Anno XXXII,1990, Numero 2 - Pagina 160
HABERMAS E LA RIUNIFICAZIONE TEDESCA
In un lungo articolo apparso su Die Zeit del 30 marzo 1990, Jürgen Habermas ha svolto alcune considerazioni sulla riunificazione tedesca che offrono lo spunto per una puntualizzazione della posizione dei federalisti sugli ultimi sviluppi di questo problema.
Il punto centrale dell’argomentazione di Habermas è la critica alla linea del governo di Bonn (accettata dal governo di Berlino Est nato dalle elezioni del 18 marzo), diretta a realizzare una rapida fusione fra le due Germanie sulla base dell’art. 23 del Grundgesetz, e il sostegno alla procedura di unificazione prevista dall’art. 146. L’applicazione del primo articolo significa che l’unificazione fra le due Germanie avverrà tramite l’adesione dei Länder della RDT (che sono in via di ricostituzione) alla RFdG, la cui costituzione si estenderà in tal modo all’altra Germania. L’applicazione del secondo articolo implica invece la convocazione di una assemblea costituente del popolo delle due Germanie che elabori una nuova costituzione, destinata a sostituire, dopo la sua approvazione con «libera deliberazione» del popolo tedesco, il Grundgesetz, che ha carattere provvisorio.
L’unificazione sulla base dell’art. 23 equivale, secondo Habermas, a una annessione della RDT fondata sul nazionalismo del marco. In effetti, da una parte, i cittadini della RFdG hanno una costituzione che non è nata da una costituente direttamente eletta, bensì da una assemblea di rappresentanti dei Länder (ciò perché una costituente nel senso pieno avrebbe dovuto essere convocata solo al momento della riunificazione nazionale), e ora non sono chiamati a pronunciarsi sull’unificazione nazionale e sulla costituzione della Germania unificata, così come non erano stati chiamati a pronunciarsi sull’adesione alla RFdG della Saar nel 1957, che avvenne sulla base dell’art. 23. Dall’altra parte, i cittadini della RDT sono praticamente costretti a dire di sì all’unificazione dalla loro situazione economica disastrosa e dalla speranza – alimentata dalle promesse del governo di Bonn – di migliorarla in modo sostanzioso e rapido attraverso l’assorbimento nella ricca RFdG. Di conseguenza l’identità nazionale che starà alla base del nuovo Stato non sarà una identità repubblicana, fondata cioè sulla libera e consapevole adesione ai valori della libertà, della democrazia, dello Stato sociale e della pacifica cooperazione fra le nazioni. Sarà invece un’identità nazionale di tipo tradizionale, fondata cioè su un’idea di nazione intesa essenzialmente come una comunità etnica, culturale e collettiva voluta dal fato invece che dalla libera e meditata scelta di cittadini emancipati. In tal modo non verrebbe spezzata una volta per tutte la continuità di una tradizione che risale all’unificazione nazionale bismarckiana e che ha sempre visto l’identità nazionale tedesca affermarsi in contrasto più o meno accentuato con la tradizione liberaldemocratica occidentale.
Questo modo di realizzare l’unificazione fra le due Germanie rischia di produrre conseguenze molto pericolose. In primo luogo la conferma di una identità nazionale non repubblicana contiene il rischio di mantenere vive le tendenze all’autoritarismo e all’assimilazione forzata delle minoranze etniche, culturali, religiose e socio-economiche, che hanno avuto in Auschwitz la loro estrema manifestazione. In secondo luogo la rapidità con cui viene realizzata l’unificazione fra le due Germanie impedisce che venga prima raggiunta l’unità europea all’interno della quale dovrebbe essere inquadrata l’unità tedesca. In terzo luogo, con l’applicazione dell’art. 23 non viene meno, dal punto di vista strettamente giuridico, la provvisorietà del Grundgesetz e ciò ingenera il sospetto che, per giungere a una costituzione definitiva, si attenda l’ampliamento della RFdG anche ai territori oltre la linea Oder-Neisse. L’applicazione della procedura prevista dall’art. 146 parrebbe dunque, sulla base di queste considerazioni di Habermas, la via maestra per garantire una effettiva libera decisione dei Tedeschi, la priorità procedurale dell’unificazione europea rispetto a quella tedesca (un’assemblea costituente tedesca richiederebbe tempi lunghi) e la chiusura della questione dei confini dello Stato nazionale tedesco.
Di questa argomentazione deve essere sottolineata molto positivamente la tesi della centralità dell’unificazione europea. In effetti Habermas già da alcuni anni va sostenendo la necessità di togliere allo Stato nazionale la pretesa di essere il polo privilegiato dell’identità collettiva, la quale, nell’epoca post-nazionale, deve invece avère un carattere multidimensionale, fare cioè riferimento anche a comunità sovrannazionali e a comunità infranazionali.[1] Il fatto che da questa tesi di carattere piuttosto generale egli giunga ora ad affermare così nettamente la priorità dell’unificazione europea rispetto a quella tedesca è un segno dei tempi. Vuol dire che nella sinistra intellettuale tedesca si incomincia a prendere sul serio il discorso federalista, verso il quale si era nel passato manifestata in generale una sostanziale indifferenza. Ciò premesso, non si possono non rilevare nelle tesi di Habermas dei punti assai poco convincenti che indeboliscono la sua presa di posizione per l’unità europea.
Per cominciare,l’opzione da parte del governo di Bonn per una rapida fusione fra le due Germanie è derivata, a mio avviso, fondamentalmente da una situazione di fatto e solo secondariamente dagli interessi di potere del cancelliere Kohl e del suo partito. L’aspetto più evidente ed immediato di questa situazione è costituito dall’esodo verso l’Ovest, dal collasso economico e dalla crescente ingovernabilità della RDT, che hanno fatto vedere nella più rapida adesione possibile di quest’ultima alla RFdG la via più efficace per uscire da una condizione sempre più insostenibile. Ma c’è un altro aspetto meno congiunturale, eppure di grandissima importanza, che va tenuto presente per capire la politica di Bonn, vale a dire il ritardo accumulato dal processo di unificazione europea. Se nel 1985 fosse stato approvato il Trattato di Unione europea invece che l’Atto Unico europeo, il problema dell’unificazione tedesca sarebbe stato affrontato nel quadro di una Federazione europea in stato avanzato di costruzione, e quindi in una situazione in cui la cultura federalista sarebbe stata più forte di quella nazionalista. In presenza di una Federazione europea di carattere multinazionale avrebbe potuto prevalere l’opzione di più Stati tedeschi sotto un tetto europeo, per le stesse ragioni per cui nella Federazione svizzera ci sono più Cantoni tedeschi. Sarebbe stata indubbiamente una soluzione preferibile a quella della fusione fra RFdG eRDT in un unico Stato, perché l’applicazione del principio della coincidenza fra Stato e nazione culturale può legittimare una sequela di rivendicazioni nazionali non solo tedesche, con le evidenti conseguenze destabilizzatrici.[2] Poiché però si è rinviata la creazione di un governo federale europeo, era fatale che nell’affrontare il problema dell’unificazione fra le due Germanie, diventata improvvisamente attuale, l’impostazione nazionalista prevalesse rispetto a quella federalista.
Se la situazione di fatto ha portato a far prevalere l’opzione della rapida fusione fra le due Germanie, la strada maestra per evitare che da un successo iniziale si giunga a una vittoria completa e definitiva del nazionalismo non è ora quella di cercare di ritardare l’unificazione tedesca, bensì quella di accelerare l’unificazione europea, di realizzare cioè uno stretto parallelismo fra i due processi. Se si riesce a inquadrare la fusione fra le due Germanie in una Federazione europea, verrà anzitutto eliminata alla radice ogni spinta ad una politica di tipo egemonico da parte della Germania. Il nazionalismo egemonico tedesco ha infatti tratto il suo fondamentale alimento non dalle tradizioni antidemocratiche caratterizzanti lo Stato nazionale tedesco, bensì dalla necessità di unificare il continente europeo per metterlo in grado di affrontare i problemi posti dalla crescente interdipendenza dell’attività umana su scala continentale e intercontinentale.[3] Fin dall’inizio di questo secolo la ragione ha indicato come unica risposta progressiva a questa sfida la Federazione europea, che è in grado di conciliare l’unità a livello continentale con l’indipendenza delle nazioni e lo sviluppo della democrazia e di aprire la strada all’unificazione dell’intera umanità. E proprio perché non si è voluto dare ascolto alla ragione, si è fatta strada l’alternativa reazionaria dell’unificazione egemonica perseguita dallo Stato più forte del continente europeo. Questa opzione, sconfitta nel 1918 e nel 1945, è destinata a riproporsi ancora una volta, anche se in forme diverse – l’imperialismo del marco invece di quello delle Panzerdivisionen –, se in una situazione in cui si sta disgregando l’ordine imperiale dei blocchi contrapposti non si creerà rapidamente un ordine federale europeo. D’altra parte, con una Germania unita, ma inserita in una Federazione europea, verrebbe meno non solo la spinta a una politica egemonica tedesca, ma anche la possibilità oggettiva di attuare una tale politica, dal momento che il governo della RFdG avrebbe competenze fortemente limitate, e in modo irreversibile, a vantaggio dell’autorità federale europea (il marco verrebbe assorbito dall’Ecu), verso l’alto, e delle regioni, verso il basso. Inoltre verrebbe chiusa in modo sostanziale e non solo formale (i trattati possono sempre diventare pezzi di carta) la questione dei confini dello Stato tedesco, perché in una Federazione europea anche non ancora completamente sviluppata, diventerebbero a poco a poco impossibili politiche nazionali su problemi del genere. In ogni caso, con il progressivo allargamento della Federazione europea verso l’Europa orientale, i confini statali avranno sempre meno importanza e diventerà possibile un’efficace tutela di tutte le minoranze nazionali affidata all’autorità federale.
La linea giusta è dunque quella dell’accelerazione dell’unificazione europea, che proprio dal rapido sviluppo dell’unificazione tedesca sta peraltro traendo un forte impulso, anche perché essa trova il sostegno della grande maggioranza della classe politica e dell’opinione pubblica tedesca, che ha ceduto in parte ai richiami del nazionalismo, ma appare nello stesso tempo consapevole dei gravi pericoli a cui si va incontro se la prospettiva europea viene compromessa. Se ci si vuole incamminare seriamente sulla via del parallelismo fra unificazione tedesca e unificazione europea, l’obiettivo veramente decisivo diventa allora non la costituente tedesca, bensì la costituente europea. Questa è necessaria anzitutto perché affidare la costruzione europea esclusivamente alle trattative diplomatiche comporta immancabilmente esiti di natura intergovernativa, i quali non fanno che accentuare il deficit democratico della Comunità europea. La costituente europea è altresì necessaria per le ragioni che secondo Habermas richiedono la costituente tedesca. Affinché lo Stato europeo possa fondarsi su un’identità di cittadini repubblicani, occorre che gli Europei possano partecipare direttamente alla sua costruzione ed esprimersi liberamente e consapevolmente sulla sua costituzione. Lo strumento indispensabile a tale scopo è precisamente una costituente europea, la quale è ben più importante di una costituente tedesca, dal momento che quest’ultima opera ad un livello, quello della democrazia nazionale, che non è più adeguato alla dimensione sovrannazionale dei problemi fondamentali e richiede perciò di essere inquadrato nella democrazia sovrannazionale.
A questo punto parrebbe legittimo concludere che la soluzione ideale sarebbe il parallelismo fra la costituente europea e la costituente tedesca prevista dall’art. 146. In realtà una simile conclusione non è convincente per la ragione molto concreta che una costituente tedesca finirebbe con ogni probabilità per ritardare, o comunque rendere più complicata, la procedura costituente europea. Anzitutto la classe politica tedesca sarebbe talmente impegnata nella procedura costituente tedesca da non potersi dedicare con il necessario impegno alla procedura costituente europea. In secondo luogo, l’entrata in vigore di una nuova costituzione tedesca porrebbe il problema di una rinegoziazione dell’adesione del nuovo Stato ai Trattati conclusi dalla RFdG, e quindi anche a quelli comunitari. Per questo sembra preferibile, in considerazione dell’esigenza di accelerare l’unificazione europea, la procedura prevista dall’art. 23.
Va peraltro precisato che sarebbe giuridicamente possibile combinare le vie indicate dagli articoli 23 e 146 senza introdurre fattori di ritardo nei confronti dell’unificazione europea e nello stesso tempo permettendo ai cittadini delle due Germanie di pronunciarsi sull’unificazione tedesca.[4] In effetti, dopo l’adesione alla RFdG da parte dei Länder della RDT sulla base dell’art. 23, il Parlamento federale eletto dai Tedeschi delle due Germanie potrebbe dichiarare che il Grundgesetz è la costituzione definitiva della Germania. In tal modo l’art. 146 verrebbe eliminato tramite una revisione della costituzione e verrebbe anche meno la possibilità giuridica di mettere in discussione i Trattati sottoscritti dalla RFdG (ad esempio quelli che hanno riconosciuto i confini orientali), richiamandosi al carattere provvisorio della RFdG. La decisione del Parlamento federale potrebbe poi essere sottoposta ad una ratifica da parte del corpo elettorale tramite un referendum, che non è espressamente previsto dal Grundgesetz per la revisione della costituzione, ma che non è neppure escluso, e che sarebbe d’altra parte auspicabile per eliminare l’anomalia di una costituzione che non è nata dal voto diretto dei cittadini tedeschi.
A quest’ultimo proposito si può fare un’osservazione conclusiva. Se si decidesse che un referendum popolare dovrà apporre il sigillo finale all’unificazione tedesca, perché non decidere di tenere simultaneamente ad esso un referendum sull’unità europea? A seconda del grado di avanzamento della fase costituente dell’unità politica europea, potrebbe trattarsi di un referendum di ratifica della costituzione europea, oppure di un referendum propositivo sul mandato costituente al Parlamento europeo analogo a quello tenutosi in Italia il 18 giungo 1989. A parte questo aspetto, la motivazione giuridica della richiesta della simultaneità fra referendum tedesco e referendum europeo dovrebbe fondarsi sul richiamo al preambolo del Grundgesetz, il quale indica nell’unità tedesca e nell’unità di un’Europa pacifica i due fondamentali impegni del popolo tedesco. La motivazione sostanziale dovrebbe invece richiamare l’attenzione sul fatto che, con la simultaneità dei referendum per la Germania unita e per l’Europa unita, si renderebbe visibile con un atto di grande solennità, e quindi di grande efficacia educativa, il superamento del principio che lo Stato nazionale deve essere il polo privilegiato dell’identità collettiva. Perché Habermas non impiega la sua grande autorità intellettuale a favore di un simile disegno?
Sergio Pistone
[1] Cfr. AA.VV., Historikerstreit, Monaco, Piper, 1987.
[2] Cfr. Sergio Pistone, «Più Stati tedeschi sotto un tetto europeo», in Il Federalista, XXXI (1989), n. 3. Cfr. anche «La rinascita del nazionalismo», ibid., XXXII (1990), n. 1.
[3] La particolare aggressività del nazionalismo tedesco è certamente anche legata alle caratteristiche antidemocratiche dello Stato nazionale fondato da Bismarck, le quali hanno avuto una significativa espressione ideologica nel prevalere di una concezione «naturalistica» della nazione, invece che di una concezione «volontaristica», quale quella di Mazzini (cfr. a quest’ultimo proposito Mario Albertini, Lo Stato nazionale, Milano, Giuffré, 1960). D’altra parte, queste caratteristiche devono essere poste in relazione, per essere adeguatamente comprese, con la posizione centro-continentale della Prussia e poi della Germania, cioè con una posizione geostrategica nel sistema degli Stati che ha favorito potentemente le scelte orientate alle esigenze di sicurezza rispetto a quelle liberali e democratiche. La validità esplicativa di questa linea interpretativa propria della scuola storica tedesca (cfr. Ludwig Dehio, Equilibrio o egemonia, Bologna, Il Mulino, 1988 e Id., La Germania e la politica mondiale del secolo XX, Milano, Comunità, 1962) trova una conferma molto importante nel fatto che essa fu sostanzialmente condivisa da una autore agli antipodi ideologici rispetto a questa scuola, e cioè da Engels. Cfr. in particolare la lettera di Engels a Bloch del 21 settembre 1890, pubblicata in L. Althusser, Pour Marx, Parigi, Maspero, 1965.
[4] Cfr. in proposito J.A. Frowein, «Rechtliche Probleme der Einigung Deutschlands», in Europa Archiv, 1990, XXXXV, n. 7.
Anno XXXII, 1990, Numero 1 - Pagina 56
PUO’ IL FEDERALISMO RAPPRESENTARE UN MODELLO PER L’AFRICA?
E’ possibile parlare di federalismo africano? Tenendo conto degli studi che sono stati dedicati all’argomento – in particolare delle trattazioni giuridiche accademiche a proposito dell’unità africana – ci sarebbe da credere che in proposito tutto sia stato detto.
In realtà, l’esistenza del fenomeno federativo in Africa è stata colta in diversi contributi riguardanti lo studio dei movimenti panafricani, che, sviluppatisi all’indomani della prima guerra mondiale, hanno portato alla decolonizzazione dell’Africa.
Parimenti, numerosi studi storici ed etnologici hanno messo in evidenza, sia pure con qualche esitazione, l’esistenza di fenomeni di tipo federale nei sistemi sociali dell’Africa nera precoloniale.
Infine, la constatazione dei successi e degli insuccessi delle unioni tra Stati africani fin dai primi anni della loro indipendenza, il bilancio delle esperienze federali riuscite o fallite e più particolarmente le politiche d’unità africana rappresentano la base teorica principale di ciò che è stato chiamato federalismo africano.
Tuttavia, quando si cerca di verificare la portata della teoria federalista nel continente africano, tutto o quasi resta da dire, perché non è veramente possibile parlare di federalismo africano, inteso come progetto politico. Né in passato né oggi si può affermare che sia esistito un movimento, sotto forma di associazione, che abbia avuto come obiettivo esclusivo, in forma autonoma, il sostegno dell’idea federalista come progetto politico per l’Africa.
In realtà, quando si cerca di presentare o di proporre il progetto di un nuovo federalismo, costruito sui principi della dottrina federalista moderna, il termine di federalismo africano resta tutto da definire, il progetto federale africano si iscrive nell’avvenire. L’esame delle esperienze di unioni tra Stati, in quest’ultima prospettiva, presenta scarso interesse, anche riguardo a ciò che l’etnofilosofia e l’antropologia politica africana affermano circa la preesistenza del fenomeno nel continente.
L’unico interesse – peraltro non trascurabile – presentato da questo tipo di studi storici[1] sull’esistenza di fenomeni federali nell’Africa precoloniale (a differenza dei lavori di Bernard Voyenne[2] a proposito dell’idea di unificazione europea in Occidente) sta nel fatto che essi tendono a provare che il federalismo non può in alcun modo essere considerato come un’ideologia d’importazione in Africa. Le somiglianze possibili tra i due sistemi politici e sociali africano e greco stanno nel contratto d’alleanza o patto tra i segmenti (clan, stirpi, famiglie) costituenti i sistemi socio-politici, che rappresenterebbe il principio fondamentale che regge l’organizzazione politica delle società negro-africane e greca. Tali verifiche stabiliscono in modo irrefutabile il carattere universale del federalismo in quanto forma di organizzazione e di gestione di una società politica.
L’ideologia giacobina dello Stato, fondata cioè sulla coincidenza necessaria tra Stato e nazione, ha conquistato il mondo intero. E’ entrata in Africa verso la fine del XIX secolo, con la colonizzazione, e vi si è radicata alla fine della conferenza di Berlino più di cent’anni fa.
All’indomani della seconda guerra mondiale sono comparsi tuttavia i segni della contestazione, inizialmente attraverso il rifiuto del colonialismo e la volontà di emancipazione, e successivamente attraverso la volontà di superare i quadri statali artificiali espressa da alcuni africani[3] attraverso la formula di una «federazione con la potenza metropolitana», o, secondo altri,[4] attraverso un «panafricanismo militante», per rendere esplicito l’obiettivo di una rottura totale con il colonialismo. In questa nuova forma, il federalismo africano appariva come una ideologia della decolonizzazione dell’Africa.
Tuttavia, a tale stadio, non possiamo affermare che il federalismo africano si fosse definito come l’ideologia dello Stato federale. Non si era definito ancora in modo autonomo rispetto alle grandi correnti ideologiche e politiche che dominavano il contesto di quel periodo, cioè il colonialismo ed il comunismo.
Effettivamente, quando si esamina il programma del Partito federalista africano (PFA),[5] l’unica organizzazione politica che si sia richiamata al federalismo in Africa, si constata che la Federazione africana era vista unicamente come uno strumento suscettibile di risolvere la crisi coloniale. Questo atteggiamento si spiega con la volontà dei governi colonialisti di quel tempo di contrastare il desiderio di indipendenza delle colonie africane. Tali esperienze d’allora non si possono qualificare come federaliste, in quanto mancavano le condizioni politiche indispensabili, ed in particolare l’indipendenza, per permettere alle entità componenti o «da federare» di disporre della libertà necessaria alla conclusione di un patto – nel senso generico di foedus – destinato a rafforzare ed a garantire la loro indipendenza. Vale infatti la pena di far notare che, dal punto di vista tecnico e giuridico, l’atto che crea le federazioni di Stati è sempre un atto internazionale: una federazione di Stati non può nascere attraverso un «regolamento ministeriale», come nel caso delle vecchie federazioni in Africa nell’epoca coloniale.
Il contesto africano ed internazionale nel quale operavano i federalisti africani che perseguivano uno scopo unitario non permetteva loro in alcun modo di formulare chiaramente l’obiettivo federale africano, nonostante la presenza del Partito federalista africano di Senghor; e soprattutto, gli elementi di federalismo erano insufficienti o quasi assenti – dato lo stato ed il grado di vita istituzionale dell’Africa d’allora – poiché il federalismo per aggregazione presuppone sempre la preesistenza di entità politiche sovrane e separate che si federano attraverso un legame costituzionale. Infatti, da un lato, gli Stati africani non avevano acquisito un grado di indipendenza sufficiente, e dall’altro il processo di costituzionalizzazione interna era troppo poco sviluppato perché si potesse immaginare un legame costituzionale tra gli Stati separati.
Alcuni giuristi[6] sostengono tuttavia che l’utilizzazione del concetto di federalismo africano sia appropriata per descrivere le esperienze politiche di quel periodo. Da parte nostra, pensiamo che una corretta interpretazione del federalismo moderno, inteso come superamento cosciente dello Stato nazionale, impedisca di vedere in queste esperienze delle forme di federalismo autentico. Le prospettive di una vera esperienza federalista in Africa si situano davanti e non dietro a noi.
Si giunge alle stesse conclusioni quando si prendono in esame gli elementi costitutivi del concetto di «panafricanismo militante» alla luce della teoria federalista.
Il «panafricanismo militante» è il movimento che maggiori speranze ha suscitato durante la decolonizzazione dell’Africa. Tuttavia la sua mancanza di chiarezza circa i limiti geografici dello spazio da federare – poiché auspicava l’unità totale dell’Africa,[7] trascurando le aree di civiltà – la sua alleanza con il comunismo internazionale,[8] la sua tendenza centralizzatrice,[9] ma anche l’assenza di una base filosofica e metodologica capace di presentarlo come un corpo di dottrina coerente, l’hanno ridotto al rango di semplice velleità ideologica, preoccupata, come altre, di giustificare una forma di potere.
In definitiva, il federalismo africano, nel senso politico ed ideologico definito finora, serve ad indicare da un lato i tentativi fatti nel corso della decolonizzazione dell’Africa di creare delle «federazioni» tra gli Stati africani e le vecchie metropoli e dall’altro il «Movimento panafricano» per l’indipendenza e la riunificazione nazionale dell’Africa, basato sul «panafricanismo militante» del Dr. K. Krumah.
Tale espressione del federalismo africano, in un contesto storico dominato dalla guerra fredda e dallo scontro delle grandi correnti politiche ed ideologiche del mondo del dopoguerra – il comunismo e la politica di potenza – non poteva sfuggire a queste determinazioni storiche, che lo condannavano a restare privo di reali possibilità di sbocco. Il federalismo africano non poteva, in tale contesto, pretendere di raggiungere il grado di autonomia teorica necessaria a renderlo utilizzabile come base ideologica per la costruzione dell’unità politica dell’Africa.
L’ideologia panafricana è tuttavia servita a creare le basi culturali e storiche che potevano permettere agli Stati africani di prendere in considerazione la loro unità.[10] In realtà il panafricanismo culturale è in grado di svolgere questo ruolo solo a condizione che il federalismo sia formulato come progetto politico per l’Africa. Dal momento che l’africanità non è oggi in grado di condizionare l’unione degli Stati africani, questa non può ormai che essere fondata su basi federali.
In realtà, uno dei principali fatti nella storia dell’Africa, da quando gli Stati africani hanno avuto accesso alla sovranità, è stato il trionfo del nazionalismo in tutto il continente. Il mito della «via nazionale allo sviluppo», come sottolineato dal Professor Guido Montani,[11] è servito da motore ideologico alla costruzione economica e politica dei giovani Stati africani da poco indipendenti e si è sostituito al panafricanismo, che pure era servito da motore ideologico per la decolonizzazione. Il «nazionalismo statale», che imperversa in Africa da più di un quarto di secolo, ha dato come risultato la creazione di nuovi lealismi nazionali all’interno degli spazi territoriali fissati dalla colonizzazione.
Vale la pena di precisare il senso che attribuisco al concetto di «nazionalismo statale». Di fatto, al di là della distinzione classica tra le definizioni soggettiva ed oggettiva della nazione, si può ritenere che la nazione si definisca come una comunità i cui membri, uniti da legami di solidarietà materiali e spirituali, hanno preso coscienza di costituire una entità distinta dalle altre comunità umane. Ma il tema della nazione, nell’esperienza europea, fu rapidamente associato a quello dello Stato, come giustificazione dell’indipendenza di quest’ultimo: è l’emergenza del nazionalismo come fenomeno ideologico diverso dalle «nazioni culturali». Nel contesto africano, il ruolo dello Stato è stato preponderante nella formazione della nazione, per il fatto che l’evoluzione storica della formazione nazionale in Africa è stata interrotta dall’intervento del colonialismo. Lo Stato africano attuale è stato, di conseguenza, condannato a cercare una nuova forma di aggregazione nazionale, che non poteva essere fondata se non sull’idea di nazione come l’aveva sviluppata la concezione occidentale.
Una delle prime difficoltà incontrate dallo Stato africano fin dall’inizio della sua indipendenza, è stata (come ha sottolineato con molta appropriatezza il giurista francese Georges Burdeau) «quella relativa alla struttura e alla delimitazione del quadro nazionale».[12] Così, partendo dal quadro territoriale ereditato dal colonialismo ed arbitrariamente delimitato, inglobando diversi raggruppamenti etnici, lo Stato africano si è impegnato, nel corso degli ultimi trent’anni, a creare un nuovo tipo di solidarietà globale e nazionale. E si è impegnato bene. In altri termini, la ricerca del quadro nazionale – a causa della natura plurietnica dello Stato africano, ad eccezione della Somalia e del Lesotho, che formano nazioni monoetniche – è stata possibile solo attraverso strumenti coercitivi ed etnocidi. La creazione della nazione si è verificata senza problemi solo nei casi eccezionali in cui lo Stato ha valorizzato i sentimenti esclusivi di un gruppo etnico maggioritario, che ha saputo raccogliere attorno alla sua causa apporti eterogenei. Tuttavia le nazioni africane restano ancora, contemporaneamente, sia una aspirazione e un obiettivo da raggiungere, sia una realtà operante, le diverse tappe della cui costruzione si articolano attorno ad avvenimenti precisi ed a diverse strutture di integrazione repressive ed inclusive ben percettibili ed individuabili. Questo processo ha raggiunto oggi una fase di irreversibilità. E’ ciò che Mouflou[13] qualifica, a giusta ragione, in un originale saggio sull’unità africana, come «trionfo dei nazionalisti»; l’autore conclude, al termine di un’analisi sociologica dell’Organizzazione per l’unità africana (OUA), che questa organizzazione è servita più a consolidare gli Stati nazionali che a costruire l’unità africana.
La creazione dell’OUA, ispirata al modello confederale, apre in effetti un nuovo capitolo della storia africana. Tale atto è fondato sull’accettazione delle entità statali derivate da «Berlino». Per la prima volta è oggi presente la condizione indispensabile per la federazione – che mancava all’indomani dell’indipendenza –, e cioè l’esistenza di Stati sovrani indipendenti e separati. La decolonizzazione dell’Africa e successivamente il trionfo del «mito della via nazionale allo sviluppo» hanno considerevolmente ridotto la forza di ciò che costituiva fondamentalmente lo zoccolo dell’unità panafricana, il ricordo cioè dell’esperienza comune della schiavitù e della colonizzazione. Questa evoluzione ha avuto come esito l’emergere del sentimento della diversità tra le nuove nazionalità, sentimento che è quasi riuscito a relegare in secondo piano l’identità culturale ed originaria degli Africani. Così Maryse Condé non ha torto quando si interroga sul carattere operativo dell’identità culturale. «Da po’ di tempo – dice – si parla molto di identità culturale. Il termine indicherebbe la nozione di una identità originale e nettamente definita che si manifesta a tutti i livelli dell’espressione collettiva di un paese o di un popolo e che gli permette di affermarsi nei confronti degli altri. La paura ed il senso di minaccia possono generare sentimenti molto contestabili. Ora, di miti, i popoli africani hanno già troppo sofferto. Così, vediamo i tristi effetti della «negritudine» portata ed eretta a sistema di governo. La prima domanda è la seguente: chi parla di identità culturale?».[14] L’autrice ha voluto esprimere in modo un po’ confuso il fatto che lo sviluppo del «nazionalismo statale» in Africa tende a mettere in iscacco tutte le elaborazioni del movimento panafricano.
Il fatto che il processo di emergenza del «nazionalismo statale» sia giunto a maturazione si constata dai numerosi conflitti che hanno opposto gli Stati africani indipendenti, tutti membri dell’Organizzazione per l’unità africana: almeno una quarantina di conflitti,[15] che hanno assunto in gran parte la forma di guerra in armi. E’ lo sbocco della politica dell’interesse nazionale, dell’applicazione della dottrina della «ragion di Stato» nelle relazioni interafricane. E’ chiaro che il sistema panafricano è ormai entrato nell’era dello Stato nazionale. Il modello dello Stato nazionale, fondato sulla coincidenza necessaria tra Stato e nazione, è il sistema su cui si basano gli Stati africani che hanno raggiunto la piena maturità.
Scriveva Alexander Hamilton in The Federalist: «Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani ed andare contro l’esperienza accumulata dal tempo».[16] Ciò significa che è impossibile mantenere la pace tra Stati sovrani senza un legame federale. Il problema sta dunque nella difficoltà di conciliare l’idea di sovranità e l’esigenza di pace. Quest’ultima non può essere ottenuta che a condizione di estendere delle istituzioni democratiche ai governi dei diversi Stati presi in considerazione. Sono queste le prime premesse della problematica del federalismo, che dopo Kant e l’esperienza americana, rappresenta lo strumento essenziale dell’associazione di Stati per il mantenimento della pace. Non si tratta della «confederazione» proposta da Rousseau,[17] ossia una associazione tra Stati sovrani per fini puramente difensivi; ma, secondo la definizione di Wheare,[18] di due ordini di governo al tempo stesso coordinati ed indipendenti, ciascuno nella propria sfera.
Sembra che questi due elementi, presi congiuntamente, pongano in termini nuovi il problema dell’unità africana. L’utilizzazione del concetto di federalismo africano di cui parlavamo prima trova così il suo senso pieno, contrariamente al suo uso precedente. In effetti, questi elementi rendono pensabile una articolazione istituzionale nella quale il governo locale – lo Stato africano indipendente – potrà esprimere forme avanzate di autogoverno senza subire ingerenze da parte di un’autorità africana centrale o straniera; ma nella quale, allo stesso tempo, grazie alla coordinazione esistente tra i due livelli di governo, la formazione della volontà politica africana e le decisioni prese a tale livello potranno essere applicate a livello generale.
Così, dunque, il modello federale è divenuto una necessità in Africa. L’unità africana non può più essere concepita che in termini di federalismo, dal momento che la politica praticata oggi in Africa dai nostri governi nazionali segue quasi esclusivamente il principio classico di ogni politica estera, che consiste nell’ottenere vantaggi per il proprio Stato ed i propri cittadini, donde i numerosi conflitti che hanno opposto gli Stati africani. E ciò assegna al federalismo africano una finalità fondamentale, in quanto progetto politico e soluzione agli inestricabili conflitti, per la conservazione della pace.
Dunque il federalismo, in quanto «critica scientifica dello Stato nazionale», nel senso datogli da Mario Albertini,[19] trova in Africa le condizioni per la sua piena applicazione. Bisogna confutare le idee erronee, ma sfortunatamente riprese in molti scritti federalisti, secondo le quali «il nazionalismo, l’ideologia dello Stato nazionale, ha ancora un ruolo da svolgere in Africa, visto il numero di tribù e di clan», e «l’Africa può solo cominciare a costruire delle confederazioni regionali, perché il processo di integrazione dei popoli africani non è ancora compiuto...» Questa affermazione non è solamente una pericolosa attenuazione della portata universale del federalismo, ma tende a perdere di vista che il federalismo non sta solo nel suo carattere sovrannazionale, ma anche e soprattutto nella sua finalità fondamentale di preservare la pace tra i gruppi umani indipendentemente dalle forme di organizzazione politica. Certo, il senso dell’unificazione africana, concepita alla luce della teoria federalista, non può essere una piatta uniformità. E’ ben evidente che si tratta di limitare l’unificazione ai soli campi le cui dimensioni superano chiaramente le capacità della politica locale e che non possono essere controllati con la semplice cooperazione intergovernativa. Tutte le altre questioni devono essere lasciate alla competenza delle autorità locali. E’ così enunciato il principio di «sussidiarietà», secondo il quale la collettività inglobante – la federazione – interviene solo a partire dal momento in cui le collettività di base – i federati – sono inadeguati alla dimensione dei problemi da risolvere. Il principio di sussidiarietà[20] è il fondamento stesso del federalismo, che è stato spesso definito come «l’unità nella diversità».
Unità e diversità caratterizzano sia la storia sia la cultura africana. Le grandi correnti religiose e filosofiche, i principali stili dell’architettura, dell’arte e della musica non hanno mai conosciuto frontiere in Africa, così come la moltitudine delle nostre lingue, la diversità delle nostre identità regionali e nazionali appartengono all’eredità culturale dell’Africa. La storia politica dell’Africa è stata dominata, per lunghi periodi, da un’alternanza costante tra forze centripete e forze centrifughe.[21] Se, nei fatti, si può constatare il predominio delle forze centrifughe su quelle centripete – i grandi imperi africani hanno avuto durata più breve dei periodi di anarchia e di spezzettamento politico – ciò è da attribuire nella maggior parte dei casi al fenomeno dell’invasione esterna, che ha anch’esso rappresentato una costante della storia del1’Africa. In questo contesto, l’unificazione africana non può che significare la ricerca di un’unità che non distrugga la diversità. Così la federazione africana sarà necessariamente, nelle prime fasi della sua costituzione, una federazione multinazionale e multilingue.
Vale la pena di far notare, per eliminare ogni dubbio sull’attualità del federalismo africano, che il «quadro nazionale» in Africa[22] –più che altrove nel mondo – è insufficiente a garantire uno sviluppo armonioso e una indipendenza effettiva dei nostri popoli. L’esiguità del territorio, la debolezza del mercato nazionale, la precarietà delle risorse economiche condannano ogni Stato africano, preso isolatamente, a non acquisire mai la dignità di un vero Stato né ad elevarsi al rango di una nazione moderna. Così è utile affermare che il modello federalista non è un ideale metafisico, ma corrisponde alla necessità di creare delle strutture comuni capaci di rispondere alle sfide della dimensione transnazionale. Il modello federalista, e su questo non c’è alcun dubbio, è la formula più efficace per organizzare l’unità africana al fine di risolvere i problemi di sviluppo economico dell’Africa.
Mi sembra opportuno, prima di proseguire, fare una precisazione sul significato che do alla parola modello: non si tratta affatto di una scelta arbitraria paragonabile al «tipo ideale» di Max Weber,[23] ma il modello federalista, nel senso in cui lo uso, è in Africa una necessità storica, che affonda le sue radici nelle nostre realtà concrete: è un’esigenza della ragione. Inoltre, la concezione bismarckiana della politica come «arte del possibile» ci ha spesso guidato nelle nostre scelte politiche in Africa, mentre oggi si tratta soprattutto di rendere possibile ciò che è necessario.
La maggioranza dei nostri popoli è preoccupata e cerca una risposta a molti problemi, quali la disoccupazione, le carestie, l’educazione, la formazione, la sanità, le condizioni di lavoro. Il federalismo dà una risposta a queste sfide. Solo un governo africano, infatti, può disporre dei mezzi e mobilitare le risorse necessarie ad approntare le risposte che si impongono a queste questioni fondamentali e prioritarie.
Ma, infine, che cosa intendiamo per federalismo, al di là della formula «unità nella diversità»?
Una prima definizione classica è data da quella che viene comunemente indicata la scuola americana o hamiltoniana,[24] che vede nel federalismo la teoria dello Stato federale, caratterizzato dalla divisione verticale dei poteri tra la Federazione e gli Stati membri: è il federalismo istituzionale. Lo Stato federale, in questa concezione, non è altro che un quadro che non implica in sé una scelta di società, dal momento che può esistere in regimi e sistemi così diversi come quelli degli Stati Uniti, dell’URSS, della Repubblica Federale di Germania, del Messico, dell’India, del Brasile, della Jugoslavia, dell’Australia o della Svizzera.
Al di là dell’esperienza giuridica e istituzionale dello Stato federale, il federalismo appare anche come un principio di organizzazione applicabile a vari aspetti della vita sociale. Sindacati, partiti politici, associazioni più diverse, imprese industriali hanno spesso strutture di tipo federale. A partire da queste constatazioni, alcuni autori considerano il federalismo come un modo di organizzazione della società: è il federalismo integrale,[25] rappresentato dalla scuola francese di ispirazione proudhoniana.
Al di là di queste definizioni esclusive, sembra legittimo parlare di federalismo, come propone il tedesco Ferdinand Kinski, «quando un’organizzazione politica, economica, culturale comprende diverse collettività autonome legate le une alle altre da strutture ed istituzioni comuni alle quali hanno delegato dei poteri e delle competenze per la gestione degli affari comuni e per la difesa dei loro interessi esterni; quando l’unità e la diversità, in un’organizzazione complessa, sono egualmente rispettate; quando la distribuzione dei poteri obbedisce all’esigenza del loro esatto adeguamento ai problemi da risolvere e, infine, quando i gruppi membri e le parti autonome possono partecipare alle decisioni dell’organizzazione inglobante e controllarla».[26]
E’ possibile, allora, a partire da questa esperienza parziale degli Stati federali e delle strutture federali già esistenti in campo non-statale, erigere il federalismo a modello per l’Africa?
Noi rimaniamo convinti che l’Africa ha bisogno di progredire verso il federalismo, se vuole sopravvivere come civiltà.
Quest’esigenza non può essere soddisfatta se non superando gli ostacoli che vi si oppongono. Il modello federalista avrà probabilità di successo in Africa solo se forze e tendenze favorevoli alla sua realizzazione esistono già e se i federalisti prendono l’iniziativa di questo processo e vi si impegnano a fondo.
Ci sono oggi in Africa numerosi fattori economici e istituzionali, la cui presenza tende a provare che il continente evolve verso la sua unificazione. La presenza di meccanismi prefederalisti, certo insufficienti, ma reali, nella politica d’unità africana, rappresenta un progresso considerevole nell’opera di unificazione. In definitiva, l’attuale crisi dell’unità africana non è altro che il risultato della mancanza di federalismo nelle istituzioni panafricane.
Tuttavia il federalismo potrà servire da base all’unità africana solo alla condizione che – come sottolineato da William Riker,[27] che ha tratto la lezione dalle esperienze federaliste della storia – esista un soggetto politico cosciente che lo proponga. Non c’è mai stato veramente in Africa un movimento che abbia sostenuto davanti all’opinione pubblica in maniera autonoma l’idea dell’unità africana. La costituzione di una forza federalista diviene una condizione indispensabile per la federazione dell’Africa.
Se per molte ragioni il federalismo è un modello necessario per l’Africa di oggi, tuttavia la sua realizzazione dipende dalla mobilitazione della gioventù africana come forza federalista dell’avvenire.
Fall Cheikh Bamba
[1] Diop Cheikh Anta, Etude comparée des systèmes politiques et sociaux de l’Europe et de l’Afrique de l’antiquité à la formation des Etats modernes, Parigi, Lettres, 1960.
[2] B. Voyenne, Histoire de l’idée européenne, Parigi, Payot, 1984.
[3] L. Senghor, Liberté 2 et 4, Parigi, Seuil,1978.
[4] K. Krumah, I Speak of Freedom, Londra, Mercury Books, 1961; vedi anche Sékou Toure, L’expérience Guinéenne et l’unité africaine, Parigi, Plon.
[5] Parti Fédéraliste Africain fondato da Léopold Senghor, 1-3 luglio 1959, Dakar. Vedi Guédel Ndiaye, L’échec de la fédération du Mali, Dakar, ed. NDA.
[6] D. Ihiam, La politique étrangère des Etats Africains, Parigi, PUF, 1963.
[7] K. Krumah, Africa Must Unite, Parigi, Maspero, 1963.
[8] G. Padmore, Panafricanisme ou communisme, Parigi, PA.
[9] C.A. Diop, L’unité culturelle de l’Afrique Noire, PA, 1959.
[10] C.A. Diop, ibidem.
[11] G. Montani, L’unité européenne et le tiers-monde, Lione, Fédérop, 1982.
[12] G. Burdeau, L’Etat, Parigi, Seuil, p. 37.
[13] Mouflou, Sociologie de l’OUA: unité ou triomphe des nationalités, Parigi, L’Harmattan, 1986.
[14] Maryse Condé, «Propos sur l’identité culturelle», in Des africains en France, Parigi, L’Harmattan, 1987.
[15] Vedi il mio testo su questo argomento pubblicato dall’Institut d’Etudes Mondialistes (IEM), luglio 1985, La Lambertie.
[16] A. Hamilton, J. Madison e J. Jay, The Federalist, Parigi, Librairie Générale de Droit et de Jurisprudence, 1957, p. 50.
[17] J.J. Rousseau, Du contrat social (oeuvres complètes), Parigi, Gallimard, 1964, vol. III, p. 431.
[18] K.C. Wheare, Federal Government, Oxford, Oxford University Press, 1974, p. 10.
[19] M. Albertini, L’Etat national, Lione, Fédérop, 1982.
[20] G. Héraud, Le fédéralisme, Parigi, Presse d’Europe, 1986.
[21] J.Ki. Zerbo, Histoire de l’Afrique Noire, Parigi, ed. Hatier, 1978.
[22] B.Y. Ioure, L’Afrique à l’épreuve des indépendances, Parigi, PUF, 1984.
[23] M. Weber, Essai sur la théorie de la science, Parigi, Plon, 1965, p. 181.
[24] G. Heraud, «L’état actuel de la recherche fédéraliste», in L’Europe en formation, n. 190-192.
[25] Il filosofo francese Alexandre Marc è considerato il padre del federalismo integrale.
[26] F. Kinski, in L’Europe en formation, n. 226, pp. 12-13.
[27] F. Laursen, «Etudes fédéralistes aux Etats-Unis», in L’Europe en formation, n. 190, 192, 1986.
Anno XXXII, 1990, Numero 1 - Pagina 44
INFLAZIONE TEDESCA O MONETA EUROPEA?
1. La moderna teoria economica analizza l’inflazione come possibile risultato dell’insufficienza delle entrate fiscali rispetto alla spesa.[1] Lo Stato può ricorrere all’inflazione, stampare cioè cartamoneta e utilizzarla per effettuare i pagamenti, se è posto di fronte a necessità di finanziamento superiori alle capacità di raccogliere tributi e di ricevere credito dal pubblico. Esistono addirittura economisti che hanno teorizzato il deprezzamento, a tassi costanti, del valore della moneta come strumento di finanziamento della spesa corrente dello Stato.[2]
Nel caso della Germania, la prima grande inflazione coincise con gli squilibri finanziari derivanti dalle immense necessità di spesa dello Stato per ragioni di guerra. Se infatti – tra il 1880 ed il 1913, in un periodo di pace per l’Europa – l’inflazione tedesca aveva mostrato un andamento molto contenuto e a tratti addirittura negativo, negli anni della prima guerra mondiale l’inflazione annua salì invece in media al 28,3%. Nel periodo direttamente successivo, cioè tra il 1919 ed il 1923, l’inflazione raggiunse il 662,6% annuo.[3]
Anche il secondo grande fenomeno inflattivo è legato ad una guerra mondiale. Nel giugno 1948 – con la Germania ridotta in rovine – Ludwig Erhard avviò la riforma monetaria in tre delle quattro zone di occupazione. Al Reichsmark fu sostituito il Deutsche Mark: i depositi bancari il cui titolo di proprietà era legittimo e certo furono convertiti al tasso 10: 1. In pratica il governo non riconobbe più il valore legale del Reichsmark e ridusse di dieci volte il potere di acquisto dei patrimoni monetari. Ad ogni cittadino furono distribuiti inoltre quaranta nuovi marchi, che costituirono la base per l’incremento dei nuovi patrimoni. Il «vecchio» denaro non valeva più nulla.
La crisi del 1919-1923 e l’episodio del 1948 sono rimasti impressi nella memoria storica dei Tedeschi, che attribuiscono oggi un grande significato al contenimento dell’inflazione da parte della banca di emissione federale, la Deutsche Bundesbank.
Sarebbe però errato ritenere che i fenomeni inflattivi appena descritti siano stati conseguenza di politiche monetarie errate da parte della Reichsbank, la banca centrale della Repubblica di Weimar. Le crisi inflazionistiche tedesche, nella prima metà del secolo, sono piuttosto il risultato di conflitti militari di lunga durata e di amplissime proporzioni, che hanno visto lo Stato tedesco opporsi alla quasi totalità dell’Europa e del mondo. L’inflazione tedesca è il frutto di quel fenomeno che lo storico Paul Kennedy[4] ha esattamente descritto come un caso di over-stretch (over-estensione): l’impegno politico, economico e soprattutto militare della grande potenza tedesca in un’area però troppo ampia per le risorse di cui la Germania disponeva. L’inflazione tedesca non è insomma la conseguenza della debolezza dei banchieri centrali berlinesi o dell’assenza di buoni economisti nel mondo germanico, ma piuttosto dell’operato di pessimi politici, che hanno imposto alla Germania sforzi che non potevano essere finanziati con un’ordinata manovra fiscale.
La stabilità monetaria del dopoguerra nella Repubblica federale – il più ampio fra i due Stati sorti dalla disgregazione del Reich – costituisce il fondamento della forza del marco e dell’economia tedesca occidentale ed è ovviamente, prima di tutto, il risultato del duro lavoro della popolazione, della moderazione salariale della classe operaia, del rigore e dell’indipendenza della politica monetaria della Deutsche Bundesbank ed infine dell’Ordnungspolitik (la politica economica a favore della crescita non inflazionistica, teorizzata da Walter Eucken e dalla scuola di Friburgo ed attuata dai governi federali fin dall’inizio degli anni Cinquanta). Non bisogna però dimenticare i fondamentali fattori esterni che hanno contribuito a mantenere bassa l’inflazione.
L’inserimento della Germania federale nel quadro comunitario ha risolto definitivamente le questioni dei confini con l’Europa occidentale, consentendo di orientare la politica economica verso obiettivi di rigore e di stabilità nel pieno rispetto del mercato, invece che verso quelle finalità di espansione economica forzata, a scopo di riarmo e di riconquista dei territori, che avrebbero reso indispensabili il controllo amministrativo delle risorse e la nazionalizzazione delle industrie.
Il contributo del piano Marshall ha inoltre liberato il bilancio pubblico tedesco da oneri per la ricostruzione che non sarebbero stati sostenibili in un contesto non inflazionistico. L’ingresso della Germania occidentale nella NATO ha infine consentito alla Germania occidentale di accollare l’onere della spesa militare al potente alleato americano. I costi sarebbero risultati altrimenti elevatissimi, dal momento che il paese è collocato al confine con il Patto di Varsavia.
In conclusione, l’integrazione della Germania federale nel blocco occidentale è uno dei fondamenti della crescita non inflazionistica del dopoguerra. Grazie ad essa, il nuovo Stato tedesco occidentale si è liberato delle ragioni fiscali dell’iperinflazione.
2. Estensione ed integrazione sono le due parole chiave delle esperienze storiche opposte della Germania nella prima e nella seconda metà del secolo. Nel primo cinquantennio il tentativo tedesco di allargare i confini, di accrescere il potere nazionale, di imporre un nuovo ordine all’Europa si è tradotto in impulsi inflazionistici: la Germania ha subito una velocità di deprezzamento della moneta superiore alle aree limitrofe. Nel secondo cinquantennio, la partecipazione della Germania occidentale a processi integrativi europei ed atlantici –combinata con il grande potenziale produttivo tedesco e con la presenza di un know-how tecnologico elevato – ha reso possibili politiche economiche orientate alla stabilità monetaria sia da parte dei governi centristi sia da parte di coalizioni a guida socialdemocratica.
A parziale conferma dell’analisi sul ruolo antinflazionistico dell’integrazione della Germania occidentale in Europa, si può ricordare che anche la Germania orientale ha, almeno in parte, beneficiato dei vantaggi che derivano dalla partecipazione ad una lega di Stati, sia pur molto diversa da quella occidentale. La Repubblica democratica ha infatti anch’essa congelato tutti i problemi di confine con l’Europa orientale, che avevano dato origine alla seconda guerra mondiale, ed ha riversato sostanzialmente sull’Unione Sovietica gran parte dell’onere della difesa. Non si è certamente trattato di una scelta libera e consapevole – come nel caso della Repubblica occidentale – ma gli effetti economici in termini relativi sono simili. Le stime sull’inflazione della Germania dell’Est parlano di un tasso del 12% circa all’anno, decisamente superiore a quello tedesco occidentale, ma in ogni caso molto più contenuto dell’indice di tipo «sudamericano» in altri paesi dell’Est (si pensi all’inflazione in Polonia ed in Yugoslavia).
L’area economica tedesca nel suo complesso – nell’era delle due guerre mondiali maggiormente colpita dall’inflazione – gode in epoca di pace dei vantaggi della propria centralità geografica e può trarre beneficio dal tradizionale senso di disciplina e dall’alta diffusione della cultura che contraddistinguono la sua popolazione. La Germania è oggi caratterizzata da una relativa stabilità, in rapporto al tasso di inflazione medio nelle rispettive aree di appartenenza politica delle due Repubbliche.
L’alternativa tra estensione ed integrazione della Germania in Europa – risolta, nel dopoguerra, a favore della seconda opzione, sia per effetto di libere scelte sia in seguito ai nuovi equilibri di potere imposti ai Tedeschi – riacquista attualità a causa della rapida disgregazione del blocco comunista e del riavvicinamento tra Repubblica federale e Repubblica democratica tedesca.
Tale alternativa si pone ovviamente in termini molto diversi da quelli del passato, perfino di quello recente. Il quadro della politica europea è infatti soggetto, in questi mesi, a profonde mutazioni e risulta per molti aspetti del tutto differente sia da quello dell’anteguerra sia da quello degli ultimi anni. Nel primo cinquantennio del secolo la gerarchia degli Stati è stata determinata dalla dimensione degli eserciti; nei decenni seguenti il fattore fondamentale è stato rappresentato dagli arsenali nucleari; nei prossimi anni la chiave degli equilibri europei potrebbe essere la moneta. In un continente dove l’uso della forza militare diviene sempre più improbabile e dove forme di economia di mercato sembrano imporsi rispetto a quella pianificata, creando nuovi legami tra Stati, non è più necessario impiegare le armi per risolvere i problemi dell’interdipendenza e dei rapporti di forza. E’ invece più facile mettere mano al portafoglio e comprare quel che si vuole ottenere. Chi è dotato del potere di battere una moneta «buona» può utilizzarla per reperire risorse in tutto il continente, effettuando investimenti diretti, acquisendo imprese all’estero, emettendo titoli che vengono detenuti dai risparmiatori internazionali.
L’opzione dell’estensione acquista dunque un carattere prettamente monetario. Nel caso della Repubblica federale tale opzione non è più rappresentata da impossibili rivendicazioni territoriali ma da una rapida espansione dell’uso del marco al di fuori dei confini nazionali. E’ possibile riassumere le linee di tale processo espansivo in Europa in tre punti: l’unificazione monetaria tra la Germania occidentale e la Germania orientale, la currency competition nell’area del Sistema monetario europeo ed infine la circolazione parallela del marco in Europa orientale. Ovviamente, a fronte dell’impiego di marchi da parte di famiglie ed imprese non residenti in Germania, deve verificarsi un trasferimento di risorse verso il paese che emette la moneta. I fenomeni monetari hanno infatti sempre una contropartita reale: essa potrebbe riassumersi nel primato economico della Germania in Europa.
Anche l’opzione dell’integrazione della Germania in Europa ha una componente monetaria decisiva, che potrebbe essere così sintetizzata: l’unificazione monetaria tra le due Repubbliche tedesche all’interno dello SME, la realizzazione di un sistema di cambi fissi in Europa, il potenziamento del bilancio comunitario, la nascita di forme di collaborazione monetaria a livello paneuropeo. La contropartita reale di tale processo monetario potrebbe essere descritta nei termini seguenti: il potenziale produttivo della Germania unita è valorizzato dalla piena partecipazione ad un’unione politica dell’Europa; la Germania si colloca al centro di un processo di crescita dell’Europa centrale ed orientale, che coinvolge in modo equilibrato l’intero continente e conferisce nuova dinamica all’intera economia mondiale.
Scopo di queste pagine è di dimostrare che, mentre l’opzione dell’estensione monetaria è tendenzialmente inflazionistica, l’integrazione monetaria preserva la stabilità del valore della moneta. L’unica possibilità di integrare nel sistema politico ed economico occidentale le regioni della Germania orientale senza che si produca un processo inflattivo «pantedesco» consiste dunque nel contemporaneo rafforzamento dell’integrazione europea.
Un ulteriore Leitmotiv di queste pagine è la convinzione che il destino dell’integrazione europea sia ormai saldamente legato agli avvenimenti dell’Europa centrale ed orientale. Il legame è ormai evidente nel settore monetario: una soluzione inflazionistica al problema dell’unione monetaria intratedesca mette in pericolo la stabilità del Sistema monetario europeo, minaccia i risultati raggiunti in dieci anni di progressiva convergenza delle politiche economiche nell’Europa occidentale e compromette ogni sforzo di realizzare l’unione monetaria in Europa.
3. Le autorità monetarie tedesche hanno ben presente il rischio di una over-estensione della loro moneta. In un saggio recentemente comparso sul Bollettino mensile della Banca federale,[5] gli economisti della Bundesbank rilevano, con malcelata preoccupazione, che le riserve delle banche centrali in marchi tedeschi ammontano a 230 miliardi di marchi (settembre 1989). A titolo di paragone, si può ricordare che tale somma corrisponde al 20% dell’aggregato monetario M3 alla fine dello stesso mese e supera, in termini di flussi, l’incremento complessivo dello stesso aggregato tra il 1986 e la prima metà del 1989.
Una parte di tali 230 miliardi (precisamente 48 miliardi) è depositata dalle altre banche centrali presso la Bundesbank ed è perciò sottratta al sistema bancario commerciale. Se però le banche centrali, per difendere le monete nazionali, decidono di intervenire sui mercati dei cambi, di smobilizzare le riserve in marchi presso la Deutsche Bundesbank e di venderle a banche commerciali e ad altri operatori, la massa monetaria tedesca subisce un incremento indesiderato della medesima ampiezza degli interventi. I 48 miliardi di marchi depositati presso la banca federale tedesca – per la grandissima parte dal Federal Reserve System americano – possono dunque affluire sul mercato, aumentare la quantità di moneta e causare inflazione. I rimanenti 180 miliardi di marchi sono già depositati sull’euromercato. Essi costituiscono solamente una parte dei 720 miliardi di marchi che sono in mano ad operatori stranieri. Qualora si verificasse una redistribuzione dei portafogli internazionali, gli effetti sul tasso di cambio del marco sarebbero immediati: un calo del marco nei confronti del dollaro alimenterebbe l’importazione di inflazione.
A parere degli economisti della Bundesbank non mancano dunque già oggi motivi di allarme. Qualora la politica monetaria ed il bilancio pubblico in Germania non fossero più orientati all’obiettivo della stabilità monetaria, i partners esteri della Comunità alienerebbero i marchi in loro possesso e gli effetti inflattivi moltiplicherebbero i disturbi interni. Occorre dunque che la stabilità monetaria rimanga l’obiettivo della politica monetaria tedesca.
Il governo della Repubblica federale ha recentemente offerto all’altra Repubblica tedesca una trattativa sull’unione economica e monetaria intratedesca. La proposta del governo di Bonn è stata in un primo tempo sollecitata dall’opposizione socialdemocratica, ha ricevuto l’appoggio del partito liberale, è stata fatta propria dal ministro del Tesoro Waigel ed è stata infine formulata, al massimo livello, dal cancelliere Kohl al Presidente del Consiglio della DDR Modrow.
La Deutsche Bundesbank non ha nascosto, a seconda dei casi, la propria irritazione, la sorpresa e lo scetticismo nei confronti dell’unione economica e monetaria con l’altra Repubblica tedesca. Le ragioni politiche sembrano però aver avuto la meglio sulle indicazioni tecniche ed hanno impresso all’integrazione monetaria tra le due Germanie un ritmo che il processo di unificazione europea non ha ancora raggiunto. La Germania federale intende assistere con tutte le proprie forze la debole economia della Repubblica democratica. Bonn desidera inoltre evitare che i fenomeni emigratori dalla Prussia, dalla Sassonia e dalla Turingia verso la Germania federale continuino ai ritmi sostenuti degli ultimi mesi. Cinquantamila persone al mese affluiscono nelle regioni occidentali, alla ricerca di benessere e di sicurezza. Il governo di Bonn offre la propria solida moneta a coloro che intendono rimanere nell’odierna DDR. L’unione economica e monetaria costituisce inoltre il primo chiaro passo nella direzione della riunificazione del paese e del superamento dello stato di inferiorità politica in cui la Germania era caduta dopo l’esperienza del nazismo e della seconda guerra mondiale.
Il termine «unificazione monetaria», nel caso delle due Germanie, solleva alcune ambiguità. In realtà si tratta dell’estensione dell’uso del marco tedesco occidentale nelle regioni orientali: la Deutsche Bundesbank verserà denaro a parità fissa alle imprese e ai cittadini della DDR. Le possibili conseguenze di carattere inflazionistico sono ancora oggetto di discussione tra gli esperti. Se gli uni sottolineano che la crescita economica nella DDR consentirà di assorbire ogni pressione sui prezzi, gli altri sono invece del parere che l’estensione del marco occidentale alla Germania orientale sia una concessione di nuovo potere d’acquisto senza contropartite reali.
Preoccupazioni derivano anche dalla politica fiscale. La Germania federale dovrà sostenere sforzi ingenti per ridurre gli squilibri regionali tra i Länder occidentali e le regioni orientali. Mentre la Repubblica federale è un paese sostanzialmente omogeneo, la Germania è divisa da quarant’anni di sviluppo economico differente. L’odierna DDR deve risolvere gravi problemi nel settore delle infrastrutture tecnologiche, deve far fronte ad un impressionante decadimento dei centri storici, è afflitta da gravi problemi ecologici.
La lista dei problemi della Germania non è circoscritta nell’area tedesca. Una volta che il marco sia divenuto la moneta legale della Germania unita, potrebbe essere adottato come valuta di investimento e come strumento di scambio da parte di milioni di famiglie e di imprese al di fuori del paese. Tale eventualità potrebbe verificarsi sia all’interno della Comunità, per il ben noto fenomeno della currency competition in presenza di liberalizzazione valutaria, sia in alcuni paesi dell’Est (Polonia, Cecoslovacchia, Yugoslavia). Non c’è dubbio che, anche in questo caso, l’estensione monetaria potrebbe tramutarsi, presto o tardi, in un fenomeno di over-estensione. Nel caso il marco tedesco circolasse come moneta parallela nell’intera area europea, le autorità monetarie della Repubblica federale potrebbero perdere ogni capacità di controllare una parte importante della massa monetaria nazionale. La stessa definizione concettuale degli obiettivi monetari quantitativi diverrebbe problematica.
Ipotizziamo per un attimo che i fenomeni appena descritti (unificazione monetaria tedesca, diffusione del marco come moneta parallela «europea») si realizzino senza che il processo di integrazione monetaria europea sia contemporaneamente rafforzato. La coesione dello SME verrà senz’altro messa a dura prova. Fino ad oggi le banche centrali comunitarie hanno seguito la politica del tasso di sconto della Deutsche Bundesbank. I tassi di riferimento francesi, belgi, olandesi e, in alcune occasioni, anche quelli italiani ed inglesi hanno subito variazioni del tutto corrispondenti a quelle dei tassi amministrati tedeschi. Le banche centrali comunitarie hanno dunque riconosciuto alla Deutsche Bundesbank un ruolo primario all’interno dello SME. Il marco viene considerato come l’ancora di stabilità di tutta la politica monetaria europea. Il funzionamento dell’accordo di cambio si basa fino ad oggi su due regole fondamentali: la Deutsche Bundesbank svolge, in primo luogo, un’ordinata e rigorosa politica antinflazionistica e gli altri paesi centrali seguono, in secondo luogo, il comportamento delle autorità monetarie tedesche.
Ipotizziamo inoltre che la Deutsche Bundesbank – posta di fronte ad una minaccia inflazionistica proveniente dall’interno del paese – intenda ridurre la liquidità nella Germania unificata ed operi una severa stretta monetaria. I partners europei saranno posti di fronte ad una difficile scelta: potranno seguire la Deutsche Bundesbank ed effettuare una politica restrittiva o dovranno rinunciare alla parità di cambio con il marco. Si può immaginare che i conflitti di interesse metteranno a dura prova la credibilità del regime di cambio e che gli operatori proveranno a saggiarne la forza sul mercato. In assenza di un accordo sui cambi fissi o di una vera e propria moneta unica, le aspettative dei mercati finiranno dunque per orientarsi verso l’instabilità dei cambi nella Comunità e verso più frequenti riallineamenti.
Ma anche nell’ipotesi contraria di una politica accomodante della Deutsche Bundesbank e dello sviluppo di una dinamica inflazionistica tedesca, l’accordo di cambio europeo non potrà sfuggire a tensioni. Le banche centrali europee saranno infatti poste di fronte ad una sorprendente alternativa: mantenere la parità di cambio rispetto al marco, importando l’inflazione dall’area tedesca, oppure consentire alle proprie monete di rivalutarsi sulla valuta della Germania.
In ultima analisi, un sistema europeo di cambio non può avere come punto di riferimento un paese al cui interno si sviluppano pressioni inflazionistiche. Nel caso in cui la banca centrale di tale paese reagisca con una stretta monetaria, influssi deflazionistici si trasmetteranno in tutta l’area europea; nel caso invece in cui la condotta della banca centrale consenta alle spinte inflazionistiche di affermarsi, l’intero sistema monetario sarà interessato da fenomeni di diminuzione del valore della moneta. Lo standard di riferimento del Sistema monetario europeo deve essere rappresentato dalla durevole stabilità del valore della moneta. Fino ad oggi la Germania federale ha assolto bene al proprio compito garantendo nei dieci anni dello SME un tasso di inflazione stabilmente inferiore alla media europea. La Germania unificata potrebbe non essere in grado di raccogliere l’eredità della Repubblica di Bonn.
Disturbi monetari egualmente gravi potrebbero derivare dalla circolazione del marco all’esterno dell’area tedesca. Dal momento che il marco viene emesso dalla Banca federale di Francoforte, l’unica fonte di alimentazione del mercato parallelo di marchi all’esterno della Germania è costituita da uno stabile disavanzo della bilancia dei pagamenti tedesca, che non può non avere conseguenze, nel medio periodo, sul tasso di cambio e sull’inflazione. La credibilità antinflazionistica della Deutsche Bundesbank sarà sottoposta ad un’ulteriore dura prova. La Banca federale emetterà infatti una moneta nazionale a diffusione europea e dovrà far fronte al cosiddetto «dilemma di Triffin». Si dovrà impegnare da un lato ad evitare fenomeni di rarefazione della liquidità interna per effetto dei deficit dei pagamenti e della circolazione esterna della moneta; dovrà impedire al tempo stesso un «DM-shortage», ovvero una permanente scarsità di marchi all’esterno della Repubblica federale, se vorrà evitare che le famiglie e le imprese decidano di attribuire ad un’altra moneta il ruolo di valuta parallela dominante e di conseguenza vendano contemporaneamente i marchi, deprimendo il cambio.
4. L’integrazione monetaria europea offre il quadro per la soluzione dei problemi posti finora in evidenza.
Formuliamo ancora una volta un’ipotesi: l’unificazione monetaria intratedesca e la diffusione del marco nell’Europa orientale come moneta parallela si verificano in parallelo con un sostanziale rafforzamento della Comunità. All’interno della CEE viene infatti stabilito un sistema di cambi fissi irrevocabili; le istituzioni comunitarie vengono inoltre dotate di risorse proprie più consistenti ed i bilanci degli Stati membri sono sottoposti a procedure europee di controllo e coordinamento.
In questo ambito l’unificazione monetaria tedesca non rappresenta che un momento della più ampia unificazione europea, un allargamento dell’area dello SME. In realtà, infatti, i cittadini della Germania dell’Est non ricevono semplicemente marchi occidentali, in cambio dei biglietti orientali: la loro nuova moneta, pur avendo le sembianze delle banconote emesse dalla Bundesbank, è la moneta europea; tale moneta europea, anche se non trova ancora espressione materiale in una banconota o in una moneta in Ecu, è comunque definita dalla presenza di una massa monetaria unica in Europa. I possibili effetti inflazionistici ed i disturbi monetari che derivano dalla concessione di potere d’acquisto uno actu ai cittadini della Germania dell’Est non devono più essere valutati come conseguenza dell’estensione della liquidità tedesca, ma piuttosto, della crescita, percentualmente meno rilevante, della liquidità europea. E’ evidente che i pericoli inflazionistici sono meno acuti se l’intera Europa monetaria e non solamente l’area del marco occidentale, conferisce la nuova moneta alla Germania orientale.
Considerazioni molto simili possono essere effettuate anche per quel che riguarda le politiche fiscali: se il peso finanziario del risanamento della Germania dell’Est – e tendenzialmente di vaste aree dell’Europa centrale ed orientale – è lasciato sulle sole spalle dei Tedeschi occidentali, è probabile che lo Stato tedesco soffra di squilibri finanziari notevoli. Una politica di deficit spending da parte del governo di Bonn, simile a quella attuata dal governo francese nei primi anni della presidenza di François Mitterrand, non è però nell’interesse né dei Tedeschi né degli altri Europei, perché scardinerebbe il meccanismo dei cambi all’interno dello SME, alimenterebbe l’inflazione nel paese che ha l’economia più forte all’interno del mercato unico, renderebbe del tutto impossibile l’attuazione del Piano Delors e bloccherebbe l’intero processo di integrazione monetaria in Europa: per questo motivo occorre un profondo rafforzamento del bilancio comunitario, che consenta, in base al meccanismo delle risorse proprie, di ripartire l’onere finanziario su tutta l’Europa.
Anche i rischi della circolazione parallela del marco al di fuori dell’area tedesca debbono essere affrontati in un ambito europeo. E’ evidente che i cittadini dell’Europa centrale ed orientale desiderano da anni poter viaggiare all’estero, ma non dispongono di una moneta che sia convertibile in altre valute. E’ altrettanto chiaro che le nuove élites politiche ed economiche vogliono legare stabilmente i loro paesi al mercato mondiale e, in primo luogo, alla Comunità europea, ma le imprese non posseggono valuta pregiata e le riserve valutarie sono spesso molto modeste. Il percorso della convertibilità delle monete nazionali è lungo, perché presuppone che l’economia nazionale sia in grado di esportare beni e di assicurare, con il ricavato delle esportazioni, la consistenza delle riserve e la solvibilità del paese. Può dunque essere inevitabile che, in attesa dell’ingresso dei paesi dell’Europa centrale ed orientale in un quadro di integrazione monetaria paneuropea, le monete comunitarie – legate fra loro da un accordo di stabilità dei cambi – ed in particolare il marco tedesco, svolgano il ruolo di monete parallele.
Nella fase in cui la definitiva stabilità dei cambi CEE non è ancora raggiunta – mi riferisco dunque ai prossimi mesi – si dovrà affiancare l’Ecu «privato» al marco come moneta parallela nei paesi dell’Est, concedendo crediti ed aiuti nella moneta europea. In tal modo, come hanno sottolineato Michel Aglietta e Christian de Boisseu su Le Monde,[6] tutte le dodici monete comunitarie saranno adottate come strumento di pagamento o di riserva in Polonia, in Ungheria, in Cecoslovacchia e nelle altre aree economiche che si aprono alla libertà di mercato. Se si assume che parte della circolazione parallela in Ecu non si aggiunga, ma si sostituisca alla circolazione parallela in marchi, la somma degli strumenti monetari occidentali in Europa centrale ed orientale potrà rappresentare una frazione percentuale della liquidità globale comunitaria molto minore rispetto a quanto non rappresenti invece della sola liquidità nazionale tedesca. Occorre dunque pensare, in attesa che sia raggiunta la definitiva stabilità dei cambi nello SME, ad una doppia moneta parallela comunitaria nell’Est europeo: l’Ecu ed il marco tedesco. In tal modo si riducono gli effetti inflazionistici prodotti in Germania dalla circolazione di strumenti monetari nazionali in Europa orientale.
A partire dal primo luglio 1990 il Comitato dei Governatori delle banche centrali della CEE diverrà il nucleo del futuro sistema europeo delle banche centrali. Il Comitato assumerà, sia pur progressivamente, il controllo sugli aggregati monetari, sulla politica dei tassi, sulle strategie di cambio dei partners comunitari. E’ ragionevole pensare che il Comitato – ovvero l’istituzione che esprime la sia pur ancora debole identità monetaria della CEE – dovrà farsi carico di approfondire le tematiche dei rapporti monetari con l’Est europeo: dovrà perciò avere poteri di controllo sull’impiego del marco e dell’Ecu privato, cioè della doppia moneta parallela, e dovrà eventualmente predisporre le misure di politica monetaria che consentano di ampliare o di restringere la liquidità in conseguenza della circolazione delle monete al di fuori della Comunità. In altre parole, il Comitato dei Governatori si dovrà trasformare in un Federal Open Market Committee del marco e dell’Ecu privato.
Il Comitato dovrà inoltre intrattenere rapporti diretti con le autorità monetarie dei paesi dell’Europa orientale ed intraprendere iniziative per conferire direttamente risorse a tali paesi. Un fondo europeo in Ecu per la stabilizzazione monetaria nell’Europa centrale ed orientale – sul modello di iniziative recenti a favore della Polonia – potrebbe costituire un importante contributo comune dell’Europa occidentale.
In una seconda fase – una volta che la riforma delle economie dei paesi dell’Europa centrale ed orientale si sia consolidata – sarà necessario procedere risolutamente verso forme di integrazione monetaria più ampie dell’attuale Comunità europea. La CEE dovrà incoraggiare forme di integrazione monetaria all’Est, fra i paesi che siano disposti a sacrificare, in condizioni di uguaglianza, parte della sovranità monetaria a favore di autorità comuni. In Europa occidentale l’Ecu avrà ormai sostituito, secondo quanto indicato nel Piano Delors, il sistema di cambi fissi ed irrevocabili e le singole monete nazionali. L’Ecu ed una moneta di conto dell’Europa centrale ed orientale potranno essere allora legate da accordi di cambio simili a quelli del Sistema monetario europeo. Le famiglie e le imprese dell’Europa occidentale, come pure quelle dell’Europa centrale ed orientale, disporranno allora di monete convertibili che partecipino ad un unico sistema europeo di stabilità europea dei prezzi e dei cambi.[7]
Alcune parole, infine, sulle prospettive a più lungo termine. La Comunità europea – probabilmente allargata all’Europa centrale ed orientale – avrà la possibilità, se lo vorrà, di trasformarsi negli StatiUniti d’Europa. Essi disporranno di una moneta comune che diverrà uno dei cardini del sistema monetario internazionale. L’alternativa tra estensione ed integrazione e gli stessi pericoli di over-estensione monetaria si presenteranno al livello mondiale ed il presente articolo dovrà inevitabilmente assumere un diverso titolo: «Inflazione europea o moneta mondiale?».
5. Il corso del dibattito sull’unione monetaria intratedesca mostra che, se esistono da un lato la volontà politica di assumere responsabilità al di là dei confini e, dall’altro lato, la disponibilità a sacrificare la sovranità nazionale, i processi di integrazione monetaria sono veloci. Il dibattito sull’integrazione monetaria europea deve ora proseguire con la medesima intensità. L’unione tra i due marchi dell’Ovest e dell’Est, se inserita nel quadro di una rapida unificazione monetaria europea, è la base di una più forte identità monetaria dell’Europa e l’inizio di un processo di integrazione paneuropeo. Se invece gli avvenimenti degli ultimi mesi non sono accompagnati da una crescita dell’Europa monetaria e dal consolidamento delle finanze comunitarie, esiste il pericolo che si manifestino fenomeni inflazionistici strutturali in Germania e che l’Europa intera imbocchi conseguentemente una fase di difficoltà. Il nodo deve essere sciolto dalla conferenza intergovernativa sull’unione economica e monetaria, il cui inizio è previsto al più tardi per la fine del 1990: le decisioni assunte in quella sede potranno chiarire se l’Europa sceglie la via dell’integrazione o dell’inflazione.
Francesco Mazzaferro
[1] Geoffrey Brennan, James Buchanan, «Revenue Implications of Money Creation under Leviathan», in The American Economic Review, Vol. 71, maggio 1981; Stanley Fischer, «Seigniorage and the Case for a National Money», in Journal of Political Economy, Vol. 90 n. 2, 1982.
[2] Harry Runge, Haushaltsfinanzierung durch Notendruck, Berlino, Ducker und Rumblot, 1986.
[3] Andrea Sommariva, Giuseppe Tullio, German Macroeconomic History 1880-1979: A Study on the Effects of Economic Policy on Inflation, Currency, Depreciation and Growth, Macmillan Press, 1987.
[4] Paul Kennedy, The Rise and Fall of the Great Powers: Economic Change and Military Conflict from 1500 to 2000, Unwin Jyman, 1988.
[5] «Die Längerfristige Entwicklung der Weltwährungsreserven», in Monatsberichte der Deutschen Bundesbank, gennaio 1990.
[6] Michel Aglietta, Christian de Boisseu, «Le rouble, le mark et l’écu», in Le Monde, 19.12.1989.
[7] Alfonso Jozzo, «Perestrojka a passo di rublo», in Il Sole 24 Ore, 14.11.1989.
Anno XXXII, 1990, Numero 1 - Pagina 33
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