Anno LXVI, 2024, Numero 2-3, Pagina 89
LE IMPLICAZIONI TECNICHE DI UNA DIFESA EUROPEA*
Introduzione: l’analogia con gli anni Cinquanta.
Le recenti tensioni internazionali, e la spirale di anarchia che regola i rapporti tra Stati porta oggi alla necessità di una ripresa della discussione sul tema della difesa comune: la finestra storica, su cui siamo già in ritardo, apertasi con la prima occupazione da parte della Federazione Russa della Crimea e del Donbass, ci ha gettato in una situazione simile a quella che si profilava negli anni Cinquanta, quando si tentò seriamente di mettere in piedi un sistema comunitario di difesa. Per quanto gli analogismi tra due periodi storici scoprano spesso il fianco a decontestualizzazioni e bias temporali, è comunque innegabile la copresenza di tre punti comuni.
In primo luogo, la presenza di un leader dall’altra parte della cortina cui non possiamo fidarci: prima Stalin, ora Putin.
In secondo luogo, una guerra che ci ha fatto comprendere la pericolosità dell’altra parte e la paura che il conflitto si allarghi endemicamente al continente: prima la Guerra di Corea ed ora la Guerra Russo-Ucraina.
Infine, il senso di insicurezza cronica della classe politica europea rispetto all’impegno americano nella difesa del continente ed il nodo centrale del burden-sharing interno alla NATO, da sempre leva politica delle presidenze d’oltreoceano.
La morte di Stalin nella Dacia nel marzo del 1953, la fine, con un nulla di fatto, della Guerra di Corea nel luglio dello stesso anno, e l’apertura del fronte algerino per i francesi nel 1954, hanno portato ad un repentino fallimento del progetto di costruzione della difesa comunitaria.
Questa cornice storica non vuole essere un futile esercizio di stile fine a sé stesso, ma un monito di come il processo storico di costruzione della difesa comunitaria (come del resto della federazione tutta), non si incastona nella logica dell’inevitabilità storica, ma rassomiglia più ad un essere organico in continuo cambiamento, e sta a noi agire nel momento giusto per far sì che questo giunga a compimento.
È quindi fondamentale non lasciarsi sfuggire anche questa opportunità.
La contestualizzazione storica e riconoscere questo momento come un’apertura fondamentale su cui fare leva, è forse la parte più semplice, perché scendendo poi nell’applicazione materiale delle scelte politiche, queste generano, una volta prese, altre domande aperte, in una sequenza di opzioni estremamente articolata.
Provando a mettere ordine alle molte idee che gravitano attorno alla questione della difesa, vi sono moltissime questioni politiche di fondamentale importanza che attendono soluzione o, meglio, implementazione, ma ve ne sono altrettante dal punto di vista tecnico e pratico. In particolare, sono riscontrabili a primo avviso almeno cinque punti chiave da risolvere in questo campo.
La costruzione di una struttura sistemica di coordinamento industriale.
Dobbiamo intanto aver chiaro che la costruzione di una difesa comune europea sarà, nella messa a terra sostanziale, un processo lungo e complicato perché, a differenza di Stati come la Federazione Russa e gli Stati uniti d’America, in cui l’industria bellica è nata e cresciuta in un sistema già connesso, e quindi costruita fin dagli albori con una struttura già improntata nella cooperazione tra aziende e con una competizione regolata dallo Stato centrale in materia di appalti, in Europa solo recentemente si sono avviati processi di cooperazione tra aziende dei vari paesi (uno dei primi progetti di cooperazione fra paesi europei nella produzione di armamenti è stato lo sviluppo del Panavia Tornado nella seconda metà degli anni Settanta). Queste collaborazioni seguono spesso regole di mercato, nelle quali quindi non sono inusuali estromissioni vicendevoli dai progetti di ricerca o ritiri unilaterali dallo sviluppo a seguito di scelte economiche da parte delle aziende, che, come primo punto di riferimento, hanno gli utili e non l’orizzonte politico. Le Joint Venture tra aziende della difesa europee sono le benvenute, e sono iniziative che, in assenza di altro devono essere incentivate, ma sono anche fortemente limitate negli scopi: ne è un esempio la recente collaborazione siglata tra l’italiana Leonardo e la tedesca Rheinmetall, volta all’aggiornamento del parco blindati dell’esercito italiano: se un mezzo viene sviluppato seguendo solo le linee strategiche e di dottrina italiane, questa macchina, per quanto possa uscire perfetta, vedrà la sua efficacia limitata agli obbiettivi specifici preposti dall’alto comando italiano e quindi non necessariamente adatto all’impiego in altri teatri o sotto dottrine di guerra differenti.
Omologazione e razionalizzazione: la necessità di integrarsi.
Questo ci porta direttamente al secondo punto critico da risolvere, l’omologazione dei sistemi di difesa e la razionalizzazione delle spese per la difesa.
Vi è una necessità imperante di omologazione e riconversione completa in termini di armi e mezzi delle forze armate di tutti i paesi europei che porti ad una comunione di equipaggiamenti e procedure; anche in questo caso vi sono iniziative di cooperazione lodevoli, ma limitate nel raggio. Esistono e vengono redatti regolamenti europei, anche su temi di micro amministrazione delle forze, in cui si cerca di dare a tutti i membri delle forze armate un compendio comune sul modo di agire durante i pattugliamenti a terra, ad esempio, o sulle procedure da seguire in caso di emergenza, ma tutti questi sforzi si ritrovano ad essere gerarchicamente sottostanti alle singole direttive ed ai singoli regolamenti stilati dagli Stati nazionali, rendendo quelli europei un apparato figlio di una sclerotizzazione burocratica e producendo una moltiplicazione superflua ed una differenza grossolana sui metodi ed i comportamenti del personale a terra.
Le spese, gli sprechi, l’opinione pubblica.
Affrontando invece il tema della razionalizzazione dei costi della difesa, ci scontriamo su due questioni interessanti, un paradosso ed una renitenza sociale.
Il secondo punto è il più veloce da dirimere, basta dire che non è certo un segreto la forte e lodevole resistenza della società civile europea, e quindi della politica, rispetto al tema della difesa e dei suoi costi, dal momento che è ancora vivo un sentimento antimilitarista nel continente che rende spinosa ogni discussione sulla difesa e sul suo finanziamento.
Il paradosso invece sta nel fatto che nonostante questa avversione ideologica verso i costi bellici, il budget dei vari ministeri della difesa dei paesi dell’Unione oltre ad essere invidiabile, parliamo, al 2020, di 200 miliardi di euro, non ha fatto che aumentare. Il problema dei costi non sta tanto in una valutazione etica del tema, ma nel campo pragmatico delle spese. Insomma, questi investimenti sono validi? Ad oggi, viene da dire che sono costi necessari, ma infinitamente razionalizzabili, perché anche qua siamo vittime di quelle sclerotizzazioni prima citate in termini di omologazione dei regolamenti.
Per capire gli sprechi che esistono e persistono, basti pensare all’enorme varietà in termini di parco mezzi tra le varie forze armate europee: ogni paese “maggiore” nel continente si ostina a ricercare e produrre i propri MBT (Main battle tank); ad esempio, in Francia abbiamo il Leclerc, In Germania abbiamo la serie Leopard ed in Italia l’Ariete, e ognuno di questi modelli di carro ha bisogno di un supporto logistico specifico, di un equipaggio addestrato per operare su quella macchina e di un comparto industriale che ne possa garantire la riproducibilità. Se moltiplichiamo questa varietà a praticamente tutti i paesi europei e in tutti gli ambiti micro e macro della difesa, capiamo facilmente come vi siano ampi margini di miglioramento nella gestione dei costi. Anche qui esistono esempi virtuosi da cui prendere spunto, come nel caso dell’omologazione in ambito NATO dei calibri per i fucili di dotazione nelle forze armate dell’alleanza atlantica nel 5,56 mm, ma, come detto in precedenza, è sempre troppo poco.
Die kaiserliche und königliche Armee.
Il terzo punto da toccare è sempre da leggersi in termini di armonizzazione, ma culturale.
Una delle sfide che ci si porrà di fronte sarà l’omologazione delle componenti nazionali all’interno di una sola istituzione. Le forze armate in Europa, sono state spesso e stanno tornando ad essere l’ultimo baluardo di un’identità nazionale in crisi, un ricettacolo di nazionalismi che può fortemente intaccare la cooperazione tra unità diverse, incorrendo nel rischio di generare un effetto “austro-ungarico” interno alle forze di difesa, che ne minerebbe la compattezza e le capacità operative.
Il possibile ruolo dei federalisti.
Dopo aver tentato di sottolineare le criticità chiave nel processo di creazione della difesa europea, ci rimane da chiederci cosa possa fare il Movimento federalista europeo in questa realtà. Il nostro ruolo d’avanguardisti può essere efficacemente svolto spendendosi come collante tra politica ed industria, essendo forti dell’impossibilità di essere politicamente ricattati, perché, privi di velleità partitiche, possiamo essere i primi interlocutori con i settori industriali della difesa ed intavolare con loro una discussione volta a semplificare, alla politica, la comprensione delle necessità di un settore economico imponente e, alle aziende, la comprensione della necessità politica della difesa comunitaria, barcamenandosi in un opera diplomatica tra i due mondi.
Se dovessimo in modo miope concentrarci su uno solo dei due fattori trascurando l’altro rischieremmo o di non creare nulla (fallimento politico) o di creare un gigante dai piedi d’argilla (fallimento nella messa a terra del progetto).
* * *
Rimangono due punti da esaminare prima di avviarci alle conclusioni.
La NATO.
Partiamo dall’elefante nella stanza di una qualsiasi discussione sulla difesa comunitaria, il rapporto con la NATO, e quindi con gli Stati Uniti.
L’alleanza deve rimanere centrale nella costruzione di un sistema di difesa comune, deve servirci come bussola rispetto alla costruzione di una forza integrata, e, successivamente può essere un importante sistema d’appoggio con però un peso specifico statunitense fortemente ridimensionato e con la riacquisizione da parte europea della propria autonomia strategica e militare, lavorando per spezzare lo strapotere americano sull’industria bellica europea, preferendo la produzione di sistemi indigeni e per renderci maggiormente capaci di agire anche liberamente in contesti strategici complessi.
Strutturare le forze armate.
Su questo punto vi è una concordia di base nel mondo federalista e non solo, con però criticità a cui stare attenti. Come costruire queste forze armate? Qua credo dipenda tutto da quale ruolo si voglia dare al sistema di difesa comunitario.
Se l’obbiettivo è quello di avere la capacità di proiettare la nostra forza al di fuori del continente, prospettiva abbandonata dagli europei sin dalla guerra fredda, appaltando la propria capacità di proiezione della forza agli statunitensi, almeno quando si parla di operazioni su vasta scala, avremo necessariamente bisogno di forze armate con personale attivo simile in numero a quello statunitense seguendo quindi la metodologia novecentesca di strutturazione, con tutti i costi non solo prettamente economici che ne conseguono.
Questa non è un’opzione particolarmente convincente, perché la proiezione all’esterno può essere raggiunta con riforme nel modo di funzionamento della NATO senza così rischiare un uso errato della forza militare da parte delle forze politiche europee, che essendo politica, può e sicuramente varierà molto nel tempo, evitando il rischio di una deriva di tipo neo-coloniale o comunque un uso offensivo e quindi improprio delle forze armate, coadiuvando quello che si spera sarà un impegno costituzionale, quando verrà il momento, di ripudio della guerra ad una struttura tecnica inadatta ed incapace di seguire ed attuare politiche di potenza.
La seconda opzione è la creazione di una relativamente piccola task force altamente specializzata capace di difendere i territori continentali, se coadiuvata da una massiccia forza di riservisti e che in accordo con le Nazioni Unite abbia la possibilità di essere schierata anche al di fuori del continente riuscendo così a donare un peso specifico anche a questa istituzione e risolvendo l’annosa questione della sua inefficienza.
Su questo assetto, che gode, come già detto, di largo consenso, vi sono però dei nodi da affrontare.
Il primo, meno critico, che ricalca la questione dell’armonizzazione degli equipaggiamenti delle varie forze armate è: come si equipaggiano i riservisti? Serve a monte un sistema di omologazione di equipaggiamenti e dottrine seguendo un processo gerarchico, partendo dalla punta della piramide per poi scendere ai riservisti. Nulla vieta che in un primo momento i sistemi d’arma che cadrebbero in disuso a seguito dell’omologazione continentale, continuino a prestare servizio nelle guardie nazionali dei vari paesi, ma successivamente si dovrà procedere anche alla loro razionalizzazione, esaurendo nei fatti la domanda nazionale per sistemi di armamenti che non siano quelli comuni in tutta Europa, e tornando quindi al punto prima citato della necessità di dialogare in anticipo con le aziende nazionali per far loro presente il rischio di perdere questa imponente fetta di mercato.
La seconda criticità si lega alla lettura data precedentemente delle forze armate come ricettacolo dei nazionalismi europei, le guardie nazionali di un certo paese dovranno essere composte dai cittadini di quel paese? Oppure risulterà essere più utile mischiare le nazionalità, seguendo il modello arcaico di costruzione dell’identità nazionale tramite il servizio militare in luoghi lontani dal paese natio? Perché per quanto possa sembrare scontato che la guardia nazionale, ad esempio polacca, sia composta esclusivamente da cittadini polacchi, esiste un forte rischio di deriva nazionalista interna alle guardie nazionali, minando quindi l’interno sistema. Una soluzione, oltre al mischiare le varie nazionalità, che riporta a periodi storici di cui, come europei, non possiamo andare fieri, si potrebbero mettere le guardie nazionali alle dipendenze dirette di un ministero centralizzato e non dei singoli Stati, irrigidendo però così un sistema, che invece richiede per sua natura un’alta elasticità ed una velocità di mobilitazione rapida.
Conclusioni.
In conclusione, rimangono altri punti problematici degni di nota, come il ruolo inglese, che ancora oggi sviluppa e produce mezzi in collaborazione con aziende europee, come nel caso del progetto Tempest, nato dalla collaborazione tra Leonardo e BAE systems, che dispone di un arsenale nucleare e che siede al consiglio di sicurezza dell’ONU, o ancora, il nodo della forza nucleare francese.
Quello su cui, però andrà posta maggiormente l’attenzione, perché rischiamo di peccare inavvertitamente di eurocentrismo, sarà la risposta del resto del mondo al processo di costituzione della difesa europea, perché, per quanto possa sembraci un passaggio naturale sulla via della federazione, dovremo tener presente che non tutti vedranno questi sviluppi nella nostra stessa ottica, ma leggeranno il riarmo del continente europeo, teatro e creatore di due guerre mondiali e inevitabilmente macchiato dalla propria storia coloniale, come una nuova minaccia da cui difendersi.
Questa paura potrebbe portare al riaffiorare del “paradosso della sicurezza”, che ha già attanagliato il mondo durante la guerra fredda e che minacciosamente sta tornando a farsi vedere in tempi recenti.
Edoardo Pecene
[*] Rielaborazione dell’intervento alla riunione nazionale dell’Ufficio del Dibattito del Movimento federalista europeo tenutasi a Cagliari il 19-20 ottobre 2024sul tema: Unione europea: un laboratorio per realizzare l’unità nella diversità.
Anno LXVI, 2024, Numero 2-3, Pagina 81
LA RIPARTIZIONE DELLE COMPETENZE
IN UN’UNIONE FEDERALE*
I principi stabiliti dai Trattati in vigore
La ripartizione delle competenze tra i diversi livelli di governo è un problema classico di diritto costituzionale in ogni sistema federale poiché occorre conoscere con precisione quali competenze possono essere esercitate dalla Federazione e quali devono essere riservate — e quindi esercitate — dagli Stati membri di una Federazione. L’attuale Unione europea, pur non essendo una Federazione compiuta, fonda sugli stessi principi la ripartizione delle competenze tra lei e i suoi Stati membri, con la sola differenza che le competenze dell’Unione le sono attribuite dagli Stati membri in quanto essi si considerano (e così hanno stabilito) i “padroni dei Trattati”, mentre le federazioni fondano la ripartizione delle competenze su un atto autonomo della federazione ratificato dal popolo sovrano (“We the people” per la Federazione americana o “il potere costituente appartiene al popolo” della Legge Fondamentale tedesca).
Secondo l’art. 5 del Trattato di Lisbona, la delimitazione delle competenze dell’Unione è fondata sul principio di “attribuzione” da parte degli Stati membri proprio in quanto “padroni dei Trattati”. Nello stesso articolo, si precisa che i principi di sussidiarietà e di proporzionalità riguardano l’esercizio delle competenze dell’Unione (in realtà l’esercizio delle sole competenze concorrenti — che nella versione francese del Trattato vengono definite “condivise” — in quanto la nozione di competenze “esclusive” esclude a priori l’esercizio di una competenza da parte degli Stati membri, mentre l’esercizio delle competenze dette di sostegno esclude a priori un intervento legislativo di armonizzazione da parte dell’Unione europea). Quindi è solo nel campo delle competenze concorrenti — enumerate in modo non esaustivo nell’articolo 4 del TFUE — che si applicano i principi di sussidiarietà e di proporzionalità. Ciò significa che l’Unione europea deve dimostrare, nell’esercizio della competenza legislativa da parte delle sue istituzioni, che l’adozione di una “legge europea” (regolamento o direttiva) in uno dei settori enumerati nell’art. 4 TFUE è più efficace di leggi nazionali adottate individualmente dai singoli Stati (e che la “legge europea” non comporta modalità di azione eccessive rispetto a quanto sia strettamente necessario per raggiungere lo scopo perseguito).
Unione federale di Stati oppure Stato federale?
Contrariamente a quanto afferma la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, i federalisti non vogliono creare un super-Stato federale europeo che eserciti quelle competenze legislative o esecutive di cui dispongono oggi gli Stati nazionali che hanno, nella stragrande maggioranza dei casi, un’esistenza secolare. I federalisti, come anche personalità politiche come Luigi Einaudi, hanno riconosciuto che lo Stato nazionale che si è affermato nei secoli non è più in grado di svolgere tutte le funzioni che esercitava nell’Ottocento e di esercitare una sovranità assoluta in tutti i campi della sua attività. Per questa ragione, la soluzione più realista sarebbe quella di creare, per via di aggregazione, un’unione federale degli Stati nazionali esistenti (o di una parte di essi) sul modello praticato dagli Stati Uniti d’America nel 1789 o dalla Confederazione svizzera nel 1848. Tale soluzione corrisponde a quella preconizzata dal Prof. Sergio Fabbrini nel suo volume Which European Union? pubblicato nel 2015[1] e non si distingue da quella preconizzata da Jacques Delors quando propose, con un solo apparente ossimoro, la creazione di una federazione di Stati-nazione. In questa organizzazione federale, gli Stati nazionali continuerebbero ad esercitare le competenze di cui hanno disposto per secoli (cito per l’essenziale la politica di sicurezza interna e l’ordine pubblico, l’organizzazione della rete dei trasporti sull’insieme del territorio nazionale, i diritti sociali essenziali quali la sanità, l’istruzione e l’occupazione, la previdenza sociale ed il regime pensionistico, in breve il cosiddetto welfare state nell’accezione di protezione del cittadino dalla culla alla tomba che ha caratterizzato la politica dei paesi scandinavi dal secolo scorso).
Le competenze di cui dispone attualmente l’Unione europea
In base agli articoli 3 e 4 dell’attuale Trattato di Lisbona, l’Unione europea dispone di una competenza legislativa esclusiva in cinque settori di attività (l’unione doganale, la politica monetaria, le regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno, la politica commerciale comune e la conservazione delle risorse del mare), mentre dispone di una competenza legislativa condivisa o concorrente in undici settori di attività quali ad esempio il mercato interno, l’agricoltura, l’ambiente e i trasporti. In alcuni settori particolari quali la ricerca, lo sviluppo tecnologico e la cooperazione allo sviluppo, l’Unione europea può condurre delle azioni specifiche senza che tale competenza impedisca agli Stati membri di esercitare una competenza a loro volta (contrariamente alla regola generale valida per le competenze condivise o concorrenti).
Le competenze di cui dovrebbe disporre un’Unione federale di Stati
1) Una Legge Fondamentale che attribuisca le competenze.
L’Unione federale dovrebbe disporre di una Legge Fondamentale votata da una maggioranza di cittadini europei, o attraverso un referendum popolare paneuropeo oppure tramite il voto favorevole di una maggioranza di Parlamenti nazionali (che vincolerebbe solo i paesi favorevoli al nuovo testo di Legge Fondamentale). Preferisco chiamare il nuovo testo “Legge Fondamentale” piuttosto che Costituzione europea poiché le Corti Costituzionali di alcuni Stati europei (in particolare quella tedesca e quella francese) hanno contestato il fatto che una Costituzione europea prevalga sulle Costituzioni nazionali. Tale Legge Fondamentale dovrebbe sopprimere il potere attuale degli Stati membri di attribuire le competenze legislative all’Unione federale (in altri termini, dovrebbe privare gli Stati del loro potere attuale di essere i “padroni dei Trattati”). La nuova Unione federale dovrebbe quindi essere autonoma nel definire le competenze dell’Unione. Le competenze legislative esclusive dell’Unione federale potrebbero essere le stesse dell’attuale Unione europea (vale a dire le cinque competenze esclusive enumerate nell’art. 3 del TFUE) mentre occorrerebbe ampliare le competenze dette concorrenti o condivise enumerate nell’art. 4 del TFUE.
2) Una capacità fiscale propria.
L’Unione federale dovrebbe disporre di una capacità fiscale propria, cioè della facoltà di intervenire sul piano legislativo sia per le entrate che per le spese dell’Unione. Per permettere all’Unione di adempiere ai compiti che le sono affidati dalla Legge Fondamentale, essa dovrebbe avere il diritto di percepire imposte europee dirette e indirette (oppure partecipazioni al gettito di imposte dirette o indirette nazionali), di fare prestiti, di acquistare e vendere beni mobili e immobili nel territorio degli Stati membri (senza che questo limiti il diritto analogo degli Stati membri di percepire imposte nazionali). Per questo, l’Unione dovrebbe disporre di un bilancio federale europeo che ammontasse almeno al 3% o al 4% del bilancio complessivo degli Stati membri (come fu proposto alcuni anni fa da Emma Bonino sotto la denominazione di “una Federazione leggera”[2]). Un documento del Centro Studi sul federalismo di Torino[3] ha descritto quali potrebbero essere le “risorse proprie” da attribuire al bilancio europeo (per l’essenziale una sovraimposta europea nei settori del tabacco e del gioco d’azzardo, nonché una tassa europea sulle transazioni finanziarie, che fornirebbero al bilancio europeo circa 100 miliardi di euro annuali, da aggiungere ad altre risorse proprie già proposte dalla Commissione europea per circa 50 miliardi di euro annuali, il che fornirebbe al bilancio europeo l’ammontare di circa 150 miliardi di euro ogni anno).
3) Una politica industriale europea.
Oggi il Trattato di Lisbona prevede solo delle misure di politica industriale che accompagnino o sostengono l’industria europea. Ma le profonde trasformazioni intervenute nell’economia mondiale impongono una revisione della politica industriale europea che incoraggi e favorisca l’efficienza energetica, la cosiddetta economia circolare, la digitalizzazione e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale in modo compatibile con l’obiettivo della piena occupazione. Occorre promuovere l’innovazione, gli investimenti e gli strumenti finanziari che consentano alle piccole e medie imprese (che rappresentano la quasi totalità delle imprese europee) di crescere. L’Unione federale deve poter contare su un sistema federale di banche pubbliche di investimento, su appalti pubblici europei e su imprese pubbliche europee che diano vita a progetti comuni come Galileo, Ariane, Airbus o come l’European Microchips Act. Occorre quindi che l’Unione federale disponga di una vera e propria competenza legislativa in materia di politica industriale.
4) Garantire l’autonomia strategica dell’Unione federale.
L’Unione federale dovrebbe disporre di una vera e propria sicurezza esterna e dotarsi a tal fine di una politica estera e di difesa comune. Non si tratta, come vorrebbero alcune critiche caricaturali, di costituire un cosiddetto esercito europeo, ma di sfruttare le economie di scala derivanti dall’integrazione dei sistemi di difesa nazionali e dalla standardizzazione degli armamenti. Tutt’al più, sarà necessario creare una forza di intervento rapido in caso di crisi internazionali che dovrebbe andare ben al di là delle 5.000 unità indicate nello Strategic Compass dell’Alto Rappresentante Borrell[4] (basti ricordare che un Consiglio europeo tenuto ad Helsinki nel 1999 aveva deciso di costituire una forza di intervento rapido composta da circa 50.000 unità[5]). Una difesa europea dovrebbe essere concepita come uno strumento per consentire all’Unione federale di agire efficacemente per il mantenimento e la promozione della pace (il peace keeping e il peace building) e anche per intervenire nel quadro di un mandato dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. L’Unione federale dovrebbe attuare un controllo rigoroso sulla vendita di armamenti ed agire per una riduzione reciproca ed equilibrata delle forze militari e degli armamenti esistenti. L’essenziale per l’Unione federale sarebbe di disporre di una competenza specifica per coordinare le politiche di difesa nazionali attraverso l’adozione di regole comuni. Naturalmente, occorrerebbe innanzitutto condividere degli obiettivi di politica estera (non necessariamente all’unanimità tra gli Stati membri ma almeno tra una larga maggioranza di Stati), avere una percezione largamente condivisa delle minacce esterne, essere disponibili a mettere in comune strumenti di difesa (compresi quelli nucleari) al servizio di missioni e strategie comuni, una maggiore interoperabilità di forze armate nazionali, una base di industria pubblica comune e regole comuni sulla vendita d’armi a paesi terzi. Naturalmente, una difesa europea dovrebbe essere sottoposta al controllo di un governo federale che risponda ad un Parlamento eletto democraticamente dai cittadini europei. In un futuro non lontano, il governo federale europeo dovrebbe rappresentare l’Unione europea nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite come conseguenza logica dell’attribuzione di un seggio unico europeo nel quadro di una riforma dell’ONU. Naturalmente, l’attribuzione all’Unione federale di una competenza in materia di politica estera e di difesa comune richiede la modifica del processo decisionale (voto a maggioranza).
5) Lo Stato di diritto.
Grazie all’art. 7 del Trattato di Lisbona esiste già oggi una competenza dell’Unione europea per sanzionare uno Stato membro che violi le disposizioni relative allo Stato di diritto (soprattutto l’indipendenza della magistratura dal potere esecutivo e la libertà di stampa). Tuttavia, l’art. 7 TUE non permette in pratica di sanzionare uno Stato il cui governo violi lo Stato di diritto a causa dell’unanimità richiesta (salvo lo Stato inadempiente) nel Consiglio dell’Unione. Occorrerebbe di conseguenza affidare la competenza sanzionatoria alla Corte di Giustizia (come fu proposto nel progetto Spinelli votato dal PE nel Febbraio 1984) e prevedere la sospensione dello Stato inadempiente (non solo il suo diritto di voto), come è previsto in sede ONU oppure nello statuto del Consiglio d’Europa.
6) Rafforzare la politica sociale dell’Unione federale.
A mio parere, la creazione di un vero welfare europeo dovrebbe fondarsi essenzialmente sulle politiche nazionali di welfare (previdenza sociale e regime pensionistico) e non sulla competenza legislativa di un’Unione federale. Tuttavia, questo principio non dovrebbe impedire un rafforzamento della politica sociale in un’Unione federale rispetto alle competenze legislative di cui dispone attualmente l’Unione europea. Non dimentichiamo che la politica sociale è stata finora la “parente povera” dell’UE che ha prodotto sul piano legislativo non più di 80 o 90 “leggi” europee (sulle circa 15.000 leggi europee esistenti). Fortunatamente, l’adozione relativamente recente di un “pilastro europeo “ dei diritti sociali da parte delle Istituzioni dell’UE ha permesso alla Commissione europea di proporre un programma di attuazione di 20 principi o diritti sociali riconosciuti negli Stati membri e/o nella Carta dei Diritti fondamentali. Tale programma ha permesso all’UE di intervenire sul piano legislativo attraverso direttive europee sulle condizioni di lavoro, sulla parità di genere e financo sul salario minimo malgrado il Trattato escluda l’adozione di leggi europee sulle retribuzioni. Inoltre, il programma SURE ha permesso di accordare prestiti da parte della Commissione europea e della BCE per circa 100 miliardi di euro destinati alla conservazione dei posti di lavoro attraverso la cassa integrazione, prestiti relativi ad iniziative di formazione professionale. Anche se una politica di welfare dovrà restare, per l’essenziale, una competenza nazionale per quanto riguarda la previdenza sociale ed il regime pensionistico, occorrerebbe generalizzare la procedura legislativa ordinaria e, pertanto, il voto a maggioranza in seno al Consiglio, all’insieme delle misure di politica sociale previste dall’art. 153 del TFUE. Lo stesso dovrebbe valere per gli accordi conclusi dalle parti sociali ai sensi dell’art. 155 TFUE.
7) Altri rafforzamenti delle competenze concorrenti esistenti nell’attuale UE.
Oltre alle nuove competenze concorrenti di cui dovrebbe disporre l’Unione federale (vedere sopra), occorrerebbe estendere le competenze attuali dell’Unione europea in materia di politica dell’energia alla conclusione di accordi internazionali relativi alla fornitura in comune di risorse energetiche. Inoltre, in materia di politica economica, occorrerebbe modificare le disposizioni che affidano agli Stati membri il coordinamento delle loro politiche economiche (artt. 119, 120 e 121 TFUE) a profitto di una competenza legislativa attribuita all’Unione federale. Di conseguenza, le decisioni legislative sull’assistenza finanziaria ai paesi in difficoltà di cui all’art. 122 TFUE andrebbero prese secondo la procedura legislativa ordinaria. Lo stesso varrebbe per le decisioni di cui all’art. 126 relative ai deficit eccessivi e all’art. 136 per quanto riguarda gli orientamenti di politica economica dei paesi della zona Euro. Inoltre, occorrerebbe modificare l’art. 125 TFUE al fine di permettere la creazione di strumenti finanziari analoghi al Recovery Plan/Next Generation EU che prevedano la formazione di un “debito comune” europeo finanziato da risorse proprie dell’Unione federale.
Brevi conclusioni
In conclusione, un’Unione federale europea non avrebbe bisogno di beneficiare di nuove competenze legislative esclusive (basterebbero le cinque dell’attuale UE) ma potrebbe realizzarsi attribuendo all’attuale UE la “competenza delle competenze” in una Legge Fondamentale votata da una maggioranza di cittadini europei o di Parlamenti nazionali ed estendendo il numero e il contenuto di nuove competenze concorrenti ad alcuni settori di attività supplementari (vedi sopra). Quindi, da un punto di vista meramente numerico, basterebbe attribuire all’Unione federale una competenza concorrente nei quattro o cinque settori di attività descritti qui sopra. Naturalmente, non va ignorato il carattere politico fondamentale di alcune decisioni altamente sensibili quali l’attribuzione all’Unione federale di un seggio unico in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU oppure la messa a disposizione del governo dell’Unione federale della force de frappe nucleare francese.
[*] Intervento alla riunione nazionale dell’Ufficio del Dibattito del Movimento federalista europeo tenutasi a Ferrara il 13 aprile 2024 sul tema Sovranità e sussidiarietà: due anime del federalismo europeo.
[1] S. Fabbrini, Which European Union?, Cambridge, Cambridge University Press, 2015, https://doi.org/10.1017/CBO9781316218945.
[2] S. Santucci, “L’euro aveva una governance imperfetta dalla nascita. Serve una federazione europea leggera”. L’intervista ad Emma Bonino, Lab Parlamento, 30 novembre 2018, https://www.labparlamento.it/leuro-aveva-una-governance-imperfetta-dalla-nascita-con-la-tempesta-non-ha-retto-piu-serve-una-federazione-europea-leggera-lintervista-ad-emma-bonino/.
[3] O. Fontana e L. Gasbarro, Nuove risorse proprie per il bilancio europeo, Torino, Centro Studi sul Federalismo, Policy Paper n. 63, aprile 2024.
[4] J. Borrell, A Strategic Compass to Make Europe a Security Provider, EEAS strategic Communications, 24 marzo 2022, https://www.eeas.europa.eu/eeas/strategic-compass-make-europe-security-provider-foreword-hrvp-josep-borrell_en.
[5] Helsinki European Council, 10 and 11 December 1999 – Presidency Conclusions, https://www.europarl.europa.eu/summits/hel1_en.htm.
Anno LXVI, 2024, Numero 1, Pagina 42
LE RICADUTE NEGLI ENTI LOCALI DEL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ*
Il tema che mi è stato assegnato, la sussidiarietà negli enti locali, è un tema enorme e di strettissima attualità e che mette al centro le autonomie locali nel futuro ravvicinato.
Il tema della sussidiarietà può essere affrontato in senso strettamente politico, secondo le politiche europee. Si parla di sussidiarietà ma alla fine diventa decentramento; e occorre evitare che sia un semplice decentramento, alla luce della struttura dei Trattati europei e della stessa Costituzione italiana, agli articoli 114, 117 e 118.
Pertanto, propongo una lettura della sussidiarietà intesa non tanto come criterio ordinatore e di allocazione di servizi e competenze, quanto come la sottolineatura di un ruolo: sussidiarietà è un metodo di governo, un modo per dare un ruolo agli enti di governo, in particolare agli enti locali che sono le istituzioni più vicine ai cittadini. È di primaria importanza che le autonomie locali abbiano un ruolo non sulla carta, ma per incidere sulle politiche: in che modo decidiamo, come facciamo valere le nostre istanze, le nostre esigenze che nascono dal territorio. E sebbene questo sia un convegno nazionale, mi riallaccio alla situazione locale (siamo qui vicini a una delle più importanti aree interne italiane con molte problematiche, quella del basso ferrarese) proprio perché i territori hanno perso prossimità, vicinanza rispetto alle istituzioni, alle stesse istituzioni locali come i Comuni. Sappiamo che l’Italia, ma anche la stessa Europa, è sempre più micropolitana: già oggi due terzi dei Comuni italiani sono sotto i cinquemila abitanti, sono piccoli Comuni con enormi difficoltà soprattutto per quanto riguarda i capitoli di spesa, i capitoli di bilancio.
Queste aree interne rischiano sempre più di non avere rappresentanze, di non avere voce laddove devono, invece, essere chiamate ad avere un ruolo: in questo senso l’autonomia intesa come la vede la nostra Costituzione, come regionalismo solidale e cooperativo. Questo significa una relazione, e in questa relazione tra i diversi organi di governo devono potersi esprimere sempre delle opportunità, anche al di fuori delle competizioni elettorali, tra i diversi livelli di governo che possono avere diversi indirizzi politici; questo non solo nell’ottica europea della sussidiarietà per legiferare meglio, ma legiferare meglio vuol dire garantire in primo luogo i servizi. I Comuni sono oggi chiamati a garantire i servizi alla persona, e, in questo senso, un criterio di sussidiarietà verso il basso; ma i servizi alla persona necessitano di essere finanziati, per accedere a risorse adeguate perché possano davvero essere servizi non per pochi, per alcuni, ma servizi di carattere universale. Penso a tre grandi tematiche delle competenze dei Comuni, i servizi alla persona declinati come servizi sociali, sanità, welfare; il trasporto pubblico locale; l’istruzione. Questo, però, in un contesto che deve essere locale, ma che deve anche guardare al sovralocale; uno sviluppo economico-sociale che sia in grado di sostenere questo tipo di servizi, di sostenerli dal punto di vista finanziario, fatte salve tutte le politiche di intervento perequativo, di riequilibrio, che devono essere messe in campo dagli organi di governo sovraordinato.
Ma perché tutte queste cose non siano solo sulla carta, non siano solo belle parole che leggiamo nei solenni testi giuridici, almeno in quelli più importanti, è necessario che ci siano luoghi della sussidiarietà, e i luoghi della sussidiarietà sono luoghi di incontro, di confronto e magari anche di scontro, ma sempre nell’ottica di trovare una sintesi, appunto per il bene comune. Questi luoghi di incontro a livello europeo ancora non ci sono. Le autonomie locali, nel quadro dell’integrazione europea, hanno uno spazio nel Comitato delle Regioni, che è ancora qualcosa di troppo misterioso, uno scambio di informazioni, quasi una pratica di buone maniere, una cortesia istituzionale che però non incide, non dà la possibilità alle esigenze locali di avere quel ruolo di cui parlavo all’inizio. E a livello interno, un po’ meglio ma non troppo, perché questi luoghi di incontro che dovrebbero essere le Conferenze Stato-Regioni, le Conferenze Stato-Autonomie locali, divenute tristemente note durante il Covid, sono luoghi non costituzionalizzati ma previsti dalla normativa ordinaria, che non hanno ancora una funzione, e non si capisce bene a cosa servano. La mancanza di una Camera delle Regioni e degli enti locali, a livello interno e a livello sovranazionale, europeo, è secondo me un punto su cui bisogna lavorare per costruire quella relazione costruttiva e di scambio tra i diversi livelli di governo.
È importante, a mio avviso, l’approccio realistico per questioni così delicate nei rapporti fragili tra enti locali e i livelli sovraordinati proprio nell’ottica della sussidiarietà che, come è stato detto, va vista in ambito strategico: allochiamo le azioni laddove possano essere meglio svolte, in maniera più adeguata, efficiente ed anche più opportuna secondo un criterio prettamente politico. Dicevo all’inizio che le funzioni, i servizi devono essere finanziati e, quindi, c’è il grande tema della finanza locale: la gran parte della spesa dei Comuni è una spesa corrente, proprio perché deve rispondere alle esigenze di prossimità, di servizi alla persona; le spese per investimento sono legate a momenti quasi eccezionali, come possono essere i vari fondi europei, i fondi di coesione o, oggi, il PNRR che però non sta dando quel salto strutturale che ci si sarebbe aspettati. Spesso gli enti locali prendono dai cassetti progetti che avevano da anni e non avevano modo di finanziarli perché mancava quella spesa per investimenti che è stata in qualche modo ricondotta al PNRR. Ma il tema della finanza locale, come finanziare l’esercizio delle funziona fondamentali, torna oggi all’attenzione anche del Parlamento italiano: è stata approvata la Legge delega 111 del 2023 che deve andare a rivedere tutto il sistema di federalismo locale e fiscale che la Legge 42 del 2009 ha lasciato un po’ indietro, solo una semplice suggestione. Tutti i vari decreti legislativi che furono emanati non sono andati nel senso di valorizzare un’autonomia equilibrata; anzi, l’unico rimasto in qualche modo in piedi è il decreto legislativo 118 del 2011 che prevede l’accentramento delle risorse. Quindi, oltre a creare una sorta di centralismo regionale accanto a quello nazionale, gli enti locali rischiano di vedersi allungare la filiera della richiesta di risorse, passando prima dalla Regione, poi dallo Stato centrale e per ultima dall’Unione europea.
Come finanziare i servizi e come evitare che certe zone d’Italia, come quelle più avanzate, possano andare troppo avanti a discapito di altre che avrebbero bisogno di interventi perequativi maggiori? È un tema forte, il tema delle diseguaglianze che non è solo un tema regionale: l’Emilia-Romagna è una regione più avanzata rispetto ad altre, ma all’interno di questa regione come osservavo prima vi è il tema enorme delle zone interne, delle aree interne (Basso Ferrarese ma anche l’Appennino emiliano) che hanno delle criticità forti, nonostante siano all’interno di una Regione che corre velocemente. Quindi si pone il problema dei luoghi della sussidiarietà.
Altro tema importante che ha sempre avuto ricadute sociali è quello della politica industriale, che oggi a livello europeo è di sostegno, non ha una propria base. Vediamo esempi proprio in questi giorni, essendo necessaria una politica industriale nel settore dell’automotive, al di là delle battute contingenti sul nome di un’auto (la macchina che si chiama Milano ma che deve essere prodotta in Polonia). Ma il punto è che una vettura prodotta in Polonia perché ha un costo inferiore a quello italiano e può attaccare un certo segmento di mercato, pone un tema enorme di politica industriale europea, così come la sede legale della Ferrari che è in Olanda, e potrei continuare. Ma il tema dell’automotive, dove nella transizione elettrica i cinesi sono avanti di una generazione rispetto a noi, è un tema che deve essere affrontato con un’ottica di sussidiarietà verso l’alto, perché altrimenti, se restiamo in una materia così cruciale agli “staterelli” nei quali ognuno fa un po’ come vuole per prendersi questa o quell’azienda, allora davvero perdiamo l’obiettivo finale.
Per quanto riguarda invece una sussidiarietà verso il basso, c’è il grande tema di come riattivare aree dal punto di vista produttivo, della manifattura e quindi di una nuova vitalità economica nel senso dell’innovazione, delle nuove tecnologie per essere competitivi sul mercato. Si tratta delle cosiddette Zone economiche speciali (ZES) per quanto riguarda il Mezzogiorno d’Italia, o le Zone logistiche semplificate. Questo sembra c’entrare poco, e invece c’entra moltissimo col rapporto tra sussidiarietà ed enti locali, perché per quanto riguarda la misura principe per queste zone di possibile ripresa economica, cioè il credito d’imposta, questo è tecnicamente un aiuto di Stato, e quindi laddove si possa operare efficientemente, dobbiamo operare in un’ottica interna agli Stati, e anche in questo caso servono luoghi di confronto, di compensazione. Il tema delle ZES, di zone che hanno bisogno di una forte ripresa economica, è un tema che non riguarda solo l’Italia, riguarda tutta l’Europa; che sarà, come dicevo prima, un’Europa sempre più micropolitana, un’Europa dei Comuni e tra i Comuni e, quindi, è fondamentale cercare le relazioni e che le transizioni non siano troppo veloci, non accadano troppo in fretta ma con la dovuta gradualità, con ponderazione e coscienza.
Ci si muove in un contesto ormai mondiale che sta cambiando ad una velocità incredibile, e la sfida nuova per gli enti locali sarà appunto gestire la velocità del cambiamento e chiedere a gran forza luoghi di partecipazione e di confronto: in questo modo il rapporto tra sussidiarietà e autonomie locali potrà esprimersi, a mio avviso, in quel concetto di relazione che significa, appunto, affermazione di un ruolo. Poter contare.
Guglielmo Bernabei
[*] Intervento alla riunione nazionale dell’Ufficio del Dibattito del Movimento federalista europeo tenutasi a Ferrara il 13 aprile 2024 sul tema Sovranità e sussidiarietà: due anime del federalismo europeo.
Anno LXVI, 2024, Numero 1, Pagina 35
EQUILIBRI GEOPOLITICI INTERNAZIONALI:
PERCHÉ È NECESSARIA LA FEDERAZIONE EUROPEA*
Questa riflessione prende il via dal contesto geo-politico globale. Il grafico della figura 1 ci mostra l’andamento del prodotto lordo mondiale negli ultimi sessanta anni, a prezzi correnti, e quindi incorpora l’inflazione, ma è quello che la gente vede. C’è stata una prima fase in salita, in mezzo c’è un gradino, poi nuova risalita e poi la linea inizia ad avere un singhiozzo, va su e giù.
Fig. 1 – Andamento del prodotto lordo mondiale 1960-2022 a prezzi correnti.
Il punto di prima del gradino degli anni Novanta è la fine del mondo nato dalla Seconda Guerra mondiale, la fine della fase in cui l’intera umanità era divisa in due parti. Era l’equilibrio con una frattura che passava però esattamente a metà dell’Europa. Passava anche per altre due parti: per la Corea, con la lunga guerra alla fine degli anni Cinquanta, e per il Vietnam, con la lunga guerra degli anni Sessanta. Il sistema cade nel 1989 quando implode l’Unione sovietica. E non bisogna dimenticare che l’Unione sovietica per l’Europa arrivava a Berlino, e quindi era un’area molto vasta.
Questa crescita fino al 1989 viene meno, e viene meno perché le due parti del mondo erano due diversi sistemi. Da una parte l’URSS che coincideva con la parte industriale della Russia (Mosca e Ucraina), dall’altra gli Stati Uniti e l’Europa occidentale. La cosa interessante è che, prima di ritrovare un assetto adeguato a livello mondiale, c’è stata una stagnazione. L’equilibrio è stato trovato spostando le regole di questa parte del mondo a tutto il mondo. Anzi, svuotando le regole, perché l’idea era: mercato, mercato, mercato.
Questo si è basato su tre illusioni. La prima illusione: se c’è un problema, il mercato lo risolve. Se c’è qualcuno che ci rimane sotto è perché doveva rimanerci sotto. Questa è l’etica protestante, lo spirito del capitalismo, come ci insegnava Max Weber. Seconda illusione: poiché il mercato si era esteso al di là degli Stati, gli Stati non erano più necessari. L’altro punto di fondo era sostanzialmente l’idea che anche la democrazia fosse inutile, perché era nell’agire delle cose che si trovava un equilibrio. Tre visioni pericolosissime coltivate da schiere di economisti che hanno anche vinto Nobel su questo, perché l’ideologia di questi anni è stata un’ideologia molto pesante.
L’accordo viene trovato più o meno a metà della stagnazione, con il World Trade Agreement e la creazione del WTO al quale poco alla volta tutti gli Stati aderiscono e nel quale nel 2000 entra la Cina. In quel punto c’è una rapidissima crescita.
La curva si interrompe nel 2008 con la crisi finanziaria. Avendo aperto tutti i mercati, anche le epidemie finanziarie si saldano tra di loro. Nel 2008 c’è una crisi che nasce negli Stati Uniti: è la crisi dei subprime che, in un’economia come quella americana essenzialmente basata sul credito, comporta un fortissimo abbassamento del livello di garanzia bancaria. Tutti si indebitano, al punto chele stesse banche non riescono più a tenere. Tanto le banche non falliscono, sono troppo grandi per fallire. Grande crisi, che però viene risolta grazie allo spirito del capitalismo: la gran parte delle risorse viene immediatamente spostata dalle banche ai mercati finanziari nelle nuove economie emergenti, cioè quelle digitali.
Dal 2008 la curva cambia natura, diventa un su e giù continuo, cioè viviamo in un’epoca di incertezze. Da un punto di vista strutturale cambiano molte cose, perché quando vengono aperti i cancelli non è semplicemente che io importo da te e tu esporti da me, ma cambia proprio la natura della produzione. Produzioni che erano fatte in casa vengono spostate da altre parti del mondo, perché è essenziale produrre le stesse cose a basso costo. Anzi tutto viene prodotto a pezzettini: in un aereo, le ali vengono fatte da una parte, la carlinga dall’altra, e poi vengono assemblati.
In questa fase entra la Cina. Ma dov’è l’Europa? Vediamo il grafico della figura 2.
Fig. 2 – Andamento del prodotto interno lordo nelle diverse economie del mondo 1960-2020.
Negli Stati Uniti la crescita è continua, c’è una crisi nel 2008 ma in un anno viene superata, c’è un’altra crisi in epoca Covid ma poi ripartono.
La Cina dal 1995 cresce meno rapidamente, avvicinandosi agli USA. Dal 1978 (quando Deng Xiaoping spodesta la moglie di Mao e finisce la rivoluzione culturale) fino al 1995 il reddito medio di un cinese era 158 dollari all’anno, poi l’apertura del commercio internazionale permette alla Cina di entrare nel WTO e la Cina entra facendo un’operazione straordinaria dicendo: “noi rimaniamo comunisti, ma siamo disponibili a lavorare con voi, sporchi capitalisti. Vi diamo la garanzia di 10/15 anni di lavoro di alta qualificazione e a basso costo e voi venite a produrre da noi.” Io a quel tempo ero in Cina e ricordo che gli americani arrivavano in Cina e dicevano: che stupidi questi cinesi, ci danno operai bravi e di grande qualificazione e a basso costo per 10 anni e vogliono solo in cambio che noi formiamo il loro personale e trasferiamo le tecnologie. La conseguenza è che i cinesi hanno imparato, e tanto è vero che il reddito medio del cinese oggi è 13.800 dollari l’anno. È aumentata però la disuguaglianza interna, oggi quasi pari a quella degli USA, il che, per esser un paese comunista, è un problema.
La Russia non c’è. Questo è un altro dei grandi problemi che si pongono: la differenza tra ruolo politico e ruolo economico. Il Pil della Russia vale il 20% in meno della valorizzazione di borsa della sola Apple, il 15% meno del Pil dell’Italia. Questa differenza in un contesto di disuguaglianza sociale fortissima (l’1% della popolazione ha quasi il 90% della ricchezza) porta alla situazione che abbiamo oggi: mentre non c’è la base economica, tutta la capacità è politica.
L’Europa invece cresce dal punto di vista economico quando si gioca insieme, mentre stagna o cade quando ognuno va per conto proprio. Ogni volta che c’è un’accelerazione del processo di integrazione c’è un aumento del PIL, ma ogni volta che di fronte a una crisi si torna al sovranismo nazionale, non solo si stagna ma si torna indietro. Il grafico è chiarissimo.
Il passaggio di crescita è tutto quello che ci ha portato da Schengen a Maastricht. Poi c’è stato un periodo di ristagno. Il periodo in cui l’UE cresce più degli USA è quello dell’euro. La crisi del 2008 è quella in cui ognuno ha pensato di fare per conto proprio: bassissima crescita e crisi. Fase pericolosissima, di bassa crescita, massima incertezza a demografia calante. Dopo il 2008 ci sono alti e bassi. Ognuno fa per conto suo, con effetti negativi per tutti. Tanto è vero che i paesi del sud Europa hanno accumulato un debito tale che la BCE nel 2011-2012, con Draghi, ha fatto il famoso “whatever it takes”, e cioè ha surrogato le posizioni nazionali assumendosele per salvare gli Stati del sud Europa dal default. La crescita è dovuta al fatto che il Covid ci ha obbligati ad agire insieme per permettere agli Stati di riprendersi.
Il problema non è permettere ai singoli Stati di spendere, perché la capacità di spesa è diversa da Stato a Stato, è generare quelle attività e quelle infrastrutture comuni che fanno passare dal livello nazionale a quello europeo, chiamatelo federalismo. L’avere fatto il salto dell’unione monetaria è un salto notevole, perché le politiche non si fanno un pezzo alla volta. Se si fanno le politiche monetarie comuni, tenere politiche fiscali e di bilancio separate è una trappola mortale, soprattutto per i più fragili. Perché altrimenti cosa fai: devi coordinare le politiche, e poi sotto il tappeto metti la roba sporca. L’idea di far quadrare i conti portando a 3.000 miliardi il buco di bilancio, ci torna contro.
Bassa crescita, alta incertezza e caduta demografica. Questo genera una trappola pesantissima, perché il rischio è non avere lavoratori, competenze, capacità per sostenere il ricambio della crescita e generare l’innovazione e dall’altro lato si ha un impoverimento di intere fasce della popolazione perché per mantenere l’equilibrio bisogna abbassare i salari. Guadagnare 1.700 euro e pagarne 1.000 di affitto a Milano non fa andare molto lontano. Non si riesce a fare investimenti quando c’è incertezza, perché gli investimenti richiedono una visione di vari anni. Se volete fare un investimento in agricoltura (oggi la spesa è aumentata di almeno quindici volte rispetto a 30 anni fa perché bisogna fare la rete antigrandine, antibrina, anticimice ecc.) bisogna immaginarlo in 10 anni, e come si fa? Quindi, questa incertezza non è che non incida sulla nostra vita di tutti i giorni, perché blocca gli investimenti. Si può pensare a una politica sulla scuola che sia a meno di 10 anni? Altrimenti tutti i giorni fai un annuncio e il giorno dopo lo devi cambiare.
Nonostante tutto l’Europa è l’area meno ineguale del mondo, perché nel mondo questi anni di mercato hanno portato a un aumento di diseguaglianze senza precedenti. La Cina, che non è nemmeno l’area più diseguale del mondo, ha più meno lo stesso grado di ineguaglianza degli USA. In Cina il primo 10% della popolazione ha il 41% dei redditi e il 69% della ricchezza. Negli USA le proporzioni sono del 45% e 73%. Degli USA una cosa interessante è che quanto possiede di ricchezza il secondo 55% della popolazione è meno dell’1% della ricchezza del paese. Ormai quelli che noi chiamiamo Stati Uniti sono New York e Boston, la California, ma non il centro di San Francisco, tutto il resto, tranne il Texas ha questo livello dell’1%. È per questo che la gente vota Trump, perché è venuto meno il sogno americano.
Noi in Europa rimaniamo l’area meno diseguale d’Europa. L’uguaglianza è un tema fondante. L’uguaglianza non è un elemento accessorio, è l’elemento identitario dell’Europa, e se viene meno, viene meno la democrazia. In tutta Europa c’è uno smottamento della democrazia a favore di autoritarismo. Non è che ampliando l’Europa magicamente siamo tutti nella stessa situazione. In realtà in Europa oltre al corpo centrale da Oslo a Milano c’è tutta una periferia che è molto lontana. Quando si dice decentriamo alcuni poteri o attribuiamo tutti i poteri al livello nazionale, bisogna stare attenti e aver ben chiaro qual è la responsabilità. Perché il sottosviluppo non è un problema che semplicemente si possa compensare con qualche incentivo in più: c’è un problema di classi dirigenti, struttura sociale, educazione.
Tutti gli anni il Ministero dell’Istruzione fa una verifica dello stato di apprendimento della popolazione. Il Covid ha lasciato piaghe pesantissime sui bambini, e quindi abbiamo fatto benissimo a farli tornare a scuola. Paradossalmente sono migliorati in inglese, che non è la lingua del gioco, ma del computer, stanno recuperando in matematica, ma la cosa vera sono le differenze territoriali, stiamo recuperando anche le differenze degli immigrati. Tra un ragazzo della Sicilia o della Calabria e uno del Friuli ci sono due anni di differenza di capacità di apprendimento. Io non ho dubbi che vi sia un livello nazionale di istruzione, che le scuole debbano essere autonome. Questo principio di autonomia va messo insieme al principio di sussidiarietà, altrimenti non funziona. Autonomia vuol dire responsabilità. Però è responsabilità collettiva, e non è che l’educazione non sia correlata all’uguaglianza e alla democrazia. Se hai minori capacità di apprendimento sei più disposto a credere quello che ti dicono.
Cosa vende l’Europa? Su cosa si basa la competitività europea? Noi vendiamo in America e anche in Cina prodotti farmaceutici, strumenti scientifici e tutta quella parte tecnologica legata al cibo, alla salute, e all’ambiente. L’uguaglianza non è solo un valore fondante dell’Europa, è anche l’unico alla base dello sviluppo. Noi esportiamo tecnologie legate alla qualità della vita, alla centralità della persona. Non è tanto un problema di valori, è un problema di valore. E quindi l’idea che anche lo sviluppo delle capacità tecnologiche dell’intelligenza artificiale sia legato al clima e alla human technology è alla base dello sviluppo dei prossimi anni.
Pensate al ciclo produttivo del digitale: semiconduttori, circuiti, telefoni e computer, i sistemi operativi e le reti. Cina, Taiwan e Hong Kong hanno il 90% del mercato dei semiconduttori. Quando la Cina vuole Taiwan non è una questione romantica, è il controllo del mercato dei semiconduttori. Hanno il 90%, quasi il 100% con la Corea, dei circuiti stampati. Il Giappone è quasi in caduta libera. Sui sistemi operativi Google ha il 90% nel mondo. Sui browsers gli americani sono i primi. Sulle reti tra i primi sei (che in realtà sono tre perché Whatsapp, Instagram e Facebook sono sempre dello stesso proprietario), otto miliardi di contatti al mese, non c’è nemmeno un europeo. Quindi sul settore digitale, nella produzione, noi non ci siamo. Noi possiamo soltanto applicare.
L’Europa deve avere la capacità di difendere una posizione a livello mondiale in cui uguaglianza e democrazia sono fondanti, perché i valori dell’uguaglianza, della democrazia e della pace sono anche alla base della nostra crescita. Se non ci sono questi, ognuno da solo è comunque troppo piccolo, anche perché all’interno di ogni paese lo sviluppo si sta concentrando in un’area marginale del paese. In Italia ad esempio tutta la popolazione si sta concentrando sull’asse Milano-Venezia e sull’asse Milano-Bologna.
L’Europa vince solo quando gioca insieme. Caduta demografica e bassa crescita ci obbligano a guardare lontano. Se non siamo capaci di guardare lontano, questo non fa un danno solo a noi, ma a tutto il mondo.
Sarebbe bello se anche le università imparassero a giocare insieme, perché ognuno di noi altrimenti conterà sempre meno e saremo sempre più irrilevanti, marginali e vecchi. Noi dobbiamo trasformare la nostra vecchiaia in essere antichi ed essere antichi per noi europei vuol dire che comunque noi ci saremo sempre al di là di ogni governo.
Patrizio Bianchi
[*] Intervento alla riunione nazionale dell’Ufficio del Dibattito del Movimento federalista europeo tenutasi a Ferrara il 13 aprile 2024 sul tema Sovranità e sussidiarietà: due anime del federalismo europeo.
Anno LXIV, 2022, Numero 2-3, Pagina 116
LA TERZA CRISI DEL SECONDO MILLENNIO
PER L’EUROPA:
LA “GUERRA PARALLELA” E
LA SFIDA ESISTENZIALE PER L’ECONOMIA EUROPEA
Premessa.
Non v’è dubbio che i primi vent’anni di questo secondo millennio stiano mettendo a dura prova la tenuta e la sostenibilità quel mondo globalizzato che si era sviluppato a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso.
Siamo all’interno del villaggio globale nel quale le crisi finanziarie, economiche e sanitarie di un paese si ripercuotono irreversibilmente e velocemente sugli altri; pertanto, non deve stupire, se in questi anni più recenti si siano andate sviluppando tre gravi crisi che hanno toccato i diversi continenti, e sempre l’Europa.
In primo luogo, la crisi finanziaria, poi economica e sociale, scoppiata nel 2007-8 negli USA e durata in Europa fino al 2014 interessando pesantemente, a rischio default, Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna.
In secondo luogo, la crisi pandemica da Covid-19, che ha avuto il suo iniziale epicentro a Wuhan e che nel biennio 2020-2021 ben presto si è diffusa drammaticamente in tutto il mondo. Uno shock divenuto ben presto e diffusamente da sanitario a economico (con la paralisi di diverse economie di filiera a causa del lockdown) e sociale (ampie fasce di disoccupazione e nuove povertà).
Infine, la guerra, con il deprecabile tentativo armato del Cremlino di appropriarsi dell’intero territorio ucraino ed arrivare così ai confini dell’Unione europea.
Gli anni 2020 - 2021: prima la crisi e poi la ripresa.
La pandemia da Covid-19 ha segnato profondamente il nostro Continente, anzitutto perché la maggior parte delle infezioni si sono registrate in Europa, ma anche perché pesanti sono state le ripercussioni sul piano economico e commerciale per l’allentamento, se non per l’interruzione, a livello internazionale, delle “catene produttive di filiera”. Nel 2020 il PIL dell’area euro faceva registrare un -6,4% e -5,9% nell’UE. Nell’Unione i disoccupati avevano superato i 16 milioni, in prevalenza donne e giovani.
Nello stesso anno, in Italia, il PIL crollava dell’8,9% e il sistema produttivo-occupazionale veniva scosso alle sue basi con il rischio strutturale per il 45% delle imprese e con 800.000 occupati in meno rispetto al periodo pre-Covid.
È stato grazie alla sospensione delle regole del Patto di Stabilità e soprattutto alla solidarietà tra i paesi europei, nonché alle ingenti risorse finanziarie mobilitate da BCE e Commissione europea (Fondo di Garanzia paneuropeo, MES, SURE, Next GenerationEU, …) che anche l’Italia ha potuto far fronte alla crisi sanitaria-economica-sociale ed avviarsi alla ripresa. Una ripresa resiliente a tal punto che, a fine 2021, viene fatto registrare un PIL del +6,3% (il resto dell’Eurozona +5,3%) e l’OCSE indicava l’Italia quale nuova “locomotiva” economica d’Europa. The Economist ebbe ad indicare l’Italia “Paese dell’anno 2021”; un riconoscimento non per i suoi calciatori che hanno vinto il trofeo più importante d’Europa, non per le sue pop star che hanno vinto la gara canora Eurovision, ma perché la sua economia correva più di quelle di Francia e Germania. A capo del Governo c’era Mario Draghi.
2022: scoppia il terzo shock.
Dopo il 24 febbraio 2022 inizia una crisi in Europa che, da circa 80 anni a questa parte, non ha precedenti; una crisi “umanitaria, securitaria, energetica, economica” proprio nel cuore del Continente. Parallelamente al conflitto armato russo-ucraino, quanto era stato preannunciato dal premier Draghi (“Non siamo in economia di guerra ma bisogna prepararsi”[1]) ben presto è diventato una cruda realtà.
Alla guerra combattuta sul campo si è affiancata una “guerra parallela”. Da un lato, la “deterrenza economica” per iniziativa dei paesi, tra cui quelli UE, che hanno imposto sanzioni finanziarie, economiche e individuali alla Russia, come reazione all’aggressione di un paese sovrano e democratico e con l’obiettivo di indebolirne il potenziale bellico e di fermare così la guerra. Dall’altro lato, la “resistenza economica” dei paesi UE a fronte delle privazioni energetiche — non solo — imposte come ritorsione dal Cremlino.
Molto significative le parole della Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen: “Il presidente russo Vladimir Putin ha mobilitato le sue forze armate per cancellare l’Ucraina dalla carta geografica. Noi abbiamo mobilitato il nostro potere economico unico per difendere l’Ucraina. È anche un nuovo capitolo nella storia dell’Unione: un nuovo modo di usare la potenza economica per contrastare quella militare e per difendere i nostri valori europei più cari.”[2]
C’è da tener presente che la guerra manu militari, non è stata la sola causa originante della crisi in corso; piuttosto si è rivelata — con le sue conseguenze — un potente acceleratore di una situazione economica mondiale già in fieri ancor prima dello shock, come notato da alcuni commentatori già dal 2017.[3]
L’accelerazione della crisi è dovuta alla guerra energetica, messa in atto dal Cremlino come ritorsione contro l’Occidente europeo, ben consapevole della sua dipendeva dal petrolio (per il 27%) e soprattutto dal gas (per circa il 40%); una dipendenza accentuata per Italia e Germania, che si rifornivano da Gazprom per quasi la metà del gas utilizzato, e addirittura totale per Slovacchia, Lettonia e Repubblica Ceca. Nei primi nove mesi del 2022 il deficit nel commercio di energia dell’UE con la Russia ammontava a 491,4 miliardi mentre nello stesso periodo dell’anno precedente era stato di 179,6 mld.
Un riferimento eclatante della gravità della crisi, in cui si sono venuti a trovare i Paesi UE, è rappresentato dalla Germania, la prima economia in Europa, che essendosi vincolata alla Russia per le forniture energetiche, si è venuta a trovare in una situazione di grande fragilità e di “ricattabilità”. Il Cancelliere Olaf Scholz lo aveva ammesso: “l’embargo del gas avrebbe gravose conseguenze economiche per il nostro paese, con la perdita di milioni di posti di lavoro e di fabbriche che non riaprirebbero mai più. Non ce lo possiamo permettere”.[4] Gli facevano eco gli industriali e i sindacati tedeschi: con l’embargo su petrolio e gas, l’inflazione rischia di arrivare alla doppia cifra. Un vero e proprio incubo per i tedeschi: sarebbe la prima volta dalla Seconda guerra mondiale.
L’Europa, molto più degli altri Paesi partecipanti alla “deterrenza economica”, si trova nel mezzo della sua terza crisi di questo nuovo millennio, uno shock completamente diverso dai due precedenti perché costituisce uno storico spartiacque, con implicazioni politiche, economiche e strategiche, tali da richiedere un cambio di prospettiva per il futuro stesso dell’Europa.
È del tutto evidente che la ritorsione russa — i tagli progressivi delle forniture di petrolio e gas, fino a minacciarne il blocco alla vigilia dell’inverno, l’innalzamento esponenziale dei prezzi delle forniture energetiche — ha quali conseguenze per i paesi UE l’incremento dei costi di produzione per le imprese, l’ulteriore rallentamento delle filiere produttive, l’impennata dell’inflazione e la contrazione dei consumi, un più diffuso disagio sociale e un maggiore ricorso alla spesa pubblica. Il che, in una prospettiva di accelerazione, potrebbe mettere a rischio la tenuta dell’economia e la sostenibilità sociale dei paesi europei.
Ne sono un esempio i dati congiunturali dell’Italia: l’inflazione del mese di ottobre 2022 segna un +11,8% (record dal 1984; nel 2019 era 0,6% e si parlava di “deflazione” con calo dei prezzi), nel settore alimentare (il c.d. “carrello della spesa”) raggiunge quota +13,1%. In Italia, le risorse complessivamente stanziate nel 2022 per far fronte ai rincari energetici sono sommate a circa 60 miliardi, quasi il doppio di quanto stanziato dalla Spagna.
E se di parziale conforto è il dato del terzo trimestre 2022 (l’economia italiana fa registrare una crescita dello 0,5%, protraendo la fase espansiva del PIL per il settimo trimestre consecutivo (grazie al rimbalzo del turismo: +75%), “osservati speciali” sono l’industria e l’agricoltura che sono in decelerazione rispetto al secondo trimestre dell’anno. I timori sono rivolti soprattutto al nuovo anno ed è lo stesso Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, a dirlo: “Grande incertezza, serve prudenza a motivo del pericolo di un deterioramento delle prospettive economiche che si riveli peggiore del previsto”. Una “incertezza” che trova riscontro nella Congiuntura flash del 6 novembre di Confindustria: “nel 4° trimestre si rischia un calo: gli indicatori qualitativi sono nel complesso negativi; il prezzo del gas resta alto, da troppi mesi; l’inflazione che ne deriva (+11,8% annuo) erode reddito e risparmio delle famiglie e avrà un impatto negativo sui consumi; il rialzo dei tassi si sta accentuando, un’altra zavorra sui costi delle imprese”.[5]
Guerra energetica: una minaccia esistenziale per l’industria europea.
Nella Tavola rotonda europea degli industriali (ERT) del 23 ottobre è emersa in modo evidente la grande preoccupazione per i prezzi elevati dell’energia e per l’allentamento, se non la riduzione, delle catene di approvvigionamento delle materie prime, fattori che stanno rimuovendo le basi per la competitività globale dell’industria europea e la sua capacità di raggiungere audaci obiettivi di decarbonizzazione.
Le industrie europee sono colpite dall’impennata dei costi energetici così tanto da ridurre o chiudere la produzione, perdendo quote di mercato globale e rischiando un danno permanente alla competitività dell’Europa. Poiché i produttori stanno riducendo, chiudendo o trasferendo la produzione, rischiano di non riaprire mai più in Europa, anche nei settori cruciali per la transizione energetica come il settore dei metalli, erodendo la competitività dell’UE.
Secondo una recente analisi dell’Economist Intelligence Unit, “la riduzione della domanda sta costringendo l’industria in tutta Europa a rimanere inattiva, e aumenterà i costi di input a livelli che renderanno l’industria europea non competitiva. Ciò potrebbe durare per diversi anni, causando l’allontanamento delle catene di approvvigionamento globali dall’Europa”.[6]
Particolarmente indicativa, a tale riguardo, è la nota congiunta di Confindustria e della francese Medef: “Tra agosto 2021 e agosto 2022 i costi di produzione nell’industria sono aumentati del 28% in Francia, del 40% in Italia e del 33% nell’UE. In particolare, i produttori europei di fertilizzanti e alluminio hanno ridotto la loro produzione rispettivamente del 70% e del 50%. Un segnale che testimonia come nel prossimo inverno sia molto alto il rischio di perdere capacità produttiva con la chiusura di migliaia di aziende, competitività e posti di lavoro, oltre a quello di delocalizzazioni da parte di realtà industriali ad alta intensità energetica”.[7]
Molto esplicite le parole del Primo Ministro del Belgio, Alexander De Croo: “C’è un rischio di una ‘deindustrializzazione’ del Vecchio Continente. La crisi dell’energia rappresenta la più grande minaccia che incombe sull’Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. Lo è sul piano, anzitutto, economico, ma anche politico e sociale” (10 ottobre 2022).
Focus sulle imprese industriali: è a rischio l’industria italiana?
Come precedentemente notato, il sistema produttivo italiano è stato particolarmente reattivo e dinamico nel corso del 2021 e di gran parte del 2022, eppure in corso d’anno si sono elevate voci fortemente preoccupate per le conseguenze della “guerra energetica” soprattutto ad iniziare dai primi mesi del prossimo anno.
Secondo la fonte Cerved - Camere di Commercio del 27 aprile scorso, la destabilizzazione del quadro internazionale insieme ai consistenti rincari dei prezzi delle materie prime, nonché l’incontrollato aumento dei costi energetici e l’indisponibilità dei materiali, con conseguente aumento dei prezzi d’acquisto, sono fattori che rischiano di bloccare nel prossimo anno la produzione di molti settori. Sono messi a rischio ben 218 miliardi di euro di ricavi per il sistema produttivo dell’industria italiana. Ne era consapevole il Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, in audizione alle Commissioni riunite Bilancio di Camera e Senato sulla legge di Bilancio, quando ha detto: “La nostra economia è in fase di rallentamento e assistiamo ad un forte rialzo dell’inflazione. L’impennata del costo dell’energia mette a rischio di sopravvivenza le nostre imprese, non solo quelle energetiche”.[8]
Le imprese si appellano all’Unione europea.
Diciamo subito che, se apprezzabile è stata la reazione di “desistenza economica” portata avanti dall’Unione avverso la Russia per indebolirne la macchina bellica e creare le condizioni per delegittimare l’autarca Putin, non altrettanto soddisfacente è stata — fino ad ora — la reazione a supporto della “resistenza economica”.
L’aspetto positivo, se vogliamo, è riconducibile agli aiuti finanziari messi in campo dalla Commissione nel contesto delle proprie competenze:
— il piano RepowerEu (risparmio energetico, massima accelerazione sulle rinnovabili, diversificazione delle fonti energetiche) per sostenere i 27 Paesi membri nel processo di affrancamento dalla dipendenza energetica da Mosca nel più breve tempo possibile: 300 miliardi di euro, tra cui, 225 mld dai prestiti Pnrr ancora sul tavolo; il restante: nuove sovvenzioni, risorse dei fondi di coesione (26,9 miliardi) e della Pac (7,5 miliardi);[9]
— la possibilità per i governi di impiegare i fondi di coesione ancora non utilizzati (40 miliardi) della programmazione 2014-2020 e riprogrammarli per sostenere le aziende e le famiglie vulnerabili nel pagare le bollette energetiche.
Una certa delusione, invece, deriva dalla mancanza di una pronta volontà politica comune e di una strategia unitaria tra paesi membri. Tutto permane complicato e a rilento, mortificato dal protrarsi di mediazioni condizionate da interessi nazionali divergenti.
Per essere assertivi non è necessario ripercorrere singole circostanze e fatti; sono sufficienti ed oltremodo significative le parole di Mario Draghi: “Stiamo discutendo di gas da sette mesi. Abbiamo speso decine di miliardi dei contribuenti europei, serviti a foraggiare la guerra di Mosca e non abbiamo ancora risolto nulla. Se non avessimo perso così tanto tempo ora non ci troveremmo sull’orlo della recessione”.[10]
La reazione comune, la solidarietà poi concretamente manifestata tra Paesi europei, il ruolo proattivo svolto da BCE e Commissione Ue nell’annus horibilis della pandemia, potevano far pensare che finalmente la “lezione” fosse stata capita e assimilata come patrimonio comune. Invece no.
Con difficoltà e una certa fatica, il premier italiano Draghi, grazie alla sua autorevolezza, era riuscito a far convergere alcuni paesi europei, tra cui Francia, Spagna e Polonia, sulla necessità di adottare un pacchetto di misure, in primis un prezzo massimo (al ribasso) del gas, a sostegno delle imprese e dell’economia.
Lo chiedevano a gran voce Confindustria e Medef, con un appello congiunto al Consiglio europeo: “Le imprese italiane e francesi lanciano l’allarme sull’escalation della crisi energetica e sottolineano l’urgenza di intervenire a livello europeo con effetto immediato per frenare i prezzi e per evitare ulteriori danni all'economia (…), ritengono urgente un rapido e deciso intervento europeo attraverso misure di carattere temporaneo che stabiliscano un tetto al prezzo del gas” — e con l’avvertimento: “non c’è tempo da perdere, in gioco c’è la sopravvivenza dell’industria europea”.[11]
Così anche l’Associazione degli industriali europei Business Europe: “le aziende di tutte le dimensioni in tutto il continente hanno già ridotto la loro produzione o addirittura interrotto completamente la loro produzione. Esiste il pericolo reale che le imprese ad alta intensità energetica si trasferiscano al di fuori dell’Europa, dove i prezzi dell’energia sono molto più bassi, il che avrebbe conseguenze drammatiche sulla nostra competitività e sui nostri posti di lavoro”.[12]
Se ne rendeva interprete la Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, intervenendo alla plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo: “I prezzi elevati del gas fanno lievitare i prezzi dell’elettricità. Dobbiamo limitare questo impatto inflazionistico del gas sull’elettricità ovunque in Europa. Siamo quindi pronti a discutere il tetto sul prezzo del gas, che deve essere studiato in modo appropriato e deve essere una soluzione temporanea”.[13] Nell’occasione, von der Leyen informava che La Commissione stava lavorando anche per ottenere il mandato a definire un processo, in caso di emergenza, in grado di condurre alla definizione della quota di gas spettante a ciascun Stato membro secondo una precisa chiave di allocazione e a un prezzo calmierato per evitare offerte al rialzo tra i paesi UE. Uno strumento simile a quello usato per i vaccini.
Alla vigilia del Consiglio europeo di ottobre, la Commissione ha messo a punto un pacchetto di misure per contrastare la crisi energetica.
In primo luogo, l’obbligo di acquisti congiunti di gas per almeno il 15% del volume degli stoccaggi e soglie più alte per gli aiuti di Stato. In secondo luogo la possibilità di utilizzare per l’emergenza energetica fino al 10% dei fondi di coesione del bilancio. Infine, un parametro di riferimento alternativo per il gas naturale liquefatto. Il nuovo indice, però, sarà pronto solo all’inizio del 2023: per questo, nel frattempo, ci sarà “un meccanismo per limitare i prezzi tramite il Ttf”, da attivare in caso di necessità.
Il Consiglio europeo, riunitosi il 20-21 ottobre 2022, ha dato il via libera all’accordo sul “pacchetto”, dando poi mandato ai ministri dell'Energia di elaborare i dettagli tecnici di una road map per la sua applicazione.
Sul “price cap”, c’era stata un’intesa politica di massima in attesa di una proposta tecnica più puntuale da parte della Commissione da sottoporre alla condivisione del Consiglio dei ministri energetici. La proposta, annunciata il 22 novembre 2022, dalla Commissaria all’Energia, Kadri Simson, indicava in 275 euro al megawattora, al Ttf di Amesterdam, il prezzo massimo del gas. Una proposta modellata sulla forzatura di Germania e di altri Paesi più preoccupati di mantenere il flusso delle forniture dalla Russia che del prezzo. Da considerare che mai, anche nei momenti di maggior picco, il gas aveva toccato quota 275 e che nel momento in cui il prezzo è stato formulato, i future sul mese di dicembre si muovono sotto i 120 euro.
I ministri dell’Energia dell’UE, riunitisi giovedì 24 novembre, hanno raggiunto un accordo sulla sostanza delle nuove misure sugli acquisti in comune di gas (con esclusione di quello russo) e su un meccanismo di solidarietà. Ma non sulla quota 275 euro del “price cap”, in quanto i ministri dell’Energia di quindici Paesi — tra cui Italia, Spagna e Francia — hanno deciso di non aderire alla proposta della Commissione europea. Nel frattempo sono arrivati nuovi avvertimenti da parte della Russia, che ha minacciato il taglio delle forniture di gas e petrolio a chi imporrà un tetto alle due materie prime. E il prezzo del gas subiva forti oscillazioni per via dell’incertezza intorno al “price cap”.
E mentre i paesi dell’Unione europea faticano a definire una linea condivisa sul tetto al prezzo del gas pagato alla Russia e su una politica comune di gestione della crisi energetica, Francia e Germania il 25 novembre, a Berlino, hanno firmato un accordo di “sostegno reciproco” nel campo dell’energia. Una “mossa” che rischia di rinfocolare polemiche sul rischio di divisioni all’interno dell’Europa con ricadute in termini di vantaggi o svantaggi competitivi. La prima ministra francese Elisabeth Borne, in un tweet a margine dell’intesa, ha scritto: “La Francia e la Germania hanno reciprocamente bisogno una dell’altra per superare le tensioni energetiche. È il senso dell’accordo di solidarietà che abbiamo appena concluso per attuare scambi di gas ed elettricità tra i nostri due Paesi ed agire insieme nel quadro dell’Unione europea”.Si apre, a questo punto, l’interrogativo sul destino degli altri 25 paesi dell’UE.
Le difficoltà nel trovare un accordo tra i paesi membri e le “fughe” in avanti ristrette tra pochi partner preoccupano profondamente.
Il 2 dicembre, sulla base della precedente decisione del G7, la Presidenza di turno del Consiglio dell’Unione ha annunciato l’accordo sul tetto al prezzo del petrolio russo, fissato a 60 dollari al barile a decorrere dal 5 dicembre 2022, nessun accordo invece sul “price cap” al gas russo. Un gruppo di sette paesi dell’Unione europea, tra cui l’Italia, ha proposto di fissarne un tetto al prezzo: 160 euro per megawatt/ora, ben lontano dal tetto di 275 euro proposto dalla Commissione europea e dal compromesso a 264 euro avanzato dalla Presidenza ceca dell’Unione. La svolta avviene in occasione della riunione del Consiglio europeo del 19 dicembre con l’invito al Consiglio dell’Unione di “portare a termine, il 19 dicembre 2022, i lavori sulla proposta di regolamento (…) che promuove la solidarietà mediante un migliore coordinamento degli acquisti di gas, in particolare attraverso la piattaforma dell’UE per l’energia, scambi transfrontalieri di gas e parametri di riferimento affidabili per i prezzi”.[14] E puntualmente, il lunedì seguente, i ministri europei dell’Energia a maggioranza qualificata, contraria l’Ungheria e astenuti Austria e Paesi Bassi, hanno trovato una mediazione e un accordo sul “price cap” del gas a 180 euro a megawatt/ora che scatterà dal prossimo 15 febbraio.
Una intesa salutata con cauta soddisfazione dal Presidente di Assolombarda, Alessandro Spada: “È un risultato positivo che ci sia stato un accordo UE sul tetto del prezzo del gas, ma il prezzo rimane molto alto per le imprese. La notizia positiva è che in Europa sono stati in grado di raggiungere una mediazione, ed era una mediazione più bassa rispetto a quello che prevedeva la Commissione”.
L’industria europea verso gli USA?
A tutto quanto sopra, si aggiunge quella che il Commissario europeo per il Mercato Interno, Thierry Breton, ha definito come “una sfida esistenziale all’economia europea”, vale a dire, l’Inflation Reduction Act (IRA), la legge approvata ad agosto dall’amministrazione Biden per accelerare la transizione verde dell’industria statunitense.
Sul piatto sono stati messi 369 miliardi di dollari tra sussidi e agevolazioni fiscali. Una misura che entrerà in vigore nel 2023, ma che sta già portando più di una azienda europea a spostare i propri investimenti dal Vecchio Continente agli USA. Grazie all’IRA, ad esempio, la costruzione di una nuova fabbrica di batterie elettriche negli States viene sussidiata con fino a 800 milioni di dollari. La stessa fabbrica in Europa riceverebbe “solo” 155 milioni di euro. Anche nel settore dell’idrogeno le sovvenzioni americane sono ora cinque volte quelle europee. Uno spread che si aggiunge a quello dei costi dell’energia. Attualmente, il gas naturale costa sei volte di più in Europa che negli USA. A causa di questa asimmetria, l’aumento annuo dei prezzi alla produzione è molto più marcato per le aziende europee rispetto a quelle statunitensi: +42% vs +8,5%. Di conseguenza, nei primi dieci mesi dell’anno l’industria dell’UE è stata costretta a razionare l’utilizzo di gas (-13% rispetto alla media dei tre anni precedenti) e quindi la produzione. Viceversa, l’industria americana ha persino aumentato i suoi consumi di gas (+5%).
Proprio a causa degli alti prezzi dell’energia in Europa, secondo un sondaggio della Camera di Commercio tedesca, l’8% delle imprese nazionali intervistate starebbe valutando di spostare parte della produzione fuori dai confini europei.
Un’emorragia industriale che l’Europa non può permettersi.
Reazioni e contrasti tra Stati Ue all’Inflation Reduction Act.
Parigi e Berlino aumentano il pressing sulla Commissione per una risposta dello stesso tono al piano di sussidi Usa.
Secondo l’Agenzia Bloomberg, che cita fonti vicine alla Cancelleria tedesca, Olaf Scholz, sostenendo le richieste provenienti dai socialdemocratici tedeschi (Spd), sarebbe propenso a proporre all’Unione Europea di replicare al piano di sussidi USA con nuovi strumenti finanziari comuni.[15]
Parigi ha fatto circolare un documento articolato per adottare una strategia ribattezzata “Made in Europe” e, tra i quattro pilastri, il più significativo riguarda l'esigenza di “rispondere alla necessità di sostenere e finanziare urgentemente” i settori “suscettibili alla delocalizzazione” per difendere “la solidità dell’economia europea, la sua sovranità e la transizione ecologica”. La Francia chiede all’UE di presentare “a brevissimo termine” uno “strumento di finanziamento credibile e ambizioso” da costruire in due tempi. Prima “un fondo d’urgenza” creato riorientando finanziamenti già esistenti. Poi, entro la fine del 2023, utilizzando uno strumento simile a “Sure”, vale a dire finanziato attraverso debito comune. La crisi dell’industria romperebbe così un altro tabù.
La danese Margrethe Vestager, vice-presidente esecutiva della Commissione UE, nella lettera “urgente” inviata il 13 gennaio 2023 a tutti i governi, prende consapevolezza che “gli elevati prezzi dell'energia”, “la necessità di dare un’adeguata formazione professionale ai lavoratori” e soprattutto il piano USA anti-inflazione “che rischia di attirare gli investimenti delle imprese UE negli Stati Uniti” richiedono “una forte risposta europea”[16]. Nella sua lettera Vestager propone l’istituzione di un “Fondo comune europeo” per “sostenere i Paesi in modo equo” e prima ancora un ulteriore allentamento delle regole sugli aiuti di Stato oltre al potenziamento di RePowerEU.
Più prudente al momento appare Ursula von der Leyen che vorrebbe evitare contrapposizioni e privilegiare un “dialogo” con l’amministrazione Biden per evitare uno scontro transatlantico.
E c’è chi, invece, dice di “no”.
La Confederazione delle imprese di Stoccolma, nella sua risposta alla consultazione lanciata dalla Commissione prima di Natale, scrive: “non può ritenersi giustificato apportare ulteriori cambiamenti alle regole sugli aiuti di Stato a causa dell’IRA: gli Stati membri forniscono già somme sostanziose di aiuti di Stato e non è chiaro in che modo l’IRA sarà implementato”.[17]
Anche il Governo spagnolo nel suo parere ha chiesto di non battere la strada di ulteriori aiuti di Stato, che costituirebbero “una minaccia al terreno equo di concorrenza”.
In vista della riunione del Consiglio europeo del 9 e 10 febbraio, la Commissione Europea ha presentato il 1° febbraio il “Green Deal Industrial Plan”, una serie di proposte ed iniziative a sostegno e protezione dell'industria verde dell’Unione europea. Si tratta, di fatto, di una risposta all’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti e ai programmi multimilionari per la transizione energetica della Cina. Il nuovo piano punta a semplificare le norme sugli aiuti di Stato per l’introduzione di energie rinnovabili e per la decarbonizzazione dei processi industriali. “Sappiamo che nei prossimi anni si deciderà la forma dell'economia, l’economia a emissioni zero, e la sua collocazione. E noi vogliamo essere una parte importante di questa industria di cui abbiamo bisogno a livello globale”, ha detto la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen.[18] Ma il piano non ha riscosso il consenso unanime di tutti gli Stati membri e del settore industriale.
Considerazioni conclusive.
Dall’esperienza della crisi pandemica e dall’emergenza della crisi in corso, l’Unione europea tarda a tradurre in fatti concludenti i tanti autorevoli appelli per rafforzarsi, per essere più coesa, solidale, pronta ed efficace per assumere un ruolo di potenza.
È pertanto condivisibile la considerazione di Carlo Bonomi, Presidente di Confindustria, secondo il quale “Sull’energia serve una Europa che condivida sforzi e misure, esattamente come siamo stati capaci di fare con le sanzioni. Non si può essere uniti sulle sanzioni e sull’energia fare, invece, da soli, la condizione e solidarietà non possono esistere su un tema e non sull’atro”.[19]
Un fatto è certo: questa Unione fatica e tarda ad essere all’altezza delle sfide che l’attendono, ne è riprova questa “guerra di resistenza” in cui le “decisioni” non prese unitariamente o protratte nel tempo o non efficaci rischiano di pregiudicare irrimediabilmente la competitività di filiere e di imprese europee, rendendo attuale il rischio di un impoverimento industriale del Vecchio Continente.
Ugualmente certo è che i governi nazionali non stanno usando la spinta di questa ulteriore emergenza per fare i passi in direzione di una vera unità politica che permetta all’Europa di elevarsi al livello di potenza continentale dotandosi della capacità, dell’autorevolezza e della forza necessarie per agire al proprio interno e nel mondo. Dovrebbe essere chiaro che l’Europa, per sopravvivere come Unione, non ha alternative al compiere quei passaggi politico-istituzionali che sono essenziali (e che sono emersi nella Conferenza sul futuro dell’Europa) per dare competenze, risorse e poteri effettivi alle istituzioni europee per agire nei campi cruciali che solo a livello europeo trovano l’adeguata dimensione di governo. E allora, traendo motivazione dalle stimolanti e passionali parole di David Sassoli all’apertura della Conferenza sul futuro dell’Europa lo scorso 9 maggio, come militanti federalisti con grande impegno “dobbiamo lavorare (…) perché sul funzionamento [l’Europa] sia più coerente, affinché l’Europa abbia competenze chiare in tante materie, in cui i nostri paesi da soli sarebbero emarginati e si troverebbero solo in grande difficoltà. Vediamo che nel mondo vi sono attori geopolitici che ci attaccano e che approfittano delle nostre divisioni per indebolire la nostra forza, che è grande ed è sostenuta dal diritto, dalla democrazia e dai nostri valori. Facciamo un’Europa più forte, più resistente, più democratica e più unita”.
Con altre parole a noi più familiari: facciamo un’Europa federale!
Piero Lazzari
[1] S. Mattera, Un miliardo alle imprese contro il caro-energia. Draghi: “Prepariamoci all’economia di guerra”, la Repubblica, 12 marzo 2022, https://www.repubblica.it/politica/2022/03/11/news/draghi_un_miliardo_alle_imprese_contro_il_caro_energia-341070617/.
[2] Speech by President von der Leyen on the occasion of the II Cercle d’Economia Award for the European Construction, Barcellona, 6 maggio 2022, https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/SPEECH_22_2878.
[3] F. Martìn, Perché la crescita continua a rallentare? Il Sole 24 ore - Econopoly ,15 febbraio 2017, https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2017/02/15/perche-la-crescita-continua-a-rallentare/?refresh_ce=1; F. Daveri, Economia mondiale: torna lo spettro della crisi? ISPI, 27 dicembre 2018: “Per il 2019 il Fondo Monetario si attende un rallentamento: Ma la domanda che si pongono tutti gli osservatori è se il ‘rallentamento’ assumerà lo sgradevole aspetto di una crisi mondiale”, ISPI, 27 novembre 2018, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/economia-mondiale-torna-lo-spettro-della-crisi-21869; C. Natoli, Outlook OCSE: economia mondiale in rallentamento anche nel 2020 – I rischi per Germania e Italia, https://www.pricepedia.it/it/magazine/article/2019/11/25/outlook-ocse-economia-mondiale-in-rallentamento-anche-nel-2020-i-rischi-per-germania-e-italia/, 25 novembre 2019); G. Santevecchi, Pil Cina, così Xi Jinping ha fatto rallentare l’economia - E’ un rallentamento annunciato, ma ancor più pronunciato del previsto, quello dell’economia cinese. Rallentamento delle logistiche, Corriere della sera, 18 ottobre 2021, https://www.corriere.it/economia/finanza/21_ottobre_18/cosi-xi-jinping-ha-fatto-rallentare-l-economia-cinese-26c93746-2fed-11ec-9d51-3a373555935d.shtml.
[4] M. Amman and M. Knobbe, An interview with German Chancellor Olaf Scholz, “There Cannot Be a Nuclear War”, Spiegel International, 22 aprile 2022, https://www.spiegel.de/international/germany/interview-with-german-chancellor-olaf-scholz-there-cannot-be-a-nuclear-war-a-d9705006-23c9-4ecc-9268-ded40edf90f9.
[5] Centro Studi Confindustria, Caro energia persistente, inflazione record e rialzo dei tassi, frenano l’economia a fine 2022, novembre 2022, https://www.confindustriasr.it/comunicazione.asp?id=89&id_news=1478&anno=2022.
[6] Energy crisis will erode Europe’s competitiveness in 2023, 13 ottobre 2022, https://www.eiu.com/n/energy-crisis-will-erode-europe-competitiveness-in-2023/.
[7] Confindustria, Medef e Bdi: subito misure condivise su energia, Energiaoltre, 20 dicembre 2022, https://energiaoltre.it/confindustria-medef-e-bdi-subito-misure-condivise-su-energia/?v=163a1b9b5c5312.
[8] Audizione del ministro Giorgetti sul disegno di legge di bilancio per il triennio 2023-2025 [Commissioni bilancio di Camera e Senato], https://www.mef.gov.it/ufficio-stampa/articoli/2022-Giancarlo_Giorgetti/Audizione-del-ministro-Giorgetti-sul-disegno-di-legge-di-bilancio-per-il-triennio-2023-2025-Commissioni-bilancio-di-Camera-e-Senato/.
[9] European Commission, REPowerEU: A plan to rapidly reduce dependence on Russian fossil fuels and fast forward the green transition, https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/ip_22_3131.
[10] L’Ue ferma l’Italia sul gas, Draghi furioso: “Colpa vostra se siamo in recessione” - Business.it.
[11] Confindustria, Medef e Bdi…, op. cit..
[12] BusinessEurope, Energy crisis: European business calls for new EU-wide measures (press release), https://www.businesseurope.eu/publications/energy-crisis-european-business-calls-new-eu-wide-measures.
[13] U. van der Leyen, Speech by President von der Leyen at the European Parliament Plenary on Russia's escalation of its war of aggression against Ukraine, Strasburgo, 5 ottobre 2022, https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/SPEECH_22_5964.
[14] General Secretariat of the Council, European Consilium meeting (15 December 2022) – Conclusions, https://www.consilium.europa.eu/media/60872/2022-12-15-euco-conclusions-en.pdf.
[15] MilanoFinanza News 12.1.2023.
[16] https://www.politico.eu/wp-content/uploads/2023/01/16/Letter_EVP_Vestager_to_Ministers__Economic_and_Financial_Affairs_Council__Competitiveness_Council_aressv398731.pdf.
[17] S. Disegni, Francia e Germania vogliono un nuovo piano Ue di aiuti all’industria. Ma nel 2022 l’80% delle risorse è finito proprio a loro, Open, 13 gennaio 2023, https://www.open.online/2023/01/13/ue-francia-germania-nuovo-piano-aiuti-industria/.
[18] European Commission, Statement by President von der Leyen on the Green Deal Industrial Plan, https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/statement_23_521.
[19] Caro energia, Bonomi: “Da soli non ce la possiamo fare, serve l'Ue”, Adnkronos.com, 5 ottobre 2022.
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