Anno XXXIV, 1992, Numero 2 - Pagina 124
ALCUNE RIFLESSIONI SULLA STRATEGIA PER LA FEDERAZIONE EUROPEA
La decisione presa a Maastricht di fissare scadenze precise per la creazione dell’Unione economico-monetaria è lo sbocco di un lungo periodo di compromessi, dichiarazioni d’intenti, proposte, lotte politiche condotte da tutte quelle forze che, spinte a confrontarsi con l’evoluzione del modo di produzione e dei rapporti internazionali, sono state costrette a porsi il problema dell’unificazione europea. Ognuna di queste forze – i governi, le istituzioni comunitarie, le forze politiche e sociali, l’avanguardia federalista – ha avuto un ruolo diverso, e ognuno l’ha giocato secondo la propria logica.
Il processo per arrivare alla decisione operativa di trasferire la sovranità monetaria è durato più di vent’anni, e può essere utile ripercorrere i punti essenziali di un’analisi teorica – e delle conseguenti linee d’azione – compiuta da Mario Albertini, proprio vent’anni fa, su questa stessa rivista.[1] Questo esame, da una parte, ci permette di capire la correttezza delle previsioni fatte allora, e, dall’altra, ci fornisce indicazioni strategiche per proseguire la nostra lotta fino al raggiungimento dell’obiettivo, la Federazione europea.
In quell’articolo Albertini scriveva: «...non si può progettare l’unificazione monetaria europea senza progettare la creazione di uno Stato federale europeo».[2] [...] «In termini formali, l’aspetto politico del problema è semplice. L’unificazione monetaria è un problema tecnico che può essere risolto da uno Stato europeo; e che, per definizione, uno Stato federale europeo risolverebbe senz’altro. Anche il problema della fondazione di questo Stato nuovo è semplice. Nel quadro democratico, per fare un governo si indicono delle elezioni. Per fare uno Stato, bisogna convocare un’Assemblea costituente. Ma il pensiero comincia a cadere nel vuoto quando si usa l’espressione ‘unione politica’ invece dell’espressione ‘Stato federale’; e, per il processo di fondazione, invece delle espressioni ‘Assemblea costituente’ e ‘lotta per convocarla’, qualche espressione che cerca di nominare l’impossibile, la trasformazione graduale di un gruppo di Stati in uno Stato nuovo, sia pure federale.
Gli iniziati possono anche dare ad intendere che sanno di che cosa si tratta. L’opinione pubblica, che non può tirare a indovinare, resta inerte. Non ha torto. Con discorsi di questo genere nominano le esigenze, non le soluzioni; non si propongono scelte, ci si rimette al buon Dio. Ed è curioso che su questa base, che concettualmente è quella della ‘cattiva infinità’ ... alcuni pretendano di liquidare come ‘dottrinarismo dei mistici dell’Europa’ il realismo di coloro che dicono pane al pane e vino al vino.
Bisogna dunque, per cominciare, tener fermi gli aspetti formali del problema, contro la reticenza della classe politica e le sofisticazioni della classe dirigente. E non importa se questi aspetti formali sono di semplice buonsenso, sfiorano addirittura la banalità. Il problema ha questa natura. Questo è il punto di partenza per affrontarlo. Naturalmente, bisogna anche tener conto del fatto che, in sede operativa, nessuno riconosce questa necessità. Ed è proprio a questo riguardo che l’impegno per l’unione monetaria acquista rilievo politico. Il punto decisivo mi sembra questo: bisogna accettare, e sostenere, contro la logica, una operazione graduale di unificazione monetaria precedente, e non seguente, la creazione di un potere politico europeo, perché i protagonisti del processo per quanto riguarda l’esecuzione (l’iniziativa... non è affar loro) non si comportano secondo criteri logici.
Ovviamente si tratta di un espediente. Ma ci sono espedienti utili. Forse ci sono espedienti che possono spingere le forze politiche su un piano inclinato. Ed è con espedienti di questo genere che si deve cercare di risolvere l’aspetto non formale del problema della creazione del potere europeo. Se si riesce ad impegnare qualcuno per qualcosa (l’unione monetaria) che implica un presupposto (il potere politico), può accadere che costui finisca per trovarsi, suo malgrado, nella necessità di crearlo. L’ipotesi va dunque presa in considerazione. In pratica, si tratta di accertare: a) se la situazione storica presenta la possibilità di creare uno Stato federale europeo, b) se la situazione politica presenta qualche punto scivoloso per spingere la classe dirigente su un piano inclinato dalle nazioni all’Europa anche sul terreno politico-istituzionale.
[...] L’unione monetaria è uno dei punti scivolosi del piano inclinato dalle nazioni all’Europa. Per valutarne l’efficacia sotto questo aspetto, converrà ricordare che si tratta di una scelta imposta dal grado di sviluppo dell’integrazione economica, che è giunta ormai ad un punto nel quale non può né consolidare i risultati già acquisiti, né avanzare, senza affrontare il problema monetario. Si tratta, in sostanza, di una scelta imposta dai fatti, e non revocabile, a meno di modificarli...
In effetti il quadro è più vasto. Il grado di sviluppo dell’integrazione europea obbliga i governi ad affrontare non solo il problema monetario, ma anche altri problemi economici, in ultima istanza quello stesso dell’unificazione delle politiche economiche (senza considerare i problemi politici collegati, direttamente o indirettamente, a questo sviluppo economico). Ma su questo terreno, a causa del limite costituito dalla sovranità ancora intatta degli Stati (ossia dal fatto che la formazione della volontà pubblica è ancora confinata nel quadro nazionale), ciò che si potrà ottenere, se le circostanze saranno favorevoli, non avrà comunque il carattere di un fatto nuovo, europeo, ma solo quello di una maggiore o minore collaborazione internazionale.
Sul terreno monetario, invece, si possono fare dei passi avanti di natura istituzionale, tangibile, europea...».[3]
Se questa è l’analisi teorico-strategica, il problema da affrontare è il ruolo delle forze sul campo, dei soggetti che, da una parte, sono spinti ad agire perché la realtà stessa lo richiede, e, dall’altra, sono disposti ad agire, tenendo conto del fatto che in questa «disposizione» entrano in gioco sia fattori legati alla volontà (scelte di valore, interesse, ecc.) sia condizionamenti che derivano dal ruolo che queste forze normalmente svolgono.
«Se si tratta di rinuncia alla sovranità nazionale, non si può contare sull’azione normale della classe politica, cioè sulle leaderships nazionali... [Esse sono coscienti dell’alternativa storica a cui si trova di fronte l’Europa, ma a questa stessa classe politica] nulla sembra più irrealizzabile, più improponibile, del mezzo per creare uno Stato europeo, la Costituente europea. Questa cecità non dipende solo dalle forme di irresponsabilità morale e intellettuale... ma dipende anche, e soprattutto, ... dalla contraddizione tra la natura della decisione di convocare la Costituente europea e la struttura del processo normale di produzione delle decisioni politiche...
La decisione di convocare una Costituente europea può essere presa, ovviamente, solo a livello internazionale, cioè in un quadro dove non si forma una volontà pubblica, ma solo il compromesso fra le espressioni di vertice di diverse volontà pubbliche. Giuridicamente si tratta di una decisione possibile a patto che si formi, in un numero sufficiente di paesi, e nello stesso tempo, la volontà di prenderla. Ma con la politica normale, e persino con la politica rivoluzionaria qualora essa miri alla conquista del potere nello Stato, è non solo difficile, ma addirittura teoricamente impossibile, giungere ad una situazione di questo genere.
Le decisioni dipendono dal potere, il potere dallo scontro delle forze, lo scontro delle forze dal quadro della lotta. Da ciò discende, rispetto alla decisione di convocare una Costituente nell’ambito di diversi paesi (diversi quadri di lotta): a) che le forze interessate non avrebbero alcuna possibilità, se non casuale, di giungere ad una maggioranza per la Costituente nello stesso tempo; b) che esse, invero, non potrebbero nemmeno iniziare la lotta per questa maggioranza perché non si possono dividere le forze in campo con la proposta di una decisione che non sarebbe una decisione (uno Stato solo non può convocare la Costituente europea); c) che in ogni caso il potere normale – che si acquista, si perde o si mantiene solo in un quadro di lotta, uno Stato – e la decisione di convocare una Costituente in diversi paesi – che corrisponde a quella di cambiare proprio il quadro della lotta – sono incompatibili, perché il potere normale si conquista solo con la mobilitazione delle possibilità storico-sociali di sopravvivenza di un quadro di lotta, quali che siano, e non con il contrario. Sta in ciò la difficoltà da superare per creare la Federazione europea. Gli Stati possono giungere a qualunque livello di viltà o di follia, ma non possono essere superati dalla politica normale, che, per definizione, non è che gestione o trasformazione dello Stato... [Dunque] non si può contare, per l’avvio di un’azione risolutiva, sull’azione normale della classe politica. C’è una possibilità. Si può contare sull’azione di una leadership europea occasionale, se esiste, nel piano inclinato verso l’Europa, un punto scivoloso verso una situazione che si potrebbe chiamare di ‘Costituente strisciante’».[4]
Ma la leadership occasionale può attivarsi solo se le circostanze e la volontà politica di forze non compromesse con il potere riescono a far emergere o a identificare una situazione in cui sia possibile, come ha scritto Monnet, «un’azione concreta e risoluta, su un punto limitato ma decisivo, che provochi un cambiamento fondamentale su questo punto, e modifichi progressivamente i termini stessi dell’insieme dei problemi».[5]
La leadership occasionale si è manifestata ai tempi della discussione sulla CED, con la posizione italiana, e in particolare di De Gasperi, (che coincideva con quella assunta dal Movimento federalista europeo), mirante a dar vita, insieme all’esercito europeo, a una Comunità europea democratica attraverso la creazione di un’Assemblea rappresentativa. La battaglia per la CED fu perduta, ma le riflessioni e l’azione dei federalisti sono proseguite nella direzione indicata da Monnet.
Al Vertice dell’Aja del dicembre 1969 i governi riconobbero la necessità dell’unione monetaria e, sulla base di ciò, Albertini scriveva: «...c’è l’impegno dei governi per l’unione monetaria. Sappiamo che mette in gioco la sovranità nazionale, ma sappiamo anche che non impegna le leaderships nazionali a superarla davvero. Tuttavia, con le leaderships nazionali impegnate su questo fronte, e col favore delle circostanze, una leadership europea occasionale sta agendo su un ‘punto limitato’ che dovrebbe essere decisivo, perché riguarda la fonte stessa della formazione della volontà politica democratica.
Questo punto è l’elezione diretta unilaterale dei delegati al Parlamento europeo. Da qualche anno gli europeisti più seri e i federalisti più responsabili, si battono per questo obiettivo...
Con una elezione europea si formerebbe una volontà pubblica nel quadro europeo: un fatto, che lo si voglia o no, virtualmente costituzionale».[6]
Nel corso dei primi anni ‘70, dunque, la strategia dei federalisti si è concentrata su questo «punto decisivo» e ha vinto: il Parlamento europeo eletto direttamente dai cittadini europei, da una parte è diventato il simbolo della contraddizione in cui si dibatte tuttora l’Europa (è l’unico organo democratico della Comunità, ma rimane escluso, anche se dopo Maastricht sono stati fatti alcuni passi avanti, dal processo di formazione della volontà politica), ma d’altra parte è potenzialmente in grado di assumere il ruolo costituente che solo può essere svolto dai cittadini, o dai loro rappresentanti eletti democraticamente.
Naturalmente, raggiungendo questo traguardo, è stata vinta una battaglia, non la guerra, ma ogni passo avanti cambia i termini della «questione europea» e comunque permette di identificare le azioni successive.
***
Dobbiamo ora chiederci se le analisi che abbiamo ripercorso ci forniscono delle indicazioni teoriche e strategiche per agire nella nuova situazione che si è venuta a creare dopo Maastricht.
Nel fare ciò non possiamo non tener conto del fatto che, se nel passato si poteva accettare un lento avanzamento verso l’obiettivo all’interno di un quadro internazionale relativamente stabile, oggi il processo di unificazione europea è condizionato e minacciato da fattori di instabilità che chiamano in causa il fattore tempo. La crisi storica dello Stato nazionale si manifesta attraverso fenomeni sempre più gravi e dilaganti di disgregazione, razzismo e xenofobia, la Comunità deve affrontare i problemi connessi al suo allargamento, che pone con forza l’Europa di fronte all’alternativa fra rafforzamento e diluizione in una grande area di libero scambio. Tutto ciò richiede che il processo di unificazione europea venga accelerato, perché non si arresti il cammino verso la creazione di una Federazione europea che possa assumere le responsabilità che le competono.
Tenendo conto di ciò, si possono considerare alcuni dati di fatto comprensibili e interpretabili sulla base dell’analisi di Albertini esposta precedentemente, si possono identificare le forze in gioco nel ruolo che hanno svolto e che devono ancora svolgere e si può individuare una possibile strategia per i federalisti.
I dati di fatto sono le complessive decisioni prese a Maastricht, e soprattutto le precise scadenze fissate nel Trattato relative all’Unione economico-monetaria. Se sarà superato l’ultimo ostacolo della ratifica, gli Stati avranno preso la decisione più avanzata che, nella loro ottica (un’ottica che tende a limitare più che ad accentuare la cessione di sovranità) poteva fin qui essere presa. Ma cedendo parte della loro sovranità in campo monetario, essi avranno aperto la strada alle necessarie decisioni più avanzate e avranno attivato quel «piano inclinato» che costringerà le forze sul campo a porsi il problema politico della creazione di un potere federale europeo.
L’esempio della Francia è emblematico: le decisioni prese a Maastricht pongono alla Francia un problema di revisione costituzionale, perché la Costituzione francese, che prevede solo la possibilità di una limitazione di sovranità (per cui i poteri trasmessi a un organo europeo vengono gestiti col criterio dell’unanimità), accolga il principio del trasferimento di sovranità (per cui i poteri stessi vengono gestiti col criterio della maggioranza). L’importanza del dibattito apertosi in Francia su questo problema è legata al fatto che esso mette l’accento sul punto cruciale dell’alternativa federalista, e che su questo punto si scatenerà la lotta politica, creando schieramenti, trasformando equilibri e mettendo a confronto le forze politiche non più sul terreno della politica interna, ma sul terreno europeo. La rilevanza della fase di revisione costituzionale risulta ancora maggiore se si riflette sul fatto che essa ha aperto un dibattito sul federalismo che ha fatto emergere addirittura la possibilità che la Francia accetti il trasferimento di sovranità quando è in corso la formazione di una «nazione di nazioni», ossia di uno Stato federale. Un simile dibattito non può non influenzare anche gli altri Stati europei.
All’interno della logica del piano inclinato, è possibile oggi identificare una leadership occasionale che si faccia carico di un avanzamento verso l’obiettivo finale? In realtà sembrava che Mitterrand potesse assumere questo compito quando, in un discorso tenuto al Parlamento europeo il 24 maggio 1985 (quindi prima di Maastricht), ha proclamato la necessità che il Parlamento stesso svolgesse un ruolo costituente. Ma non è seguita alcuna iniziativa concreta in quella direzione (a differenza di quanto è avvenuto in Italia con il referendum del 1989).
Ciò che forse possiamo sperare oggi è che la leadership occasionale europea emerga dal rafforzamento della obiettiva convergenza di interessi di Francia e Germania, in un quadro europeo mutato in seguito alla riunificazione tedesca e alla disgregazione dell’Est. Solo ancorando la Germania all’Europa, infatti, si può fermare sul nascere la possibilità di un ritorno al nazionalismo tedesco e all’assunzione, da parte della Germania, di un ruolo dominante in Europa, sia attraverso il marco, sia attraverso la creazione di rapporti privilegiati con alcune aree dell’Est europeo. Che ciò non avvenga è certamente interesse di tutti gli Stati europei, ma soprattutto della Francia, che ha sempre visto nello Stato tedesco un potenziale antagonista, e della Germania stessa, che teme di dover assumere responsabilità europee e mondiali a cui non potrebbe far fronte (il fatto che Kohl abbia sempre con forza indicato nella costruzione europea l’obiettivo della sua politica ne è la dimostrazione).
Ma la leadership occasionale è solo uno degli elementi in gioco, e da essa non ci si possono aspettare, per le ragioni indicate da Albertini, progetti decisivi autonomi. Quando essa si è manifestata, ha agito su un punto strategico proposto dai federalisti attraverso le loro analisi e le loro azioni. Ed anche nella situazione attuale il ruolo dei federalisti è essenziale: la loro logica, la logica costituente, deve imporsi. Essa si basa su un’analisi estremamente realista del processo in corso: moneta, economia e governo sono tre aspetti inscindibili di esso e non possono non avere come sbocco uno Stato basato su una costituzione democratica, ossia elaborata dai rappresentanti del popolo.
Dopo Maastricht e dopo gli sconvolgimenti che sono seguiti al crollo dell’Unione Sovietica, l’obiettivo strategico della nostra lotta deve dunque coincidere con l’obiettivo finale, l’attribuzione del mandato costituente al Parlamento europeo. Non sono più pensabili tappe intermedie, perché, essendo in questione il trasferimento di sovranità in campo monetario, è posto in modo ormai definitivo il problema della costruzione di uno Stato nuovo, e perché il pericolo di un disordine dilagante richiede che l’Europa diventi un soggetto attivo nella politica internazionale acquisendo strumenti democratici di governo.
Se compito dei governi è prendere la decisione operativa di attribuire il mandato costituente al Parlamento europeo, è certamente importante che entrino in gioco anche quei soggetti politici, istituzionali e non, che possono influenzare quella decisione: il Parlamento europeo, innanzitutto, che deve rivendicare il ruolo costituente, i parlamenti nazionali, la Commissione (il cui Presidente Delors si è già mosso nella direzione giusta quando, pur prigioniero dell’ottica intergovernativa, ha chiesto di anticipare la Conferenza, fissata per il 1996, per affrontare le riforme istituzionali che permetterebbero all’Europa di gestire il problema dell’allargamento), i partiti politici e le forze sociali, attraverso la creazione di schieramenti europei e una campagna elettorale, per le elezioni europee del 1994, incentrata sui temi costituenti.
Un ruolo indispensabile, comunque, spetta ai federalisti. Essi hanno sempre avuto il compito di indicare la risposta alla crisi dello Stato nazionale, alla crisi di un quadro di potere ormai incapace di gestire le nuove forme di convivenza create dall’evoluzione del modo di produzione e dei rapporti internazionali. Ma non si sono mai limitati né a testimoniare un ideale, né a contare soltanto su una progressiva e inevitabile evoluzione autonoma della realtà verso la realizzazione dell’ideale, né a dare suggerimenti ai gestori dei poteri esistenti, contando solo sulla speranza di essere ascoltati. I federalisti si sono sempre fatti carico di un ruolo di iniziativa attraverso la ricerca di strategie che, a partire da una certa situazione, permettessero di schierare il maggior numero di forze possibile sul fronte della lotta per la Federazione europea.
Nelle diverse fasi di questa lotta si sono alternate azioni di denuncia radicale, legata alla mobilitazione per rivendicare direttamente l’obiettivo finale, ad azioni miranti a raggiungere obiettivi più limitati, ma decisivi per compiere dei passi avanti. In questa capacità di mutare strategia a seconda del momento storico-politico, mantenendo stabile l’obiettivo finale, consiste il realismo dei rivoluzionari. Essi non devono temere momenti di oscuro lavoro sotterraneo, non devono privilegiare l’«apparire» nei confronti dell’«essere», devono esercitare l’infinita pazienza e la tenace fermezza di chi vuole sostituire un nuovo ordine al vecchio.
Nicoletta Mosconi
[1] Mario Albertini, «Le problème monétaire et le problème politique européen», in Le Federaliste, XIV (1972), pp. 77-108.
[2] Op. cit., p. 91.
[3] Op. cit., pp. 92 segg.
[4] Op. cit., pp. 101 segg.
[5] Op. cit., p.105.
[6] Op. cit., pp. 106 segg.
Anno XXXIV, 1992, Numero 2 - Pagina 115
L’ONU E IL NUOVO ORDINE MONDIALE
Il vecchio ordine mondiale è scomparso e un nuovo ordine sta per emergere: il mondo si trova di fronte a scelte cruciali. L’ordine impostosi dopo il 1945 era condizionato dalla guerra fredda fra i due sistemi di potere guidati da USA e URSS, il secondo dei quali era caratterizzato da posizioni revisioniste e contrarie allo status quo. L’instabile mondo bipolare era il quadro all’interno del quale funzionava pressoché l’intero sistema internazionale. Ma la fine della guerra fredda (1988-91) e il collasso del sistema di potere sovietico ha travolto all’improvviso i criteri su cui si basava il vecchio ordine.
Ciò ha significato un cambiamento del sistema di proporzioni storiche, e, come sempre avviene, ha portato vantaggi per qualcuno e svantaggi per altri. Ma l’attuale sistema internazionale ha caratteristiche di globalità mai riscontrate in precedenza, sia per quanto riguarda il numero dei suoi membri, sia per quanto riguarda il grado di interdipendenza fra di essi. Qualsiasi valutazione della natura dell’ordine mondiale emergente deve basarsi su una visione olistica dell’intero sistema internazionale. A tal fine può essere utile cominciare ad enumerare gli elementi chiave del cambiamento avvenuto all’interno del vecchio ordine, prima di considerare le sfide a cui il mondo si trova di fronte e il posto che occupano le Nazioni Unite nel nuovo ordine.
Gli elementi del cambiamento.
Come già detto, la fine della guerra fredda rappresenta il cambiamento più significativo nel vecchio ordine, che è certamente positivo, ma ha creato varie incertezze. I paesi appartenenti ai due blocchi sono rimasti senza i vecchi amici ed alleati del cui appoggio non possono più essere sicuri. L’incertezza maggiore, paradossalmente, riguarda i paesi non allineati, che non possono più contare sull’appoggio di una delle due
superpotenze in caso di ostilità dell’altra, sia a livello diplomatico che
militare. Ora ciascun paese deve affrontare la sfida ed ha l’opportunità di cercarsi i propri amici in ogni parte del mondo, contando sull’interesse reciproco.
Il secondo cambiamento significativo è il collasso del sistema di potere che faceva capo all’Unione Sovietica. Ciò ha significato non soltanto la scomparsa del secondo sistema di potere più importante nel mondo, creando un vuoto militare e ideologico in una vasta area, ma ha anche liberato molti paesi in Europa e altrove dal dominio militare e ideologico. Ciò ha inoltre significato che una popolazione di centinaia di milioni fino ad ora esclusa dall’economia di mercato ora vuole farne parte, entrando in competizione con il mondo sottosviluppato per ottenere capitali scarsi, tecnologia e servizi.
Il terzo cambiamento, che deriva dai primi due, è l’emergere degli Stati Uniti come potenza dominante, che ha dato luogo a una situazione definita unipolare.[1] Questo sviluppo può essere considerato positivamente nella misura in cui essi sostengono i valori di libertà e democrazia, ma diventa inaccettabile quando gli USA, in nome della libertà, mirano ai propri obiettivi strategici o strumentalizzano a tal fine le istituzioni globali.
Il quarto importante cambiamento riguarda l’affermarsi di Germania e Giappone come centri di potere economico.[2] E’ nello stesso tempo un paradosso e una cosa straordinaria che le due potenze sconfitte, alle quali, dopo la seconda guerra mondiale, è stata negata la facoltà di dotarsi di un esercito, stiano ora minacciando la pace dei loro ex nemici attraverso il potere economico. Dato che l’influenza internazionale della Germania è legata soprattutto alla sua appartenenza alla Comunità europea, la quale, dopo le decisioni prese al Vertice di Maastricht, sta trasformandosi in Unione economica e monetaria e in Unione politica, è necessario trovare un modo perché i nuovi centri di potere emergenti a livello mondiale possano assumersi maggiori responsabilità nell’ambito delle organizzazioni internazionali.
Il quinto cambiamento riguarda una più netta contrapposizione fra Nord e Sud del mondo. Nel vecchio ordine mondiale l’Unione Sovietica era considerata come la potenza disposta a sostenere gli scopi e le aspirazioni dei paesi del Sud, anche se il suo aiuto era molto selettivo. In seguito al collasso del sistema di potere che vi faceva capo, essa, e i paesi dell’Europa orientale, sono spinti a rivolgersi all’Occidente alla ricerca di massicci aiuti, ed hanno già dato prova in modo abbastanza evidente di una certa compiacenza nei confronti delle pretese occidentali riguardo a problemi critici a livello globale. La loro dipendenza economica dall’Ovest, così come i legami culturali e geografici, pongono tutto il Nord in una posizione di più profonda contrapposizione con il Sud, a cui, con l’andar del tempo, saranno negati quegli aiuti che ora sono destinati all’Est.
Le sfide per avviarsi verso il nuovo ordine mondiale.
Alla luce dei cambiamenti suddetti, è necessario capire quali sono le sfide a cui il mondo si trova di fronte.
La prima riguarda il problema della sicurezza. Da questo punto di vista il mondo nel suo complesso presenta situazioni diverse: alcuni sono più sicuri di altri. Nonostante la fine della guerra fredda e lo smantellamento di parte delle armi strategiche e tattiche, non è scomparsa l’attitudine a ragionare sulla base della contrapposizione fra blocchi, come dimostra la NATO. Non esiste un meccanismo assolutamente sicuro di controllo della diffusione delle armi nucleari, alle quali alcuni Stati hanno libero accesso, ed è particolarmente minacciata la sicurezza degli Stati piccoli e deboli.
La seconda sfida riguarda il problema dello sviluppo. Malgrado i grandi progressi nel campo della scienza e della tecnologia, permangono vergognose e umilianti differenze per quanto riguarda gli standards di vita nelle varie parti del mondo. Nei paesi in via di sviluppo più di un miliardo di persone vive in povertà, cioè contando, per la sopravvivenza, su meno di 370 dollari all’anno (quasi la metà di questi poveri vive nell’Asia meridionale). L’aspettativa di vita nell’Africa sub-sahariana è di 50 anni, contro gli 80 del Giappone. La mortalità infantile sotto i cinque anni nell’Asia meridionale supera il 170 per mille, mentre in Svezia è inferiore al 10. Più di 110 milioni di bambini nei paesi in via di sviluppo sono esclusi dall’educazione primaria, mentre nei paesi industrializzati l’iscrizione generalizzata alla scuola primaria è obbligatoria.[3] In Mozambico, una popolazione di 15 milioni e trecentomila persone vive con un reddito pro capite di 80 dollari, mentre la Svizzera, con una popolazione di sei milioni e seicentomila persone, ha un reddito pro capite di 29.880 dollari.[4]
Ci sono altre sfide, che riguardano la democrazia e i diritti umani, l’ambiente, il traffico di droga, il terrorismo, la maggior parte delle quali ha carattere transnazionale. Questi problemi derivano dalla povertà, contribuiscono all’insicurezza nei rapporti fra gli Stati e richiedono soluzioni globali.
Una popolazione di 400 milioni di persone in Unione Sovietica e nell’Europa dell’Est sta lentamente avviandosi verso la democrazia, ma i diritti umani e la democrazia sono ancora negati a più di metà della popolazione dei paesi in via di sviluppo. Il degrado ambientale è causato sia dalla negligenza del Nord del mondo che dalla povertà del Sud, ma per esso questa parte diseredata del mondo deve pagare un prezzo più alto. Il traffico di droga è controllato nel Sud da regimi feudali, autoritari e militaristi legati alla potente mafia del Nord. Il terrorismo, infine, è un sottoprodotto della povertà e della negazione dei diritti umani. Tutti questi problemi possono essere risolti solo attraverso istituzioni multilaterali, sia a livello globale che a livello regionale. In questo contesto dobbiamo esaminare il ruolo delle Nazioni Unite.
La riforma dell’ONU.
Trentasei eminenti leaders e uomini di cultura si sono fatti interpreti delle aspirazioni dell’umanità quando, nel corso della Stockholm Initiative on Global Security and Governance (Iniziativa di Stoccolma sulla sicurezza e il governo globali), tenutasi il 22 aprile 1991, affermarono: «Il sistema internazionale basato sulle Nazioni Unite è stato creato alla fine di una guerra mondiale, quando la gente percepiva chiaramente la necessità e l’opportunità di creare un sistema che potesse garantire la pace e la sicurezza... Tuttavia, oggi le Nazioni Unite non sono abbastanza forti per affrontare i compiti a cui si trovano di fronte... Le Nazioni Unite devono essere adeguate alla nuova situazione e la loro organizzazione deve essere trasformata».[5]
Il sistema internazionale odierno consiste di 166 Stati membri dell’ONU e di circa dieci che non ne fanno parte.[6] Esso comprende quasi il mondo intero, con differenze di religione, di cultura e di identità etnica. Se vogliamo che tutti possano vivere felici, è necessario un qualche «ordine» che garantisca gli interessi globali e non quelli parziali. Un tale ordine, che possiamo chiamare il nuovo ordine mondiale, si può affermare solo attraverso la centralità dell’ONU riformata e rafforzata, e le riforme prioritarie riguardano le aree seguenti.
La sicurezza.
1. Una forza di sicurezza. Fino ad ora il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha deciso un intervento coercitivo in due occasioni: il 7 1uglio 1950, durante la guerra di Corea, e il 29 novembre 1990, in seguito all’aggressione irachena contro il Kuwait. In ambedue le occasioni, anche se l’intervento è stato fatto a nome delle Nazioni Unite, queste ne hanno perso il controllo o l’influenza nel corso delle operazioni militari. In ambedue i casi l’intervento ha finito col sottostare ai fini strategici dello Stato, o degli Stati, alla guida dell’alleanza militare, fini che divergevano da quelli propugnati dagli altri membri del Consiglio di Sicurezza, e ciò ha provocato divisioni all’interno dell’ONU. In ambedue i casi gli aggressori hanno potuto identificare come avversario un solo Stato, gli USA, piuttosto che la comunità internazionale nel suo complesso.[7]
La guerra di Corea e la guerra del Golfo potrebbero non essere necessariamente considerate esempi validi anche per il futuro, a meno che non siano in gioco interessi vitali di una superpotenza, anche perché l’impegno finanziario necessario a sostenere tali operazioni crea delle incertezze. Per questo è necessario che questi interventi siano regolati sulla base di principi duraturi. Gli Stati membri devono essere incoraggiati a firmare accordi speciali con il Consiglio di Sicurezza, in base all’articolo 43 della Carta dell’ONU, e, sulla base dell’articolo 47, deve essere attivato il «Comitato di Stato maggiore». E’ necessario pensare ad innovazioni per quanto riguarda l’addestramento, il coordinamento e la struttura di comando della forza di sicurezza, ed è indispensabile assicurarne il supporto finanziario.[8]
2. La Corte internazionale di giustizia. Dispiace constatare che la Corte internazionale di giustizia non è stata adeguatamente utilizzata per prevenire i conflitti. L’Assemblea generale dell’ONU, sulla base della risoluzione del 17 novembre 1989 relativa alla Decade of International Law, adottata su iniziativa del Movimento dei paesi non allineati, ha il compito di promuovere l’adesione alla giurisdizione obbligatoria della Corte, ma fino ad ora non più di 40 paesi hanno accettato questa giurisdizione. Secondo il parere del giudice Nagendra Singh, che è stato Presidente della Corte mondiale, bandire l’uso della forza senza rendere coercitiva la risoluzione – preferibilmente attraverso strumenti giudiziari – è come mettere il carro davanti ai buoi: non ha senso dichiarare la guerra fuori legge e nello stesso tempo mantenere un sistema di risoluzione delle dispute basato sulla buona volontà.[9] L’opinione pubblica mondiale dovrebbe mobilitarsi per chiedere l’estensione della giurisdizione obbligatoria della Corte, e nel frattempo si dovrebbe chiedere agli Stati fra cui sorgano dispute che ricorrano più spesso al parere consultivo della Corte.
3. Il Consiglio di Sicurezza. L’attuale Consiglio di Sicurezza è stato costituito in un contesto storico del tutto diverso dall’attuale: due delle potenze uscite sconfitte dal conflitto mondiale sono diventate economicamente più potenti di qualcuno dei vincitori; gli Stati membri delle Nazioni Unite sono passati da 50 a 166;[10] di esse fanno parte paesi la cui popolazione costituisce quasi un quinto dell’intera umanità, ma il cui peso nelle strutture decisionali è uguale a quello del più piccolo degli Stati; ci sono Stati membri che controllano più del 25% delle risorse strategiche (come il petrolio) del mondo intero.
Nel corso della riunione a livello ministeriale dei paesi non allineati, tenutasi ad Accra nel settembre dell’anno scorso, è stato chiesto l’aumento del numero degli Stati membri del Consiglio di Sicurezza. Ma oltre a ciò, e oltre alla necessità di rivedere sia i criteri di scelta dei membri permanenti, sia il loro potere di veto, è necessario anche estendere le funzioni del Consiglio stesso. Il concetto di sicurezza è diventato più esteso e comprende anche i problemi dello sviluppo e dell’ambiente. Per questo il Consiglio di Sicurezza deve occuparsi delle minacce alla sicurezza del genere umano nel senso più ampio del termine, tenendo conto dei punti di vista espressi dalle varie Commissioni Brandt, Olof Palme, Brundtland e dalla Commissione sul Sud del mondo.
4. La Corte penale internazionale. In ambienti giuridici internazionali e all’interno di alcune Organizzazioni non governative (NGOs) è in corso un dibattito sulla necessità di costituire una Corte penale internazionale al fine di perseguire individui imputati di crimini contro l’umanità, come il genocidio, la tortura, l’apartheid, i reati di droga, il traffico di donne e bambini, la pirateria, i dirottamenti aerei, la presa di ostaggi, ecc. Le opinioni ufficiali più diffuse in questo campo sono decisamente molto arretrate rispetto alle opinioni non ufficiali più avanzate. Tuttavia questa è una questione importante che merita una seria considerazione nel contesto della costruzione di un sistema di sicurezza migliore.
5. La Camera dei popoli. Nel corso degli anni, un grande numero di Organizzazioni non governative ha proposto la creazione, nell’ambito della struttura «legislativa» dell’ONU, di una Camera dei popoli come seconda Camera, accanto a quella degli Stati rappresentati nell’Assemblea generale, per dar voce alle aspirazioni dei popoli di tutto il mondo. Questa proposta ha un’importanza notevole, in quanto gli Stati, anche se retti da un sistema democratico, tendono ad acquisire una personalità autonoma che molto spesso li porta a contrapporsi agli interessi del popolo. Inoltre, i popoli di tutto il mondo hanno interessi comuni che non sempre sono rispecchiati dalle decisioni, condizionate dagli Stati, prese dall’Assemblea generale. Ma anche questo problema attualmente è poco capito dagli ambienti ufficiali.
Lo sviluppo.
Secondo la Commissione sul Sud del mondo, che ha consegnato il suo rapporto nel maggio del 1990, le Nazioni Unite dovrebbero dare maggiore importanza ai problemi economici e sociali, dato che la diminuzione delle tensioni politiche e militari riduce la loro responsabilità per quanto riguarda la pace e la sicurezza internazionale. «Uno scopo importante che il Sud deve perseguire è l’attribuzione alle Nazioni Unite di un ruolo centrale nella gestione del sistema economico internazionale».[11]
E’ necessario che l’ONU, ad un elevato livello politico, tracci un panorama dei problemi economici mondiali ed eserciti una funzione di monitoraggio per quanto riguarda gli sviluppi dell’economia internazionale, prestando un’attenzione speciale alle implicazioni che trends significativi hanno per lo sviluppo e l’ambiente. A questo scopo dovrebbero riunirsi periodicamente i leaders di gruppi rappresentativi dei paesi sviluppati e in via di sviluppo per studiare le interrelazioni fra le varie componenti dell’economia mondiale, soprattutto il sistema monetario, la finanza e il commercio, il loro legame con le questioni politiche e di sicurezza internazionali e il loro ruolo per quanto riguarda le prospettive di sviluppo del Sud.
E’ necessario migliorare la gestione economica globale e il processo decisionale attraverso la riforma delle procedure decisionali delle principali istituzioni finanziarie multilaterali, come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Le attuali regole, che assegnano il controllo effettivo su di esse ai maggiori contributori, cioè ai paesi sviluppati, devono essere riviste e modificate in modo da aumentare il peso del Sud. Dovrebbe anche essere riesaminato il sistema del voto ponderato del Fondo comune per il commercio internazionale creato recentemente, in modo che sia garantita una distribuzione dei voti più equa e nello stesso tempo accettabile per tutta la comunità internazionale.
L’ambiente.
La questione ambientale è stata posta all’ordine del giorno nel 1987, con la pubblicazione del Rapporto della Commissione Brundtland. Esso ha definito lo sviluppo sostenibile come «uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri».[12] Negli ultimi anni la questione ambientale è diventata un argomento di serie relazioni accademiche ed ha nello stesso tempo coinvolto l’opinione pubblica mondiale. In vista della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo, che si terrà in Brasile nel 1992, si è molto riflettuto su come aumentare il ruolo dell’ONU per quanto riguarda la protezione ambientale.
Il punto centrale di queste riflessioni è che non si può affrontare la sfida ambientale attraverso la pura azione volontaria dei singoli Stati. Questo problema richiede che si stabiliscano regole vincolanti per tutti, istituzioni e procedure di controllo della loro esecuzione, e l’applicazione di sanzioni nei confronti dei trasgressori. L’istituzione che esiste attualmente, il Programma ambientale delle Nazioni Unite (UNEP) non possiede né i poteri né gli organi legislativi ed esecutivi. Per questo è necessario creare un organismo autonomo delle Nazioni Unite o una Agenzia ad hoc, che dovrebbe coordinare le convenzioni, le istituzioni e le procedure esistenti e riempire le lacune in quei campi in cui non sono ancora state create istituzioni e procedure. Questo organismo dovrebbe comprendere una Assemblea plenaria (con il compito di approvare delle regole internazionali vincolanti), un Consiglio con funzioni di esecutivo, un segretariato e una Corte ambientale. Sarebbe auspicabile un sistema di voto ponderato per permettere alle grandi potenze di aderirvi, ma esse non dovrebbero avere diritto di veto, come attualmente avviene nel Consiglio di Sicurezza.[13]
Il Segretario generale.
L’accresciuto ruolo dell’ONU nel governo del mondo ha focalizzato l’attenzione generale sui criteri di nomina del Segretario generale delle Nazioni Unite, sulla durata della carica, sulla sua autorità e giurisdizione. Uno studio condotto da Brian Urquhart e Erskine Childers, due noti funzionari internazionali, con la collaborazione della Ford Foundation e della Dag Hammarskjold Foundation, ha stabilito che considerazioni campanilistiche, nazionali, geografiche o politiche non dovrebbero condizionare il processo di nomina. Se si decidesse di stabilire un massimo di sette anni per la permanenza in carica, ciò servirebbe ad attivare e facilitare la nomina. Per quanto riguarda infine la questione centrale della necessità di una leadership multilaterale per affrontare questi problemi, sarebbe necessario consultare le Organizzazioni non governative e quei cittadini impegnati sul fronte dei più importanti problemi del pianeta.[14]
Nonostante sia vero che il Segretario generale svolge le sue funzioni all’interno delle strutture di potere della politica mondiale esistenti, è però anche vero che egli può svolgere un ruolo importante nel modificare le stesse in modo costruttivo.
Le finanze.
Le risorse finanziarie su cui può contare l’ONU sono precarie e soggette a molti condizionamenti. Il suo budget totale è insufficiente ad affrontare le crescenti esigenze nei campi della sicurezza, dello sviluppo e dell’ambiente, ed è troppo dipendente dagli arbitri politici di poche grandi potenze, che la possono ricattare se le sue scelte politiche sono contrastanti con i loro interessi. Per questo il rafforzamento dell’ONU è possibile solo se le sue finanze poggiano su una base più solida e duratura.
Conclusione.
Le Nazioni Unite non possono essere rafforzate se questo compito è lasciato nelle mani dei soli governi. Esse appartengono ai «popoli», come recita l’inizio della Carta e i «popoli» devono far valere i propri diritti, poiché i loro interessi sono permanenti, mentre i governi cambiano.
Satish Kumar
[1] Il concetto, dal punto di vista teorico, è debole, sebbene inquadri in larga misura la realtà.
[2] Nel 1989, il PIL del Giappone (2.818,52 miliardi di dollari) e quello della Repubblica Federale Tedesca(1.189,10 miliardi di dollari) erano secondi solo al PIL degli Stati Uniti (5.156,44 miliardi). Cfr. World Development Report, 1991, p. 209.
[3] World Development Report, 1990, pp. 1-2.
[4] World Development Report, 1991, pp. 204-5.
[5] Common Responsibility in the 1990s: The Stockholm Initiative on Global Security and Governance, 22 aprile 1991, pp. 37-8.
[6] Quando questo testo è stato scritto (ottobre 1991) non era ancora stato raggiunto il numero attuale di Stati membri, che è di 175 [NdT].
[7] Per approfondire questo argomento cfr. Bruce Russett e James S. Sutterlin, «The UN in a New World Order», in Foreign Affairs, New York, primavera 1991, pp. 69-83.
[8] Vedi anche Stockholm Initiative, cit., pp. 12-13,. e WAWF, A Proposal for United Nations Security Forces, Oslo, 1989.
[9] Nagendra Singh, The Role and Record of the International Court of Justice, Martinus Nijhoff, 1989, pp. 27-8.
[10] Vedi Nota 6.
[11] The Challenge to the South: The Report of the South Commission, Dar-es-Salaam, 1990, p. 263.
[12] The World Commission on Environment and Development, Our Common Future, Oxford, 1987, p. 43 (trad. it. Il futuro di noi tutti, Rapporto della Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, Milano, Bompiani, 1988, p. 71).
[13] Vedasi l’ampia discussione in A Proposal for a General UN System for Protection of Environment (elaborata da una commissione di esperti della World Association for World Federation), Oslo, 1991 (bozza non pubblicata); vedasi anche: Effective Global Environmental Protection: World Federalist Proposals to Strengthen the Role of the United Nations (di Pamela Leonard, con la collaborazione di Walter Hoffman), WFA, Washington, 1990; Stockholm Initiative, cit., p. 29.
[14] Per approfondimenti vedasi Brian Urquharte Erskine Childers, A World in Need of Leadership: Tomorrow’s United Nations, Dag Hammarskjold Foundation, Uppsala, Svezia, 1990.
Anno XXXIV, 1992, Numero 1 - Pagina 59
LA COMUNITA’ MONDIALE DOPO IL CROLLO DELL’URSS
1. Nel quadro delle relazioni internazionali si stanno contemporaneamente manifestando tendenze opposte: spinte alla coesione e movimenti verso la disgregazione dei legami tra Stati e comunità.
Gli eventi degli ultimi mesi hanno mostrato, da un lato, una tendenza al rafforzamento delle organizzazioni internazionali, sia per quel che riguarda le istituzioni mondiali (l’ONU), sia per quel che concerne alcune istituzioni regionali (nell’area europea o atlantica non solamente la CEE, ma anche la NATO e la CSCE). Gli eventi più recenti testimoniano, dall’altro lato, l’accelerarsi del processo di disgregazione di alcune unità politiche nell’ex Europa comunista.
Segnali di coesione provengono dal Palazzo di Vetro dell’ONU, dove il segretariato generale si avvia a conquistare un ruolo importante – e comunque più importante che in passato – per la risoluzione delle tensioni fra Stati; da Washington, dove un elevato numero di Stati ha assunto, in un quadro di azioni multilaterali, impegni a sostegno dell’economia della Russia e delle altre Repubbliche ex sovietiche; da Bruxelles, dove la NATO si è dotata di un nuovo organo, il Consiglio di cooperazione, aperto agli ex nemici dell’Europa centro-orientale; da Praga, dove gli Stati della CSCE hanno stabilito l’importante principio dell’«unanimità meno uno» come regola per l’assunzione di decisioni, compiendo il primo passo per superare il «diritto di non interferenza» e per limitare il «potere di veto» dei paesi appartenenti alla CSCE; ed infine da Maastricht, dove la Comunità europea ha compiuto progressi decisivi verso l’unità politica, con la doppia decisione di creare una moneta unica ed un quadro comune per le politiche estere.
Ma soprattutto sul versante della disgregazione si sono susseguiti avvenimenti che non sarà facile dimenticare. L’Unione Sovietica è stata sciolta come soggetto giuridico internazionale e sono comparsi al suo posto – dietro la facciata di un Commonwealth finora privo di personalità giuridica internazionale – nuovi Stati sovrani. Anche la seconda federazione dell’Europa orientale, la Jugoslavia, non è sopravvissuta agli eventi più recenti: la crisi istituzionale fra le Repubbliche, la secessione slovena e croata, la guerra civile tra Belgrado e le Repubbliche secessioniste, la proclamazione dell’indipendenza da parte di Bosnia-Erzegovina e Macedonia. Persino l’unità della Cecoslovacchia, la terza federazione dell’Europa centro-orientale, vacilla: i rapporti fra Praga e Bratislava sono caratterizzati da un elevato livello di conflittualità istituzionale, anche se non si è ancora giunti – e forse non si giungerà – alla separazione.
E’ opportuno chiedersi se questi fatti – espressioni di tendenze politiche fra loro evidentemente contrastanti – non abbiano forse anche alcune radici comuni, la cui identificazione possa consentire una lettura più unitaria e coerente di quello che sta accadendo nel mondo.
2. Il contemporaneo affermarsi dell’integrazione e della disgregazione come tendenze fondamentali degli avvenimenti internazionali segna l’inizio di una nuova, più complessa, fase della storia mondiale. Si potrebbe forse azzardare l’ipotesi che i nuovi eventi segnino il vero inizio della fase sovrannazionale della storia. Fino ad oggi l’esigenza di un governo mondiale discendeva da inquietudini o da pericoli tutto sommato ancora remoti. Oggi quell’esigenza riceve una conferma definitiva dalla storia. Con la caduta dell’URSS e la fine del bipolarismo ha visto definitivamente la luce una nuova fase, in cui tutti i problemi sono globali, ma mancano ancora gli strumenti per risolverli. Il nucleo di «governo mondiale», rappresentato dalla cogestione dei problemi e delle crisi da parte di Americani e Sovietici – l’esperimento tentato da Gorbaciov con Reagan e Bush – si è sgretolato. La battaglia per il rafforzamento dell’ONU diventa estremamente attuale. Al suo esito è legato in gran parte il futuro degli eventi nei prossimi anni: la crescita civile o la disgregazione dell’umanità.
Con la fine del bipolarismo il controllo degli eventi planetari è ormai possibile solamente con un deciso rafforzamento degli enti sovrannazionali mondiali, in particolare dell’ONU. I rischi che derivano dalla fine dell’URSS sono almeno altrettanto grandi dei possibili vantaggi che discendono dal tramonto del comunismo come sistema di potere totalitario e dalla fine della lotta di classe internazionale come linea di politica estera degli Stati comunisti. Potremmo assistere nei prossimi mesi a fenomeni di proliferazione nucleare, all’esportazione verso i regimi più irresponsabili di armi e tecnologie militari pericolosissime, a guerre locali e ad altre manifestazioni di instabilità in Europa ed in Asia. La cronaca è già ricca di questi fatti. Lo sfaldamento dell’URSS ed il crollo del comunismo eserciteranno inoltre senz’altro un’influenza rilevante sul conflitto Nord-Sud. Nessuno può però sapere se nel mondo in via di sviluppo i regimi socialisti verranno sostituiti da sistemi democratici e pluralisti – come è nell’auspicio di tutti – oppure da sistemi politici di altro tipo, impregnati di forti elementi di intolleranza ed aggressività etnica e religiosa. Se un giorno il problema degli squilibri economici mondiali esplodesse in rivendicazioni violente, avremmo la guerra civile mondiale.
3. Che cosa ha causato lo scioglimento dell’URSS e che cosa ha sconvolto la geografia dell’Europa dell’Est? Per quali ragioni – occorre inoltre chiedersi – fra le nuove leve di politici ed intellettuali filo-democratici in Europa dell’Est non ha avuto presa la logica economica ampiamente diffusa in Occidente, secondo cui un ampliamento, o almeno la conservazione, delle dimensioni delle aree integrate è il presupposto della crescita economica? Perché nell’ex URSS e nell’intero blocco socialista si sono invece imposte forze politiche e scuole di pensiero che ritengono che il miglioramento dell’economia sia legato alla disgregazione delle aree già unite?
La risposta è solo in parte legata a schemi di contrapposizione tra comunismo internazionalista e nazionalismo democratico di tipo ottocentesco. In realtà qualcosa di più complesso è successo. Per comprendere di che cosa si tratti occorre confrontare l’esperienza della ricostruzione europea occidentale negli anni Cinquanta con gli eventi di questi mesi.
Nei primi decenni del dopoguerra gli Stati nazionali dell’Europa occidentale, distrutti dalla guerra, dovettero iniziare un processo di integrazione reciproca per poter avviare la ricostruzione economica. Tale scelta di integrazione fu anche il frutto di una costrizione economica: gli Stati nazionali europei non potevano infatti avere accesso diretto al mercato mondiale. Pensiamo ad esempio ad un piccolo Stato europeo, come l’Olanda o il Belgio: senza poter disporre dei vicini mercati francesi e tedeschi, quegli Stati non avrebbero avuto futuro, perché in quegli anni nessuna delle loro imprese avrebbe potuto rivolgersi facilmente, per finanziarsi o per distribuire i prodotti, ai lontani mercati americani e, men che meno, al Giappone, alle «tigri asiatiche» o agli altri mercati extraeuropei oggi emergenti. La stessa costrizione valeva anche per gli Stati europei maggiori – Francia, Germania ed Italia – e, come la storia ha dimostrato, anche per l’Inghilterra, che pur disponeva di un Commonwealth con cui commerciare. Negli anni Quaranta e Cinquanta mancava un vero mercato mondiale, le economie internazionali non erano così integrate come oggi e solo gli Stati che – associandosi ai paesi vicini – potevano crearsi un «mercato interno» di dimensioni continentali erano in grado di assicurarsi un futuro di prosperità.
Alla fine degli anni Ottanta il mondo presentava, agli occhi degli Europei dell’Est che sognavano l’uscita dal socialismo reale, caratteristiche per alcuni aspetti diverse.
Il processo di deregolamentazione lanciato dalla signora Thatcher e dal Presidente Reagan – che ancora oggi hanno ad Est i più fedeli ammiratori – ha aperto i mercati finanziari e delle merci alle imprese di tutto il mondo. L’avvio della creazione di un mercato unico europeo non ha fatto che confermare la tendenza alla creazione di un mercato mondiale. Negli anni Ottanta si è infatti creato un mercato mondiale integrato dei capitali, che ha consentito fra l’altro agli Stati Uniti di finanziare all’estero la propria crescita interna. Gli stessi Stati Uniti, a loro volta, si sono di fatto trasformati in una parte importante del «mercato domestico» del Giappone e dell’Asia industrializzata, consentendo a questi paesi di raggiungere ritmi di crescita davvero elevati.
Il mutamento di atteggiamento della maggior parte dei paesi nei confronti di fenomeni di globalizzazione dell’economia è davvero rilevante. Le multinazionali – un tempo demonizzate – vengono corteggiate dagli Stati come veicolo di investimenti diretti e, di conseguenza, come elemento di progresso. Le grandi aree economiche internazionali si contendono – a colpi di agevolazioni e di esenzioni fiscali – i capitali internazionali. Il mercato finanziario integrato delle piazze finanziarie americane, asiatiche ed europee offre alle grandi imprese la possibilità di approvvigionarsi di mezzi finanziari e di fornire alla clientela mondiale servizi anche in aree economiche molto distanti da quelle originarie di espansione.
Non è più la dimensione delle aree economiche interne in sé, ma il grado di apertura delle singole economie al mercato mondiale che determina, negli anni Ottanta, il grado di benessere. Si osservino i casi più gravi di crisi economica nel corso del decennio: il Messico, il Brasile, l’Argentina, la Nigeria e la stessa URSS. In tutti i casi si tratta di paesi di grandi risorse e dimensioni, ma con economie chiuse: la vastità del loro territorio non ha impedito loro di scivolare lungo la china della decadenza economica. Sono invece le piccole economie industriali – costrette ad aprire all’economia mondiale e a cercare nicchie di mercato – a rappresentare gli unici casi di uscita dal sottosviluppo: Taiwan, Singapore, Hong Kong, la Corea, il Cile.
4. Alla fine degli anni Ottanta il mercato mondiale è divenuto il fattore determinante di sviluppo economico ed ha messo in crisi anche le grandi aree continentali chiuse.
Gli economisti e gli uomini politici più attenti alla realtà mondiale hanno sicuramente guardato con interesse a questa realtà. Il sogno dei Polacchi e dei Cecoslovacchi, degli Ungheresi e dei Baltici, degli Sloveni e dei Bulgari – come pure dei Russi che rifiutavano l’economia comunista – era quello di combinare i due grandi fenomeni cui essi potevano assistere negli anni Ottanta: il ritorno dell’America latina alla democrazia – indispensabile anche all’Est per creare l’economia di mercato – e la crescita delle «tigri asiatiche», le piccole economie flessibili ormai saldamente inserite nel commercio con Giappone, Stati Uniti ed Europa.
Non è dunque un caso che – non appena Gorbaciov ha dato la possibilità di ripudiare il socialismo reale – sia stata scelta la via dell’apertura immediata, cioè diretta e non intermediata dalla presenza di associazioni regionali, al mercato mondiale. Dopo anni di penuria tecnologica e di decadenza degli impianti industriali, l’Est si è buttato a capofitto nel mercato mondiale alla ricerca disperata di tecnologie ed investimenti. L’ansia di recuperare il tempo perduto ha spinto i paesi ad uno sforzo notevolissimo. In breve tempo sono stati liberalizzati i prezzi, che sono stati avvicinati a quelli mondiali; gli scambi commerciali, un tempo concentrati nell’area del Comecon, sono stati dirottati verso i paesi occidentali, con enormi sacrifici sul piano della congiuntura; numerosi Stati hanno raggiunto nel modo più veloce – cioè senza ricorrere ad un’Unione dei pagamenti – la convertibilità interna delle valute. Joint ventures ed investimenti stranieri sono stati incentivati ed accolti con grande favore. Molti Stati hanno infine fatto ingresso nelle organizzazioni finanziarie internazionali, in particolare nel Fondo monetario internazionale e nella Banca mondiale. L’Est ha scelto la via più diretta e dolorosa per fare subito ingresso nel mercato mondiale. Ha rinunciato a vie meno impervie sia per ragioni ideologiche sia per esigenze obiettive: i ritardi da recuperare erano ben maggiori di quelli degli Stati occidentali dopo la seconda guerra mondiale e, non bisogna dimenticarlo, l’integrazione nell’Occidente del maggiore partner economico e rivale concorrenziale – la Repubblica democratica tedesca – stava procedendo ad una velocità molto sostenuta ed imponeva a tutti i paesi vicini un passo altrettanto veloce.
Perché il processo di ingresso nel mercato mondiale potesse però essere portato a termine in tempi brevi – in modo da ridurre le fasi più difficili della transizione e da offrire molto presto agli investitori internazionali condizioni favorevoli per insediamenti industriali e collaborazioni – un ulteriore elemento era necessario: la rottura con il passato ed il distacco economico, politico e, se necessario, territoriale da tutti i vecchi sistemi di integrazione economica, politica e sociale che potevano ritardare il passaggio dall’economia chiusa all’integrazione con l’economia mondiale. Per alcune Repubbliche, il cui grado di occidentalizzazione era più avanzato – si pensi ai Baltici ed agli Jugoslavi del nord – ciò significò chiedere la secessione; per gli altri Stati, invece, comportò battersi per l’uscita dal Comecon e dal Patto di Varsavia. Così l’avvio dell’integrazione nel mercato mondiale della DDR, di Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria e dei Baltici e Jugoslavi del nord – nel corso del 1990 – ha comportato l’inizio della dissoluzione del Comecon, dell’URSS e della Jugoslavia.
5. Ad un anno di distanza dal manifestarsi delle prime scelte di riforma radicale nell’Est, tre nuovi dati caratterizzano la situazione e la rendono ancora più complessa.
La politica di ingresso immediato e diretto nel mercato mondiale è questo il primo dato – è stata abbracciata da nuovi soggetti politici. Il più importante è la Russia, il più convinto e coerente è la Bulgaria, seguono poi, tra molti tentennamenti, ed in condizioni economiche disperate, Romania ed Albania. Il recente passo della Russia – la liberalizzazione dei prezzi all’inizio del 1992 – ha costretto l’Ucraina e le altre Repubbliche ex sovietiche a fare altrettanto e ad avviare il processo di apertura verso l’economia mondiale. E’ forte l’impressione che sia la stessa Russia post-gorbacioviana a volersi in realtà sbarazzare delle Repubbliche più deboli, che frenano l’apertura al mercato mondiale. In realtà Mosca non vuole più mantenere i legami con l’Asia centrale e con le regioni transcaucasiche. In questa chiave si possono leggere la decisione di concludere – in un primo tempo – un accordo confederale solamente con Bielorussia ed Ucraina, l’intenzione di aderire a medio temine alla NATO ed il disimpegno militare dalle regioni armene contese dagli Azeri. Solamente il rifiuto dell’Ucraina a partecipare a forme di associazione impegnative con la Russia obbliga oggi Mosca a ritardare il definitivo distacco dall’Asia centrale e dal Caucaso.
TI secondo dato di novità emerge soprattutto, ma non solamente, nei paesi confinanti con gli Stati membri della Comunità europea. Qui è divenuta forte la richiesta di aderire alla CEE. Il 3 ottobre 1990 la Germania orientale – il cuore produttivo del vecchio Comecon – ha del resto fatto ingresso nella Comunità europea; nel novembre 1991 Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria hanno firmato gli accordi di associazione speciale con la CEE. Il desiderio di stringere legami più stretti con Bruxelles si leva anche nei paesi baltici, in Slovenia ed in Croazia, in Bulgaria, in Romania e addirittura in alcune Repubbliche ex sovietiche.
Il terzo dato è la definitiva disintegrazione delle vecchie forme di integrazione. Sono scomparsi il Comecon, il Patto di Varsavia, l’URSS e la Jugoslavia.
6. La strategia dell’ingresso immediato nel mercato mondiale è stata dunque perseguita dagli Europei centrali ed orientali con una coerenza impressionante. Emergono però alcuni elementi di rischio che potrebbero condurre i nuovi Stati là dove non volevano rimanere: in una situazione di isolamento e di sottosviluppo economico.
Il mercato mondiale, infatti, non è ancora organizzato in modo ordinato e razionale. Mancano ancora quelle garanzie giuridiche pubblicistiche, quelle salde regolamentazioni consuetudinarie, quei controlli istituzionali che consentono invece alle imprese all’interno di mercati già organizzati – come ad esempio nel mercato unico europeo – di investire, allacciare rapporti e stringere alleanze con sufficiente sicurezza. Attualmente, ad esempio, è in atto uno scontro violento tra la CEE e i suoi due maggiori partners del panorama mondiale – gli Stati Uniti ed il Giappone – su due questioni fondamentali: il libero scambio e i tassi di interesse. Vi è il rischio che le tensioni irrisolte tra i giganti del mercato mondiale vengano scaricate sugli anelli più deboli della catena e che i partners commerciali più forti trasferiscano sui nuovi venuti i problemi insoluti. Ed il pericolo che l’Occidente industrializzato colpisca con il protezionismo i nuovi paesi democratici dell’Europa centrale ed orientale in settori importanti come quello dell’ agricoltura – si pensi ad esempio che l’ingresso dell’Ucraina nel mercato mondiale sconvolgerà gli equilibri attuali – è particolarmente acuto.
Il mercato mondiale non è inoltre ancora in grado di mobilitare risorse sufficienti per lo sviluppo di tutte le aree economiche che necessitano di capitali. L’Europa dell’Est non è solamente in drammatica concorrenza con il Terzo mondo, ma anche con quegli Stati industrializzati – quali gli USA, la Germania unificata e la stessa Italia – che devono coprire enormi squilibri finanziari interni. La scarsità dei capitali si sta imponendo come uno dei fenomeni più importanti dell’economia internazionale. Anche la disponibilità degli imprenditori occidentali ad effettuare investimenti diretti non deve essere sopravvalutata: mentre l’Europa si muove, il Giappone e gli Stati Uniti hanno mostrato un’estrema cautela nei confronti di acquisizioni e joint-ventures.
A dispetto degli atteggiamenti romantici e sentimentali che spesso dominano l’opinione pubblica, molte imprese ed altrettanti governi, infine, non considerano affatto la disintegrazione economica e politica dell’Est – intenzionalmente voluta da chi cercava il contatto diretto con il mercato mondiale – come un contributo alla crescita e alla stabilità di quello stesso mercato internazionale. I fenomeni di conflittualità e di disordine che si succedono con frequenza regolare, la confusione delle competenze, il conflitto degli ordinamenti giuridici accrescono il rischio, disorientano o addirittura spaventano gli investitori e tengono lontano i capitali.
Vi è dunque il rischio che i paesi dell’Europa centro-orientale debbano affrontare da soli i problemi della transizione all’economia di mercato – senza poter cioè usufruire degli indispensabili apporti di capitali internazionali e senza più poter utilizzare la vecchia rete di rapporti commerciali ereditata dal Comecon. Uno sviluppo degli eventi così infausto rischia di cristallizzarsi per anni in tutta l’area dell’Est, con l’unica eccezione della vecchia DDR, della Cecoslovacchia, della Polonia e dell’Ungheria: i quattro paesi beneficiano in realtà non tanto di un accesso privilegiato al mercato mondiale, ma dell’integrazione con la CEE ed in particolare degli sforzi pubblici e privati dei finanziatori tedeschi, che hanno un interesse geopolitico prioritario a stabilizzare i confini orientali della Germania.
In presenza di queste condizioni, cresce la probabilità che la situazione economica si possa avvitare. Gli Stati hanno effettuato le scelte di politica economica più giuste e rigorose in materia di liberalizzazione dell’economia: ciò nonostante i capitali stranieri non affluiscono, le imprese dell’Europa orientale non ricevono ordinazioni dall’Occidente e la crisi economica si perpetua, ed anzi assume toni più gravi.
Alla base della decisione di cercare un contatto immediato con il mercato mondiale vi è stata forse un’ingenua sopravvalutazione da parte dei nuovi governanti filo-democratici delle capacità dell’Occidente. La nostra propaganda li ha forse ingannati. Si pensi alle Repubbliche secessioniste in URSS e in Jugoslavia ed al loro smarrimento di fronte alle reticenze ed al mancato sostegno – fino a quando la secessione non era divenuta fatto compiuto, non più ignorabile – da parte dell’Occidente: i loro governanti hanno pensato che l’Occidente (ed in primo luogo l’America) avesse la possibilità e la volontà sia di intervenire militarmente per difendere i territori, sia di investire risorse per la ricostruzione. Sulla corretta percezione dei limiti del funzionamento del mercato mondiale è prevalsa purtroppo una visione mitologica delle capacità dei paesi dell’area occidentale.
7. L’integrazione delle nuove economie nell’economia mondiale è un obiettivo importante e deve essere sostenuto dalla comunità mondiale, in primo luogo dall’Occidente e dalla Comunità europea che si accinge a divenire un’Unione. Si pone ovviamente il quesito, tutt’altro che semplice, su che cosa in concreto la comunità mondiale possa fare, nella nuova situazione non più bipolare del mondo.
E’ bene distinguere azioni di breve, medio e lungo termine. E’ paradossalmente più facile defInire quella che dovrebbe essere la soluzione di lungo termine dei problemi legati al crollo dell’URSS, tracciare cioè uno schizzo del quadro che, all’inizio del prossimo secolo, potrebbe consentire di risolvere definitivamente l’instabilità di questi mesi.
Se si considera il complesso dei problemi, nel lungo periodo le risorse dell’Europa non bastano a stabilizzare l’economia del vecchio blocco socialista e quella – ancor più travagliata – dei paesi in via di sviluppo. Occorre che lo sforzo sia sopportato da tutti i paesi che nel mondo producono risorse. A tal fine occorre accrescere i poteri dell’ONU e creare forme di governo mondiale di alcuni aspetti dell’economia: bisogna creare condizioni di sicurezza nel mercato mondiale, imponendo regole internazionali cogenti a favore degli investimenti e a tutela del libero mercato; si deve garantire la stabilità dei cambi e costruire un nuovo sistema di stabilità monetaria; bisogna raccogliere le risorse di un ampio schieramento di paesi per finanziare investimenti mirati in settori chiave, come quello dell’energia e dell’ecologia. Il rafforzamento dell’ONU deve inoltre consentire di evitare che condizioni di guerra, di instabilità e comunque di disordine si diffondano nel mondo post-comunista ed in quello in via di sviluppo.
Nel medio periodo – stiamo dunque risalendo ai nostri giorni e siamo già nel corso di questo decennio – la Comunità europea deve guardare, da un lato, a tutti gli Stati dell’Europa centrale ed orientale nell’ottica della loro progressiva integrazione, concludendo prima accordi di associazione speciale poi accordi di adesione, ed assistere, dall’altro lato, non solamente la Russia, ma anche tutte le altre Repubbliche ex sovietiche, con lo strumento comunitario dell’associazione commerciale.
Sarebbe infatti del tutto insufficiente se la Comunità scegliesse di privilegiare permanentemente i paesi centro-orientali più avanzati ed ignorasse le aree più povere, ed in particolare i Balcani. La guerra serbo-croata di questi mesi dimostra che la pace dell’Europa intera può dipendere dal futuro di questa regione. Nel nostro mondo interdipendente non si può ragionare secondo la logica «hic sunt leones», soprattutto se ci si riferisce ad aree geografiche così vicine.
Sarebbe inoltre molto pericoloso ridurre l’ex URSS ad un paese solamente europeo. La Russia è un imprescindibile elemento di fusione tra Asia ed Europa: non può essere abbandonata dall’Europa, ma non deve abbandonare l’Asia. Per questo motivo dobbiamo stigmatizzare l’uso della formula dell’Europa «dall’Atlantico agli Urali», e puntare invece al grande mercato comune euro-asiatico e ad una «grande Europa» delle coscienze e della solidarietà dall’Atlantico al Pacifico.
Nel breve periodo infine, cioè già nella prima metà degli anni Novanta, la Comunità mondiale dovrà dimostrare flessibilità e fantasia. Tutte le vecchie e nuove entità politiche dovranno entrare a far parte delle istituzioni internazionali e regionali: il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e la BERS, la CSCE, il Consiglio d’Europa ed infine il Consiglio di cooperazione della NATO. Ognuna di queste istituzioni offre un tavolo politico di dialogo che occorre tenere aperto. Il confronto dovrà essere continuo ed intenso, in uno scambio di esperienze basato sulla reciproca fiducia. Anche i contatti a livello non governativo – tra regioni, enti locali, associazioni professionali, gruppi religiosi, ecc. – dovranno essere intensificati. Il flusso dei capitali dovrà infine divenire più continuo e consistente.
La Comunità, dal canto suo, dovrà accelerare nei prossimi mesi ed anni il proprio allargamento a Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria ed inoltre avviare l’associazione speciale di quei paesi che presentino le condizioni politiche indispensabili. La Comunità dovrà inoltre porre e risolvere la questione delle risorse proprie e della capacità diretta di tassazione, dal momento che, senza una adeguata base finanziaria, anche la CEE dovrà limitarsi alle buone intenzioni. E’ bene ripeterlo: il rafforzamento istituzionale della Comunità e la sua trasformazione in Unione – in termini ancora più cogenti di quelli già decisi a Maastricht – costituiscono le premesse indispensabili perché l’Europa possa fare il proprio dovere nel mondo.
8. Si è cercato di dimostrare in questa nota che i fenomeni di disgregazione che si sono accentuati negli ultimi mesi, dopo un’incubazione di alcuni anni, nascono anche da un’esigenza – sentita da tutte le comunità che escono dall’esperienza del socialismo reale – di apertura delle economie e di ingresso nel mercato mondiale. Tale esigenza all’apertura degli Stati all’economia mondiale deve essere valutata positivamente e deve essere incoraggiata. Non altrettanto le manifestazioni che si traducono in una rottura di solidarietà tra popoli.
Compete proprio all’Europa chiedere agli Stati ed ai popoli dell’Europa centro-orientale di riprendere in modo più chiaro la via dell’integrazione regionale. Dopo la caduta del regime comunista a Mosca e la scelta di molti Stati a favore della democrazia pluralistica, del libero mercato e del libero commercio internazionale, l’opzione del «ciascuno per sé» non appare più giustificata ed è oggettivamente incoerente con le aspirazioni ad un ingresso nell’economia mondiale.
Anche le classi dirigenti di alcuni Stati stanno provvedendo ad una correzione di rotta. Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria – che per prime hanno attuato le riforme economiche – hanno siglato un accordo per la progressiva liberalizzazione degli scambi commerciali ed hanno varato forme di cooperazione e di consultazione periodica tra i governi. Sembrerebbe logico che i tre Stati, così come tutti gli altri che sottoscriveranno con la CEE accordi di associazione speciale ed intenderanno fare poi ingresso nella Comunità europea, riconoscano gli interessi comuni che li legano, anche in vista delle trattative con la Commissione europea: potrebbero creare un «Consiglio di associazione», che costituisca un tavolo politico ed economico di coordinamento tra gli Stati che dovranno affrontare i gravi problemi dell’ingresso nella CEE.
Non tutti gli Stati dell’Europa centro-orientale faranno ingresso nella Comunità europea. Ciò non significa però che essi non abbiano interessi – sia nel settore dell’economia sia in quello della sicurezza – che li debbano spingere verso forme di integrazione. Molte nuove Repubbliche che sorgono dalle macerie dell’URSS e della Jugoslavia, così come molti paesi che un tempo costituivano gli Stati satelliti dell’URSS, debbono ancora imparare a riconoscere gli elementi di reciproca dipendenza, molti dei quali sono addirittura precedenti alla costituzione di un’area di influenza sovietica in Europa e in Asia.
Le ragioni del dialogo fra popoli un tempo uniti ed oggi divisi – sostenute dall’interdipendenza oggettiva e dalla comunanza dei problemi – torneranno probabilmente ad emergere nei prossimi mesi ed anni. Esse potranno però prevalere solamente se le economie occidentali e le istituzioni internazionali forniranno incentivi all’unificazione. E’ probabilmente necessario – prima di tutto – pensare ad un sistema di interventi preferenziali per quegli Stati che sappiano impostare in modo coordinato piani di ricostruzione. Non bisogna inoltre escludere sanzioni per quegli Stati che – in settori così delicati come ad esempio quello della proliferazione delle armi nucleari, chimiche e batteriologiche – mettano in pericolo la sicurezza del mondo con una politica pericolosa di violazione degli accordi internazionali.
Non è facile prevedere se le unità politiche e i legami commerciali che si sono dissolti negli ultimi mesi verranno ricostruiti secondo i medesimi criteri degli anni passati.
E’ però altrettanto improbabile che la logica del rifiuto di ogni stabile cooperazione e di forme più impegnative di integrazione possa durare a lungo. Non vi è dubbio: sono in primo luogo gli stessi popoli che hanno seguito la via dell’integrazione mondiale e della disintegrazione regionale a dover decidere quali debbano essere queste nuove forme di cooperazione e convivenza, ispirate all’idea della democrazia pluralistica e del libero mercato. E’ altrettanto chiaro che agli Europei occidentali spetta il compito di lanciare un messaggio chiaro: la condizione indispensabile perché gli Stati dell’Europa orientale facciano pieno ingresso nell’economia mondiale consiste nell’avviarsi verso la loro integrazione.
Francesco Mazzaferro
Anno XXXIV, 1992, Numero 1 - Pagina 55
REALISMO, OPPORTUNISMO E PENSIERO INNOVATIVO
Chi ha scelto di non essere spettatore passivo, ma di esercitare un ruolo attivo nei confronti degli avvenimenti storico-politico-sociali di cui è testimone (ha scelto cioè di fare politica per affermare dei valori), generalmente assume nei loro confronti due atteggiamenti. Uno è quello tipico dello storico (così come è stato definito da Carr), che sceglie e trasforma in fatti storici i molteplici eventi a cui si trova di fronte, li interpreta e, sulla base di generalizzazioni, dà indicazioni per l’azione. Nel fare tutto ciò egli (come dice ancora Carr a proposito dello storico) «non è né l’umile schiavo né il tirannico padrone dei fatti» (B.H. Carr, Sei lezioni sulla storia, Torino, Einaudi, 1966, p. 35): fra lui e i fatti c’è un rapporto di scambio reciproco. Le due funzioni che vengono attivate in questo atteggiamento sono dunque quella del giudicare e quella del prevedere, in cui la previsione non riguarda eventi particolari, ma processi di carattere generale, ed è basata appunto sulle generalizzazioni.
Il secondo atteggiamento, che distingue chi fa politica dallo storico, è legato al fatto che il primo non vuole solo conoscere e trovare indicazioni per l’azione, ma vuole agire, incidere sulla realtà, e quindi esercita su di essa un terza funzione, che è quella del tentare di contribuire a cambiamenti basati sulle sue scelte di valore e ottenibili attraverso la sua volontà e la sua azione. Egli ha, cioè, delle aspettative e le può avere in quanto non prende in considerazione solo avvenimenti già compiuti, le cui potenzialità si sono già manifestate, ma avvenimenti in atto, aperti a varie soluzioni, che in quanto tali sono sì soggetti a interpretazione, ma che ancor più sono «in attesa» di una evoluzione che dipende dall’azione in atto dei soggetti che ne sono protagonisti.
Affermare ciò non significa rinunciare alla categoria del processo storico che, attraverso i criteri del materialismo storico e della ragion di Stato, ci permette di cogliere nell’evoluzione storica ciò che condiziona le scelte degli Stati e degli individui. Ma il processo storico indica la direzione di marcia della storia, durante la quale si possono manifestare occasioni che non vengono colte, inversioni di tendenza o comunque si possono presentare ostacoli il cui superamento dipende essenzialmente dalla volontà umana e dalla forza con cui essa si sa esprimere. Possiamo dire, in sostanza, che il processo storico è uno degli elementi in gioco che prepara le occasioni storiche, ma al suo interno sono necessari quegli atti politici, basati sulla ragione e sulla morale, che soli permettono alla storia di avanzare.
***
Nei momenti tumultuosi che stiamo vivendo, in cui i fatti si susseguono convulsamente, in cui si fanno più agguerriti coloro che vedono minacciati i propri interessi, in cui i fantasmi di un passato che si credeva ormai sepolto (il nazionalismo) si contrappongono all’esigenza di costruire il futuro su nuove basi (la solidarietà e l’unità fra i popoli), in cui sono in gioco grandi svolte e tragiche scelte, diventa sempre più difficile interpretare, prevedere e agire. L’esasperata accelerazione degli avvenimenti crea la sensazione che i fatti siano mossi da una loro logica travolgente e che ci sia poco spazio per chi vuole giocare il ruolo dell’attore. Il rischio che si corre in questa situazione è insomma di sentirsi paralizzati nel giudizio e nell’azione, rinunciando alla razionalità e alla coerenza nel timore di essere scavalcati o smentiti dalla realtà.
Questo timore non è certo infondato. Per fare solo qualche esempio, le prese di posizione dei federalisti riguardo al problema della riunificazione tedesca o al riconoscimento dell’indipendenza degli Stati baltici (apparse anche su questa rivista) andavano in un direzione diversa o contraria rispetto a quanto è poi avvenuto. Ma quale conclusione dobbiamo trarre da ciò? Dobbiamo optare per il silenzio, per la cautela, per il compromesso? Rispondere a queste domande è importante, perché è proprio nei momenti nello stesso tempo tragici e creativi che, attraverso la capacità di esprimere giudizi chiari e coerenti, una forza rivoluzionaria può giocare un ruolo indispensabile: quello di indicare senza ambiguità la direzione di marcia.
E il momento che stiamo vivendo è tragico e creativo nello stesso tempo, in quanto da una parte può essere compiuto un passo avanti verso l’obiettivo per cui i federalisti si battono (la pace universale) attraverso la creazione della Federazione europea, e dall’altra si corre il pericolo di vedere vanificata per lungo tempo una lotta di quasi cinquant’anni se sul principio dell’unione fra i popoli prevarrà il principio della disgregazione nazionalistica.
Non è dunque una pura esigenza metodologica tentare di chiarire quali devono essere, per una avanguardia rivoluzionaria, i criteri di interpretazione e valutazione di avvenimenti in fieri, ma è un’esigenza che mette in gioco la sua storia, il suo ruolo, la sua identità.
***
In linea di massima si possono prendere in considerazione tre atteggiamenti nei confronti di avvenimenti in fieri. TI primo può essere definito opportunistico, e consiste nell’evitare di prendere posizione o nel prendere posizioni caute e attendiste per non essere smentiti dai fatti. E’ evidente che a volte è utile attendere l’evoluzione di certi processi in atto per poter dare un giudizio più fondato perché più documentato. Ma chi adotta l’atteggiamento opportunistico sa a priori che giudicherà positivamente il risultato dell’evolversi degli avvenimenti proprio perché la sua scelta di fondo è l’accettazione della realtà e non la volontà di mutarla.
Il secondo è quello cosiddetto realistico o pragmatico. Esso è proprio di chi deve gestire un potere e deve quindi essere molto attento a non giungere in ritardo all’appuntamento con i vincitori, per non perdere influenza e prestigio, e quindi potere. L’esempio dell’atteggiamento del governo americano nei confronti dell’evolversi della situazione nell’ex Unione Sovietica dopo il golpe di agosto è lampante: l’incondizionato appoggio a Gorbaciov e alla sua politica volta a mantenere l’unione fra le Repubbliche si è fatto sempre meno incondizionato, fino all’apertura a Eltsin e all’accettazione de facto della disgregazione, ossia della creazione di nuovi Stati sovrani.
Un altro chiaro esempio riguarda la posizione dei governi europei nei confronti del processo disgregativo in atto in Jugoslavia. Se da una parte essi sono schiavi del concetto di autodeterminazione delle nazioni che più volte hanno affermato e nei confronti del quale non vogliono smentirsi, dall’altra è sicuramente in gioco il cosiddetto realismo di chi avalla un’evoluzione in atto per il solo fatto che è in atto e che una certa soluzione appare vincente. Un simile atteggiamento è del tutto strumentale, e ciò appare in tutta la sua evidenza se consideriamo la contraddizione di cui sono vittime gli Stati europei, che da una parte stanno, sia pur faticosamente, rinunciando a parti sempre più rilevanti della loro sovranità per procedere verso l’unione e dall’altra avallano la nascita di nuove sovranità che producono disgregazione.
La differenza fra atteggiamento opportunistico e realistico consiste nel fatto che, mentre il secondo è consapevole, è il frutto di una scelta basata sulle regole del gioco di chi è alla ricerca di un consenso finalizzato alla lotta per il potere, il primo è meno limpido, in quanto si maschera spesso di realismo, mentre in realtà nasconde solo il timore che gli avvenimenti prendano una direzione che esso ha condannato e a cui si è opposto, e questo timore non può che essere imputato a considerazioni di «immagine» più che di coerenza e credibilità.
Per un Movimento rivoluzionario, né il realismo consapevole né quello opportunistico sono accettabili. Ciò non significa che bisogna scegliere un atteggiamento puramente «ideale», al di sopra e al di fuori della realtà: se si vuole incidere su di essa è evidente che di essa bisogna tener conto. Ma il necessario realismo in primo luogo va applicato all’azione, alle scelte di strategia, per le quali il non tener conto della realtà equivale a cadere nel velleitarismo, e in secondo luogo deve riferirsi non a posizioni che «appaiono vincenti», ma che hanno già vinto. Se infatti una situazione è ancora «aperta», in evoluzione, l’atteggiamento che si assume nei suoi confronti non è irrilevante per quanto riguarda il suo sbocco.
Dunque, la differenza fra chi mira a gestire una realtà data e ad acquisire il potere per questo scopo e chi mira a cambiare il mondo, ossia ad introdurre stabilmente in esso nuovi valori, sta nella capacità di assumere il terzo atteggiamento, quello rivoluzionario. Esso consiste nel valutare gli avvenimenti sulla base della loro convergenza o divergenza rispetto ai valori che si vogliono affermare.
Di fronte a ciò che sta accadendo nell’Est europeo e nell’ex Unione Sovietica, l’avanguardia rivoluzionaria federalista non può limitarsi a prenderne atto, ma deve condannare le scelte che vanno in direzione della disgregazione basata su rivendicazioni nazionalistiche e deve appoggiare le scelte che vanno in direzione dell’unione su basi federali. E se saranno le prime a imporsi, dovrà contribuire a ricostruire ciò che è stato demolito, nella consapevolezza che, non essendo venuta a patti con la realtà, la sua identità rimarrà intatta e rimarrà il punto di riferimento per tutti coloro che vorranno percorrere un nuovo tratto di strada verso l’unione e la solidarietà tra tutti gli uomini.
Nicoletta Mosconi
Anno XXXIII, 1991, Numero 3 - Pagina 244
A PROPOSITO DI «UNA STRATEGIA PER L’ECU»: UN COMMENTO
Nel volume[1] che raccoglie i risultati di una recente indagine promossa dall’Association for the Monetary Union of Europe e condotta sia dalla Ernst & Young sia dal National Institute of Economic and Social Research di Londra, è stato formulato un programma operativo finalizzato a fare dell’Ecu la moneta unica dell’Europa unita, definitivamente e completamente unita, entro il 1997.
Si tratta di un rapporto assai articolato (assomiglia, e non per caso – in questa fase storica ancora in larga misura «costituente» per il processo di unificazione europea – proprio a una di quelle ponderose monografie di settore prodotte dalla Commissione Economica del Ministero per la Costituente, strutturato com’è anch’esso per indagini e audizioni) del quale è di conseguenza difficile non soltanto delineare, seppure in sintesi, la complessa architettura (e a maggior ragione i contenuti specifici) ma altresì puntualizzare i non pochi elementi di originalità.
Preminente, e strutturale, fra questi ultimi appare tuttavia l’avere analizzato con sistematicità e accuratezza, addirittura con puntigliosità, gli aspetti microeconomici del problema e del relativo progetto, identificando gli ostacoli che si frappongono a un più diffuso uso privato dell’Ecu, così come questi appaiono percepiti dai suoi utilizzatori (si ricorderà incidentalmente che, con riferimento all’Italia, viene addirittura registrato che «l’uso dell’Ecu è [tuttora] percepito come un onere non necessario, che obbliga chi lo adotta ed i suoi partner commerciali a trattare in una valuta di conto che dovrà in ultimo essere convertita in un’altra moneta»):[2] ostacoli la cui eliminazione è individuata quale condizione certamente necessaria ma tutt’altro che sufficiente ai fini di uno sviluppo «autosostenuto» di tale utilizzo, nella delicata fase in cui, se proprio le soddisfacenti prestazioni del Sistema monetario europeo rendono l’Ecu progressivamente meno «attraente» come riserva di valore rispetto ad un passato di assai più accentuata instabilità valutaria, le stesse ne rendono nel contempo sempre più rilevanti le funzioni di unità di conto (attualmente assai limitate), nonché quelle di vero e proprio mezzo di pagamento.
Nel richiamare la dichiarazione del Consiglio europeo in sede di istituzione dello SME nel 1978, secondo la quale «un’unità monetaria europea (Ecu) figurerà al centro del Sistema», lo stesso Rapporto Delors riconosce d’altra parte il «notevole successo»[3] dell’Ecu sui mercati privati quale unità di denominazione di operazioni finanziarie (quota di mercato nelle emissioni internazionali di obbligazioni pari al 6% alla data del Rapporto) in virtù delle sue caratteristiche vantaggiose in quanto strumento di diversificazione dei portafogli e di copertura contro i rischi di cambio, ma sottolinea nel contempo sia il progressivo assottigliarsi dell’attività bancaria internazionale in Ecu, specialmente nel settore delle transazioni dirette con controparti non bancarie, sia la quota del tutto trascurabile (1% del commercio estero dei paesi della Comunità) rappresentata dall’utilizzo dell’Ecu per la fatturazione e il pagamento delle operazioni commerciali.[4] D’altronde, anche l’esperienza dell’utilizzo «ufficiale» dell’Ecu appare orientata in senso riduttivo rispetto all’ampia casistica prevista dalla Risoluzione di Bruxelles che contemplava l’uso dell’Ecu come denominatore del meccanismo di cambio, come base per individuare le divergenze fra le valute comunitarie, come denominatore delle operazioni previste nell’ambito del meccanismo di intervento e di credito, infine come mezzo di regolamento fra le autorità monetarie della Comunità. Di fatto, l’ambito operativo dell’Ecu è risultato limitato alle pur rilevanti funzioni di attività di riserva ufficiale e di mezzo di finanziamento e di regolamento a brevissimo termine, anch’esso per altro limitato in ragione del prevalere degli interventi in dollari (2/3 del totale), e del ruolo marginale degli interventi marginali (quelli appunto che danno luogo alla costituzione di saldi debitori e creditori in Ecu) a favore di quelli inframarginali (circa il 90% del totale) preferiti (a partire dal riallineamento del marzo 1983) per evitare le tensioni conseguenti al raggiungimento dei margini bilaterali di intervento: tali interventi, effettuati in eurovalute o in attività denominate in valuta estera, sono caratterizzati dall’esistenza (si utilizza la terminologia impiegata da Rainer S. Masera nella monografia su L’unificazione monetaria e lo SME) di «effetti asimmetrici di base monetaria»:[5] le loro ripercussioni in termini di base monetaria gravano cioè soltanto sulla banca centrale che effettua l’intervento e sono pertanto preferiti dalle autorità monetarie dei paesi a valuta forte, caratterizzati da una spiccata propensione a mantenere il più ampio controllo sulla politica monetaria interna. Nonostante i ridimensionamenti in itinere sia nella sfera pubblica sia in quella privata, il Rapporto Delors sottolinea tuttavia «...il ruolo dell’Ecu in connessione con la transizione finale verso una moneta unica», quest’ultima considerata «caratteristica desiderabile» pur se non «requisito indispensabile» di un’unione monetaria: l’Ecu possiede infatti « ...i requisiti essenziali per trasformarsi in una moneta comune»;[6] non più paniere di monete, quindi, ma moneta vera e propria. Nel Rapporto viene fra l’altro considerata non raccomandabile (in quanto potenziale determinante di tensioni inflazionistiche, oltre che pregiudizievole per gli sforzi di coordinamento delle politiche monetarie nazionali) la cosiddetta «strategia della moneta parallela» per la quale la nuova moneta, che risulterebbe dalla trasformazione dell’Ecu e ne conserverebbe la denominazione, si affiancherebbe alle altre in via aggiuntiva e concorrenziale.
Se si graduassero quindi per entità di utilizzo le diverse tipologie di impiego dell’Ecu rispettivamente per gli usi pubblici e per quelli privati, ne risulterebbero in entrambi i casi due curve accentuatamente decrescenti con un massimo corrispondente, nel primo settore, alle funzioni di riserva ufficiale e di strumento di finanziamento a brevissimo termine e, nel secondo, alla funzione di denominatore di operazioni finanziarie, a favore per altro – almeno in un primo tempo – di prenditori anch’essi appartenenti al settore pubblico dei diversi sistemi economici. E’ quindi in quest’ultimo e nelle sue scelte che si concentra l’attività «motrice» dell’utilizzo dell’Ecu: non desta quindi meraviglia il fatto che sia alla sfera delle decisioni politiche che i destinatari dell’indagine, e quindi lo studio in questione, fanno riferimento alla ricerca delle condizioni di un più esteso, sistematico e «istituzionale» utilizzo dell’Ecu, tanto più che è a tale sfera decisionale che deve necessariamente far capo la soluzione di problemi quali la posizione legale dell’Ecu, nonché di quelli derivanti dall’attuale assenza di usi finali, indicati rispettivamente al secondo e al terzo posto (alle spalle dell’«inerzia») nella graduatoria degli ostacoli segnalati dagli operatori.[7] Si legge di conseguenza in Una strategia per l’Ecu che «...il settore privato sarà difficilmente l’iniziatore di un movimento volto ad aumentare o ad incoraggiare l’uso dell’Ecu»[8] e anche che «il grado di permanenza di cui l’Ecu godrà entro la Comunità europea è una questione politica e richiede una soluzione politica».[9] Se ne conclude che «è necessario uno stimolo politico» senza del quale nessuna rimozione di ostacoli amministrativi otterrebbe l’effetto desiderato: è su tali fondamenti che si basa la raccomandazione «...che venga dato un annuncio credibile che l’Ecu sarà la moneta unica d’Europa».[10]
Senza volere in alcun modo sottostimare il peso di un tale annuncio, al contempo causa ed effetto di un ulteriore contributo al processo di unificazione sotto forma di somministrazione aggiuntiva di «spinte convergenti», è opportuno sottolineare come si possano individuare, nella letteratura recente, alcune proposte operative di rilievo finalizzate al rafforzamento del molo dell’Ecu proprio attraverso la promozione dei canali di comunicazione fra mercato ufficiale e mercato privato, e quindi il superamento (o l’avvio del superamento) di quel regime di separatezza che ha fino ad oggi caratterizzato il loro funzionamento, pur in assenza di incompatibilità di principio fra i due comparti di utilizzo. Una affermazione particolarmente chiara di tale nesso sinergico si legge proprio nel saggio di Masera sopra citato, dove si afferma che «interventi di mercato in Ecu, fatturazione e determinazione dei prezzi in Ecu e detenzione di riserve in Ecu rappresentano i tre aspetti di un unico processo che condurrebbe all’affermazione dell’Ecu quale moneta a pieno titolo in entrambi i settori – privato e ufficiale – valorizzando le sue proprietà di mezzo di scambio, unità di conto e strumento di riserva».[11] Al principio di connessione fra circuito privato e circuito ufficiale è appunto ispirata la proposta (che ripercorre quella a suo tempo elaborata con riguardo ai Diritti speciali di prelievo) di collegare, mediante interposizione di una stanza di compensazione (nella fattispecie la BRI) riconosciuta quale «terzo detentore» di Ecu ufficiali, banche centrali acquirenti di valute per interventi inframarginali e cedenti Ecu ufficiali e banche commerciali cedenti valute contro acquisizione di strumenti di deposito attivati mediante cessione al «terzo detentore» degli Ecu ricevuti: questo meccanismo di mobilizzazione degli Ecu ufficiali sarebbe funzionale al rafforzamento, proprio tramite l’Ecu, di una dimensione monetaria europea, senza che tale sviluppo entri in conflitto con la già ricordata propensione dei paesi a valuta forte per gli interventi caratterizzati da effetti asimmetrici di base monetaria.
Nello stesso ordine di finalità si inserisce inoltre la proposta[12] di collegare promozione dell’Ecu e coordinamento delle politiche monetarie, precisando con maggior dettaglio i contenuti operativi della seconda delle tappe delineate dal Rapporto Delors. Si legge infatti al paragrafo 57 di quest’ultimo che «in campo monetario, l’iniziativa di maggior rilievo di tale tappa [appunto la seconda, n.d.r.] sarebbe l’istituzione del sistema europeo di banche centrali che assorbirebbe le istituzioni monetarie precedenti...»[13] e più oltre che «il compito fondamentale del sistema europeo di banche centrali in questa tappa sarebbe quello di dare avvio alla transizione dal coordinamento delle politiche monetarie nazionali indipendenti a cura del comitato dei governatori delle banche centrali – caratteristico della prima tappa – all’elaborazione e all’attuazione di una politica monetaria comune ad opera dello stesso SEBC, prevista per la tappa finale».[14] Nella fase due, quindi, il SEBC sarebbe già operante, ma i tassi di cambio intracomunitari non sarebbero ancora stati irrevocabilmente fissati: si determinerebbe quindi una inusitata distribuzione di poteri fra livelli nazionali e livello comunitario, con riferimento alla quale il Rapporto non fornisce indicazioni precise circa il quid commune della politica monetaria, o piuttosto delle politiche monetarie. E’ appunto in questa prospettiva che si inserisce la proposta di autorizzare il SEBC a stabilire a carico delle banche commerciali della Comunità un vincolo di riserva obbligatoria denominata in Ecu. Di tali disponibilità le banche obbligate verrebbero in possesso acquistando attività assimilabili a fondi federali, fornite in esclusiva dallo stesso SEBC e la cui distribuzione fra paesi e fra banche verrebbe lasciata ad un «mercato dei fondi federali» sul quale le banche commerciali scambierebbero fondi allo scopo di soddisfare l’obbligo di riserva comunitario. Quest’ultimo dovrebbe essere, inizialmente, aggiuntivo e indipendente rispetto a quelli nazionali (oltre che moderato nell’ammontare e non remunerato), nella prospettiva tuttavia di sostituirli gradualmente con il progredire dell’integrazione monetaria, che tale strumento contribuirebbe a sua volta ad accelerare e a rafforzare, come d’altra parte potenzierebbe il ruolo stesso dell’Ecu.
E’ tuttavia opportuno, a conclusione di questa nota, tornare all’auspicio di annuncio politico, formulato dal rapporto in questione, dell’intendimento di fare dell’Ecu, ad una scadenza prefissata, la moneta unica dell’Europa unita. Non solo infatti tale auspicio non appare in conflitto con i progetti di ingegneria finanziaria ai quali si è fatto riferimento, ma è del tutto consonante con i più recenti sviluppi di quel potente strumento di analisi in materia di approccio strategico alla teoria della politica economica in regime di interdipendenza internazionale che è la teoria dinamica dei giochi di cooperazione internazionale:[15] uno dei risultati acquisiti in tale ambito analitico consiste, infatti, proprio nel riconoscimento dell’incidenza cruciale dei comportamenti degli operatori privati che formino «razionalmente» le proprie aspettative con riferimento alle scelte dei policy makers, e quindi anche ad annunci credibili intorno a tali scelte. Se d’altra parte la presenza di agenti economici razionali (resi tali anche da annunci del tipo di quello auspicato) mina teoricamente la coerenza dinamica di scelte di politica economica pur caratterizzate da ottimalità ex ante, essa può contribuire, per ciò stesso, a determinare un rilevante «effetto di disciplina» sulle politiche economiche «coesistenti», a tutto vantaggio di quell’obiettivo della stabilità la cui generalizzazione, o meglio la cui generalizzata accettazione, sembra a tutt’oggi costituire una condizione politica realisticamente imprescindibile di ogni ulteriore progresso verso l’unità economica dell’Europa.
Silvio Beretta .
[1] Una strategia per l’Ecu, Angeli, 1990. L’originale inglese, pubblicato dalla Kogan Page Ltd. di Londra, è pure del 1990.
[2] Ibidem, p. 125.
[3] Comitato per lo studio dell’Unione economica e monetaria, Rapporto sull’unione economica e monetaria nella Comunità europea (citato in seguito come Rapporto Delors), p. 9.
[4] Ibidem, pp. 8-9.
[5] R.S. Masera, L’unificazione monetaria e lo SME. L’esperienza dei primi otto anni, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 199 (cfr. comunque l’intero capitolo V, pp. 197-259, dal titolo «L’Ecu: problemi e prospettive»).
[6] Rapporto Delors, cit. p. 31.
[7] Una strategia per l’Ecu, cit., p. 47.
[8] Ibidem, p. 40.
[9] Ibidem, p. 41.
[10] Ibidem.
[11] R.S. Masera, L’unificazione monetaria e lo SME. L’esperienza dei primi otto anni, cit., p. 233.
[12] Cfr. D. Gros, «The Ecu in the Common Monetary Policy», in Ecu Newsletter, aprile 1990, pp. 14-9.
[13] Rapporto Delors, cit., p. 36.
[14] Ibidem, pp. 36-7.
[15] Per una recente rassegna in argomento cfr. C. Montagna, «Interdipendenza economica internazionale e coordinamento delle politiche economiche: una rassegna», in Rivista internazionale di Scienze sociali, gennaio-marzo 1990, pp. 57-82
|
The Federalist / Le Fédéraliste / Il Federalista
Via Villa Glori, 8
I-27100 Pavia |