Anno LVI, 2014, Numero 1-2, Pagina 138
INTERNET E POLITICA:
UN’ARMA A DOPPIO TAGLIO
L’innovazione introdotta da internet è innanzitutto quella di annullare distanze e tempi nella trasmissione delle informazioni. Si tratta di un cambiamento che ha inciso profondamente sulla natura dell’economia, sulla società e sullo stile di vita e anche sul tipo di sfide che i governi devono affrontare a livello globale.
Molto è stato scritto in proposito, ma le analisi puntuali sono in realtà pochissime, e la tendenza è spesso quella di valutare solo sulla base di semplici impressioni gli effetti reali di questa trasformazione. Uno dei pochi studiosi che ha affrontato la questione con criteri scientifici è Eugene Morozov, di cui ricordiamo in particolare The Net Delusion: the dark side of internet freedom. Sulla base dei dati da lui raccolti e dell’analisi che ne consegue, ci sono soprattutto due tipi di interpretazioni mistificatorie riguardo alla funzione di internet, soprattutto in relazione alla partecipazione alla vita politica e all’evoluzione della democrazia: la prima Morozov la definisce il cyber utopismo, la seconda è il cyber centrismo. Rientrano nelle definizione di cyber utopisti coloro che ritengono che internet abbia il potere di rendere la politica progressivamente più trasparente ed egualitaria. Il cyber centrismo è invece una categoria ancor più radicale in cui rientrano tutte le interpretazioni in base alle quali internet rivoluzionerebbe radicalmente la partecipazione alla vita politica e soprattutto la natura delle organizzazioni politiche, annullando le differenze tra grandi e piccole formazioni grazie all’azzeramento dei costi di diffusione dei messaggi e di condivisione delle idee.
Questa illusione è alimentata anche dall’interpretazione ideologica della fine dell’equilibrio bipolare e del crollo dell’Unione Sovietica. Negli anni Novanta si è diffusa l’idea, praticamente incontrastata, che la storia avrebbe percorso da quel momento in poi un piano inclinato, dove il mercato e la scienza avrebbero fatto da motori automatici della pace e della progressiva democratizzazione di tutto il mondo. In questo contesto la potenziale libertà offerta da internet a tutti i cittadini sembrava confermare questa tendenza. In seguito, le difficoltà che hanno iniziato a minare il ruolo egemone degli Stati Uniti, e l’emergere di nuove potenze in aree del mondo fino a pochi anni prima considerate depresse, hanno alimentato la speranza che la rete potesse essere strumento di affrancamento per i popoli soggetti a dittature che godevano, o avevano goduto, della protezione americana.
Sono utopie ben rappresentate dagli slogan simbolo come “sganciate i tweet, non le bombe”, diffusi a macchia d’olio ad alimentare la speranza di incidere così nella promozione della democrazia. Un esempio importante di questa mistificazione è costituito dall’interpretazione che si è diffusa circa il ruolo dei social network, ed in particolare di twitter, nella rivolta del Movimento Verde in Iran, nel 2009. L’analisi corrente è stata che la protesta fosse stata resa possibile, e organizzata in modo capillare, grazie al passa parola dei messaggi sui social. La realtà è che i tweet registrati in Iran sono stati in tutto 19.235, il che significa che hanno coinvolto al massimo, ipotizzando un post per persona, lo 0,027% della popolazione. Dati alla mano, la “twitter revolution” del “drop tweets, not bombs”, è stata indubbiamente un esagerazione giornalistica.[1] E gli effetti – si è visto a posteriori – non sono stati affatto quelli che venivano celebrati. Da un lato si è arrivati addirittura a tre milioni di tweet nel mondo riferiti alle elezioni in Iran e alle proteste – tweet che perlopiù esaltavano il ruolo di internet nell’alimentare la rivolta – e dall’altro molti politici, anche tra gli esponenti dei governi, si sono illusi che twitter e i social network aiutassero la democrazia a trionfare contro le dittature. L’insuccesso dell’insurrezione dimostra che, purtroppo, si trattava di false speranze, cui però hanno dato mostra di credere anche personalità di spicco quali Hillary Clinton – allora Segretario di Stato statunitense –, tutte cadute nella trappola della notizia eclatante diffusa senza alcuna verifica.
Cyber utopismo, regimi autoritari e democrazia.
Nel libro di Morozov vi è un larga casistica che riguarda le strategie che i regimi autoritari utilizzano per mantenere il controllo dell’utilizzo della rete, annullando in gran parte gli effetti di uno strumento apparentemente libero, diffuso ed egualitario come internet che, con i suoi blog e i social network, molti sperano possano promuovere cambiamenti radicali in direzione dei principi dello Stato liberaldemocratico.
In Cina, ad esempio, l’utilizzo dei social è molto diffuso, al contrario di quanto si crede: sono molti i cittadini che utilizzano i social network, e lo stile di vita, così come la stessa produzione, sono all’avanguardia in questo senso, e molto forte è la connessione con l’universo online. Tra i social network più diffusi (al mondo) rientrano RenRen, utilizzato soprattutto dagli adolescenti cinesi (collegato anche ai telefoni cellulari e smartphone cinesi) e Kaixin rivolto più ai professionisti. Anche in Russia la cultura dello svago online è molto diffusa; l’82% della popolazione è iscritta a social network diffusi nel paese (come odnoklassiniki, vKontakte e MoiMir) e rifiuta in larga parte i social occidentali come facebook, che sono però disponibili.[2] Si tratta, quindi, in entrambi i casi, di società che sono interconnesse al proprio interno grazie alla rete, pur rimanendo in sintonia con i regimi autoritari da cui sono governate e senza, almeno in questa fase, far emergere alcuna volontà di rottura rispetto alle istituzioni esistenti. La stessa cosa si deve ipotizzare per i paesi BRICS, per i MINT e per tutte le altre realtà emergenti. In assenza degli elementi classici che scatenano le crisi economiche e sociali, internet di per sé non sembra svolgere nessun ruolo a favore della democratizzazione. Si è passati da un utilizzo di internet con qualche milione di contatti negli anni Novanta, ad uno, oggi, con qualche miliardo, ma le dinamiche che regolano i processi politici paiono tutt’altro che superate.[3]
In regimi autoritari o nelle oligarchie quali la Cina, la Russia, il Venezuela, il Vietnam, tanto per citare i maggiori, internet è uno strumento largamente utilizzato anche dai governi, che vi destinano molte risorse, umane e finanziarie, al fine di sfruttarne al massimo le prerogative. Internet può essere usato come strumento di controllo, come strumento di censura e come strumento di propaganda.
Come mezzo di controllo, la rete serve per individuare e monitorare i movimenti antigovernativi. Mentre prima di internet tale compito veniva svolto dai servizi segreti, con costi molto alti e tempi lunghi prima di ottenere dei risultati, oggi basta un semplice virus infiltrato sul terminale di un solo agitatore per controllare le informazioni, collegarsi con la sua rete e raccogliere gli elementi per operare gli arresti. Un’ulteriore possibilità sul piano del controllo è quello del blogger, o del semplice cittadino, filo-governativo che viene pagato dal regime per individuare le persone sospettate di destabilizzare lo Stato.
La censura è un tema già più noto, soprattutto per quel che concerne la Repubblica Popolare Cinese dove è risaputo che molti siti internet sono bloccati e sostituiti da succedanei nazionali; tuttavia, non si tratta dell'unico paese che fa uso di tale pratica. Dai social network ai blog, dalla barra del motore di ricerca ai siti web, il regime può controllare e censurare siti che in occidente sono molto diffusi come facebook o wikipedia facendo in modo che ai cittadini giungano un numero limitato di informazioni. Al tempo stesso però il governo è in grado di analizzare e catalogare le ricerche dei cittadini in base alle tematiche e in base al luogo di provenienza per sfruttare, ancora una volta, al meglio queste informazioni ai fini del controllo.
Infine i regimi autoritari utilizzano internet come strumento di propaganda a basso costo e vasta diffusione. Esistono i sopracitati blogger stipendiati che propagandano le posizioni del governo e contemporaneamente controllano i post di altri blog per intercettare eventuali posizioni anti-governative. Tramite web si possono diffondere anche video, addirittura a giustificazione di conflitti, come era stato il caso tra Russia e Georgia; il video, largamente promosso dal governo russo durante la fase dell’invasione, è tutt’ora accessibile. Tra coloro che hanno fatto maggiore uso di “spinternet”, ossia di internet a scopo propagandistico, spicca Ugo Chavez che in Venezuela è rimasto per lungo tempo l’individuo più seguito sui social network.
Questo uso strumentale dei social network da parte dei regimi al potere si è verificato anche nel corso delle cosiddette primavere arabe. Giornali e televisioni hanno propagandato il “successo” delle primavere arabe come un risultato di facebook e di internet. La realtà, invece, è che, sebbene vi sia stato, sin dalle prime fasi della sommossa, un certo uso dei social network per la comunicazione di informazioni e lo scambio di file tra cittadini – in particolare su facebook e twitter –, vi è stato anche però un forte ruolo delle televisioni panarabe, che si sono dimostrate più influenti di internet (che, invece, è stato utilizzato in modo limitato). Per quel che concerne l’uso di facebook, il social più usato in nord Africa da parte dei cittadini, all’inizio delle proteste la percentuale delle iscrizioni rispetto alla popolazione erano piuttosto basse: in Egitto il 5,5%, in Libia il 4,3% e in Tunisia il18,8%.[4] I numeri sono però cresciuti durante le proteste: in Egitto sono saliti al 29%, in Tunisia al 17% mentre vi è stato un calo in Libia. Per quel che concerne twitter, la somma degli utenti in Egitto, Tunisia e Yemen ammonta a circa 14.000, a fronte di una popolazione che, solo in Egitto, è di circa 80 milioni di persone.[5] Il fenomeno social è dunque rimasto, nei fatti, limitato ad una élite, se paragonato al numero di rivoltosi nelle piazze. Indubbiamente non è stato grazie ad internet che è partito il tentativo rivoluzionario, ma si è trattato piuttosto di una cassa di risonanza che ha contribuito alla diffusione delle informazioni, in particolare in seguito al suicidio pubblico del tunisino Mohamed Bouazizi che si è dato fuoco in piazza per protesta contro le autorità tunisine. Tra le ragioni che hanno spinto, erroneamente, a sopravvalutare il ruolo dei social network vi è il fatto che in Egitto la rete fu chiusa in svariate città tra cui la capitale Il Cairo; ma la realtà è che il ruolo giocato dalla rete è stato modesto, e in più la circolazione di informazioni tramite internet è stata sfruttata anche dal regime in Egitto per raccogliere, direttamente dai blogger che contribuivano a coordinare le proteste, le notizie in modo da prevenire e controllare più facilmente i movimenti della piazza.
Tra le ragioni per cui il ruolo dei social network rimane limitato nelle rivoluzioni vi è la natura dei legami che si vengono a creare tra i rivoltosi. Una manifestazione in piazza o il rapporto personale in un’organizzazione politica creano un forte legame, soprattutto quando si condivide l’importanza della causa o quando si ha la percezione di un grande rischio comune. Al contrario i social network non hanno questa caratteristica indispensabile per cementare una forza politica rivoluzionaria. In generale i social stimolano maggiormente un linguaggio e dei contenuti di tipo ludico, spesso incentivano una certa tendenza al narcisismo (l’apparenza e l’aspetto estetico sono elementi più che fondamentali in facebook e vengono sfruttati metodicamente) e portano a sviluppare rapporti poco profondi. Se è vero che il modo di esprimersi immediato, eclatante e sensazionalistico della rete favorisce molto la diffusione di vampate di entusiasmo e di speranza, come pure di allarmi, è anche vero però che si tratta spesso di fenomeni di “mobilitazione” passeggera, mentre rimane molto difficile, a fronte di analisi e di indicazioni sbagliate, riuscire a diffondere e a far penetrare le smentite.
L’uso di internet nelle democrazie.
Anche nelle democrazie, internet non viene usata tanto a scopo politico, quanto pubblicitario, commerciale, ludico. Internet, e soprattutto i social network, sono una sorta di colossale contenitore di informazioni che viene usato da una miriade di soggetti – spesso di natura commerciale – per bombardare di informazioni o di propaganda gli innumerevoli utenti, cercando di influenzarli. I cittadini si trovano quindi a dover scegliere tra una quantità smisurata di dati e di messaggi, e, inevitabilmente, quelli di fatto più presenti all’interno della società risultano più visibili anche in internet.
Quando viene utilizzato a fini di propaganda politica, il web presenta alcune controindicazioni specifiche: la natura della comunicazione molto semplificata favorisce il messaggio accattivante a scapito del contenuto, la risposta offensiva piuttosto che quella meditata, i provocatori rispetto ai riflessivi, e sicuramente non favorisce un confronto razionale e approfondito. Si assiste di fatto ad una regressione comportamentale, il cosiddetto flaming, che porta le persone a atteggiarsi in maniera immatura verso l’insulto facile e ad interfacciarsi narcisisticamente con la macchina.[6] Questi atteggiamenti sono enfatizzati anche dall’assenza del volto nella relazione, dalla mancanza di contemporaneità nella comunicazione, dall’anonimato e dalla conseguente assenza di senso della responsabilità, dal desiderio incontrollato di apparire, dalla possibilità di una comunicazione a senso unico.
Questo spiega perché le campagne politiche scaturite dal web sono spesso legate a battaglie semplici e dirette, quali la promozione di petizioni su tematiche che abbiano un forte impatto emotivo o la generica sensibilizzazione. I grandi cambiamenti di natura politico-istituzionale, o le battaglie che si accompagnano ad un profondo confronto culturale, non rientrano tra quelle realizzabili grazie ad internet o rispetto alle quali internet può avere un ruolo determinante. Internet, sotto questo aspetto, non può che avere un ruolo subordinato, né può sostituirsi ai partiti o alle organizzazioni politiche come vorrebbero i cyber centristi. Morozov, a questo proposito, ricorda il giudizio di Kierkegaard rispetto ai dibattiti nei caffè diventati di moda a partire dall’inizio del XIX secolo: uno stile comunicativo privo di contenuto perché venivano affrontate tutte le tematiche, e tutte in maniera superficiale. Parlare di qualsiasi cosa coincide con il parlare a vanvera. Il parallelo con quanto accade sul web è evidente. Anche se il cyber centrismo tenta di equiparare il dibattito online e quello reale, il primo non è strutturato e tutti comunicano unidirezionalmente, senza essere portati ad ascoltare. Inoltre, nel dibattito si frappone ogni tipo di messaggio, inclusa la pubblicità, i temi a scopo puramente ludico, quelli che deviano l’attenzione su tematiche diverse. Infine, le tematiche politiche che fanno maggior presa on line sono quelle di natura fortemente populista, ad alto impatto emotivo.
Il successo, così spesso ricordato, della campagna via internet di Obama e del Democratic Party durante le presidenziali del 2012, conferma di fatto questa valutazione. La campagna fu considerata un grande successo per due ragioni: perché portò Obama alla vittoria e per i finanziamenti raccolti. In realtà, il punto di forza della campagna fu la mobilitazione di decine di migliaia di volontari che fecero la campagna porta a porta, bussando alle case dei cittadini indecisi e dei non votanti, per parlare con ciascuno di loro e cercare di convincerli. Uno studio americano[7] mostra che l’efficacia nel convincere i votanti cambia molto in base al metodo che si sceglie di adottare: 1/10 con il porta a porta, circa 1/100.000 con il volantinaggio e le e-mail, mentre le chiamate telefoniche hanno effetti controversi e i manifesti elettorali sembrano non avere alcun effetto. Nella campagna di Obama, l’80% degli sforzi fu indirizzato verso la prima opzione e nel rapporto della campagna[8] è specificato che il primo obiettivo fu quello portare le persone che avevano dato la propria adesione sui social network a diventare volontari attivi nell’azione in strada.
Dal punto di vista del finanziamento la campagna è stata sicuramente un grande successo reso possibile dal web. La campagna è stata pagata interamente con i contributi volontari dei cittadini che hanno versato on line fino a un massimo di 200$. Grazie a questa scelta strategica, Obama ha potuto escludere i grandi finanziamenti da parte di magnati che avrebbero potuto porre delle ipoteche sulle sue scelte future. I numeri complessivi sono impressionanti: 3 milioni di donatori, 13 milioni di e-mail inviate, 5 milioni di “amici” e legami nei social network (soprattutto facebook), 8,5 milioni di viste mensili al sito MyBarackObama.com e 80 milioni di visualizzazioni su video elettorali ufficiali. Ma rimane il fatto che un simile successo è stato reso possibile dal fatto che non esisteva cittadino americano che non conoscesse Obama, la cui popolarità è stata assolutamente determinante.
Anche il caso del Movimento 5 Stelle in Italia in realtà evidenzia come sia la popolarità dei protagonisti a valorizzare anche la loro presenza sul web. Anche se si è tentato di far passare il successo del M5S – specie alle elezioni del febbraio 2013 – come un successo eclatante della comunicazione online, e se si è voluto proporre un modello democratico alternativo incentrato sulla rete, la realtà è che larga parte del consenso ottenuto dai M5S, oltre ad essere legato a fattori politici tipici delle fasi di crisi, come l’emergere dei populismi, è dovuto in gran parte ai media e ai metodi tradizionali. Dai comizi in piazza alla copertura mediatica televisiva e giornalistica il successo del Movimento è stato profondamente promosso dai “vecchi media” che hanno spesso citato e diffuso i post del blog di Beppe Grillo. Mentre la debolezza e i limiti del tentativo di costruire una forza politica senza una struttura organizzative, fondata sulla “libera” partecipazione on line dei cittadini, sono emersi in brevissimo tempo, rivelando che l’esperienza si dimostra un clamoroso insuccesso, per lo meno sul piano della democrazia interna.
Il caso del Movimento 5 Stelle dimostra comunque che cyber utopismo e cyber centrismo possono anche contaminarsi con il populismo. E se internet non ha sinora scardinato la struttura delle organizzazioni politiche, quello che è vero è che può però favorire leader carismatici e contribuire al diffondersi del caos nelle fasi di crisi. Senza lo sviluppo di una forte coscienza critica e civica che permetta di selezionare i contenuti in rete, internet può rivelarsi pertanto un’arma a doppio taglio che allontana ulteriormente i cittadini dalla vita democratica, lasciandoli in balia di soggetti privati, non sempre facilmente identificabili, che hanno interesse a trasmettere messaggi fortemente distruttivi.
Nelson Belloni
[1] Eugene Morozov, The Net Delusion: the dark side of internet freedom, New York, Public Affairs, 2011, p. 15.
[2] http://www.demnet.eu/it/l82-dei-russi-usano-social-network-
scopriamo-quali/.
[3] http://www.parlamento.it/application/xmanager/projects/parlamento/file/repository/affariinternazionali/osservatorio/approfondimenti/PI0040App.pdf.
[4] Ibidem.
[5] Ibidem.
[6] http://users.rider.edu/~suler/psycyber/holland.html.
[7] Liegey Muller Pons, 5 million doors knocked. Presentation of François Hollande voter mobilization campaign. Ritrovabile nel sito www.federalists.eu.
[8] Barak and Joe Obama Biden, 2012 Obama Campaign Legacy Report, http://secure.assets.bostatic.com/frontend/projects/legacy/legacy-report.pdf.
Anno LVI, 2014, Numero 3, Pagina 233
L'ATTUALITA' DELLA CED
La firma del Trattato istitutivo della Comunità europea di difesa nel 1952 rappresenta il momento in cui l’Europa fu più vicina a diventare uno Stato federale; ristudiarne la storia può essere utile, quindi, sia per comprendere alcune dinamiche attuali legate alle difficoltà della nascita di una vera politica estera e di difesa dell’Europa, sia come modello per il rilancio di una proposta federalista.
Le recenti vicende riguardanti le Primavere arabe, la Siria e la crisi in Ucraina, hanno messo ancora una volta in evidenza come l’Unione europea sia impotente, perché priva di una vera ed efficace politica estera. Gli Stati europei non sono in grado di esprimere con una voce unica i propri interessi e le proprie posizioni nel quadro mondiale e continuano ad essere troppo dipendenti dagli Stati Uniti. In un quadro globale che diventa sempre più multipolare con l’emergere di nuovi attori come i BRICS e con il declino dell’egemonia statunitense, l’Europa non può più permettersi il lusso di non elaborare una propria strategia delle relazioni internazionali basata su una vera politica estera e di difesa.
La mancata ratifica della CED costituisce l’origine delle problematiche attuali; la soluzione di ripiego, cioè l’abdicazione alle proprie responsabilità nel quadro della NATO, ha lasciato intatte le sovranità nazionali, almeno da un punto di vista formale, ma ha di fatto rappresentato la delega, da parte degli Stati europei, agli USA del compito di rappresentare l’intero blocco occidentale. Terminata la Guerra fredda e sancita la fine dell’egemonia USA diventa però essenziale per l’Europa ridisegnare la propria posizione nel quadro globale sottraendosi alla subalternità nei confronti della politica estera statunitense, non sempre in sintonia con gli interessi europei.
La nascita della CED: il Piano Pleven e l’approccio funzionalista.
Il tema della difesa dell’Europa divenne cruciale tra il 1949 e il 1950. La fine del monopolio statunitense sulle armi nucleari e lo scoppio della guerra di Corea facevano temere la possibilità di un conflitto aperto tra URSS e USA; in tale quadro gli Stati Uniti consideravano l’Europa come il “ventre molle” del fronte occidentale. La presidenza Truman ritenne quindi il riarmo dell’Europa un punto essenziale della propria politica estera; da tale processo di riarmo secondo Truman non poteva essere esclusa la Germania occidentale. Tuttavia un eventuale riarmo tedesco era fortemente osteggiato dal governo francese di Pleven il quale cercò di far valere le proprie posizioni di fronte a USA e Gran Bretagna. Alla fine del 1950 però le pressioni dell’amministrazione Truman sul governo francese si fecero sempre più insistenti; gli USA avevano già elaborato un piano, lo One Package, che prevedeva la costituzione di un esercito integrato con la partecipazione di divisioni tedesche. Al fine di evitare di essere esclusa dal tema del riarmo tedesco, la Francia si vide costretta ad elaborare una propria proposta. E’ in tale contesto che Jean Monnet ebbe l’intuizione di agganciare il riarmo della Germania Ovest con quanto era stato fatto per la costituzione della CECA. Monnet elaborò un piano che prevedeva la costituzione di un esercito composto dai vari Stati europei da porre sotto il controllo di un’autorità sovranazionale. Il piano fu presentato da Pleven nel mese di ottobre agli alleati e venne convocata una conferenza diplomatica a Parigi nel febbraio del 1951, con il compito di affrontare il tema. Alla conferenza avrebbero partecipato Francia, Italia, Germania, Belgio e Lussemburgo; i Paesi Bassi inizialmente aderirono come osservatori e solo successivamente come Stato partecipante.
Il piano Pleven ricalcava il progetto della CECA e non andava oltre il funzionalismo; gli Stati non rinunciavano a porzioni di sovranità, ma si limitavano ad una più stretta cooperazione in ambito militare. L’autorità sovranazionale non sarebbe stata libera e indipendente dagli Stati partecipanti ma sempre soggetta al controllo dei governi nazionali poiché non disponeva di un bilancio proprio né di una vera autonomia.
L’inizio dei lavori alla Conferenza di Parigi risultò essere deludente; la proposta francese non sembrava raccogliere sufficiente consenso tra i partner europei, dato anche lo scetticismo di USA e Gran Bretagna.
Solo l’Italia ebbe una posizione di cauto ottimismo sul Piano. Durante i primi mesi i contrasti tra gli interessi particolari degli Stati impedirono di raggiungere dei risultati rilevanti. A luglio la Conferenza presentò un rapporto provvisorio ai governi che lasciava ancora molti punti in sospeso. Le istituzioni previste dalla Conferenza erano quattro: il Commissariato, il Consiglio dei ministri, l’Assemblea e la Corte di giustizia. Tra queste istituzioni però solo il Consiglio dei ministri risultava essere determinante nel processo decisionale; esso era responsabile della nomina del Commissariato, stabiliva il bilancio secondo contribuzioni nazionali da determinare di volta in volta ed era l’unico responsabile sulla scelta dell’impiego dell’esercito integrato in caso di conflitto. Al Commissariato veniva delegato un mero ruolo organizzativo e di coordinamento; l’Assemblea aveva una semplice funzione consultiva.
Il contributo italiano e il superamento del funzionalismo.
I movimenti federalisti avevano seguito da vicino le trattative sulla CED e fecero pressione sui governi nazionali affinché si superassero i contrasti e si cogliesse l’occasione per costruire un’Europa federale.
Dopo la stesura del rapporto provvisorio Altiero Spinelli scrisse un memorandum che inviò ai capi delegazione e al governo italiano. Nel proprio commento Spinelli metteva in evidenza come il metodo intergovernativo e funzionalista che era stato adottato fino a quel momento avesse condotto a risultati insoddisfacenti; in particolare Spinelli criticò fortemente le istituzioni del rapporto, in cui il Consiglio aveva troppi poteri, e il metodo della Conferenza diplomatica che non faceva altro che mettere in contrapposizione gli interessi particolari degli Stati senza possibilità di raggiungere decisioni soddisfacenti.
Il memorandum suggeriva, invece, un approccio di natura federalista. I punti fondamentali riguardavano il fatto che: i) non è possibile mettere in comune la politica di difesa senza mettere in comune anche la politica estera; ii) il Commissariato non può essere subalterno alla volontà dei singoli Stati ma deve godere di autonomia decisionale; iii) il bilancio non può dipendere da contribuzioni volontarie degli stati partecipanti, ma deve basarsi una propria tassazione a livello europeo; iv) gli organi esecutivi della Comunità europea di difesa devono godere di una legittimazione democratica che si esprime attraverso l’elezione di un’ Assemblea con pieni poteri.
Spinelli suggeriva, infine, il superamento della Conferenza diplomatica e la convocazione di un’Assemblea costituente col compito di fondare lo Stato europeo.
Alcide De Gasperi, capo del governo italiano, fu uno dei destinatari del memorandum di Spinelli. Alla ripresa dei lavori della Conferenza di Parigi l’atteggiamento della delegazione italiana divenne sempre più audace facendo propri i consigli e le riflessioni di Spinelli; lo stesso De Gasperi si impegnò in prima persona nelle trattative con i partner europei affinché la Conferenza portasse alla convocazione di un’Assemblea con poteri costituenti. Grazie allo sforzo della delegazione italiana, alla fine del 1951 le criticità del rapporto provvisorio vennero superate seguendo il pensiero federalista. Le ultime modifiche alla bozza di trattato avvennero nel maggio del ’52: la Comunità si sarebbe fondata su un vero e proprio embrione di Stato federale. L’Assemblea eletta a suffragio universale avrebbe avuto poteri di controllo sul Commissariato e sul bilancio; il Commissariato (in forma collegiale) avrebbe rappresentato il potere esecutivo della Comunità; il ruolo del Consiglio sarebbe stato molto ridimensionato rispetto a quanto previsto dal rapporto provvisorio del ’51.
Le resistenze che avevano caratterizzato la prima fase dei lavori della CED, in particolare da parte della Francia e dei paesi del Benelux, vennero meno di fronte alla validità di un piano europeo per la difesa che superava la semplice cooperazione e gettava le basi per la costruzione di uno Stato federale capace di garantire effettivamente la sicurezza dell’Europa e la sua autorevolezza sul piano diplomatico. La firma del Trattato istitutivo della CED venne accolta con entusiasmo anche da Stati Uniti e Gran Bretagna.
Le ragioni del fallimento.
Nonostante la firma del Trattato il cammino per la piena attuazione della CED era stato appena intrapreso; era necessaria infatti la ratifica da parte dei parlamenti nazionali. Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo e Repubblica Federale Tedesca ratificarono il trattato tra il ’52 e il ’54; tuttavia, vista lo scarso apporto di uomini e mezzi che questi paesi erano in grado di dare in quella fase storica, la ratifica da parte dell’Italia e soprattutto della Francia risultavano determinanti. Per quanto riguarda l’Italia, l’uscita di scena dalla vita politica di De Gasperi indebolì il fronte “pro-cedista”; tuttavia non sembrava che la ratifica fosse a rischio e si attendeva la ratifica francese. Ma l’Assemblea nazionale francese votò contro la ratifica della CED: il governo Mendès aveva cercato di strappare ulteriori condizioni vantaggiose per la Francia senza successo e al momento del voto in parlamento non si pronunciò sulla posizione dell’esecutivo; gollisti, comunisti, nazionalisti, circa metà dei socialisti e una parte dei repubblicani si schierò contro la ratifica, facendo di fatto fallire il progetto CED.
Rimane da osservare che la tensione a livello internazionale si era alquanto allentata rispetto agli anni in cui si era cominciato a parlare di esercito integrato: la guerra di Corea non si era allargata ad altre realtà, rimanendo un conflitto localizzato; mentre la morte di Stalin aveva generato un clima di relativa distensione. Ciononostante è innegabile che sia stato il riemergere di una logica nazionalista in Francia, facilitato dall’intrinseca instabilità politica della Quarta Repubblica, a causare il fallimento della Comunità europea di difesa, imprimendo una svolta al processo di integrazione europea che poté ripartire solo basandosi sul funzionalismo e sulla moltiplicazione delle autorità specializzate in ambito strettamente economico.
Il problema della difesa fu invece risolto nel quadro della NATO. E’ interessante osservare come Spinelli nel proprio memorandum avesse anticipato quale sarebbe stata la posizione degli Stati europei all’interno dell’Alleanza Atlantica se questi non si fossero dotati una struttura federale: la definizione data da Spinelli è di “Stati tributari del comandante atlantico”. Mantenendo le proprie strutture nazionali, gli Stati europei non erano in grado di avere un peso autonomo all’interno dell’Alleanza e avrebbero dovuto subire la volontà dello Stato più forte, cioè gli USA.
L’esperienza della NATO, sebbene abbia garantito la sicurezza europea, non può far altro che confermare la “predizione” di Spinelli. Durante gli anni della Guerra fredda gli Stati europei si sono affidati alla politica estera statunitense rinunciando, di fatto, ad avere un ruolo autonomo nel quadro internazionale. Oggi, tuttavia, il guscio protettivo statunitense non è più adeguato alle necessità europee e per l’Europa diventa fondamentale, ora più che mai, intraprendere nuovamente un percorso analogo a quello della costruzione della CED imparando dagli errori del passato.
Giovanni Salpietro
Anno LV, 2013, Numero 2-3, Pagina 162
IL RAPPORTO DELLA NIC, GLOBAL TRENDS 2030:
ALTERNATIVE WORLDS
Nel dicembre dello scorso anno è stato reso pubblico il rapporto del National Intelligence Council degli Stati Uniti, il Global Trends 2030: Alternative Worlds. Il rapporto ha il fine di individuare le prospettive strategiche che caratterizzeranno gli scenari futuri, valutandone l’impatto in campo politico, economico, finanziario e sociale con un orizzonte di circa quindici-venti anni. L’obiettivo è stimolare la riflessione strategica contribuendo ad una più efficace pianificazione di lungo termine.
Nel rapporto vengono identificate le principali linee di trasformazione dello scenario mondiale, ossia l’aumento del potere degli individui, la redistribuzione del potere dall’Occidente verso l'Oriente e il Sud, i modelli demografici caratterizzati dall’invecchiamento delle popolazioni e dalla crescita della classe media, le sfide connesse alle risorse naturali. Si tratta di tendenze già in atto che però, durante i prossimi quindici-venti anni si manifesteranno con maggiore intensità. Secondo le ricerche effettuate saranno sei le variabili che influiranno, in particolare, sulle future trasformazioni. Queste riguardano l’economia globale, la governance, la conflittualità, l’instabilità regionale, la tecnologia e il ruolo che assumeranno gli Stati Uniti.
Sulla base di questi elementi il rapporto delinea quattro scenari ipotetici per il mondo nel 2030, che vanno da una prima ipotesi in cui i rischi di conflittualità tra Stati aumentano e Stati Uniti ed Europa riducono il proprio impegno internazionale, fino, all’estremo opposto, che ipotizza uno scenario equilibrato nel quale il progresso sociale, economico e politico è diffuso. Tra i due antipodi si collocano due possibilità: un “mondo destabilizzato dall’ineguaglianza economica” ed uno nel quale sono gli attori non-statali ad avere la maggiore influenza. Ovviamente non si tratta di prospettive predeterminate, il futuro ordine mondiale sarà plasmato dalle azioni umane così come dal manifestarsi di eventi imprevisti. Sono però possibilità riconoscibili su cui è utile cercare di riflettere.
Il primo fattore che emerge è l'aumento della possibilità per i singoli individui di influenzare le decisioni di potere grazie alla riduzione della povertà, alla crescita della classe media globale, al maggiore livello di istruzione e di assistenza sanitaria. Per la prima volta la maggioranza della popolazione mondiale non tenderà alla povertà e la classe media costituirà il tessuto sociale ed economico più importante nella maggioranza dei Paesi. Questo fattore è causa ed effetto dell’espansione dell’economia globale, della rapida crescita dei paesi in via di sviluppo e dello sfruttamento diffuso di nuove tecnologie di comunicazione e di produzione. Anche se una maggiore iniziativa individuale potrebbe sembrare la soluzione per risolvere le sfide globali, d’altra parte individui e piccoli gruppi avranno sempre più accesso a tecnologie impiegabili per scopi offensivi, come le armi bioterroristiche, che in passato erano una prerogativa governativa.
Un altro cambiamento notevole avverrà nell'equilibrio del potere tra gli Stati. L’Asia sorpasserà l’America del Nord e l’Europa considerati insieme, in termini di PIL, popolazione, spese militari e investimenti tecnologici. La Cina, probabilmente, sarà la prima economia nel mondo, sorpassando gli Stati Uniti alcuni anni prima del 2030. L'andamento dell’economia globale sarà sempre più legato a quello dell’economia dei paesi in via di sviluppo piuttosto che a quello dell’Occidente. I primi creano già oggi oltre il 50 per cento della crescita economica mondiale e forniscono il 40 per cento degli investimenti globali. Il loro contributo alla crescita di questi ultimi è di oltre il 70 per cento mentre quello della sola Cina è già ora una volta e mezza quello degli Stati Uniti. Nei modelli della Banca mondiale Pechino, nonostante un probabile rallentamento della sua crescita economica, contribuirà per circa un terzo alla crescita globale entro il 2025. Oltre a Cina, India e Brasile, attori regionali come Colombia, Indonesia, Nigeria, Sud Africa e Turchia diventeranno particolarmente influenti. Invece le economie di Europa, Giappone e Russia sono considerate condannate ad un lento declino.
Per quanto riguarda la crescita demografica, quando nel 2030 la popolazione avrà raggiunto gli 8,3 miliardi circa, questa sarà caratterizzata da quattro tendenze: un progressivo invecchiamento della popolazione che caratterizzerà sia l’Occidente sia la maggior parte dei paesi in via di sviluppo; un numero significativo – ma in diminuzione – di paesi con una popolazione con età molto giovane; un incremento dei fenomeni migratori; una crescita dell'urbanizzazione. I fenomeni migratori saranno stimolati dalla richiesta di manodopera, mentre la rapida urbanizzazione, in particolare nei paesi in via di sviluppo, stimolerà la crescita economica ma potrebbe anche provocare tensioni in relazione alle scarsità di risorse idriche ed alimentari. Infatti le domande di cibo, acqua ed energia cresceranno circa del 35, 40 e 50 per cento rispettivamente, a causa dell’aumento della popolazione e dei modelli di consumo di una classe media in espansione. Anche il cambiamento climatico aggraverà le prospettive riguardo alla disponibilità di queste risorse. Infatti la criticità delle condizioni meteorologiche aumenterà con un ulteriore calo delle precipitazioni soprattutto in Medio oriente, Nord Africa, Asia centro-occidentale, Europa meridionale, Africa meridionale e sud-ovest degli Stati Uniti. Si deve anche considerare che fronteggiare la limitata disponibilità di un bene inciderà sull’offerta e sulla domanda degli altri. L’energia idroelettrica sarà una rilevante fonte di energia per alcune regioni mentre nuove fonti alternative, come i biocarburanti, potrebbero accrescere la scarsità di risorse alimentari. L’agricoltura sarà fortemente dipendente dall’accesso a fonti di acqua ed a concimi ricchi di fertilizzanti. La situazione dell'Africa è particolarmente critica. Infatti, a differenza di Asia e Sud America, che hanno raggiunto notevoli miglioramenti nella produzione agricola pro-capite, l’Africa è recentemente tornata ai livelli degli anni Settanta. Guardando alla situazione statunitense il rapporto considera probabile il raggiungimento dell'indipendenza energetica. Già gli USA sono tornati il maggior produttore di gas naturale ed hanno prolungato l’autonomia delle proprie riserve da 30 a 100 anni grazie alla tecnologia della fratturazione idraulica. Questo potrebbe comportare una notevole riduzione del disavanzo della bilancia commerciale ed un miglioramento della crescita economica anche se questa tecnologia solleva dibattiti riguardo ai problemi ambientali che può causare, in particolare l’inquinamento delle risorse idriche. Il rapporto suggerisce la necessità di una collaborazione regionale e globale per affrontare questi problemi applicando tecnologie all’avanguardia che includeranno le colture geneticamente modificate, l’agricoltura di precisione, le tecniche d’irrigazione, l’energia solare, i carburanti avanzati a base biologica e le tecniche di estrazione tramite fratturazione di idrocarburi e di gas naturale.
Una variabile fondamentale è rappresentata dall’economia internazionale che quasi certamente continuerà ad essere caratterizzata da economie nazionali e regionali che si sviluppano a differenti velocità, un fattore che aggraverà gli squilibri globali. Le divergenze e la maggiore volatilità favorita dall’assenza di una potenza economica dominante potrebbero produrre un crollo globale, mentre lo sviluppo di più centri di crescita potrebbe migliorare la capacità di reazione e adattamento. Per il prossimo decennio un ritorno ai tassi di crescita antecedenti al 2008 ed ai precedenti modelli di rapida globalizzazione è improbabile: le recessioni che si innescano su crisi finanziarie tendono, infatti, ad essere più profonde e richiedono tempi di ripresa raddoppiati. Le principali economie occidentali tranne Stati Uniti, Australia e Corea del Sud hanno iniziato la riduzione dei debiti, un processo che potrebbe richiedere quasi un decennio. Inoltre un’altra grave crisi economica globale non viene esclusa, provocata ad esempio dall'uscita di un paese come la Grecia dalla zona euro; un’eventualità che secondo il McKinsey Global Institute potrebbe generare danni collaterali otto volte superiori a quelli causati dal fallimento della banca Lehman Brothers. Trattando dell'instabilità dell'euro, il rapporto suggerisce la necessità di apportare dei correttivi su diversi fronti, ma sottolinea anche che, se pure le riforme venissero adottate a breve, ci potrebbe volere un intero decennio prima che la stabilità ritorni. Si deve anche considerare che le precedenti crisi economiche hanno colpito quando l’età media di molte popolazioni occidentali era relativamente bassa. Nell'attuale situazione, per compensare il calo nella crescita della forza lavoro, i vantaggi economici dovranno provenire dall’incremento della produttività, grazie all'uso di nuove tecnologie che potranno essere sviluppate soprattutto se supportate dal consenso sociale e da adeguate misure di governo. Il ricorso alle tecnologie informatiche, impiegate per massimizzare la produttività economica e la qualità della vita, ridurrà il consumo di risorse e il degrado ambientale. Le innovazioni nel settore dell’automazione e della produzione, come la stampa 3D e la robotica, potranno modificare i modelli di lavoro, sia nel mondo in via di sviluppo sia in quello sviluppato. I paesi sviluppati, in particolare, aumenteranno la produttività e agiranno sui vincoli lavorativi, con il possibile effetto di causare il licenziamento di soggetti poco qualificati, aggravando le disuguaglianze socio-economiche interne. Nelle economie in via di sviluppo, in particolare quelle asiatiche, le nuove tecnologie stimoleranno invece nuove capacità di produzione ed aumenteranno la competitività. Comunque anche i paesi in via di sviluppo dovranno affrontare importanti sfide, in particolare per sostenere il ritmo della loro crescita. La Cina ha registrato una crescita reale media del 10 per cento negli ultimi tre decenni ma, secondo diversi studi del settore privato, entro il 2020 la sua economia crescerà probabilmente solo del 5 per cento e questo comporterà una pressione al ribasso sulla crescita del reddito pro capite. L’India deve affrontare problemi analoghi a quelli cinesi: grandi disparità tra zone rurali ed urbane e all’interno della società, l’aumento di limiti per lo sfruttamento di risorse naturali e la necessità di maggiori investimenti nella scienza e nella tecnologia, nonché la mancanza di infrastrutture e le carenze nel sistema educativo.
Per quanto concerne il rapporto fra potenze consolidate ed emergenti, si ipotizza che resterà piuttosto scarso e questo, insieme al fatto che è necessario un numero di attori maggiori per risolvere le sfide globali, porta a ritenere che il livello di collaborazione mondiale sarà basso e che, probabilmente, si rafforzerà la tendenza alla frammentazione. Tuttavia non si può escludere che ci siano dei progressi su questioni specifiche. Per quanto riguarda invece la situazione interna, molti Sati saranno caratterizzati da rapidi mutamenti sociali e politici. Attualmente circa cinquanta paesi si trovano in una difficile fase di passaggio tra autocrazia e democrazia. Il maggior numero di essi è concentrato nell’Africa sub-sahariana, nel Sud-est asiatico, in Asia centrale, in Medio oriente e nel Nord Africa. Le transizioni alla democrazia dovrebbero diventare più stabili e durevoli quando il numero di giovani nella popolazione comincerà a diminuire ed i redditi saranno più alti. Tuttavia, nel corso dei prossimi quindici-venti anni, molti paesi staranno ancora completando il processo di democratizzazione. In altri Stati il livello di sviluppo sarà più avanzato rispetto all'avanzamento del processo di democratizzazione, come nella maggior parte dei paesi del Golfo e in Cina. La Cina nei prossimi cinque anni dovrebbe superare la soglia dei 15.000 dollari pro-capite a parità del potere d’acquisto, fattore che è spesso uno stimolo verso la democratizzazione e che, in generale, potrebbe contribuire alla tendenza al cambiamento in altri Stati autoritari. Anche l’uso di nuove tecnologie di comunicazione rappresenterà una sfida per i governi e per le società che dovranno trovare il modo di sfruttarne i benefici affrontando le minacce che presentano. Infatti i social networks consentiranno ai cittadini di organizzarsi, ma d’altra parte bisogna anche sottolineare che aumenteranno la capacità di monitoraggio dei governi.
Lo studio analizza anche i rischi di conflittualità, perché anche se gli ultimi due decenni hanno mostrato una diminuzione dei grandi conflitti armati e delle vittime, e anche se i rischi elevati connessi ad un conflitto tra grandi potenze costituiscono un buon deterrente, tuttavia le guerre tra Stati rimangono una possibilità. Mentre i conflitti interni sono aumentati in paesi dove, a fronte di una popolazione complessivamente in età matura, esistono delle minoranze etniche giovani e non allineate alle forze al potere. Ne sono un esempio i conflitti che coinvolgono i curdi in Turchia, gli sciiti in Libano ed i musulmani Pattani nel sud della Thailandia. Il rischio di conflitti aumenterà a causa dell’insufficienza di risorse naturali come acqua e terreni coltivabili in molti paesi in particolare nell’Africa sub-sahariana e nel sud e nell’est dell’Asia, comprese Cina ed India. Alcuni di questi paesi come Afghanistan, Bangladesh, Pakistan e Somalia avranno ancora probabilmente istituzioni governative fragili. I rischi di conflitto saranno in aumento anche a causa dei cambiamenti del sistema internazionale. Nei prossimi anni gli Stati Uniti dovranno decidere come declinare il ruolo di custode dell’ordine globale. Una mancanza di volontà o una ridotta capacità degli Stati Uniti nel garantire sicurezza su scala globale costituirebbero un rilevante fattore di instabilità, specialmente in Asia ed in Medio oriente. Un sistema internazionale più frammentato innalzerebbe il rischio di competizione e di conflitti tra grandi potenze. Tre fattori, in particolare, potrebbero aumentare le possibilità di esplosione di conflitti: il cambiamento nelle strategie di alcuni soggetti, in particolare Cina, India e Russia; l’aumento delle dispute per l’accesso alle risorse; una più ampia disponibilità di strumenti di guerra. Con l’aumento delle probabilità di proliferazione aumentano anche i rischi che in guerre future in Asia meridionale e nel Medio oriente — le regioni dove con maggiore probabilità si innescheranno fenomeni di instabilità di ampia portata — si ricorra al deterrente nucleare. In Medio oriente l’economia dovrà diversificarsi dal momento che le nuove tecnologie inizieranno a fornire fonti alternative al petrolio e gas. Ma il progresso dipenderà dal panorama politico: l’emergere di governi democratici o almeno moderati in paesi come l'Iran o una svolta negli accordi per risolvere il conflitto israelo-palestinese avrebbero conseguenze positive.
L’Asia del sud affronterà una serie di sconvolgimenti interni ed esterni. Il basso livello di crescita, l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e le carenze energetiche costituiranno seri problemi in Pakistan ed Afghanistan, paesi dove un alto numero di giovani e una crescita lenta dell’economia tendono a causare instabilità. L’India trae vantaggio da un tasso di crescita più alto ma dovrà affrontare importanti sfide, specie nel trovare posti di lavoro per la popolazione giovanile. Inoltre il contesto regionale ha sempre avuto una profonda influenza sugli sviluppi interni indiani spingendo ad aumentare le spese militari. Un’Asia sempre più multipolare ma priva di un solido quadro regionale di sicurezza costituirebbe una grave minaccia globale e provocherebbe danni su vasta scala all’economia. Il timore della potenza cinese, le probabilità di un rafforzamento del nazionalismo cinese e gli interrogativi riguardo al coinvolgimento americano nella regione aumenteranno le insicurezze. Anche dinamiche in evoluzione in altre regioni potrebbero destabilizzare gli equilibri globali. L’Europa ha avuto un ruolo chiave nel mantenimento degli equilibri garantendo, ad esempio, l’integrazione dell’Europa centrale nell’Occidente dopo la fine della Guerra fredda. Nell'attuale situazione i suoi problemi interni le impediscono di avere un ruolo nelle crisi delle regioni confinanti. D’altra parte, il superamento della sua attuale crisi politica ed economica potrebbe rafforzare il suo ruolo globale. L’Europa potrebbe favorire l’integrazione, nell’economia globale e nel sistema internazionale, degli Stati confinanti in via di sviluppo in Medio oriente, Africa sub-sahariana ed Asia centrale. Anche la Russia potrebbe integrarsi nella comunità internazionale se riuscisse a dar vita ad un’economia più diversificata e ad un sistema politico più liberale; in caso contrario potrebbe rappresentare una minaccia regionale e globale. Una maggiore integrazione regionale in America latina e nell’Africa sub-sahariana significherebbe una maggiore stabilità e ridurrebbe la minaccia alla sicurezza globale. Tuttavia i paesi dell’Africa sub-sahariana, dell’America centrale e dei Caraibi rimarranno vulnerabili.
Tra le variabili che più influenzeranno il futuro ordine globale si annoverano il ruolo tuttora incerto che gli Stati Uniti svolgeranno e la loro capacità di cooperare con nuovi partner. Sebbene il declino degli USA e di tutto l’Occidente sia inevitabile di fronte all’espansione delle potenze emergenti, risulta difficile prevedere il ruolo che svolgeranno negli affari internazionali. Il rapporto considera probabile che nel 2030 gli Stati Uniti rimarranno primi insieme alle altre grandi potenze grazie alla superiorità in vari settori e all’eredità che deriva dal loro passato ruolo di leader mondiale. Adesso che anche la maggior parte degli alleati occidentali si trova ad affrontare un periodo di relativo declino è molto probabile che nei prossimi 15-20 anni il potere diventerà multidimensionale come conseguenza della pluralità delle questioni da affrontare. Le risorse tecnologiche in possesso degli USA, insieme alla leadership nel settore dei social networks e delle telecomunicazioni, costituiranno un vantaggio. Nella maggior parte dei casi il potere americano dovrà essere rafforzato facendo ricorso a partner che possano collaborare su punti specifici. Un’altra variabile che potrà determinare la posizione degli Stati Uniti sarà il successo che riusciranno ad ottenere nella risoluzione delle crisi internazionali, in particolare se fossero chiamati ad intervenire in Asia per ripristinare la stabilità regionale.
Un eventuale sostituzione del dollaro come valuta di riserva mondiale con un’altra valuta o con un paniere di valute, sarebbe invece indice della perdita di potere economico degli Stati Uniti, cosa che danneggerebbe anche la loro posizione politica. Il Global Trends ritiene improbabile che gli Stati Uniti possano essere sostituiti da un’altra potenza, perché è difficile pensare ad altri paesi in grado di raggiungere il loro stesso livello in ambiti così disparati. Tuttavia, le potenze emergenti chiedono di assumere ruoli di rilievo all’interno di istituzioni come l’ONU, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, che entro il 2030 vedranno probabilmente ridimensionata l’attuale posizione dominante dell’Occidente. Bisogna però aggiungere che, al momento, la tendenza è quella di consolidare la loro espansione economica e le proprie istituzioni politiche piuttosto che cercare di assumere un ruolo di leader internazionale.
Nelle conclusioni del rapporto vengono ipotizzati quattro possibili scenari per il mondo tra venti anni. Il primo vede aumentare il rischio di conflittualità a partire dall'Asia, e prevede che Stati Uniti ed Europa restino focalizzati sui loro problemi interni. La zona euro finirebbe con lo sfaldarsi velocemente, portando l’Europa ad una recessione certa. Mentre il tentativo degli Stati Uniti di dar vita ad una rivoluzione energetica fallirebbe, oscurando le prospettive di una ripresa economica futura. Nei modelli sviluppati dalla società McKinsey per questo scenario, la crescita economica mondiale diminuirebbe e ne risentirebbero tutti gli attori globali. All'estremo opposto si colloca la prospettiva in cui il timore dell’allargamento di un conflitto in Asia meridionale spingerà Stati Uniti, Europa e Cina ad intervenire per imporre la stabilità. Nell’ipotesi di una maggiore collaborazione tra Cina, Stati Uniti ed Europa si verificherebbero un importante miglioramento nelle loro relazioni bilaterali e una cooperazione internazionale mirata ad affrontare insieme le sfide globali. Questo scenario si basa sulle capacità di leadership politica grazie alle quali ciascuno Stato, gestendo i problemi interni, riesce a rafforzare i legami internazionali. Il livello di fiducia nei confronti della Cina aumenterebbe grazie ad una serie di riforme politiche adottate dal governo cinese e sarebbe sostenuto dal suo ruolo crescente nel sistema internazionale. Con l’aumento della collaborazione tra le maggiori potenze le istituzioni globali multilaterali verrebbero riformate e rese più efficienti. In questo scenario tutti i soggetti migliorerebbero la propria posizione. Le economie emergenti continuerebbero a crescere più velocemente ma anche nelle economie avanzate il PIL tornerebbe ad aumentare. Entro il 2030 l’economia globale raddoppierebbe all’incirca i suoi volumi in termini reali arrivando a 132.000 miliardi di dollari al valore attuale. Il reddito pro capite americano aumenterebbe di 10.000 dollari in dieci anni. Anche il reddito pro capite cinese aumenterebbe rapidamente. L’innovazione tecnologica, alla base dell’espansione degli scambi e dell’aumento della cooperazione internazionale, sarebbe fondamentale affinché il mondo non risenta dei crescenti limiti finanziari e della carenza di risorse che solitamente caratterizzano periodi di rapido sviluppo.
Esistono poi due scenari intermedi. Nel primo in molti paesi le disuguaglianze rappresenteranno un elemento dominante che porterà a crescenti tensioni politiche e sociali. In Europa i paesi che si trovano nella zona euro e sono competitivi globalmente avranno successo, mentre quelli più deboli che si trovano alla periferia saranno costretti ad uscire dall’Unione europea con disastrose conseguenze. Anche il mercato unico subirebbe una profonda crisi. Gli Stati Uniti resterebbero la potenza preminente grazie al raggiungimento dell’indipendenza energetica; ma, pur non disimpegnandosi completamente, non interverrebbero più in ogni caso di minaccia alla sicurezza. Molti dei paesi produttori di energia risentirebbero del calo dei prezzi del settore, a meno di non riuscire a diversificare in tempo le loro economie, e sarebbero minacciati da conflitti interni. Le città nella zone costiere della Cina continuerebbero a prosperare, ma le disuguaglianze aumenterebbero, creando tensioni nel governo. Il malcontento sociale aumenterebbe poiché le aspettative della classe media verrebbero deluse. Il governo centrale, incontrando serie difficoltà nell’attuazione delle proprie politiche, finirebbe col far ricorso al fervore nazionalistico per ottenere supporto e garantire la coesione interna. In questo scenario, lo sviluppo delle economie avanzate e di quelle emergenti provocherebbe una crescita limitata. La mancanza di coesione sociale all’interno degli Stati si rifletterebbe a livello internazionale. Le grandi potenze sarebbero in contrasto tra loro ed il rischio di conflitti aumenterebbe. Si assisterebbe, perciò, al fallimento di molti paesi dovuto, in particolare, alla mancanza di cooperazione internazionale in materia di assistenza e di sviluppo.
Nell'ultimo scenario, attori non statuali come organizzazioni non governative, imprese multinazionali, istituzioni accademiche e uomini facoltosi, così come soggetti sub-nazionali, per esempio le megalopoli, assumeranno un ruolo guida nel far fronte alle sfide globali, povertà, ambiente, lotta alla corruzione, legalità e pace, grazie al crescente consenso da parte dell’opinione pubblica internazionale. Lo Stato non scomparirà ma i paesi si organizzeranno sempre di più in coalizioni, composte da attori statuali e non, che varieranno in base alla questione da affrontare. Per i regimi autoritari sarà difficile operare in questo mondo, tra la preoccupazione di affermare il primato politico in patria e quella di conquistarsi il rispetto all'esterno. Anche i paesi democratici riscontreranno difficoltà nell’operare in questo mondo complesso. Le forme di governo che non si adatteranno alla più ampia e diversificata distribuzione del potere avranno meno probabilità di avere successo. Imprese multinazionali, aziende operanti nel settore tecnologico, scienziati internazionali, ONG, abituati a cooperare oltre i confini nazionali ed all’interno di coalizioni riusciranno a prosperare in questo mondo globalizzato dove conteranno esperienza, capacità di influenza e flessibilità. Questo scenario delinea un mondo pieno di disuguaglianze. Alcuni problemi globali verranno risolti perché le reti locali riusciranno a cooperare a livello transnazionale, superando le divisioni tra attori statuali e non-statuali. In altri casi, gli attori non-statuali potrebbero tentare di affrontare nuove questioni ma saranno ostacolati dall’opposizione che riceveranno da parte delle grandi potenze. Le minacce alla sicurezza rappresenteranno una sfida crescente: aumentando l’accesso a tecnologie letali e distruttive anche gli individui ed i piccoli gruppi saranno in condizione di causare violenza su larga scala. Da un punto di vista economico, la crescita globale migliorerà leggermente grazie ad un maggiore grado di cooperazione tra i soggetti sulle principali sfide globali. Complessivamente, in questo scenario il mondo sarà più stabile e socialmente coeso rispetto alle ipotesi più disastrose.
Va da sé che l’interesse di questo rapporto è dato innanzitutto dalla ricchezza di informazioni, dati e analisi che lo compongono. Ma per noi europei c’è anche un altro elemento di grande interesse, ed è dato dai frequenti rimandi alla crisi dell'Europa e alla necessità di riforme dell’unione monetaria e delle sue istituzioni. Il ruolo primario che ci viene attribuito nel caso in cui riuscissimo, o non riuscissimo, a risolvere la nostra crisi, è un ulteriore, drammatico, campanello d’allarme sulle nostre responsabilità globali.
Giulia Spiaggi
Anno LV, 2013, Numero 2-3, Pagina 162
IL DIBATTITO IN GERMANIA
SU DEMOCRAZIA E UNIFICAZIONE EUROPEA:
IL CONFRONTO TRA HABERMAS E STREECK*
La crisi esistenziale che attraversa il processo di unificazione europea sta suscitando un’ampia discussione, che coinvolge anche un aspetto particolarmente importante relativo alla questione del rapporto fra democrazia e unificazione europea. Il contributo a tale riguardo fornito dal dibattito fra Wolfgang Streeck, uno dei più noti sociologi europei,[1] e il filosofo Jürgen Habermas[2] (dibattito che ha avuto una grandissima eco nei mezzi di informazione) merita di essere esaminato attentamente, sia perché si tratta di due personalità intellettuali di grande calibro, sia perché dalla Germania dipende fondamentalmente il futuro dell’Europa. Vorrei pertanto richiamare le linee essenziali del discorso sviluppato da Streeck e le considerazioni critiche di Habermas, che ritengo complessivamente assai valide e chiarificatrici, ma con un limite che deve essere messo in evidenza.
Streeck sviluppa una critica radicale nei confronti dell’integrazione europea (condivisa nella sostanza in parecchi settori della sinistra europea) che sbocca nella proposta di smantellarla e di restaurare le sovranità nazionali. Questa critica si inquadra in una visione ampia e ben articolata della strategia portata avanti dalla classe dirigente capitalistica dopo la seconda guerra mondiale e che ha avuto un crescente successo a partire dagli anni Settanta. Il filo conduttore di questa strategia è la rivolta del capitale contro il regime dell’economia mista affermatosi nell’insieme degli Stati democratici occidentali dopo la seconda guerra mondiale. Per economia mista si intende in sostanza l’intervento strutturale degli Stati democratici nell’economia di mercato tramite forti politiche economiche (anche con le nazionalizzazioni, ma si tratta solo di un aspetto, e non essenziale) dirette ad affrontare gli squilibri sociali, territoriali, settoriali (e dagli anni Settanta anche ecologici) prodotti dal libero gioco delle forze economiche quando non è governato da una volontà politica orientata all’interesse generale. La classe dirigente capitalista ha operato in modo sistematico per sostituire al regime di economia mista (detto anche sistema keynesiano, in quanto ispirato fondamentalmente agli insegnamenti di Keynes) un regime neoliberista (detto anche regime neohayekiano, essendo Hayek il suo punto di riferimento dominante[3]), tendente a limitare il più possibile l’intervento statale nell’economia tramite le politiche riequilibratrici. In altre parole, dominio incontrastato della libera concorrenza e, quindi, eliminazione sistematica degli ostacoli alla ricerca del profitto, nella convinzione mitica che in tal modo si realizzi un equilibrio implicante il benessere generalizzato.
La via attraverso cui perseguire questo disegno è stata essenzialmente l’internazionalizzazione degli scambi e dei sistemi di produzione, la quale, favorita dalla rivoluzione nelle tecnologie di informazione e comunicazione e dalla fine della guerra fredda, è diventata sempre più globale. Le conseguenze dell’attuazione progressivamente più efficace ed incisiva della linea neoliberista sono state devastanti. Sul piano economico-sociale, una crescente disuguaglianza connessa con un decisivo indebolimento dello Stato sociale, crisi economico-finanziarie sempre più gravi, avanzamento del degrado ecologico. Al degrado economico-sociale-ecologico si è accompagnato, sul piano politico, un pauroso degrado della democrazia.
Oltre al fatto che la disuguaglianza rende sempre più asimmetrica la partecipazione democratica, viene sottolineato il processo di svuotamento del sistema democratico dovuto al fatto che gli Stati sono inseriti in una economia e una società sopranazionali, che sono governate da organismi tecnocratici. In un contesto in cui gli Stati democratici sono subordinati senza scampo ai mercati che non controllano (la necessità drammatica di finanziare un debito pubblico crescente, dal momento che le risorse fiscali nazionali, inaridite dalla concorrenza transnazionale, sono sempre meno in grado di coprire le spese statali è l’aspetto più evidente di questa subordinazione) e alle decisioni di tecnocrazie sostanzialmente controllate dalle élites capitalistiche, la democrazia gira a vuoto. “TINA” (there is no alternative) è in effetti la parola d’ordine, e la decrescente partecipazione popolare alle elezioni o la protesta ribellistica ne sono l’ovvia conseguenza. E in definitiva l’obiettivo finale della strategia neoliberistica portata avanti dall’attuale capitalismo è quello di liberarsi definitivamente della democrazia, consolidando un governo sopranazionale libero da condizionamenti, ispirato al software hayekiano di sostegno al libero mercato.
L’integrazione europea, secondo Streeck, si inquadra in questo processo e ne rappresenta la punta più avanzata. In Europa si è in effetti realizzata con la Comunità economica europea un’integrazione sopranazionale dei mercati e dei processi produttivi particolarmente approfondita. Al di là del mercato unico, che allo smantellamento delle dogane e dei contingenti ha aggiunto il superamento (non completo va detto) delle barriere non tariffarie (fisiche, tecniche e fiscali), si è realizzata l’unione monetaria. Lungo questa strada si è attuata essenzialmente un’integrazione economica negativa (eliminazione degli ostacoli al libero movimento di merci, persone, capitali e servizi), lasciando in sostanza cadere l’impegno inizialmente proclamato ad una integrazione positiva (politiche riequilibratrici dell’economia di mercato da realizzare a livello sopranazionale). Di conseguenza le spinte neoliberistiche allo smantellamento dell’economia mista si sono manifestate in modo particolarmente sistematico, così come la rigida subordinazione degli Stati ai mercati.
In questo contesto viene sottolineato il ruolo strategico dell’unione monetaria, la quale ha coinvolto paesi forti e paesi deboli, togliendo a questi ultimi lo strumento di protezione e di compensazione delle minori produttività e competitività rappresentato dalla possibilità di attuare manovre svalutative della propria moneta. L’impossibilità di “svalutazione esterna” ha obbligato gli Stati più deboli ad usare lo strumento neoliberista della “svalutazione interna”, ossia l’aumento della produttività e della competitività grazie alla creazione di mercati del lavoro più flessibili, salari più bassi, orari di lavoro più pesanti, mercificazione dello Stato sociale.
Sul piano politico-istituzionale, lo svuotamento della democrazia perseguito in generale dalla strategia neoliberistica si è manifestato in un’evoluzione che ha trasferito a livello sopranazionale i fondamentali poteri di governo dell’economia, ma concentrandoli in organi non democratici o tecnocratici, quali il Consiglio europeo, la Commissione e la Banca centrale europea. In definitiva si persegue qui la strutturazione di un nuovo modello di sistema politico sopranazionale, imperniato sulla tecnocrazia invece che sulla democrazia, che si pone come l’avanguardia di un’evoluzione globale.
Se questa è la situazione dell’integrazione europea, l’alternativa proposta dai federalisti è la lotta per la creazione di un sistema democratico federale europeo (che fungerebbe da modello e da spinta determinante rispetto ad una evoluzione democratica e federale a livello globale), che è il quadro insostituibile per realizzare un’integrazione economica positiva e, quindi, ristabilire il governo democratico dell’economia. Ma Streeck non è di questo avviso. In effetti, al di là della difficoltà che una tale lotta comporta nelle circostanze attuali, egli ritiene che una democrazia sopranazionale non sia una soluzione valida per l’Europa e adduce al riguardo quattro argomenti.
Il primo argomento riguarda la scarsa efficacia di politiche europee di riequilibrio territoriale dirette a rafforzare la concorrenzialità e la produttività e, in sostanza, a modernizzare i paesi arretrati dell’Unione europea. Come esempi fondamentali di questa inefficacia vengono ricordati la DDR dopo la riunificazione tedesca e il Mezzogiorno italiano rispetto ai quali le politiche regionali degli Stati nazionali e la politica regionale europea hanno chiaramente ottenuto risultati molto scarsi. In realtà secondo Streeck la svalutazione sarebbe più profondamente e rapidamente efficace e soprattutto più facile ad attuarsi perché non richiederebbe, a differenza di una consistente politica regionale europea, il consenso delle opinioni pubbliche dei paesi donatori.
Il secondo argomento si riferisce alla fragile integrazione sociale degli Stati nazionali incompiuti come il Belgio e la Spagna, ma il suo discorso si allarga al fenomeno delle spinte separatiste presenti in molti Stati membri dell’UE, compreso il micronazionalismo portato avanti in Italia soprattutto dalla Lega nord. Se i problemi di integrazione legati alle differenze e ai divari regionali risultano di assai difficile soluzione a livello nazionale, risulterebbero ancora più complicati nel quadro di un’Europa che gli europeisti propongono di rendere più unita tramite una federazione politica, che non potrebbe che essere strutturalmente instabile.
Se i due primi argomenti mettono in discussione la capacità di funzionamento e la stabilità di una più stretta unione politica, gli altri due argomenti contestano la sua desiderabilità. Da una parte, l’imposizione politica di una assimilazione delle culture economiche del Sud Europa a quella del Nord Europa comporterebbe anche un inaccettabile livellamento delle rispettive forme di vita. Dall’altra parte, la sostanza egalitaria dello Stato di diritto democratico è realizzabile solo sulla base dell’appartenenza nazionale, perché altrimenti sarebbe inevitabile la marginalizzazione e infine lo sradicamento delle culture minoritarie.
In conclusione secondo Streeck, invece di perseguire il disegno di un’unione federale europea (incapace di funzionare e non desiderabile per motivi di principio) occorre perseguire il recupero delle sovranità nazionali nel cui solo quadro è possibile la democrazia sociale. In termini economici ciò significa lo smantellamento dell’unione monetaria europea, il ritorno ai cambi flessibili, con la connessa possibilità di svalutazione come strumento fondamentale per affrontare gli squilibri territoriali, un sistema di protezionismo che viene detto “illuminato”, in quanto non si dovrebbe svalutare troppo spesso, onde evitare possibili spinte nazionalistiche.
Nei confronti delle tesi di Streeck, Habermas sviluppa delle considerazioni che coincidono sostanzialmente con la visione che hanno i federalisti dell’unificazione europea. In effetti egli si oppone, al pari di Streeck, alla linea neoliberista che mira a sostituire la giustizia di mercato alla giustizia sociale. Questa opposizione, va sottolineato, è propria, fin dal Manifesto di Ventotene, dei federalisti, per i quali la democrazia — cioè il valore che richiede la pace per poter essere pienamente realizzato — deve essere allo stesso tempo liberale e sociale (il che significa un impegno strutturale contro le disuguaglianze fra le persone e fra i territori) per essere reale.[4] Habermas condivide d’altra parte con i federalisti la convinzione che l’interdipendenza al di là degli Stati nazionali costituisca un processo irreversibile (e con le grandiose potenzialità progressive connesse con l’allargamento dei mercati) e che il prevalere nel processo di integrazione europea delle tendenze neoliberiste (dell’integrazione essenzialmente negativa) sia strutturalmente legato ai deficit di efficienza e di democrazia delle istituzioni sopranazionali europee.[5]
Superare il deficit di efficienza significa in effetti fornire le istituzioni europee delle competenze e dei poteri fiscali e macroeconomici necessari per realizzare un comune sforzo europeo (con i relativi trasferimenti economici e le responsabilità in solido degli Stati membri), il quale solo (e non la pretesa astratta di migliorare da soli la competitività nazionale) può portare avanti, oltre a un generale progresso sociale, la modernizzazione dei paesi europei con problemi di arretratezza. Superare il deficit di democrazia significa passare dall’attuale “federalismo degli esecutivi”, in cui la formazione della volontà politica dipende solo dagli estenuanti compromessi tra rappresentanti di interessi nazionali che si bloccano a vicenda, a una situazione in cui abbiano un ruolo di codecisione paritetico con i governi le scelte compiute a maggioranza da parte dei parlamentari europei. Si tratta in sostanza non di ritornare a sovranità nazionali strutturalmente impotenti di fronte all’interdipendenza sopranazionale, bensì di realizzare un’unione politica europea di carattere federale e democratico che sola può permettere il recupero, a livello sopranazionale, dell’economia mista e, quindi, del controllo della politica democratica sui mercati. Pertanto si deve procedere rapidamente, e superando l’incrementalismo dei piccoli passi evidentemente non più all’altezza delle sfide, a una seria modifica del Trattato di Lisbona, la quale in prima battuta comprenderebbe soltanto i paesi membri della comunità monetaria europea.
Partendo da questo approccio, di cui va sottolineato con grande soddisfazione la convergenza con quello dei federalisti, Habermas sviluppa delle puntuali repliche nei confronti degli argomenti specifici con cui Streeck giustifica la sua scelta del ripiegamento nazionale in opposizione a quella di un’Unione europea democratica.
In questo contesto si sostiene che se un’unione monetaria deve saper bilanciare o almeno contenere in forme permanenti gli squilibri strutturali di concorrenzialità fra le economie nazionali per poter rimanere intatta, l’efficienza di questa politica sopranazionale non è resa impossibile dall’eterogeneità storicamente motivata delle culture economiche dei paesi europei, bensì è minata dalla debolezza dei poteri fiscali e macroeconomici attribuiti alle istituzioni europee e dalla mancanza di una adeguata legittimità democratica a livello sopranazionale. D’altra parte l’idea secondo cui le svalutazioni monetarie siano la via del recupero dei ritardi è un mito che si basa sul non tenere conto, oltre che dei disastri economici che deriverebbero dallo smantellamento dell’unione monetaria europea, anche dei disastri politici che ne conseguirebbero, il più rilevante dei quali sarebbe rappresentato dallo scatenarsi, consustanziale alle svalutazioni competitive, dei nazionalismi.
Quanto alle tendenze micronazionaliste e separatiste, si osserva che i conflitti connessi con queste tendenze si manifestano sempre quando le parti più vulnerabili della popolazione scivolano in condizioni di crisi economica o di rivolgimento storico, quando cioè si trovano in condizioni di insicurezza e rispondono al timore di perdere il proprio status aggrappandosi a presunte identità naturali basate sulla stirpe, la religione, la lingua o la nazione. La risposta valida è il progresso economico e sociale, un aspetto fondamentale del quale è una politica di riequilibrio territoriale e di modernizzazione che solo un’unione politica europea efficiente e democratica può realizzare. Non si tratta ovviamente di eliminare le diversità socio-culturali delle regioni e delle nazioni, cioè di una ricchezza che distingue l’Europa da altri continenti e che non costituisce affatto una barriera all’integrazione. La via giusta è piuttosto il federalismo multilivello efficiente e democratico — in sostanza il federalismo sopranazionale integrato dal federalismo interno, come sostengono i federalisti — e non la creazione di nuovi microstati.
Venendo al discorso sulla non desiderabilità, sostenuta da Streeck, di una più stretta unione politica europea, Habermas si concentra nella critica alla tesi secondo cui la sostanza egalitaria dello Stato di diritto democratico sia realizzabile solo sulla base dell’appartenenza nazionale e quindi solo entro i confini di uno Stato nazionale, richiamando fondamentalmente due argomentazioni.
La prima argomentazione ripropone il discorso che egli ha incominciato a sviluppare sistematicamente da più di vent’anni e che, a onor del vero, a partire dagli anni Cinquanta è diventato, sulla base degli insegnamenti di Mario Albertini, una componente essenziale del patrimonio teorico del MFE. In sostanza gli Stati nazionali si basano sulla forma altamente artificiale costituita dalla costruzione giuridica dello status di cittadino. Anche in società relativamente omogenee sul piano etnico e linguistico la coscienza nazionale non ha nulla di naturale. E’ piuttosto il prodotto, valorizzato sul piano amministrativo, della storiografia, della stampa e del servizio di leva. Nella coscienza nazionale di società eterogenee di immigrati si mostra in maniera esemplare che qualsiasi popolazione può assumere il ruolo di uno Stato nazione capace di una comune formazione della volontà politica sullo sfondo di una cultura politica condivisa.
Il problema in Europa non è dunque l’impossibilità di creare un’unione politica che esprima una volontà politica comune solidale, dal momento che non c’è l’omogeneità nazionale. L’Europa è una realtà profondamente interdipendente e con un livello avanzato di integrazione economica e istituzionale (l’aspetto più avanzato è il primato del diritto europeo), ma in cui non si è ancora costruito pienamente lo status di cittadino. Il che richiede la creazione di un’unione politica federale e democratica, in cui si realizzi la codecisione paritetica fra l’organo rappresentativo dei governi nazionali e l’organo rappresentativo dei cittadini europei, cioè il Parlamento europeo. In tal modo ai compromessi fra gli interessi nazionali si affiancherebbe, attraverso le decisioni a maggioranza di parlamentari europei eletti secondo preferenze di partito, una generalizzazione degli interessi trasversale rispetto ai confini nazionali. I partiti devono cioè raccogliere il consenso in tutto il territorio dell’Unione, nelle zone avanzate e in quelle arretrate. In tal modo la prospettiva europea generalizzata di un “noi” dei cittadini dell’UE può rafforzarsi fino a diventare un potere istituzionalizzato. Un siffatto cambiamento di prospettiva è indispensabile per sostituire le regole comuni, che attualmente coordinano Stati solo apparentemente sovrani, con una comune formazione di una volontà politica solidale, in cui gli interessi nazionali si legano all’interesse europeo e al cospetto di esso si relativizzano.
La seconda argomentazione contesta in modo specifico il timore espresso da Streeck secondo cui una democrazia sopranazionale avrebbe tratti unitari-giacobini poiché, sulla via di una permanente marginalizzazione delle minoranze, non potrebbe che condurre ad un livellamento delle comunità economiche identitarie basate sulla vicinanza spaziale. E qui il discorso di Habermas è solo parzialmente valido.
Da una parte, ricorda come il federalismo sia fondato sulla sintesi fra unità e diversità e quindi come garantisca gli Stati più piccoli. In particolare ricorda la procedura della doppia maggioranza degli Stati e della popolazione e la composizione ponderata del Parlamento europeo che, proprio in vista di un’equa rappresentazione, tiene conto delle forti differenze numeriche tra le popolazioni dei paesi più piccoli e di quelli più grandi. Dall’altra parte, però, nega che l’approfondimento dell’Unione europea debba condurre a una sorta di repubblica federale europea. Lo Stato federale è considerato il modello sbagliato, dal momento che le condizioni di legittimazione democratica possono essere soddisfatte anche da una comunità democratica sovranazionale, ma sovrastatale, che permette comunque la realizzazione di un governo comune. In questa comunità, le decisioni politiche sarebbero legittimate dai cittadini nel loro doppio ruolo di cittadini europei e di cittadini dei vari Stati membri. In una siffatta unione “politica”, chiaramente distinta da un vero e proprio Stato, gli Stati membri resterebbero i garanti in ultima istanza dei diritti e delle libertà, conservando, quindi, un ruolo molto importante se paragonati alle articolazioni subnazionali di uno Stato federale.
Ciò che Habermas intende con queste affermazioni è sviluppato in modo più articolato e preciso nel testo Questa Europa è in crisi,[6] a cui la recensione del libro di Streeck fa esplicito riferimento. In sostanza, la tesi secondo cui in una federazione europea priva di natura statuale gli Stati nazionali avrebbero un ruolo più importante rispetto alle articolazioni subnazionali di uno Stato federale significa concretamente che l’unione democratica europea non deve avere la competenza della competenza, e pertanto deve decidere all’unanimità gli emendamenti alla costituzione, mentre il Consiglio europeo, che dovrebbe operare in regime di codecisione paritetica con il Parlamento europeo, dovrebbe, sulle questioni essenziali, decidere all’unanimità. Qui va sottolineato che i federalisti, se affermano che lo Stato federale europeo sarà diverso dagli Stati federali finora esistenti, in quanto fondato su Stati nazionali storicamente consolidati (sarà cioè più decentrato e con un ruolo più rilevante degli Stati membri rispetto a quello presente negli Stati federali esistenti — in sostanza una “federazione leggera”, ma pur sempre una vera federazione), rifiutano d’altra parte inderogabilmente il mantenimento in qualsiasi forma del diritto di veto nazionale, che è l’essenza del sistema confederale. Quanto al legame fra il ruolo così decisivo che gli Stati nazionali devono mantenere secondo Habermas in un’unione democratica europea e il fatto che essi sono i garanti dei diritti di libertà dei cittadini dei singoli Stati, egli precisa che gli Stati nazionali, come Stati di diritto democratici, non sono solo attori nel lungo percorso storico verso la civilizzazione del nucleo violento del potere politico, bensì conquiste permanenti e figure viventi di una giustizia esistente (con riferimento a Hegel). Quindi sono qualcosa di più di una mera incarnazione di culture nazionali degne di essere conservate: essi sono gli unici garanti del livello di giustizia e di libertà che i cittadini vogliono vedere conservato.
In questo discorso si possono rilevare due contraddizioni. Anzitutto non si può realizzare un sistema democratico sopranazionale (secondo Habermas indispensabile per garantire l’uniformità delle condizioni di vita, cioè per sconfiggere il neoliberismo) se permane un potere nazionale che può bloccare e non semplicemente ponderare le decisioni a maggioranza del Parlamento europeo. Che democrazia è quella in cui uno Stato può imporre la propria volontà di non decidere a tutti gli altri Stati e alla maggioranza del Parlamento europeo? E non è proprio il diritto di veto nazionale l’alleato strutturale del neoliberismo? In secondo luogo l’eternizzazione degli Stati nazionali (e quindi il mantenere il loro diritto di veto in un’unione democratica europea) non è coerente con il discorso, molto valido, relativo all’artificialità e non naturalità degli Stati nazionali. Non si percepisce in particolare in modo adeguato che, senza il completamento dell’unificazione europea, sarà inevitabilmente minata, come si dice nel Manifesto di Ventotene, la capacità degli Stati nazionali di conservare un vitale sistema democratico.
Questi limiti dell’argomentazione di Habermas a favore di una unione democratica europea indeboliscono il suo valido appello finale, contenuto nella recensione del libro di Streeck, in cui si invitano i partiti europei di sinistra a non ripetere i loro errori storici del 1914, cioè a non indietreggiare nella scelta per la democrazia europea per paura della propensione al populismo presente nella società europea in connessione con la attuale grave crisi finanziaria ed economico-sociale.
In conclusione si può asserire che nella difficile lotta per l’unificazione europea un compito di importanza decisiva per i federalisti deve consistere anche nello sforzo di contrastare non solo le timidezze, ma anche le incongruenze logiche degli europeisti.
*Si tratta della relazione svolta il 20 ottobre 2013 a Salsomaggiore Terme da Sergio Pistone in occasione della riunione dell’Ufficio del dibattito del Movimento federalista europeo
[1]Vedi Wolfgang Streeck, Die vertagte Krise des demokratischen Kapitalismus, Berlin, Suhrkamp Verlag, 2013; trad. it., Il tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Milano, Feltrinelli, 2013.
[2]La critica di Habermas a Streeck è contenuta in Demokratie oder kapitalismus? Vom Elend der nationalstaatlichen Fragmentierung in einer Kapitalistisch integrierten Weltgesellschaft, Blätter für deutsche und internationale Politik, n. 5 (2013). Trad. it., Habermas: vi spiego perché la sinistra anti-Europa sbaglia, Reset on line, 3 settembre 2013.
[3]Su Hayek — i cui testi fondamentali da ricordare qui sono Monetary Nationalism and Industrial Stability, London, Longmans Green, 1937 e Individualism and Economic Order, Chicago, The University of Chicago Press, 1939 — si veda Fabio Masini, Lezioni della storia del pensiero economico, Il Ponte, n. 2-3 (2012), numero speciale su Federalismo. Proposte di riforma della convivenza civile, a cura di Fabio Masini e Roberto Castaldi.
[4]Al riguardo rinvio ai miei scritti: L’evoluzione della riflessione riguardo alla tematica economico-sociale e ambientale in seno al MFE, Piemonteuropa, n. 3 (2011); Il federalismo e la questione degli squilibri territoriali, Piemonteuropa, n. 1-2 (2012); Federazione europea subito come risposta alla crisi esistenziale dell’integrazione europea e per superare gli squilibri fra paesi forti e deboli dell’Unione Europea, Piemonteuropa, n. 1-2 (2013). Si veda anche l’ottimo testo di Massimo D’Antoni e Ronny Mazzocchi, L’Europa non è finita. Uscire dalla crisi rilanciando il modello sociale europeo, Prefazione di Roberto Antoni, Postfazione di Stefano Fassina, Roma, Editori Riuniti, 2012.
[5]Proprio per questo, va sottolineato, secondo i federalisti l’avanzata del neoliberismo nel quadro dell’integrazione europea richiama la responsabilità propria delle resistenze nazionalistiche (presenti nei governi sia conservatori che progressisti) ai trasferimenti di sovranità a livello sopranazionale.
[6]Questo testo pubblicato da Laterza nel 2012 è la trad. it. di Zur Verfassung Europas. Ein Essay, Berlin, Suhrkamp Verlag, 2011.
Anno LV, 2013, Numero 1, Pagina 43
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