Anno XXXIII, 1991, Numero 3 - Pagina 240
L’ACCENTRAMENTO DELLA COMUNITA’ EUROPEA
Alla vigilia dell’entrata in vigore del mercato unico, la Comunità sta assumendo sempre più, per effetto dei regolamenti e delle direttive che armonizzano norme e standards nei più diversi settori, le caratteristiche di un mostro istituzionale che cumula in sé i vizi dell’accentramento, dell’impotenza e dell’antidemocraticità. Mentre essa si dimostra del tutto incapace di agire di fronte ai paurosi fenomeni disgregativi che si stanno manifestando nell’Europa dell’Est e che minacciano l’intero equilibrio del continente, un numero crescente di aspetti della nostra vita quotidiana viene regolato, spesso anche in modo minuzioso e invadente, da un’autorità europea di cui i cittadini conoscono solo vagamente l’esistenza, che essi non sentono come il loro governo e sulla quale non possono esercitare alcun controllo democratico. La Comunità pretende oggi di intervenire in settori che sono sottratti alla competenza federale negli stessi Stati Uniti, cioè in uno Stato che è ormai da tempo avviato sulla strada dell’accentramento. Ne consegue tra l’altro che i parlamenti nazionali vengono spossessati delle loro prerogative, e quindi della sostanza della loro legittimità, senza che parallelamente aumentino le prerogative, e quindi la legittimità, del Parlamento europeo.
Ci troviamo di fronte ad una situazione paradossale, che offre facili argomenti ai nemici dell’Europa, a cominciare dal governo britannico; e che non è compresa dai più nella sua vera natura perché la crescente armonizzazione perseguita quotidianamente dalla Commissione e dal Consiglio dei Ministri, con la collaborazione del Parlamento europeo, viene identificata da molti sinceri europeisti con lo stesso processo di integrazione europea. La capacità decisionale di un’istituzione viene confusa con l’estensione delle sue competenze: due cose che invece sono diverse, anche se è ovvio che un qualsiasi meccanismo decisionale non può operare che in una sfera di competenze definita. La verità è che la capacità di prendere e di eseguire decisioni con rapidità ed efficacia – che in democrazia è strettamente legata al consenso, cioè all’esistenza di un canale diretto tra governati e governanti – può esplicare tutti i suoi benefici effetti anche nel quadro di competenze rigorosamente limitate; mentre un’ampia estensione delle competenze è perfettamente compatibile con un meccanismo decisionale lento e inefficace. In un’Unione europea democratica, in particolare, il principio federalista dell’unità nella diversità sarebbe realizzato nel modo più compiuto se le competenze dell’Unione si limitassero al governo della moneta (e in futuro della politica di sicurezza) e a quei soli aspetti degli altri settori per i quali fosse strettamente indispensabile una regolamentazione valida per l’ intero territorio dell’ Unione.
La verità è che nel processo di integrazione europea l’armonizzazione è un surrogato dell’unità politica, cioè di un vero potere democratico. Si armonizza perché non si sa, o non si vuole, unire. I governi europei, non volendo cedere la sovranità, cioè attribuire ad istituzioni sovrannazionali il potere di prendere, quando occorra, decisioni valide per tutti i cittadini della Comunità, ed essendo per converso permanentemente confrontati con problemi di dimensioni europee che richiedono risposte europee, non trovano altra via d’uscita dall’impasse che quella di rendere sempre più omogeneo il quadro legislativo nel quale operano le istituzioni nazionali. È così che, nella mente di molti sinceri europeisti, al modello della Federazione europea come Stato forte e decentrato (con « poteri limitati ma reali ») si va sostituendo quello opposto di una Comunità debole e accentrata.
Va notato che questo modello è da respingere non soltanto in quanto burocratico e inefficiente, ma anche perché semina di ostacoli il cammino dell’allargamento della Comunità ai paesi dell’Est. Perché l’impatto necessariamente traumatico dell’ingresso – ormai ineludibile e urgente – degli ex-satelliti dell’Unione Sovietica possa essere assorbito senza danni dalla Comunità è infatti necessario, da un lato, che la struttura istituzionale di quest’ultima sia forte e democratica; e, dall’altro, che non si cerchi di imporre a realtà economico-sociali destinate a rimanere per decenni profondamente diverse da quelle dei paesi dell’Europa occidentale norme e comportamenti ai quali esse non sono e non saranno per lungo tempo in grado di adeguarsi.
Certo è che oggi, nel quadro dei Dodici, non esistendo l’unità politica, il ruolo di supplenza svolto dall’armonizzazione è indispensabile. Essa contribuisce a rendere i comportamenti degli operatori economici e dei soggetti sociali sempre più interdipendenti e quindi a garantire a livello della società civile quella coesione che la politica non sa dare per la mancanza di una vera dialettica democratica nel quadro europeo. In questo modo, tra l’altro, essa rende sempre più stridente e manifesta l’insensatezza della pretesa di governare un’economia e una società sempre più strettamente unite con uno strumento istituzionale di tipo confederale, come tale strutturalmente incapace di prendere decisioni importanti. Ma il fatto è che ormai si tratta di una contraddizione che non ha più alcun bisogno di essere evidenziata: l’interdipendenza a livello della Comunità ha da lungo tempo superato il grado al quale l’unità politica diventa insieme possibile e necessaria. La decisione di realizzarla non dipende quindi più dalla creazione di certe condizioni obiettive, che sono largamente acquisite, ma soltanto dalla volontà dei governi e delle forze politiche. Ne consegue che l’estensione ulteriore ed accelerata dell’armonizzazione non avvicina l’unità politica ma, in quanto la surroga, la allontana.
Per converso, quanto più l’unità vera si allontana, tanto più cresce la necessità di estendere il campo dell’armonizzazione, per preservare, avvalorando un’idea falsa di unità, la necessaria coesione della Comunità. L’unità politica dell’Europa è destinata quindi ad essere tanto meno pluralistica quanto più viene rinviata nel tempo. Lo hanno ben capito i Länder tedeschi, che già, in questa prospettiva, avevano mosso obiezioni di fondo allo stesso progetto di Trattato approvato dal Parlamento europeo nel 1984, e che ora assistono con crescente preoccupazione all’ assunzione da parte della Comunità, senza il loro consenso, di prerogative di loro competenza. Il loro disagio deve essere considerato con grande attenzione perché esso può avere come conseguenza una grave perdita di consenso per l’obiettivo dell’Unione europea. Ma è possibile tenerlo sotto controllo soltanto se ci si rende conto che esso ha radici reali, e che è su queste radici che bisogna agire.
La risposta che si tende comunemente a dare a questo disagio consiste nella proposta di creare a livello europeo una sorta di Camera delle Regioni con poteri consultivi o, in prospettiva, con poteri di codecisione limitati alle deliberazioni suscettibili di incidere sulla sfera di competenza delle regioni o dei Länder.
Ma anche questa risposta non è che un riflesso del carattere confederale, cioè interstatale, della Comunità nella sua struttura attuale. Si tenta di distogliere l’attenzione dal fatto che il processo di integrazione europea sta di fatto svuotando di contenuto le autonomie regionali e locali là dove esistono e ne impedisce lo sviluppo dove non esistono, creando un organo farraginoso e corporativo che non farebbe che appesantire ulteriormente l’attuale complicato e inefficiente meccanismo decisionale della Comunità senza garantire la minima tutela alle autonomie regionali e locali.
Peraltro i federalisti si devono guardare dalla tentazione di dare una risposta a questo problema ricorrendo al nebuloso modello dell’« Europa delle regioni », cioè di una federazione che « salti » il livello nazionale, fondando le istituzioni federali direttamente sul livello regionale. Al di là della difficoltà, di per sé decisiva, di rappresentare democraticamente a livello europeo un numero elevatissimo di unità territoriali di diverse e comunque piccole dimensioni, la realizzazione di questo modello comporterebbe, proprio a seguito dell’abolizione del livello nazionale, il trasferimento di tutti i problemi di dimensione più vasta di quella regionale direttamente al livello europeo. La sua realizzazione comporterebbe quindi la crescita incontrollata delle competenze e dell’apparato burocratico di quest’ultimo. L’« Europa delle regioni » sarebbe proprio il superstato accentrato che molti paventano, perché entità territoriali di ridotte dimensioni, il cui potere sarebbe conseguentemente assai limitato, contrapposte ad un potere federale di dimensioni continentali, non potrebbero dar luogo a quel sistema di freni e contrappesi che fa di ogni ordinamento genuinamente federale il quadro istituzionale ideale per garantire la libertà e il governo della legge.
La verità è che i problemi vanno affrontati e risolti nel quadro in cui si pongono: quelli europei nel quadro europeo, quelli nazionali nel quadro nazionale, quelli regionali e locali nel quadro regionale e locale. Si tratta quindi di dare finalmente all’Europa una vera unità federale, nella quale il territorio sia articolato in vari ambiti di autogoverno democraticamente legittimati, ad ognuno dei quali la costituzione attribuisca a titolo originario il potere di affrontare i problemi che in esso si pongono.
In questo modello di Stato federale il livello nazionale ricupererebbe la sua piena legittimità e perderebbe ogni connotazione negativa non soltanto perché sarebbe privato dell’attributo della sovranità, ma anche perché avrebbe esso stesso natura federale, in quanto federazione di regioni (il che risolverebbe anche il problema della difesa degli interessi regionali – e locali – contro possibili ingerenze del potere europeo, ma in modo indiretto, per il tramite appunto del livello nazionale rappresentato nel Senato, che insieme li sosterrebbe con ben altra forza e ne assicurerebbe la mediazione in un quadro di compatibilità più vasto).
Sarebbe questa la sola realizzazione effettiva del principio di sussidiarietà, la cui esistenza è stata recentemente scoperta da molti politici europei e che ora è usato per giustificare anche i disegni meno confessabili, e in particolare quello di mantenere il potere reale nelle mani degli Stati, cioè di perpetuare nella sostanza l’attuale struttura istituzionale della Comunità. Si tratta ancora una volta di un effetto della confusione, spesso alimentata ad arte, tra estensione delle competenze e ripartizione del potere reale.
In verità il principio di sussidiarietà, in forza del quale ogni decisione di governo deve essere presa nel quadro territoriale più ristretto nel quale possono essere risolti i problemi che essa deve affrontare, ha un senso esclusivamente nell’ambito di uno Stato federale, e non deve essere usato come pretesto per impedire che uno Stato federale venga creato. Né esso deve essere addotto per difendere, nei confronti della Comunità, le prerogative di Stati nazionali che, come è il caso per la Francia o per la stessa Gran Bretagna, rifiutano da parte loro qualsiasi forma di decentramento a favore delle regioni e degli enti locali. Come, per converso, esso non deve essere preso a pretesto per giustificare rivendicazioni regionalistiche in un quadro che non tenga conto della priorità dell’obiettivo dell’unificazione politica dell’Europa: perché, fino a che il principio della coincidenza tra Stato sovrano e nazione, comunque questa venga definita, non è messo radicalmente in questione, i movimenti regionalistici sono destinati a degenerare nel separatismo e quindi a riprodurre, con accresciuta virulenza, i mali dell’accentramento in un ambito territoriale più ristretto, e in quanto tale più asfittico ed opprimente.
Il federalismo è contemporaneamente affermazione di autonomia e di solidarietà. Esso si fonda sull’indipendenza delle comunità locali e regionali – da esercitarsi da ciascuna nell’ambito della propria sfera – ma la deve garantire instaurando il regno della pace e del diritto in un quadro prima europeo e poi mondiale. Che oggi la Comunità stia marciando in questa direzione è tutt’altro che certo.
Francesco Rossolillo