimento intellettuale di quella classe politica fosse stato l’incapacità di tenere separati il nazionalismo dal liberalismo politico e nel dimenticare la portata universale del pensiero liberale.
La presa d’atto della questione lo portò a elaborare una teoria del federalismo internazionale, spesso ignorata da molti opinionisti liberisti, che è stata nel corso degli anni oscurata da altri punti, più trattati e più vasti, della produzione filosofica di Von Hayek.
Von Hayek espose la sua teoria internazionalistica nell’articolo Le condizioni economiche del federalismo interstatale, nel capitolo XII dell’opera Individualismo e ordine economico e nel capitolo “Prospettive dell’ordine internazionale” all’interno dell’opera La via della schiavitù. Alcuni elementi che ci consegnano la figura di un Von Hayek sostenitore dell’unità europea emergono anche nell’opera La denazionalizzazione della moneta, sebbene in quella stessa opera il tema federalista non emerga chiaramente; essa rappresenta il contributo che Von Hayek diede al dibattito sull’introduzione di una moneta unica europea, che si era sviluppato tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta.
Il tratto fondamentale dell’ordine internazionale presentato dall’autore si basa sull’obiettivo di limitare l’intervento statale nell’economia e le eventuali distorsioni derivanti dall’azione pubblica. Hayek, dunque, sostiene la creazione di un governo sovranazionale, nella prospettiva di limitare il potere degli Stati nazionali. Un’autorità che deve essere organizzata secondo severi principi federali.
Le condizioni economiche del federalismo interstatale.
Questo saggio venne pubblicato la prima volta nel 1939, sulla rivista scientifica New Commonwealth Quarter e in seguito inserito nell’opera Individualismo e ordine economico come ultimo capitolo. Esso illustra la necessità di abolire le barriere economiche tra Stati membri al fine di raggiungere l’obiettivo della nascita della federazione. “...una federazione interstatale che faccia cessare tutti gli impedimenti come quelli al movimento degli uomini, beni e capitali tra Stati e che renda possibile la creazione di leggi comuni, un sistema monetario uniforme e un comune controllo delle comunicazioni”[1].
Mentre Von Hayek riconosceva che il principale obiettivo del federalismo è la pace interna tra gli Stati membri e i rapporti armoniosi tra gli Stati membri e l’autorità federale, tuttavia riteneva che una mera unione politica non fosse sufficiente ad assicurare un’esistenza duratura alla federazione e che quindi un’unione economica dovesse essere posta in essere assieme a una politica estera e di difesa federale.
Il sistema federale, nella visione di Von Hayek aiuta ad impedire che i governi nazionali intervengano nell’economia, in particolar modo impedisce loro di introdurre politiche protezioniste distorsive del mercato. Von Hayek, proprio per il fatto che un governo centrale in una federazione multi-etnica e multi-nazionale avrebbe maggiori difficoltà nel lanciare, programmare e sostenere politiche economiche, per via dell’eterogeneità e della mancanza di coesione interna, ritiene che in questo modo si riuscirebbero a limitare, su base costituzionale, gli interventi di politica economica tipici degli Stati nazionali. Non che l’eterogeneità – ad esempio tra regioni, città e campagne o tra classi sociali, produttori, e comparti economici – non esista anche a livello nazionale, tuttavia il “mito della nazione” fa sì che i governi possano in ultima analisi creare un consenso su quelle politiche e superare ogni tipo di opposizione all’intervento pubblico.
In conclusione, in una federazione “certi poteri economici, che sono esercitati dagli Stati nazionali, non possono essere adoperati né dalla federazione né dai singoli Stati”, il che rende possibile “meno Stato”.
Ciò conduce Von Hayek a dichiarare che “l’abolizione delle sovranità nazionali e la creazione di un effettivo ordine legislativo internazionale è un contributo necessario e il logico completamento del programma liberale” riassumibile nelle parole di Lionel Robbins “Non ci deve essere né un alleanza né un’unificazione completa; né un Staatenbund né un Einheitsstaat ma un Bundesstaat”. Inoltre, Von Hayek considera l’adesione dei liberali al nazionalismo, nel periodo a cavallo dei due secoli e agli albori della Prima guerra mondiale, come il loro più grande fallimento politico ed intellettuale. Nel pensiero hayekiano, liberalismo e nazionalismo sono completamente incompatibili ed impedire questa combinazione diventa fondamentale. Il liberalismo è al servizio dell’uomo come individuo, il nazionalismo invece intende ad asservire la libertà dell’individuo ad un supposto interesse collettivo.
Il filosofo austriaco crea pertanto una nuova visione di federalismo, che è stata definita come “funzionale”[2], nella misura in cui il federalismo non è pensato come fine in sé, né è definito in termini positivi, ma è concepito per limitare i poteri e le azione degli Stati nazionali. Sotto questo aspetto, la coercizione sovranazionale è essenziale per difendere e rafforzare la libertà degli individui.
Elementi federalisti ne La via della schiavitù.
L’ultimo capitolo de La via della schiavitù è concentrato, come recita il titolo, sulle Prospettive dell’ordine internazionale.
Questo capitolo può essere considerato una continuazione o un’espansione de Le condizioni economiche del federalismo interstatale. Sin dall’inizio, Von Hayek sottolinea il ruolo delle istituzioni sopranazionali come possibile soluzione per limitare il potere dei governi nazionali da una parte, e dall’altra per restituire poteri ai singoli cittadini e alle unità politiche subnazionali. Von Hayek propone una soluzione composta sia da un approccio top-down sia da uno bottom-up: da una parte limitare i governi nazionali dall’alto grazie al federalismo sovranazionale, dall’altra limitarli dal basso, con il ritorno di potere e competenze ai singoli e alle comunità locali. Le cose devono procedere di pari passo e sono entrambe componenti di una visione federalista e liberale delle relazioni internazionali e intranazionali.
Hayek spende le prime pagine del capitolo sul tema centrale della sua posizione liberale, ossia, la critica all’interventismo economico e alle proposte di dare poteri di politica industriale al governo federale. Hayek afferma che la pianificazione economica è “condannata nei suoi effetti aggregati ad essere pericolosa persino da un punto di vista puramente economico e inoltre a produrre serie frizioni al mercato internazionale”[3] allo stesso modo attacca duramente l’idea stessa di solidarietà nazionale, perché per quanto riguarda la pianificazione economica “c’è poca speranza di ordine internazionale o pace duratura se ogni paese è libero di adottare qualsiasi misura che ritiene desiderabile per il proprio interesse immediato, senza curarsi che possa essere dannosa per gli altri. Infatti molti tipi di pianificazione sono applicabili se e solo se l’autorità pianificatrice può effettivamente annichilire ogni influenza esogena. Il risultato di tale politica è quindi necessariamente la messa a punto di limitazioni alla libera circolazione di persone e beni.”[5] Von Hayek critica pesantemente anche l’approccio del New Deal, così come l’idea di una pianificazione economica a livello federale, anche se implementata attraverso una procedura democratica, perché, a suo dire, darebbe molti privilegi ad alcune minoranze a scapito di altre e perché un governo federale di uno Stato eterogeneo e sovranazionale dovrebbe utilizzare una maggiore leva di coercizione rispetto a quella richiesta a Stati più omogenei e più piccoli per portare a termine dei programmi di politica economica. Al “governo internazionale” dovrebbero essere garantiti poteri ristretti e limitati, sufficienti per raggiungere i propri scopi, mentre viene indebolito dall’altro il ruolo delle burocrazie nazionali a favore delle unità e dei centri di potere sottostanti, che devono tornare a essere responsabili per le loro necessità e compiti. Parafrasando Monnet, non si tratta di “coalizzare Stati” o “unire uomini”, ma di “ricostruire una nuova civiltà su una larga scala”.
Con questo Hayek non intende dire che il governo internazionale debba essere debole e alla mercé dei propri Stati membri o federati, ma piuttosto il contrario, ossia che deve essere un governo forte. “Mentre l’autorità sovranazionale deve essere molto forte, per il suo compito di porre in essere una legge comune, la sua costituzione deve essere allo stesso tempo disegnata in modo tale da impedire che le autorità internazionali così come quelle nazionali diventino tiranniche”. Per questo serve un equilibrio dei poteri ben bilanciato.
Il federalismo descritto ne La via della schiavitù è concepito in termini globali, piuttosto che europei. Nell’analisi di Hayek dovrebbe riuscire a realizzare il principio liberale ad ogni livello, da quello individuale fino a quello sovranazionale. Questa è, per Hayek, la definizione più genuina di federalismo: non un’ideologia a sé stante, ma l’applicazione di un sistema puramente liberale, che può avere solo una dimensione globale, nella quale la “ragion di Stato” e il nazionalismo non costituiscono più degli alibi.
Per questo motivo “un’autorità internazionale che effettivamente limiti il potere degli Stati sugli individui sarà una delle maggiori garanzie per la pace. La rule of law internazionale deve diventare una salvaguardia degli individui contro la tirannia dello Stato così come una salvaguardia delle comunità nazionali a garanzia che il nuovo super-Stato non si trasformi in una tirannia. Né un super-Stato onnipotente ma neanche una debole associazione di ‘nazioni libere’, ma una comunità di nazioni di uomini liberi deve essere il nostro scopo”.
La riflessione federalista in Von Hayek dopo la Seconda guerra mondiale.
Von Hayek restò un convinto federalista anche dopo la seconda guerra mondiale. Rimase a lungo membro della Europa Union-Deutschland e rimase sempre un sostenitore del processo di integrazione europea. Il filosofo riteneva che la comunità europea fosse uno spazio per sperimentare una nuova forma di governance economica. Conseguentemente riteneva che si dovesse evitare che la Comunità europea evolvesse in una sorta di Stato nazionale accentrato, e auspicava una nuova forma di federazione che impedisse ai governi nazionali di interferire sul corso economico e sul mercato. Su questa base Von Hayek si oppose all’idea di una moneta comune, non perché fosse contrario al progetto europeo, ma perché era contrario all’idea stessa che lo Stato, qualunque esso fosse, avesse il monopolio della moneta. “Sebbene io simpatizzi fortemente con il desiderio di completare l’unificazione economica dell’Europa occidentale attraverso la totale liberalizzazione della libera circolazione dei capitali, ho grossi dubbi sulla desiderabilità di fare ciò creando una nuova valuta amministrata da una qualsiasi forma di autorità sovranazionale”[5]. In alternativa, egli proponeva un sistema europeo di free-banking nel quale valute private, locali, nazionali e continentali/multinazionali potessero competere tra loro ed essere liberamente scambiate tra di loro. L’unificazione europea doveva procedere non attraverso il trasferimento di monopoli dal livello nazionale al livello europeo, ma attraverso la loro totale distruzione. Hayek non amava l’idea di un’unica autorità monetaria perché presumeva che “una valuta internazionale non sarebbe meglio di una nazionale”[6].
Conseguentemente, si può ritenere che se Hayek fosse ancora vivo, non apprezzerebbe la BCE e il suo ruolo, ma con molta probabilità apprezzerebbe molto di meno tutte le proposte di tornare alle vecchie monete nazionali e tutto quanto è legato all’idea di “sovranità monetaria”.
La mancanza di opere o di studi dedicati alla questione del federalismo dopo la Seconda guerra mondiale ci può portare a ritenere che il filosofo austriaco abbia abbandonato progressivamente le sue idee federaliste, dopo che la situazione internazionale si era stabilizzata attorno al duopolio USA-URSS e dopo che i governi nazionali in Europa avevano accettato l’approccio funzionalista di Jean Monnet. Von Hayek rimase tuttavia un forte sostenitore del processo di unificazione europea, anche se la lentezza del processo lo portò ad adottare un approccio più nation-based, nel quale la libertà economica e la riduzione delle funzioni del governo divennero un obiettivo politico da conseguire prima di tutto a livello nazionale.
Questo graduale distacco dal processo di integrazione europeo procedette in parallelo con l’adesione di Von Hayek ad una interpretazione più misiana che robbinsoniana. Anche se, similarmente a Robbins, Von Hayek rimase sempre dell’avviso che una forma di federalismo internazionale potesse sussistere solo tra paesi di economia e ideologia capitalista e liberale. Questi elementi possono spiegare l’evoluzione delle sue proposte, da quelle contenute ne Le condizioni economiche del federalismo interstatale e La via della servitù a quelle caratterizzate da un approccio più scettico ne La denazionalizzazione della moneta.
Si può comunque dire che Von Hayek durante il periodo post-bellico accantonò l’idea di un limite superiore all’azione degli Stati, ma non la rinnegò mai in maniera esplicita. Semplicemente si può dire che l’evoluzione storica lo abbia portato ad apprezzare maggiormente un approccio bottom-up o comunque basato sull’azione di forze politiche nazionali o locali.
Al di là dell’apprezzamento o meno delle sue proposte, la rilettura del federalismo nell’opera di Von Hayek è interessante non solo dal punto di visa intellettuale, ma per ricordare le fondazioni liberali delle teorie federaliste, tipiche anche della scuola britannica del periodo interbellico: la limitazione del ruolo del governo e l’emergere degli individui come unità indipendenti. Bisogna inoltre tenere sempre a mente che l’obiettivo ultimo di Von Hayek era la rimozione di tutte quelle tensioni economiche che, nel periodo in cui scriveva le prime due opere qui citate, erano state causa delle due guerre mondiali.
Se osserviamo come è evoluto il diritto internazionale dopo la Seconda guerra mondiale fino ai giorni d’oggi, sia a livello mondiale sia a livello europeo, possiamo notare che le istituzioni internazionali giocano effettivamente un ruolo simile a quello auspicato da Hayek. Il dominio riservato degli Stati della comunità internazionale è stato progressivamente ridotto e diverse convenzioni e nuove consuetudini del diritto internazionale hanno teso, e tendono, a far emergere l’individuo come soggetto di diritto internazionale. Allo stesso modo, a livello europeo la Comunità prima e l’Unione oggi tendono spesso ha giocare un ruolo più “negativo” che “positivo”. Tendono cioè a limitare interventi distorsivi degli Stati membri nell’economia, ma non hanno una vera e propria capacità economica ed industriale. Per quanto si possa discutere sulla desiderabilità o non desiderabilità della cosa, è un dato di fatto che, volontariamente o non volontariamente, è stata percorsa una “via austriaca” all’integrazione europea che comunque continuerà a coesistere ancora per molti anni con nuovi approcci di tipo positivo.
L’altro elemento per cui vale la pena di studiare la riflessione federalista in Von Hayek è anche il principio per cui ogni obiettivo politico di portata universale, sia esso di tipo liberale o socialista o cristiano-sociale, ha una propria ragion d’essere solo se conseguito a livello sovranazionale.
[1] F. Von Hayek, Individualism and Economic Order, Chicago, Chicago University Press, 1948, p. 255.
[2] F. Masin, Designing the Institutions of International Liberalism: Some contributions from the Interwar Period, Constitutional Political Economy, 23. n. 1 (2012).
[3] F. Von Hayek, The road to serfdom, London, Routledge Classics, 1944, 2006 Edition, pp. 225-244.
[4] Ibidem.
[5] F. Von Hayek, Denationalization of money – The argument refined, London, The Institute of Economic Affairs, 1990, 3rd Edition, p. 24.
[6] Ibidem, p. 25.
Francesco Violi
Anno LVI, 2014, Numero 1-2, Pagina 125
IL RUOLO DELLO STATO
NELL’ECONOMIA GLOBALIZZATA
Lo Stato è il principale promotore e regolatore dei processi economici che avvengono all’interno dei suoi confini. Ma lo sviluppo economico costante ed equilibrato di un paese poggia in larga parte sul commercio internazionale di beni e servizi. Questo è ancora più vero da quando la relativa stabilità politica internazionale, l’apertura dei mercati nazionali, la caduta delle barriere doganali e la rivoluzione digitale e delle comunicazioni hanno reso possibile la formazione della cosiddetta “economia globalizzata”.
In questi ultimi due decenni, che alcuni studiosi preferiscono definire di “economia semi-globalizzata” (ovvero un mondo in cui ciascuna nazione non è né totalmente isolata né totalmente integrata rispetto alle altre nazioni; un mondo in cui i confini, le frontiere e le distanze geografiche e culturali hanno un peso tutt’altro che trascurabile[1]), è stato teorizzata dal pensiero liberista l’inutilità del ruolo dello Stato, e la necessità di un ritiro della presenza pubblica dall’economia. Si è arrivati a negare la funzione della politica industriale da parte dei governi, e a considerare dannosa persino la regolamentazione dei mercati da parte dell’autorità politica. La recente crisi economico-finanziaria, iniziata nel 2008, ha, viceversa, evidenziato le contraddizioni insite in questo modello e ha spinto gli Stati ad intervenire nuovamente a sostegno dell’economia attraverso varie forme di incentivi e promuovendo politiche commerciali tese a migliorare le esportazioni di beni e servizi e a ridurre di conseguenza le relative importazioni. Tuttavia questo processo è avvenuto in modo disomogeneo nel mondo, mettendo in luce quali sono i paesi che hanno i mezzi e la capacità di sostenere il proprio sistema economico e quelli che invece non riescono a farlo.
Gli Stati si servono di due tipologie di strumenti per cercare di proteggere la propria economia rispetto al commercio internazionale, cercando al tempo steso di sfruttarne i vantaggi. Il primo tipo è costituito dal controllo sulle importazioni. Lo strumento più noto è la barriera doganale sui prodotti d’importazione così da scoraggiarne la vendita nel mercato domestico e favorire le produzioni nazionali. Il dazio doganale spesso si accompagna con il contingentamento delle importazioni e delle esportazioni: vale a dire, viene fissato un limite oltre il quale non è più consentito importare un certo prodotto, né esportarlo. Altri strumenti di restrizione del commercio estero sono i controlli e gli esami di valutazione per stabilire l’idoneità della commercializzazione di una determinata merce: tali esami a volte servono per ritardare i tempi dell’entrata sul mercato di un determinato prodotto altamente competitivo rispetto a quello nazionale. Il secondo tipo di strumenti invece è finalizzato a sostenere le esportazioni: crediti all’esportazione, varie forme di assicurazione, accompagnamento delle imprese nei processi d’internazionalizzazione e fornitura di sussidi alle imprese esportatrici.
* * *
Dopo la crisi del 2008, sono molti i paesi avanzati che hanno cercato di proteggere il proprio sistema manifatturiero in crisi dalle penetrazioni commerciali estere. In più si è constatato che il decentramento della produzione su base internazionale (offshoring) comporta la cessione di una quota importante di saperi che, una volta abbandonati, finiscono per accumularsi dove le lavorazioni sono state esportate. È in questo modo che si è realizzato lo sviluppo manifatturiero delle nuove economie emergenti e che la perdita delle conoscenze proprietarie manifatturiere ha progressivamente diminuito la capacità di molti paesi avanzati di far evolvere le loro traiettorie tecnologiche. La consapevolezza di questo errore strategico è alla base del nuovo orientamento della politica industriale: ancorare lo sviluppo manifatturiero a specifici territori in funzione dell’interesse nazionale. In generale, nei più grandi paesi avanzati la politica industriale è tornata a essere utilizzata come leva normale di governo dell’economia, con la stessa dignità di quelle di bilancio e monetaria.[2]
Tuttavia rispetto alle crisi cicliche del passato anche i paesi emergenti sono scesi in campo irrigidendo la loro disponibilità al commercio estero, a dimostrazione della presa di coscienza del loro nuovo rango nel consesso delle potenze economico-commerciali. A tal proposito sono molto interessanti le relazioni della Commissione europea indirizzate al Consiglio europeo intitolate Ostacoli al commercio e agli investimenti. Tali relazioni concentrano l’attenzione (a livello politico) sull’impegno comune (per l’Unione europea e per gli Stati membri) necessario per superare una serie di ostacoli che impediscono alle imprese europee di esportare o investire sul mercato di paesi terzi. Le relazioni – iniziate nel 2011, con cadenza annuale, dando seguito ad un impegno della Strategia Europa 2020 – volgono la loro attenzione a 21 ostacoli identificati che richiedono un’azione concertata e urgente della Commissione e degli Stati membri, analizzando partner strategici come Cina, India, Giappone, Brasile, Argentina, Russia e Stati Uniti.
Ad esempio negli Stati Uniti, (primo partner strategico europeo, destinatario di esportazioni per 242,2 miliardi di euro di beni e servizi nel 2010) dopo la crisi del 2008 sono stati inseriti nel pacchetto di rilancio economico numerose clausole Buy American. Queste clausole erano state introdotte dopo la crisi del ‘29 nel settore degli appalti pubblici edilizi federali per favorire la produzione manifatturiera nazionale e per cercare di escludere merci o offerenti stranieri dalle gare indette dagli enti pubblici. Erano state ritirate in parte dopo il 1996 a seguito dell’entrata degli Stati Uniti nella OMC. Tuttavia lo spirito di questa legge permane in numerosi atti giudiziari che influiscono sugli appalti di enti e di organismi pubblici degli Stati Uniti che niente hanno a che vedere con gli appalti nell’edilizia. La maggior parte di tali disposizioni sono applicabili anche alle attività finanziate tramite il bilancio pubblico degli Stati Uniti. Come esempio si potrebbe citare l’obbligo di utilizzare le linee aeree USA se il volo è finanziato dal bilancio federale degli Stati Uniti (imponendo in tal modo di viaggiare con le linee aeree nazionali a tutti i funzionari o ai membri del Congresso in missione o perfino agli studenti che beneficiano di sovvenzioni pubbliche). Queste misure protezionistiche sono costose per i contribuenti degli Stati Uniti ed introducono inefficienza e concorrenza sleale in molti settori economici.[3] Esse sono state ulteriormente rafforzate a seguito della crisi del 2008 nel campo delle infrastrutture con l’inserimento di due disposizioni Buy American: 1) per progetti di costruzione, trasformazione, manutenzione o riparazione di edifici pubblici o di lavori pubblici dove il ferro, l’acciaio e i manufatti utilizzati siano interamente prodotti negli Stati Uniti; 2) per gli appalti pubblici del Department of Homeland Security riguardanti un elenco dettagliato di prodotti tessili (articoli di abbigliamento, tende, cotone e fibre naturali ecc.) originari degli Stati Uniti e ivi trasformati.[4]
Dall’inizio della crisi economica, anche le principali economie dell’America Latina, quali Brasile e Argentina, hanno assunto tendenze protezionistiche: queste sono state decise con il varo di piani industriali strategici che hanno lo scopo di migliorare la produzione nazionale attraverso la sostituzione delle importazioni e alzando barriere doganali. L’Argentina applica una politica di reindustrializzazione e sostituzione delle importazioni che discrimina le importazioni. Le società straniere sono inoltre colpite da restrizioni applicate al trasferimento di valuta estera, dividendi e royalties, mentre gli importatori sono tenuti a rispettare obblighi di bilanciamento delle importazioni[5] (ad esempio una impresa è autorizzata ad importare ricambi di automobili se riesce ad esportare qualsiasi prodotto “Industria Argentina”, come ad esempio il vino). Il governo si è attivamente adoperato negli ultimi anni affinché determinati settori e industrie aumentassero il contenuto locale dei loro processi di produzione. Un ampio ventaglio di settori e industrie risulta quindi soggetto a requisiti di contenuto locale, tra cui in particolare il settore estrattivo, l’industria automobilistica, le calzature, l’agricoltura, i macchinari, i materiali da costruzione, i medicinali, i prodotti chimici e tessili. Questa politica del governo interessa anche in ampia misura il settore dei servizi (bancari, assicurativi e dei media). Da ultimo si ricordi che nell’aprile 2012, il governo argentino ha deciso di espropriare il 51% delle quote dell’impresa petrolifera YPF detenute dalla società spagnola Repsol, per inseguire l’obiettivo dell’autosufficienza energetica.
In Brasile, invece, è stato reso più difficile l’accesso agli appalti pubblici (margine preferenziale orizzontale del 25%) nel settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ed è stato esteso anche ai settori della sanità e degli apparecchi di alta tecnologia. In secondo luogo il Brasile ha varato un programma che sostiene la produzione locale di componentistica per automobili (programma Inovar-Auto per gli anni 2013-2017) fornendo sgravi fiscali solamente a quei produttori che faranno investimenti in R&S e a quelli che garantiranno l’esecuzione di un numero crescente di fasi di fabbricazione in Brasile. Queste pratiche fiscali sono accompagnate dall’applicazione di regolamenti nazionali e procedure particolari di certificazione per le parti di veicoli, nonostante il Brasile già aderisca ad un accordo multilaterale per il reciproco riconoscimento delle omologazioni dei veicoli a motore (accordo UNECE del 1958). Da ultimo sia nel 2012 e sia nel 2013 sono stati aumentati i dazi doganali su 100 linee tariffarie per anno, stabilendo quindi delle specifiche eccezioni rispetto alla tariffa comune del MERCOSUR.
La crisi globale presenta il conto anche al “Made in China”. Le esportazioni sono in calo del 2,2%, per la prima volta in sette anni, e le importazioni sono precipitate del 21,3% annuo, la peggiore performance degli ultimi dieci anni. I settori più colpiti dalla paralisi del commercio sono proprio quelli che hanno fatto la fortuna della Cina: la manifattura leggera, i macchinari industriali e l’elettronica, che rappresentano un terzo delle esportazioni. L’aumento del costo del lavoro (che nel 2003 aveva un costo medio di 1.740 dollari l’anno ma che nel 2009 è arrivato a superare i 4.000 dollari) e il costo del trasporto (quintuplicato il dazio sui container da un porto cinese) hanno spinto le imprese americane ed europee a trovare nuove aree dove delocalizzare la produzione. Per questo motivo la Cina sta alzando barriere commerciali sempre più alte per sostenere la propria economia interna dalle penetrazioni stranire: ciò risulta coerente con la strategia industriale nazionale tesa a raggiungere l’autonomia ed il primato in tutti i settori economici strategici (soprattutto quelli ad alta tecnologia).[6]
Un chiaro esempio di questo indirizzo è l’adozione in Cina nel 2011 di un meccanismo di controllo delle fusioni e delle acquisizioni cui partecipano investitori esteri, che le permette di bloccare, per ragioni di sicurezza nazionale, le acquisizioni straniere. Il problema non è tanto l’adozione di per sé di questo meccanismo – meccanismi di questo tipo esistono anche in alcuni Stati membri dell’UE – ma il fatto che la sua applicazione sia molto ampia (per quanto riguarda sia i settori, sia la definizione di sicurezza nazionale), andando ben oltre i principi concordati a livello internazionale (OCSE). Inoltre anche la Cina persegue la tendenza ad applicare requisiti di contenuto locale come Brasile, Argentina e India nella produzione industriale, ma senza renderli pubblici nelle normative nazionali o locali, e rendendoli molto più sofisticati e meno visibili rispetto al passato. Negli ultimi anni anche gli appalti pubblici sono diventati un settore problematico. In Cina sono essenzialmente disciplinati da due leggi: la legge sugli appalti pubblici (valore stimato di mercato pari a 183 miliardi di dollari) e la legge sulle offerte d’appalto e le licitazioni (valore di mercato stimato pari a 1135 miliardi di dollari). In alcuni casi le amministrazioni locali hanno stabilito requisiti di contenuto locale del 70%. Nella pratica, il requisito relativo ai “prodotti nazionali” nella documentazione delle gare d’appalto e la mancanza di orientamenti chiari sulla definizione di tale tipo di prodotti hanno impedito a società a capitale straniero stabilite in Cina di avere parità di accesso agli appalti pubblici.
Infine, in un mondo dove le risorse energetiche fossili si stanno esaurendo, diventa prioritario il possesso sia della tecnologia per le energie rinnovabili, sia delle materie prime. Tra queste, i metalli rari (meglio noti come i REM, le Rare Earth Metals, un gruppo di 17 elementi chimici) sono indispensabili nell’industria moderna, nei settori dell’energia, nella formulazione dei nuovi materiali, nel risparmio energetico, nella tutela dell’ambiente, nelle industrie aeronautica e astronautica, oltre che per fornire informazioni e dati in formato elettronico. La Cina è ad oggi il più grande produttore al mondo di REM, con una quota del 97%. La più grande miniera del mondo si chiama Bayan Obo e si trova negli altopiani della Mongolia, controllata dall’esercito cinese. Gli americani e gli europei, invece, hanno preferito non produrre questo tipo di metalli perché le miniere sono ad alta intensità di lavoro e il processo di estrazione è risultato inquinante per l’ambiente. Infatti gli Stati Uniti, l’Unione europea e il Giappone dipendono per il 100% dalle importazioni cinesi.
Divenuta il primo consumatore al mondo di Terre Rare, la Repubblica Popolare Cinese ha dichiarato strategico questo settore minerario, vincolando di conseguenza l’ingresso di imprese straniere nel settore. E per rispondere alla domanda interna, Pechino ha fissato una quota annuale massima per l’esportazione di Terre Rare e, nel 2011, ha fortemente incrementato la loro tassazione.
Secondo i dati raccolti nel 2012 dalla Commissione Europea, l’Unione europea ha una dipendenza dalla Cina del 100% su 16 dei 17 metalli delle Terre Rare. Pechino può quindi controllare anche i prezzi all’esportazione, che di solito sono almeno il 100% maggiori rispetto ai prezzi interni praticati alle industrie cinesi. In effetti, negli ultimi dieci anni i prezzi sono aumentati vertiginosamente, dal 500% al 1.000% e il fenomeno ha portato molte imprese europee ad abbandonare la produzione di alcuni prodotti o a trasferirsi in Cina per avere un accesso più facile alle materie prime e ridurre i costi di produzione (come la Apple americana). Stati Uniti, India, Australia, Unione europea e Giappone si sono mossi per spezzare il monopolio cinese della produzione cercando nuove miniere (Afghanistan, Malaysia, Australia) e promuovendo il riciclo. La Cina invece, prevedendo scenari di domanda crescente e offerta in diminuzione, prepara riserve strategiche di questi minerali, aumenta i controlli e acquisisce le compagnie di piccole dimensioni.[7]
La Commissione europea nel suo rapporto sugli ostacoli al commercio del 2012 afferma che le misure individuate come ostacoli al commercio estero europeo erano nate per contrastare gli effetti negativi sulla domanda mondiale nel biennio 2008-2009. Invece la recente ondata di misure restrittive, specie nelle economie emergenti, fa parte di piani industriali nazionali di lunga durata diretti a modificare strutturalmente il modello di produzione delle economie nazionali.[8]
La Cina ha adottato nel marzo 2011 il dodicesimo piano quinquennale dove considera prioritario il sostegno pubblico in determinati settori “strategici” (energie pulite, veicoli elettrici, informatica e banda larga, industrie farmaceutiche), anche orientando gli investimenti (spesso sotto forma di requisiti obbligatori per il trasferimento di tecnologia) e il finanziamento.[9] In India, la nuova politica industriale nazionale si è posta l’obiettivo di dare un nuovo assetto alla struttura economica e occupazionale del paese, portando entro il 2022 la quota dell’industria manifatturiera nel PIL dal 16% al 25% e puntando sulla produzione indigena. Piani nazionali di industrializzazione sono stati adottati anche in Brasile (Plano Brasil Maior), Argentina (Plano Estrategico Industrial 2020) e in Russia (limitatamente al settore automobilistico).[10]
* * *
La crisi finanziaria ed economica del 2008-2013 ha colpito anche la capacità del sistema bancario di far credito alle imprese (soprattutto per investimenti di lungo termine), e soprattutto la domanda interna: la carenza di clienti pesa sulle imprese più della mancanza di credito. Per questo motivo ciascun paese combina i propri piani industriali con politiche commerciali estere aggressive: l’imperativo diventa la conquista di nuovi mercati ed il loro consolidamento per garantire la ripresa economica attraverso le esportazioni. Paesi industrializzati ed emergenti stanno iniziando una competizione – per ora silenziosa – mettendo in campo attori istituzionali lasciati quiescenti nell’epoca pre-crisi.
Queste istituzioni sono conosciute con l’acronimo di ECA (Export Credit Agency). Nonostante assumano forme diverse in ciascun paese (agenzia governativa, compagnia di assicurazione a capitale pubblico o privato), hanno tutte in comune il fatto di esistere per assolvere uno scopo ben preciso: sostenere e difendere le esportazioni nazionali rilasciando garanzie – coperte dal bilancio dello Stato – laddove le istituzioni private non possono (spesso per grandi investimenti infrastrutturali in aree del mondo depresse; nelle forniture di aerei, navi, e equipaggiamenti militari).
La prima agenzia fu fondata nel Regno Unito (ECGD, Export Credit Guarentee Departament) dopo il primo conflitto mondiale, per sostenere la riconversione dell’economia di guerra ed il crollo della domanda interna: la prima area d’intervento pubblica è stata la fornitura dell’assicurazione del credito all’esportazione, ossia garanzie coperte dal bilancio dello Stato per chi esporta a credito. Ben presto tutte le economie industrializzate seguirono l’esempio inglese e si dotarono di agenzie o compagnie di assicurazioni pubbliche (COFACE in Francia, Euler-Hermes in Germania, Export-Import USA Bank negli Stati Uniti, Atradius Dutch Company nei Paesi Bassi, SACE in Italia, ecc…) con lo scopo di stimolare la domanda estera attraverso la concessione di crediti o semplicemente assicurando i crediti privati dietro garanzia del bilancio statale. Bisogna premettere che lo Stato offre questo servizio in mancanza di operatori privati in grado di assolvere compiti analoghi. Storicamente le ECA hanno svolto un ruolo determinante solo dopo la guerra, con gli accordi di Bretton Woods e la ripresa economica generale mondiale, sostenendo le grandi imprese nei loro processi di espansione internazionale. La crescita economica degli anni Sessanta nascose tuttavia il pericolo che le ECA fossero il mezzo per sussidiare indirettamente le imprese nazionali con crediti e assicurazioni a prezzi contenuti. Dopo numerose conferenze multilaterali si giunse alla sottoscrizione di numerosi accordi in seno ai paesi membri dell’OCSE per limitare o regolare l’azione delle ECA (accordo noto con il nome di Consensus).
Presso la Comunità Economica Europea si comprese presto che l’azione delle ECA era in contraddizione con la disciplina sugli aiuti di Stato nel commercio intra-comunitario e con la politica commerciale comune extra-comunitaria. Tuttavia il cammino per una regolamentazione del settore fu molto arduo e lungo, a causa delle resistenze dei governi a perdere il controllo e limitare il raggio d’azione di un prezioso strumento di politica commerciale estera. Agli inizi degli anni Novanta furono raggiunti risultati soddisfacenti solamente nel mercato del credito a breve termine (ossia crediti con termini inferiore a due anni) nel commercio intra-comunitario, proibendo agli Stati di supportare finanziariamente le ECA e lasciando il mercato dell’assicurazione del credito agli operatori privati. Tale divieto d’intervento tuttavia permette agli Stati d’intervenire nel proprio mercato in caso di crisi dell’offerta degli operatori privati. Invece per quanto riguarda il commercio extra-comunitario e del credito a medio-lungo termine (soprattutto per i grandi progetti infrastrutturali), gli Stati membri della UE mantengono una quasi totale autonomia di gestione delle proprie ECA: ciò è il riflesso della mancanza di potere istituzionale in materia di politica estera a livello europeo, che sarebbe il presupposto naturale per una politica commerciale estera comune con strumenti propri.
Negli anni Novanta del secolo scorso e nel primo decennio del XXI si è assistito ad una crescita tumultuosa dell’economia mondiale. Nuovi paesi ambiscono al rango di potenze economiche regionali, se non mondiali. Ma la crisi del 2008 ha arrestato improvvisamente la crescita (soprattutto nell’area dei paesi avanzati). La prima forma di manifestazione della crisi è l’insufficienza del credito fornita dalle banche per operazioni commerciali e d’investimento.
Secondo una relazione della Commissione del commercio internazionale del Parlamento europeo del 2010 “le agenzie di credito all’esportazione (ECA) rappresentano la principale fonte mondiale di finanziamento ufficiale per i progetti del settore privato. Il finanziamento di progetti industriali e infrastrutturali di grandi dimensioni nei paesi in via di sviluppo da parte delle agenzie di credito all’esportazione è notevolmente superiore al finanziamento annuale combinato di tutte le banche multilaterali di sviluppo. Per quanto riguarda i finanziamenti a breve termine (inferiori ai due anni e rappresentati principalmente dal finanziamento di operazioni commerciali) nel 2007 le agenzie di credito all’esportazione hanno sostenuto circa il 10% del commercio mondiale, per un valore pari a 1,4 trilioni di dollari in transazioni e investimenti.”[11]> Tuttavia, se prima della crisi i programmi a sostegno dell’esportazione sono stati appannaggio dei paesi OCSE (Stati Uniti, Unione europea, Giappone, Corea del Sud e Australia), la crisi economica ha generato una rapida crescita di nuovi soggetti internazionali e di nuovi programmi a sostegno dell’internazionalizzazione delle imprese tali da ridimensionare l’universo delle ECA dei paesi OCSE.
Il primo universo alternativo è rappresentato da tutti quei programmi degli stessi paesi OCSE per il finanziamento e gli investimenti diretti esteri (IDE) a supporto delle esportazioni che non vengono regolamentati in seno all’organizzazione medesima. Con la globalizzazione dell’economia mondiale il concetto di “esportazione” è cambiato radicalmente. Un tempo la produzione di beni era concentrata da un punto di vista geografico e integrata verticalmente all’interno dell’impresa. La divisione del lavoro aveva luogo nell’impresa o all’interno dei suoi singoli stabilimenti. Nel nuovo paradigma i processi produttivi sono sempre più frammentati nelle loro funzioni, che sono svolte da diverse imprese in diversi paesi, con un’importanza crescente delle funzioni della logistica, della strategia e pianificazione: si sviluppano sempre più le Catene globali del valore (CGV). E’ pertanto in questo processo che assumono grande importanza gli investimenti diretti esteri (IDE) per realizzare acquisizione di imprese straniere secondo la strategia della creazione della Catena del valore.
A questo gruppo si riconducono le attività della EDC canadese, della KFW IPEX tedesca, delle NEXI e JBIC giapponesi. Esse provvedono a supportare gli investimenti esteri delle rispettive economie come global market player, ossia assistendo le proprie aziende all’estero con finanziamenti e assistenza nei mercati esteri. Le attività ricondotte a questo universo ammontava a circa 110 miliardi di dollari USA nell’anno 2012. Ad esempio, il governo canadese, ha introdotto un nuovo programma di trade creation; ossia sono stati forniti poteri all’ECA canadese, l’EDC (Export Credit Development), per sviluppare tre settori considerati strategici per le aziende nazionali: aereonautica, clean technology e infrastrutture. “Per il settore aeronautico, l’iniziativa prevede il supporto per il nuovo velivolo Bombardier C-Series. Per le clean technologies, EDC dovrà individuare players internazionali, soprattutto nei paesi emergenti, che abbiano esigenze di tali tecnologie. Infine, per le infrastrutture, EDC si focalizzerà sui vantaggi offerti dal piano di sviluppo delle infrastrutture in India”.[12]
Gli Stati Uniti sostengono, invece, le imprese esportatrici attraverso la propria ECA (EX-IM USA) aprendo linee di credito (quindi uscendo dal campo delle semplici garanzie e assicurazioni) che le banche hanno negato: nel biennio 2011-2012 hanno messo a disposizione 30 miliardi di dollari in attività di direct-lending.
Il secondo universo alternativo è costituito dalle ECA dei paesi emergenti, non membri dell’OCSE (Russia, Cina, India e Brasile). Queste nuove istituzioni hanno fornito finanziamenti e assicurazione dei crediti all’esportazione per una cifra stimata attorno ai 70 miliardi di dollari USA circa nell’anno 2012.
Questi due universi insieme superano ampiamenti le attività delle ECA regolamentate nei paesi OCSE (circa 120 miliardi di dollari USA), tra cui figura anche l’assicurazione del credito all’esportazione.[13]
I dati più allarmanti, tuttavia, sono quelli che provengono dalla Cina. Secondo la Commissione europea, anche se la Cina ha aderito all’OMC, ha rifiutato di firmare con l’OCSE gli accordi sui crediti all’esportazione, nonostante gli accordi OMC prevedano che i membri si conformino alle disposizioni dell’OCSE. Durante la crisi del 2008-2013, a causa del calo dell’export, il governo di Pechino è ricorso ampiamente all’utilizzo dei crediti all’esportazione in modo non conforme alle discipline OCSE/OMC per stimolare le esportazioni dell’industria nazionale in settori ad alta intensità di capitale, che spesso sono quelli ad alta tecnologia. Inoltre molte industrie sono sovvenzionate in modo non trasparente, anche attraverso le attività delle imprese e delle banche statali e la messa a disposizione di terreni, materiali e fonti di energia sovvenzionati.[14]
Uno dei settori economici più sovvenzionati dal governo cinese è l’industria siderurgica. Tra il 2000 e il 2005 la produzione cinese di acciaio è triplicata. I dati aggiornati al 2009 mostravano che la Cina ha prodotto quasi il 50 per cento dell’acciaio mondiale; ma la nuova stima del 2013 ha rivelato che Pechino ha prodotto oltre sette volte l’acciaio fabbricato negli Stati Uniti. È difficile valutare esattamente in termini di quantità la sovvenzione del regime cinese nel settore siderurgico a causa della mancanza di trasparenza. Tuttavia uno studio condotto da Usha Haley e George Haley pubblicato nel 2013 sulla Harvard Business Review, ha rilevato che dopo l’adesione all’OMC, la Cina ha sovvenzionato annualmente il 20 per cento di tutta la sua capacità produttiva. Secondo gli Haley tra il 2000 e il 2007 il regime cinese ha fornito 20 miliardi di euro di sussidio energetico alla sua industria siderurgica. A causa del sussidio “l’acciaio cinese viene venduto per il 25 per cento in meno rispetto all’acciaio statunitense ed europeo”.[15]
Per la Cina assume importanza anche l’area geografica di destinazione dei suoi crediti e finanziamenti. L’Africa ha un ruolo decisamente preferenziale per le politiche commerciali e industriali estere cinesi.
La China Exim (Export Import) Bank ha stanziato 5 miliardi di dollari in prestiti soltanto dal 2007 al 2009, mentre il totale dei prestiti della Exim (che è la ECA cinese) arriva a 20 miliardi di dollari. Da parte sua, la Banca cinese per lo sviluppo ha annunciato nel settembre del 2010 di aver già stanziato 5,6 miliardi di dollari per sovvenzionare progetti in oltre trenta Stati africani, mentre il totale dei suoi prestiti supererebbe i 10 miliardi.
Le attenzioni crescenti di Pechino verso l’Africa fanno parte del suo piano di penetrazione commerciale sia per garantirsi l’accesso a nuovi mercati, sia per acquisire il controllo delle sue notevoli risorse minerarie e agricole. Il piano di Pechino consiste nel binomio aiuto-commercio: “aiuto” allo sviluppo infrastrutturale del paese africano e “commercio” dei prodotti cinesi. I crediti all’esportazioni cinesi vengono indirizzati per costruire infrastrutture in paesi africani usciti da guerre e periodi di violenza endemica: l’altra faccia della medaglia è che le infrastrutture (strade, ponti, ferrovie, palazzi governativi, ecc.) sono costruite al 70% da imprese edilizie e lavoratori cinesi. Poi per ripagare questi debiti la Cina chiede spesso la sottoscrizione di off-take agreements. Questa è una tecnica cui ci si riferisce comunemente come al “modello Angola”;[16] i paesi, tramite gli off-take agreements, accettano di ripagare il prestito ricevuto in fornitura di beni primari di loro produzione, come il petrolio. La Cina Exim Bank si è impegnata a stanziare finanziamenti ripagati in petrolio per circa 14,5 miliardi di dollari per il programma di ricostruzione post-guerra dell’Angola, inclusi un centinaio di progetti nel campo dell’energia, dello sviluppo idrico, della salute, dell’istruzione, delle telecomunicazioni, della pesca e dei lavori pubblici.
* * *
L’Unione europea, in questa situazione di crisi, non può agire come gli Stati Uniti e la Cina perché non ha né le competenze, né i poteri per attuare politiche commerciali estere di questo tipo. L’assetto confederale dell’Unione europea in realtà causa due ordini di problemi ai suoi paesi membri. Il primo concerne l’impossibilità tecnica di istituire un sistema europeo di ECA a causa della relazione diretta che esiste tra l’ECA e il bilancio dello Stato. Infatti le attività delle ECA (fornire crediti, assicurazioni e garanzie) assumono tanto più valore quanto maggiore è l’entità e qualità del bilancio dello Stato che sta dietro loro. Quindi istituire adesso una ECA europea significherebbe realizzarla: o con l’esiguo bilancio dell’Unione europea (del tutto insufficiente per far fronte anche a questo compito), oppure mettendo in comune i vari bilanci statali dei paesi membri uniti in una rete di trattati di riassicurazione, compromettendone l’efficacia operativa. In secondo luogo la divisione politica dei paesi europei li ha resi vittime della crisi dei debiti sovrani – superata solo provvisoriamente – che ha visto i paesi periferici dell’area euro subire l’impennata dei tassi di interessi sui titoli del debito pubblico che ha aggravato ulteriormente la loro crisi debitoria. Inoltre, la crisi dei debiti sovrani nei paesi periferici si è trasmessa al sistema bancario e quindi ha inciso pesantemente sul costo del credito: il risultato è stato il progressivo indebolimento della capacità degli Stati colpiti da questo tipo di crisi sia di sostenere con risorse pubbliche le esportazioni, sia di garantirle con il proprio bilancio (per via dell’abbassamento del rating sovrano). Il mutato scenario economico ha creato quindi un forte divario nelle offerte di credito, reintroducendo elementi – prima sconosciuti – di competitività svantaggiosa tra i paesi europei e all’interno dell’area OCSE. Paesi come Italia e Spagna hanno visto quote di export diminuire a vantaggio delle esportazioni di paesi come la Germania e i paesi nordici favoriti dalla migliore situazione finanziaria. In questo contesto, le istituzioni europee si sono ritrovate impotenti perché, per correggere tale situazione, non sono sufficienti né le norme sugli aiuti di Stato, né quelle sulla politica commerciale comune, così come sono formulati nel Trattato di Lisbona.
In conclusione, in Europa è auspicabile l’immediata costituzione di una ECA europea per superare i problemi su esposti: sia per garantire alle imprese esportatrici pari condizioni di accesso ai mercati esteri, sia per avere un attore istituzionale che abbia poteri d’intervento pari a quelli di Stati Uniti e Cina. Ma per realizzare tali obiettivi è necessario risolvere il nodo politico che sta a monte, ossia la creazione di un bilancio federale dell’Eurozona, con risorse proprie e politicamente controllato da istituzioni politiche federali, in grado di sostituire il ruolo di garante dei bilanci statali dei paesi membri.
Davide Negri
[1] Claudio Dematté, Fabrizio Perretti, Strategie di internazionalizzazione, Milano, Egea, 2003.
[2] Centro Studi di Confindustria, Scenari industriali n. 6, In Italia la manifattura si restringe. I Paesi avanzati puntano sul territorio, giugno 2014.
[3] Dall’interrogazione parlamentare europea del 29 gennaio 2004, E-3601/2003, risposta data dal sig. Lamy a nome della Commissione.
http://www.europarl.europa.eu/sides/getAllAnswers.do?reference=E-2003-3601&language=IT.
[4] Relazione 2012 della Commissione al Consiglio europeo sugli ostacoli al commercio e agli investimenti, p. 7.
[5] Ibidem, p. 13.
[6] Daniele Cellamare e Nima Baheli, La penetrazione cinese in Africa, Rivista Militare, 2013, p. 15
http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/IASD/65sessioneordinaria/Documents/
La_penetrazione_cinese_in_Africa.pdf.
[7] Daniele Cellamare e Nima Baheli, La penetrazione cinese in Africa, op. cit., pp. 24-27.
[8] Relazione 2013 della Commissione al Consiglio europeo sugli ostacoli al commercio e agli investimenti, p. 13.
[9] Ibidem, p. 14.
[10] Ibidem, p. 15.
[11] Documento di lavoro sull’applicazione di alcuni orientamenti in materia di crediti all’esportazione che beneficiano di pubblico sostegno. Commissione per il commercio internazionale del Parlamento Europeo. Relatore: Yannick Jadot, 24 giugno 2010.
[12] AA.VV., Il paradigma della nuova internazionalizzazione in Italia. Il ruolo di SACE, Ufficio Studi SACE, 2013, p. 28.
[13] Dati e considerazioni ricavati da Export-Import Bank of the United Sates, Report to the U. S. Congress on Export Credit Competition and the export-import bank of the United States. June 2013, Washington D.C., pp. 139 e ss.
[14] Relazione 2012 della Commissione al Consiglio europeo sugli ostacoli al commercio e agli investimenti, p. 12.
[15] http://epochtimes.it/news/commercio-mondiale-la-cina-vuole-imporre-le-sue-regole---125214
[16] Daniele Cellamare e Nima Baheli, La penetrazione cinese in Africa, op. cit., p. 118.
|
The Federalist / Le Fédéraliste / Il Federalista
Via Villa Glori, 8
I-27100 Pavia |