Anno LVIII, 2016, Numero 2-3, Pagina 152
UNIONE FEDERALE E DIFESA EUROPEA
Non è facile sciogliere i nodi che hanno impedito e tuttora impediscono agli europei di dotarsi di una capacità e credibilità autonoma nella politica estera e della difesa. Non lo è stato dopo la seconda guerra mondiale, agli inizi del processo di integrazione europea, come testimonia il fallimento della CED. Né dopo la fine del bipolarismo, quando sembravano aprirsi degli spiragli per costruire un nuovo ordine continentale e mondiale basato su un sistema di sicurezza reciproca tra Est e Ovest. E neppure quando, agli inizi di questo secolo, l’occupazione dell’Iraq da parte delle truppe americane e britanniche aveva indotto Francia, Germania, Belgio e Lussemburgo a rilanciare la proposta di creare un quartier generale europeo più autonomo dagli USA.
Lo vediamo anche oggi, dopo che l’esito del referendum britannico a favore di Brexit, e a maggior ragione l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, hanno rilanciato il tema della difesa europea. Le proposte finora avanzate rimangono estremamente prudenti, perché i governi e la Commissione europea sono consapevoli delle forti tensioni che caratterizzano in questo momento i rapporti tra i paesi europei, e perché le preoccupazioni elettorali dei singoli governi li spingono all’immobilismo. Come ha più volte spiegato l’Alto rappresentante e Vice presidente della Commissione europea Federica Mogherini, in questo momento non è neppure in discussione la creazione in tempi rapidi di un esercito europeo. Questo obiettivo non solo non è all’ordine del giorno e non è perseguibile nell’ambito degli attuali Trattati, ma non sarebbe neppure auspicabile, in quanto “anche la NATO non ha di per sé un esercito”.[1]Cosa questa solo formalmente vera, in quanto la credibilità della NATO si basa proprio sulla forza e capacità d’azione e deterrenza di un esercito, quello americano, il cui ruolo è stato e resta fondamentale in qualsiasi operazione militare di rilievo dalla fine della seconda guerra mondiale sino ad oggi.
Non bastano dunque i timori suscitati dalla prospettiva di un disimpegno finanziario oltre che militare americano dalla difesa dell’Europa, ribadita ed accentuata da Trump (ed espressione di un malessere e di un malcontento che covano da tempo oltre Oceano[2]) per convincere gli europei della necessità di uscire dalla logica di un mero rafforzamento dell’alleanza militare tra loro e di creare una vera Unione della difesa.
Per fare il punto su che cosa c’è di concreto nel dibattito europeo, prendiamo brevemente in considerazione quanto la Commissione europea ed i governi hanno proposto in ordine cronologico.
I. La Global Strategy della Commissione europea, presentata al Consiglio europeo di fine giugno, si basava su tre linee guida, riprese poi in tutti i documenti successivi.
La prima riguarda il pieno sfruttamento dei Trattati esistenti, a partire dall’impiego dei battle groups, unità militari di 1500 soldati forniti a turno dagli Stati, che sono diventati operativi dal 2007 ma che non sono mai stati utilizzati, sotto il comando del Consiglio dell’Unione europea. Non è difficile capire perché questo strumento è rimasto inutilizzato. Il loro quartier generale ha sede itinerante in funzione della composizione del gruppo. Per quanto riguarda le risorse a loro disposizione, esse dipendono da quanto i singoli Stati facenti parte dei gruppi sono disposti a spendere. A complicare la loro struttura organizzativa ed operativa c’è il fatto che tra i paesi partecipanti a rotazione nei vari gruppi ci sono anche paesi non membri dell’UE ma che fanno parte della NATO (come la Norvegia e la Turchia); paesi che non sono membri né dell’UE né della NATO (come la Macedonia e l’Ucraina); mentre ci sono paesi che pur essendo membri dell’UE non partecipano alla formazione dei battle groups (come la Danimarca e Malta). Ma il punto più rilevante sottolineato dalla Global Strategy riguarda l’implementazione degli articoli 42.6 e 46 dei Trattati, in cui si prevede la possibilità di attivare le cooperazioni strutturate permanenti tra alcuni paesi in materia militare. Un meccanismo anch’esso finora mai attivato, in quanto pur potendo essere avviato con voto a maggioranza qualificata, per funzionare resta soggetto alla regola dell’unanimità tra gli Stati aderenti (e quindi ad un pre-accordo unanime su che cosa fare insieme). Consapevole delle difficoltà insite nell’avvio e nell’attuazione pratica di questa procedura, l’Alto rappresentante Federica Mogherini ha allora anche evocato la possibilità di implementare l’attuazione dell’art. 42.7 (che riguarda l’obbligo di aiuto e assistenza tra Stati vittime di aggressioni armate sul proprio territorio) ed il mai utilizzato art. 44 (che riguarda l’affidamento del compito di assolvere a determinati compiti militari ad un gruppo di Stati da parte del Consiglio).
La seconda linea guida della Global Strategy consiste nell’esplorare le possibilità di migliorare la pianificazione ed il coordinamento delle operazioni militari e civili congiunte nelle zone di crisi.
La terza linea guida riguarda l’identificazione delle attività industriali e tecnologiche strategiche da promuovere in comune nel campo della difesa, anche attraverso dei meccanismi di incentivazione finanziaria.
Come si vede, l’orizzonte di sviluppo della Global Strategy, su cui gli Stati membri sono stati chiamati ad avanzare ulteriori riflessioni e proposte, sul piano istituzionale segue il metodo intergovernativo codificato nei Trattati esistenti in materia di difesa e politica estera, mantenendo uno stretto controllo del Consiglio per quanto riguarda sia l’avvio di cooperazioni più strette, sia, soprattutto, la loro implementazione ed il loro finanziamento.
II. A questa proposta la Francia e la Germania avevano prontamente risposto con considerazioni e suggerimenti che, nella sostanza, restavano nel quadro tracciato dalla Commissione. Dopo la presentazione del piano della Commissione europea, Parigi e Berlino hanno inviato ben tre contributi. Il primo dei ministri degli esteri Jean-Marc Ayrault e Frank-Walter Steinmeier (27 giugno); il secondo dei Ministri degli interni Bernard Cazeneuve e Thomas de Maizière (23 agosto); ed il terzo dei ministri della difesa Jean-Yves Le Drian e Ursula von der Leyen (11 settembre). Con quest’ultimo i due ministri della difesa hanno ribadito l’importanza di tradurre in azioni concrete la Global Strategy, di utilizzare le cooperazioni strutturate permanenti e di istituire un quartier generale. Ma hanno anche precisato che ogni eventuale catena di comando dovrebbe far capo al Comitato politico e di sicurezza dell’Unione europea, costituito dagli ambasciatori degli Stati membri a Bruxelles e presieduto dai rappresentanti del Servizio europeo per l’azione esterna. E, per quanto riguarda gli aspetti finanziari, Francia e Germania, pur auspicando la creazione di nuovi strumenti finanziari dedicati, non hanno voluto specificare come reperirli e governarli.
III. La stessa indeterminatezza la ritroviamo nell’intervento dell’ottobre scorso del ministro tedesco delle finanze Wolfgang Schäuble, il quale ammetteva che l’Unione europea “avrebbe bisogno di un bilancio comune per la difesa”, e che le risorse finanziarie dei paesi dell’Unione nel settore della difesa, qualora venissero messe in comune, ammonterebbero ad una somma molto superiore alle spese militari della Russia. Ma anche il Ministro Schäuble non spiegava in quale quadro sarebbe possibile la messa in comune di queste risorse, né come questa sua proposta si possa conciliare con l’attuale politica del governo tedesco, il quale ha unilateralmente deciso un consistente aumento del bilancio della difesa nazionale per i prossimi cinque anni, dopo 25 anni di riduzioni delle spese.
IV. Da parte sua, il contributo che l’Italia ha fornito alla riflessione sulla Global Strategy, con il paper presentato dai Ministri degli esteri Gentiloni e della difesa Pinotti, pur inserendosi anch’esso nel quadro delle politiche da perseguire nel quadro esistente, e dichiarandosi quindi anch’esso favorevole all’uso dei battle groups ed all’avvio di cooperazioni strutturate permanenti, ha proposto di compiere un ulteriore passo avanti. Il paper suggerisce infatti che, parallelamente al pieno uso delle possibilità offerte dai Trattati, “gli Stati membri con un più alto livello di ambizione si preparino ad avanzare verso una Unione europea della Difesa”. Il modello di riferimento sarebbe quello di Schengen, in cui “i paesi disposti a condividere forze, comandi, controllo, manovra e capacità di intervento potrebbero creare una Forza multinazionale europea (FME) in permanenza a disposizione del Quartier generale della UE per costituire “il nucleo iniziale della futura Forza integrata europea”. Questa proposta, a differenza delle precedenti, si pone dunque il problema della natura che dovrebbe avere un esercito europeo, ma senza affrontare quello del contesto istituzionale in cui inquadrarla. Il che è piuttosto sorprendente quando si considera che il paper italiano parte proprio dalla constatazione che “quando il contesto non corrisponde più alle aspirazioni del tempo in cui viviamo, allora bisogna cambiare il contesto”.
V. Il 14 novembre 2016 i Ministri degli esteri e della difesa dei 28 paesi dell’Unione europea hanno dato il loro assenso all’Implementation Plan on Security and Defence presentato da Federica Mogherini.[3] Questo piano, che dovrà essere sottoposto ai Capi di Stato e di governo nei prossimi vertici, è stato salutato dai Ministri della difesa francese e tedesco come un passo avanti per promuovere una maggiore autonomia strategica in campo militare diminuendo nel contempo la dipendenza europea da Washington. In realtà esso non rappresenta un significativo progresso rispetto alle proposte già in campo. In due punti in particolare esso conferma tutte le difficoltà e le titubanze dei governi nel procedere davvero su questa strada, laddove si affrontano gli aspetti finanziari e quello dell’avvio delle cooperazioni strutturate nel campo della difesa. Per quanto riguarda la solidarietà finanziaria, ci si limita infatti a constatare che gli “Stati membri sono d’accordo nel considerare i finanziamenti in modo approfondito, nell’ottica di rafforzare la solidarietà, l’efficacia e la flessibilità adeguate al livello di ambizione necessario per elevare la capacità di risposta della politica di sicurezza e difesa comune” (punto 11 del documento). Sul secondo aspetto, per sfruttare appieno il potenziale del Trattato, gli Stati membri si dichiarano semplicemente “d’accordo nell’esplorare il potenziale di un’unica ed inclusiva cooperazione strutturata permanente basata sulla volontà degli Stati membri di rafforzare la politica di difesa e sicurezza comune sulla base di impegni concreti. A questo proposito, qualora richiesto, l’Alto rappresentante potrà fornire ulteriori elementi ed opzioni” (punto 12 del documento).
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La necessità di cambiare il quadro istituzionale in cui prendere le decisioni ed agire non rientra pertanto al momento tra le preoccupazioni prioritarie di chi vuole realizzare la difesa europea. Eppure si tratta del punto cruciale, come ha sottolineato tra gli altri un commento al White Paper del governo tedesco sulla difesa[4] pubblicato dalla Stiftung Wissenschaft und Politik in un significativo passaggio. “La politica di sicurezza e difesa comune europea”, scrivono gli autori di questo commento, “è fallita a causa della mancanza di volontà politica. Quando si usa il termine ‘unione’ nel contesto dell’integrazione europea, questo non può che significare una messa in comune a lungo termine delle politiche in questione, come nel caso dell’Unione monetaria. Nel caso della difesa questo significa prevedere un Commissario con l’autorità di comando sulle truppe europee ed il trasferimento di alcuni poteri dai parlamenti nazionali al Parlamento europeo. Questo salto nel processo di integrazione può essere un obiettivo della politica di sicurezza tedesca nella misura in cui chi è consapevole della necessità di compierlo è esplicito nel proporlo, mettendo in evidenza i passi da fare in quella direzione e il calendario vincolante da rispettare, proprio come avvenne per l’Unione monetaria. Nell’attuale situazione di diffusa avversione nei confronti di una maggiore integrazione, gli argomenti presentati dal White Paper (del governo tedesco, ndr) per una Unione di sicurezza e difesa possono apparire ambiziosi, ma in realtà sono incerti e timidi”.[5] Si tratta di critiche che, a ben vedere, riguardano un po’ tutto il dibattito odierno sulla difesa.
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Il fatto che i paesi dell’Unione europea si trovino nell’area di confronto geopolitico tra USA e Russia, e di confine con regioni africane e mediorientali ancora ad alta instabilità politica ed economica, li espone strutturalmente a rischi di crisi o di accordi presi sulle loro teste. Se tali rischi non saranno affrontati in modo coerente, la sicurezza dell’Europa occidentale è a rischio e diventa possibile la sua disgregazione. La posta in gioco per l’Europa non è più soltanto la conservazione del benessere raggiunto, ma la pace. Per la stretta interazione che c’è tra la politica di sicurezza e quella estera, insieme a quella commerciale e delle infrastrutture nel campo dei trasporti e delle comunicazioni, e a quella industriale ed energetica, è solo un palliativo pensare di affrontare la questione della difesa dell’Europa, nei suoi aspetti interni ed esterni, semplicemente attraverso una maggiore cooperazione settoriale in campo militare fra Stati e governi, senza neanche porsi il problema della creazione e della gestione di un esercito europeo, per quanto piccolo o grande questo possa essere; e per quanto poco o tanto la sua struttura operativa possa essere coordinata ed articolata dal livello europeo a quello nazionale. Ed è altrettanto illusorio pensare di lasciare in sospeso la questione della natura ed articolazione della capacità difensiva europea in un’era in cui la deterrenza nucleare continuerà a giocare un ruolo importante. Un’era in cui, come ha osservato il gruppo di dialogo russo-americano Club Valdaj nell’aprile scorso nel suo rapporto Che cosa rende possibile la guerra fra grandi potenze, siamo di fronte ad “una chiara tendenza ad allontanarsi dalle regole di guerra in senso stretto o dall’esistenza di qualsiasi tangibile separazione fra pace e guerra”. E in cui il terreno di confronto fra i grandi poli continentali si è esteso allo spazio, al cyberspazio, alle grandi infrastrutture elettroniche di comando e controllo, a quelle energetiche, finanziarie e di informazione. E dove qualsiasi tensione su scala regionale, e a maggior ragione qualsiasi eventuale conflitto, rischia di “distruggere parti importanti del mondo moderno da cui tutti gli Stati dipendono”.[6]
La stessa esperienza storica ci ha insegnato che i tentativi di integrazione settoriale in campo militare non riescono a decollare se non si accompagnano ad un disegno di unione politica, perché non possono prescindere né dal legame con la politica estera, né dal problema del controllo politico. Lo testimonia anche il primo tentativo fallito di creare un esercito europeo attraverso la Comunità europea di difesa (CED). Questo progetto era nato dall’idea di creare istituzioni simili a quelle della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) con competenze militari anziché economiche, senza alcun riferimento a istituzioni politiche con caratteristiche democratiche e federali. Ma ben presto nelle trattative era emersa la contraddizione di voler affrontare la questione della difesa dell’Europa occidentale di allora senza sciogliere il nodo del governo necessario per gestirla. Fu grazie ad Altiero Spinelli e ad Alcide de Gasperi che questa contraddizione venne superata, collegando la creazione dell’esercito europeo all’instaurazione di un’autorità politica sovranazionale fondata sul voto diretto degli europei. Questa scelta trovò la sua traduzione concreta nel progetto di Comunità politica europea (CPE) elaborato tra il settembre 1952 ed il marzo 1953 dall’assemblea allargata della CECA (Assemblea ad hoc). Vale la pena ricordare l’introduzione ai documenti di presentazione di quel trattato politico predisposto dal Comitato costituzionale presieduto da Von Brentano: “Firmando il trattato istitutivo della CED il 27 Maggio 1952, i Sei governi dichiararono di essere consapevoli di ‘compiere un nuovo ed essenziale passo verso la creazione di ‘un’Europa unita’. Il Trattato non si limitava infatti a dare espressione verbale alla comune determinazione dei Sei paesi di integrare le loro forze armate in un esercito europeo nell’ambito di una comunità sovranazionale; esso stabiliva anche la procedura da seguire per disegnare la struttura definitiva dell’Europa. In base all’articolo 38 del Trattato, l’Assemblea della CED veniva incaricata di esaminare entro sei mesi dal suo insediamento ‘la costituzione di un’Assemblea della Comunità europea di difesa, eletta democraticamente’ che ‘costituisse uno degli elementi di una struttura federale o confederale, basata sul principio della separazione dei poteri e dotata, in particolare, di un sistema di rappresentanza bicamerale’”. Il disegno originario di una integrazione settoriale nel campo militare, per essere promosso, aveva dunque dovuto essere inserito in un chiaro disegno di unione che, se fosse arrivato in porto, avrebbe dato, questo sì e concretamente, avvio alla costruzione di uno Stato federale europeo.[7]
Non è casuale il fatto che Guy Verhofstadt abbia richiamato il precedente storico della CPE nel suo discorso del 12 luglio 2016 di fronte alla Commissione affari costituzionali del Parlamento europeo. E che lo abbia fatto per ribadire che il punto essenziale da affrontare per districarsi dalle varie crisi e per superare l’impotenza, resta quello della realizzazione, tuttora incompiuta, di una comunità, di una unione politica. E infatti il rapporto Verhofstadt[8] pone il tema della difesa e quello della politica estera nel quadro di una riforma in senso federale delle istituzioni europee.
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Alla luce di tutto ciò, è evidente che il nodo della difesa europea non può essere sciolto, oggi come nel secolo scorso, limitandosi ad affrontare alcuni aspetti settoriali e senza aprire una prospettiva di evoluzione in senso federale dell’attuale assetto dell’UE. Limitarsi ad affrontare la questione di una maggiore integrazione in campo militare senza voler superare l’ottica puramente intergovernativa rischia di portare ad un insuccesso, proprio perché, nel campo della difesa, la capacità di agire, ancor di più rispetto alla moneta, non è solo una questione di regole, ma di potere e di sovranità.
Come avviene anche in altri settori, a partire da quello economico e finanziario, in cui sono urgenti politiche europee efficaci, le proposte attuali sulla difesa si scontrano con la paura dei governi di costruire un vero potere sovranazionale (federale) a livello europeo, con ciò pretendendo di restare nel quadro intergovernativo. Mentre, come ha osservato Wheare, solo nelle federazioni “lo strumento d’azione è un governo con il potere di decidere e di eseguire nei campi di comune interesse”.[9]
Smontare questi alibi, e collegare i temi della difesa europea al disegno dell’unione federale, deve diventare pertanto il compito prioritario per tutti coloro i quali sono consapevoli della necessità e dell’urgenza di contribuire a preservare la pace in Europa e nel mondo.
Franco Spoltore
[1] Si vedano in proposito le dichiarazioni rilasciate da Federica Mogherini in occasione dei suoi interventi il 5 ed il 27 settembre e la conferenza stampa del 14 novembre in occasione della riunione d’emergenza dei Ministri degli esteri e della difesa dei 28 per discutere dell’implementazione della Global Strategy proposta dalla Commissione: www.facebook.com/f.mogherini/?fref=ts.
[2] Una esplicita e formale richiesta agli europei di farsi maggiormente carico della loro difesa era già stata avanzata durante la presidenza Obama dall’allora Segretario alla Difesa degli USA Robert Gates, il quale aveva messo in guardia senza mezzi termini che “la pazienza e la volontà del Congresso e del mondo politico americano in generale di pagare per la difesa di Stati che non mostrano alcuna volontà di spendere quanto necessario o di fare i cambiamenti necessari per poter essere considerati dei credibili e capaci partner per garantire la propria sicurezza, stanno finendo”, The Security and Defense Agenda (Future of NATO), as delivered by Secretary of Defense Robert M. Gates, Brussels, Belgium, Friday, June 10, 2011, https://www.scribd.com/document/57526818/Secretary-Gates-Address-About-NATO-s-Future.
[3] Implementation Plan on Security and Defence, by the High Representative of the Union for Foreign Affairs and Security Policy, Vice-President of the European Commission, and Head of the European Defence Agency, 14 November 2016, http://www.consilium.europa.eu/en/press/press-releases/2016/11/pdf/implementation-plan-on-security-and-defence_pdf/.
[4] The 2016 White Paper, Federal Ministry of defence, https://www.bmvg.de/portal/a/bmvg/!ut/p/c4/04_SB8K8xLLM9MSSzPy8xBz9CP3I5EyrpHK9pNyydP1wkHxOun5kap5-QW6uIwDwHf6z/.
[5] Markus Kaim, Hilmar Linnenkamp, The New White Paper 2016 – Promoting Greater Understanding of Security Policy, Stiftung Wissenschaft und Politik (SWP) – German Institute for International and Security Affairs, Comments 2016/C 47, November 2016 - http://www.swp-berlin.org/en/publications/swp-comments-en/swp-aktuelle-details/article/the_new_white_paper_2016.html.
[6] Si veda La sindrome di Versailles, editoriale del numero di Limes su Russia-America la pace impossibile, 9/2016.
[7] Si veda in proposito Sergio Pistone in Il ruolo di Altiero Spinelli nella genesi dell’art. 38 della CED e del progetto della CEP, Contributions to the Symposium in Luxembourg, 17-19 Maggio 1989, Publications of the European Community Liaison Committee of Historians, Milano, Giuffré, 1993.
[8] Questo rapporto è in discussione al Parlamento europeo, che dovrebbe votarlo entro la fine del 2016.
[9] K. C. Wheare, The Constitutional Structure of the Commonwealth, Oxford University Press, London, 1963. Si leggano in proposito le sue considerazioni in relazione ai limiti della cooperazione alle pagg.128-129 e 135-136.
Anno LVIII, 2016, Numero 2-3, Pagina 160
ALCUNE RIFLESSIONI SUGLI ACCORDI GLOBALI
DI LIBERO SCAMBIO
Dopo un lungo e travagliato parto, finalmente il 30 ottobre a Bruxelles, il Consiglio, la Commissione europea e il governo del Canada hanno firmato, sebbene in via provvisoria, il Comprehensive Economic and Trade Agreement (CETA). Le difficoltà incontrate per siglare questo accordo, concluso già nel 2014 dopo sette anni di negoziato, sono sorte a seguito della controversa scelta, compiuta dalla Commissione europea su pressione di alcuni Stati membri, di derubricare la natura dell’accordo da natura esclusiva a natura mista, contrariamente a quanto sostenuto inizialmente. Ciò ha reso possibile anche il momentaneo blocco della firma da parte del governo vallone, che ha abbandonato il veto solo grazie alle pressioni congiunte della Commissione e degli altri Stati membri, nonché del governo centrale belga e del governo regionale fiammingo, e solo dopo aver ricevuto assicurazioni specifiche riguardo ai propri settori di interesse (prevalentemente agricultura).
La mossa della Commissione di derubricare l’accordo deriva da diversi motivi: da una parte obiezioni di natura legalistica, circa il fatto che il trattato effettivamente copre molte aree di natura non esclusivamente europea (e su cui quindi le istituzioni nazionali, in base agli attuali Trattati, possono scegliere di mantenere l’ultima parola); su questa base diventa necessario il consenso di tutti gli Stati membri, attraverso la ratifica parlamentare. Dall’altra considerazioni di natura politica: subito dopo il risultato della vittoria dei Leave nel referendum britannico del 23 giugno, la Commissione europea ha cercato un modo per diminuire la pressione di euroscettici, parlamenti nazionali e governi più protezionistici. La scelta inoltre è avvenuta mentre, contemporaneamente, era in corso una causa presso la Corte di giustizia UE su un altro occordo di natura analoga, riguardante invece Singapore, il quale creerà un precedente che metterà una parola definitiva sulla natura e la relativa competenza di questi accordi.
Sulla procedura che si è deciso di utilizzare si gioca proprio una delle questioni fondamentali di come dovrà costruirsi l’assetto federale europeo, se e quando si riuscirà a realizzarlo. Occorrerà ovvero decidere se questi accordi che per loro natura sono “comprehensive” debbano essere esclusiva di un governo federale unico, oppure se si debba optare per un modello più multilivello, maggiormente sussidiario e che coinvolga maggiormente gli Stati membri sia in fase di negoziazione, sia in fase di ratifica. La sentenza della Corte di giustizia sul trattato UE-Singapore sarà da questo punto di vista fondamentale per definire in quale direzione, in caso si aprisse il processo di revisione dei Trattati, si dovrà sviluppare l’assetto istituzionale europeo in questo specifico ambito.
Sia il CETA, sia il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) che vede coinvolti gli USA e la UE, hanno una natura molto specifica. Nascono innanzitutto dalla situazione di stallo decennale che si è creata all’interno del WTO ed hanno quindi lo scopo di bypassarlo da una parte, creando una realtà parallela, e dall’altra di influenzarlo, facendo in modo che si affermino determinati standard proprio sulla base di questi grandi trattati commerciali, in modo da indirizzare le decisioni a livello di WTO. Non è quindi sorprendente l’irritazione da parte di alcuni BRICS e di altri emergenti, che in questo modo vedrebbero di fatto affermarsi degli standard commerciali diversi dai loro, sui quali non hanno potuto avere influenza e che per questo vedono in modo non favorevole. La questione è comunque molto delicata: da una parte gli accordi come il CETA e il TTIP o il TPP (Trans-Pacific Partnership) permettono di uscire da una situazione di stallo, dall’altra rischiano di minare ancora di più la stabilità del WTO, che sebbene sia disfunzionale, rimane comunque l’unica sede deputata ad accordi multilaterali di natura commerciale.
Proprio per la loro natura globale, CETA e TTIP sono spesso messi sullo stesso piano, e il primo è considerato una sorta di modello per il secondo. Quest’ultima è anche una delle ragioni delle contestazioni nate intorno a questo trattato, che in realtà recepisce tutte le condizioni poste dagli europei, ma che rischia così di naufragare nel corso delle ratifiche nazionali che dovranno suggellare il trattato, e grazie alle quali ciascun parlamento nazionale, – o addirittura in certi casi sub-nazionale – ha potere di veto. I critici tendono però a dimenticare una differenza fondamentale tra i due accordi: la controparte. Infatti il Canada, sebbene sia geograficamente uno dei paesi più vasti oltreché una delle principali economie del mondo, è un paese con una popolazione paragonabile a quella spagnola in termini numerici e ha sviluppato una forma di federalismo molto meno centralizzata rispetto a quella degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti, viceversa, hanno sviluppato una forma maggiormente centralizzata, e in più sono la principale economia del mondo oltreché, ancora, la principale potenza militare, oltre ad avere uno dei maggiori mercati in termini di appalti pubblici (procurement). Questo fa sì che il rapporto tra UE e USA, proprio per la diversa struttura, rischia di essere sbilanciato a favore di Washington, contro un’Unione poco coesa. Quando sarà insediata la nuova Amministrazione americana sotto la guida di Trump diventerà più chiaro se ci sarà un futuro, e, nel caso, quale, per il TTIP – anche se visto il destino del TPP, l’accordo siglato con i paesi del Pacifico, sembra un’ipotesi molto, molto improbabile.
Tra i punti più delicati di questi accordi, una questione estremamente controversa è quella dei cosiddetti sistemi di arbitraggio, ovvero gli Investor-State Dispute Settlement (ISDS), che sono uno degli scogli più grossi nei negoziati del TTIP. Sotto questo aspetto il CETA introduce una novità importante, il cosiddetto Investment Court System (ICS) che prevede un Tribunale permanente composto da 15 membri che saranno nominati direttamente dall’UE e dal Canada, contrariamente a quanto accade con il sistema in vigore; e un tribunale d’appello che potrà rivederne le decisioni. Si tratta pertanto di un sistema che permette di superare molti dei limiti di arbitrarietà e opacità che caratterizzano l’attuale meccanismo normalmente adottato negli accordi commerciali. e che garantisce una soluzione delle dispute molto più istituzionalizzato e in grado, pur garantendo un livello elevato di protezione degli investitori, di preservare pienamente il diritto dei governi di regolamentare e perseguire gli obiettivi di politica pubblica rivolti alla tutela della salute, degli standard di sicurezza e di sostenibilità ambientale.
Nonostante questi e altri progressi compiuti nel corso dei negoziati, e nonostante gli indiscussi vantaggi che, complessivamente, derivano da questo tipo di accordi sia in termini di crescita che di creazione di nuovi posti di lavoro, nonché di incremento della competitività e della propensione all’innovazione, il TTIP e il CETA continuano comunque ad essere oggetto di contestazioni molto forti, non solo su questo lato dell’Atlantico, ma anche dal versante americano. Donald Trump in campagna elettorale non ha esitato ad adottare una linea mercatamente protezionistica e anti-TTIP, con l’obiettivo di proteggere il lavoro americano dall’Europa, nata “per battere l’America nel fare i soldi.” Lo stesso Bernie Sanders sul versante democratico aveva una linea simile, seppur incentrata su argomentazioni piú anti-multinazionali che protezionistiche, che avevano costretto anche Hillary Clinton a una linea maggiormente cauta sul TTIP e sul libero scambio. E’ il segnale che il trend anti-libero mercato e anti-globalizzazione si sta affermando su entrambe le sponde dell’oceano, spinto da opinioni pubbliche che, come dimostrano la Brexit e l’elezione di Trump, vedono il fenomeno della globalizzazione come pericoloso perché fuori controllo. Tuttavia, cosí facendo, soprattutto ora che Trump si prepara ad insediarsi alla Casa Bianca, rischiano di far saltare questi tentativi, per quanto parziali, di governare il trend.
Francesco Violi
Anno LVIII, 2016, Numero 2-3, Pagina 163
IL G20 DI HANGZHOU, LA CRISI DELL’OCCIDENTE
E LE RESPONSABILITA’ DEGLI EUROPEI
Il Fondo monetario internazionale ha pubblicato in ottobre il World Economic Outlookdel 2016[1] in cui analizza gli ultimi sviluppi dell’economia e della finanza mondiali. La crescita della produzione mondiale continua a essere sostenuta (il FMI prevede una crescita del 3,1% nel 2016), guidata dall’Asia, e dall’India in particolare (con una crescita intorno al 7,5%), mentre “nelle economie avanzate, la prospettiva di una crescita debole e soggetta a forti incertezze e a rischi di ricadute negative può alimentare un ulteriore malcontento politico e far guadagnare ulteriore consenso ai programmi politici anti-integrazione”. A preoccupare il FMI è in particolare la situazione del commercio internazionale: “la crescita del commercio globale si è ridotta in modo significativo negli ultimi anni. Dopo la brusca caduta e l’ancora più forte rimbalzo a seguito della crisi finanziaria globale, il volume del commercio mondiale di beni e servizi è cresciuto di poco più del 3 % all’anno dal 2012, meno della metà del tasso medio di crescita durante i tre decenni precedenti. Il rallentamento della crescita del commercio è notevole, soprattutto se confrontato con i dati storici del rapporto tra la crescita del commercio e quella dell’attività economica globale. Tra il 1985 e il 2007, il commercio mondiale reale è cresciuto in media due volte più velocemente del PIL globale, mentre negli ultimi quattro anni ne ha a malapena tenuto il passo”. Nell’analizzare le cause di questo fenomeno, il FMI si chiede se sia soltanto un sintomo della debolezza generale del contesto economico oppure, al contrario, se le politiche di restrizione degli scambi commerciali abbiano un ruolo importante in tal senso.
Un’analisi ricca di dati sulle difficoltà del commercio internazionale è contenuta anche nel rapporto del 2016 del Global Trade Alert.[2] La crescita delle esportazioni mondiali si è fermata nel 2015 sia in valore sia nei volumi, e sia nei paesi industrializzati sia nei mercati emergenti. Le commodities, che hanno perso valore negli ultimi anni, non sono la causa principale di questo fenomeno perché il loro commercio è ripreso, seppure di poco, alla fine del 2015; in realtà la stasi degli scambi ha riguardato un ampio spettro di prodotti e tra questi i gruppi che hanno sofferto maggiormente sono stati quelli interessati da provvedimenti di restrizione delle importazioni che nel mondo hanno preso il posto delle politiche a favore delle esportazioni. Il Global Trade Alert ha infatti valutato che “il ricorso a misure protezionistiche nel 2015 è aumentato del 50% rispetto al 2014; che le decisioni politiche che hanno colpito interessi commerciali esteri sono state tre volte superiori in numero di quelle di liberalizzazione dei commerci; che dal 2010 tra 50 e 100 misure protezionistiche sono state implementate nei primi quattro mesi dell’anno e che nel 2016 il totale ha superato 150; che i membri del G20 sono stati responsabili dell’81% delle misure protezionistiche messe in atto nel 2015”.[3] La crisi ha investito anche il settore finanziario: lo stock delle attività finanziarie internazionali ha raggiunto il massimo nel 2007 – con il 57% della produzione mondiale – scendendo al 36% alla fine del 2015, mentre i flussi degli investimenti diretti esteri sono rimasti ben al di sotto del 3,3% della produzione mondiale raggiunta nel 2007, anche se lo stock continua a salire, seppure lentamente, rispetto alla produzione”.[4]
Queste difficoltà del commercio mondiale sono state al centro del forum del G20 che si è tenuto a Hangzhou, per la prima volta in Cina, il 4 e 5 settembre scorsi. Il Presidente Xi Jinping ha dovuto ammettere, all’inizio del suo discorso di apertura, che “a otto anni dall’inizio della crisi finanziaria internazionale, l’economia globale ha raggiunto di nuovo un momento critico”. Le misure che secondo Xi Jinping possono ridare fiducia nella collaborazione economica a livello internazionale sono state all’ordine del giorno del vertice: il rafforzamento del coordinamento delle politiche macroeconomiche nei settori fiscale, monetario e delle riforme strutturali; la necessità di avviare insieme e con decisione un nuovo percorso di crescita attraverso l’innovazione, le riforme strutturali, la nuova rivoluzione industriale e lo sviluppo dell’economia digitale; le misure per potenziare il governo dell’economia globale e per rafforzare gli organi internazionali di garanzia finanziaria, inclusa la cooperazione nella regolamentazione finanziaria e nella lotta all’evasione e alla corruzione; la necessità di costruire un’economia globale aperta e continuare a promuovere la facilitazione e la liberalizzazione del commercio e degli investimenti; infine l’implementazione dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e la promozione di uno sviluppo inclusivo. Xi Jinping ha esortato i partecipanti al G20 a non pronunciare discorsi vuoti, ma a dare risposte concrete alle sfide del momento per continuare a fornire una guida al mondo in questo periodo di cambiamento. In particolare ha proposto di rafforzare la struttura istituzionale del G20 in modo che diventi una piattaforma di cooperazione aperta a tutti gli Stati e per questo ha detto di aver organizzato il vertice sulla base di principi di apertura, trasparenza e inclusività, estendendo le consultazioni ufficiali ben oltre l’ambito del G20, coinvolgendo le Nazioni Unite, l’Unione Africana, il G77 e invitando come ospiti un gran numero di paesi in via di sviluppo. Gli obiettivi espressi da Xi Jinping hanno trovato una rispondenza nel documento finale del vertice in un pacchetto di politiche e azioni – definito “consenso di Hangzhou” con un evidente riferimento al vecchio “consenso di Washington” – per un’azione comune a livello globale. Tra gli avvenimenti positivi del vertice va ricordata la ratifica da parte degli USA e della Cina dell’accordo di Parigi sul clima.
Mentre i media cinesi hanno celebrato il successo del summit, i commenti dei media occidentali, in particolare di quelli statunitensi e inglesi, sono stati di diverso tenore e hanno denunciato l’assenza di risultati importanti in un vertice che ha visto l’interesse sulla Cina prevalere sulle altre questioni internazionali. Alberto Quadrio Curzio su Il sole 24 Ore dell’8 settembre accusa però di cinismo i commentatori occidentali quando considerano solo “chiacchiere” le dichiarazioni cinesi contro “una situazione mondiale piena di squilibri e disuguaglianze che richiede azioni concrete e di lunga durata”.[5] Tale giudizio potrebbe nascondere, secondo Quadrio Curzio, le difficoltà da parte dell’Occidente a mantenere il ruolo di leadership morale di fronte ad una Cina che si presenta “non come seconda economia mondiale ma come la prima tra i paesi emergenti e in via di sviluppo, con una storia che da un lato ha praticato con successo una strategia per uscire dalla povertà e che dall’altro vuole mantenere un rapporto di collaborazione stretta con il sud del pianeta”.[6] La capacità di unire valori e ideali con scelte e politiche – che nel XX secolo è stata prerogativa dei grandi leader politici – “è un paradigma esemplare che nel XXI secolo può essere praticato da organismi collegiali sovranazionali e mondiali. Il G20 è uno di questi e perciò va valorizzato”.[7]
L’Occidente sembra invece deluso e intimorito dagli sviluppi della globalizzazione. E’ come se i paesi di vecchia industrializzazione si stessero rendendo conto che il processo sta sfuggendo loro di mano e che mantenerne la guida e accettarne le regole comporti dei costi troppo alti per le loro società. Una parte sempre più larga dell’opinione pubblica sta reagendo in modo negativo alle sfide poste da questo processo e all’emergere delle nuove potenze, avvertiti più come una minaccia che come un’opportunità. Le conseguenze negative delle delocalizzazioni, le pressioni migratorie, le operazioni della finanza globale, la stessa innovazione tecnologica sono percepiti come forze che sfuggono al controllo e che provocano cambiamenti i cui costi, per l’Occidente, sono da molti ritenuti superiori ai benefici. In più, nell’Europa colpita dalla crisi, la perdita di potere delle potenze occidentali nei confronti del resto del mondo è avvertita in modo più accentuato soprattutto dai paesi che hanno subito o che temono gli attacchi della speculazione finanziaria e che hanno dovuto confrontarsi con le istituzioni internazionali.
I segnali dell’emergere di questo nuovo atteggiamento di chiusura e di ripiegamento sulle apparenti sicurezze offerte dalle comunità nazionali sono stati a lungo sottovalutati dalla classe politica europea fino all’attuale crisi politico-istituzionale dell’Unione europea e all’affermazione dei movimenti populisti. In realtà episodi significativi di questa tendenza si sono manifestati agli albori della crisi economico-finanziaria. Basti ricordare la campagna per la ratifica del nuovo Trattato costituzionale nel 2005 durante la quale la cosiddetta “sindrome dell’idraulico polacco” ha avuto un ruolo importante nella vittoria del “no” in Francia. L’opposizione alla globalizzazione è presente da tempo in movimenti della società civile a livello globale. In questo l’opinione pubblica statunitense ha avuto un ruolo importante: agli scontri di Seattle in occasione della conferenza del 1999 dell’Organizzazione mondiale del commercio è fatta risalire la nascita del movimento no-global, il primo a dare alla lotta contro la globalizzazione una dimensione mondiale; e sempre negli USA si è sviluppato a partire dal 2011 il movimento Occupy Wall Street insieme alle denunce degli abusi del sistema finanziario e delle “élites di Washington” insensibili ai bisogni dei cittadini comuni, che hanno avuto un ruolo importante nell’elezione di Trump a Presidente degli USA. L’avanzata del populismo e del nazionalismo nel mondo occidentale è proceduta di pari passo con l’ostilità verso i programmi di apertura economica e liberalizzazione dei commerci che è culminata in Europa e negli USA con il cambio di rotta delle opinioni pubbliche e dei governi nei confronti dei nuovi trattati commerciali, necessari per consentire alle imprese di integrarsi a livello globale in una rete di rapporti in cui le regole e gli standard sono fondamentali per l’affermazione dei nuovi processi produttivi. Un ulteriore segnale negativo per i rapporti commerciali tra USA e UE è costituito dalle pesanti sanzioni reciproche comminate dalle autorità statunitensi ed europee a banche e imprese multinazionali che, sebbene legittime, hanno creato tensioni tra le due sponde dell’Atlantico. La preoccupazione è aumentata con l’elezione di Trump a Presidente degli USA, fino a far temere ad alcuni esponenti del mondo economico e politico una nuova grave crisi economica: uno “scenario da incubo” che potrebbe portare alla fine dell’ordine economico liberale.[8]
In questo nuovo clima i richiami alla ragione sembrano cadere nel vuoto. Durante la campagna elettorale per la Brexit, le previsioni degli economisti e i timori degli operatori della City hanno avuto una scarsa considerazione tra la maggioranza degli elettori. Lo stesso è avvenuto nella campagna per le elezioni presidenziali degli USA: gli economisti di Moody’s, per esempio, hanno calcolato che la piena realizzazione del programma di Trump potrebbe produrre una lunga recessione con la perdita di tre milioni e mezzo di posti di lavoro entro il 2020. Un caso emblematico è quello del North Carolina: la regione, investita dalla crisi del tessile, è riuscita a convertirsi all’high-tech e oggi la regione è al terzo posto nell’industria automobilistica degli USA, al centro della rete degli scambi internazionali, mentre Greenville, la capitale, ha la più alta densità di ingegneri degli USA. Nonostante questo, le critiche di Trump e di Sanders contro i trattati di libero scambio hanno qui ottenuto una grande eco e la vittoria della Clinton nelle principali città non ha impedito a Trump di superarla nello Stato con il 3,8 di scarto. La liberalizzazione del commercio con i paesi di recente industrializzazione consente agli Stati meno favoriti delle popolazioni dei paesi sviluppati di acquistare a bassi prezzi beni di largo consumo compensando in parte anche l’impoverimento della classe media e le conseguenze negative dell’innovazione tecnologica sull’occupazione. “Il protezionismo, all’opposto, colpisce i consumatori e produce pochi benefici per i lavoratori. Uno studio su 40 Stati ha trovato che, se gli scambi commerciali con l’estero cessassero, i consumatori più ricchi perderebbero il 28% del loro potere d’acquisto mentre il 10% più povero perderebbe il 63%. Il costo annuo per i consumatori americani dopo la decisione di Obama di introdurre una tariffa sull’importazione di pneumatici contro il dumping cinese nel 2009 è stato di 1,1 miliardi di dollari, ben 900.000 dollari per ogni posto di lavoro salvato negli USA”.[9]
Nonostante le analisi degli economisti, per i governi europei è sempre più difficile tener testa alle opinioni pubbliche stanche di una situazione in cui non si riesce a recuperare una prospettiva di crescita economica, a trovare una soluzione positiva al fenomeno dell’immigrazione, a creare nuove opportunità di lavoro, a soddisfare le aspirazioni ad una qualità della vita migliore. Incolpare l’Europa di questo stato di cose è così diventato un alibi per i governi europei con cui cercare di deviare su altri le proprie responsabilità e un facile bersaglio per i partiti di opposizione per cavalcare il malcontento. Ma non è certo col cinismo del my nation first e della difesa del proprio cortile che gli europei possono affrontare fenomeni la cui dimensione ha talmente superato le possibilità dei loro Stati da investire ormai i rapporti economici e politici di interi continenti.
Nonostante il ripiegamento isolazionista degli USA e gli egoismi dell’Europa il mondo va avanti, o almeno ci prova. Citiamo ancora il testo del comunicato finale del vertice del G20: “Noi, i leader del G20 […]siamo determinati a promuovere un’economia mondiale innovativa, rinvigorita, interconnessa e globale per inaugurare una nuova era di crescita globale e di sviluppo sostenibile, tenendo conto della Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, l’Agenda di Azione di Addis Abeba e l’accordo di Parigi sul clima”. Se gli USA fanno marcia indietro rispetto al TPP (il trattato commerciale con i paesi dell’area del Pacifico), la Cina è pronta a prenderne il posto proponendo ai paesi dell’Asia, dell’America Latina e all’Australia il proprio trattato di libero scambio;[10] e, se i governi dell’Unione europea non riescono a far ripartire gli investimenti, ancora la Cina sta procedendo nella realizzazione della nuova “via della seta” con la costruzione di un “un ponte ferroviario tra l’Est e l’Ovest che permette a merci e cargo di andare da Chengdu, uno dei poli industriali cinesi, a Rotterdam in 15 giorni”[11] e che sarà completamente attivo nel 2017.
Come principale area commerciale del mondo, il destino economico dell’Europa è strettamente legato al clima economico e politico che prevale a livello globale; l’Europa ha pertanto interesse a che lo spirito del “consenso di Hangzhou” emerga come “narrazione completa e integrata per una crescita forte, equilibrata, sostenibile e inclusiva”[12] a livello globale. L’Europa rappresenta anche il progetto più ambizioso di integrazione economica e politica della storia e un esempio per il mondo intero. I suoi successi come i suoi fallimenti possono pertanto avere conseguenze drammatiche che vanno al di là dei suoi confini. Con il ridimensionamento del ruolo internazionale degli USA e la tendenza verso le politiche isolazionistiche e nazionaliste della nuova Amministrazione, l’Europa può fare la differenza nel momento decisivo che stiamo vivendo: gli europei devono decidere se continuare nell’attuale deriva verso l’anarchia che può addirittura portare l’Unione europea alla dissoluzione oppure invertire questa tendenza e svolgere un ruolo attivo ed incisivo nella nuova fase di sviluppo dell’economia mondiale. E’ però del tutto evidente che l’Europa non potrà uscire dalla crisi e non potrà assumere un ruolo positivo nel mondo con l’attuale assetto istituzionale dell’Unione europea. La crisi dell’Europa è, prima che economica e politica, la crisi delle sue istituzioni che la rendono incapace di prendere e mettere in pratica decisioni condivise. E’ per questo importante che l’Europa riprenda la strada dell’integrazione e della riforma istituzionale e che i governi che hanno maggiori responsabilità diano da subito un segnale forte della volontà comune di mettere fine all’attuale stallo istituzionale. Questa esigenza, è avvertita da tempo negli ambienti politici europei più consapevoli: la Commissione europea e il Consiglio europeo devono accelerare l’implementazione del Rapporto dei cinque Presidenti[13] per portare a compimento l’Unione economica e monetaria, e il Parlamento europeo, come rappresentante degli interessi comuni dei cittadini europei, deve approvare al più presto e promuovere tra i governi e la classe politica europea i rapporti sulle riforme istituzionali che ha commissionato: il rapporto Bresso-Brok sul pieno sfruttamento delle potenzialità del Trattato di Lisbona,[14] il rapporto Böge-Berès sulla creazione di una “capacità di bilancio dell’eurozona”[15] e soprattutto il rapporto Verhofstadt sulla possibile evoluzione dell’assetto istituzionale dell’Unione europea.[16] Ma i cittadini europei che hanno a cuore il futuro dell’Europa devono a loro volta far sentire la loro voce. Un’occasione importante è la ricorrenza, il 25 marzo del 2017, del 60° anniversario dei Trattiti di Roma e la manifestazione popolare che i federalisti europei stanno organizzando a Roma per quella data contro l’isolazionismo e il nazionalismo e per la ripresa del processo di unificazione europea.
Claudio Filippi
[1] http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2016/02/.
[2] Global Trade Plateaus, The 19th Global Trade Alert Report, Washington, CEPR Press, 2016, http://www.globaltradealert.org
/gta-analysis/global-trade-plateaus.
[3] Ibidem.
[4] Martin, Wolf, The tide of globalisation is turning, Financial Times, 6 settembre 2016.
[5] Alberto Quadrio Curzio, Se il G20 cinese non è stato solo utopia, Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2016, http://www.ilsole24ore.com/art
/commenti-e-idee/2016-09-08/se-g20-cinese-non-e-stato-solo-
utopia-072718.shtml?uuid=ADgjKjGB.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] Pierre Briançon, Europe fears end of liberal Western economic order, Il Politico, 11 ottobre 16, http://www.politico.eu/article/europe-
fears-end-of-liberal-western-economic-order/.
[9] Anti globalists, why they are wrong, The Economist, 1 ottobre 2016.
[10] Michael Martina, China pushes Asia-Pacific trade deals as Trump win dashes TPP hopes, Reuters Business News, 10 novembre 2016,
http://www.reuters.com/article/us-china-diplomacy-trade-
idUSKBN1350S4?feedType=RSS&feedName=businessNews.
[11] Francesco Guerrera, Al binario 8 arriva la globalizzazione, La Stampa Opinioni, 30 settembre 2016, http://www.lastampa.it/2016/
09/30/cultura/opinioni/editoriali/al-binario-arriva-la-globalizzazione
-HPoKcafU7IPxPNW7evWmSN/pagina.html.
[12] Ibidem.
[13] The five President’s report: Completing Europe’s Economic and Monetary Union, European Commission, https://ec.europa.eu/priorities
/publications/five-presidents-report-completing-europes-economic-and-monetary
-union_en.
[14] Draft Report on Improving the functioning of the European Union building on the potential of the Lisbon Treaty, European Parliament, PE 573.146v01, http://www.europarl.europa.eu/committees/en/afco/draft-
reports.html?ufolderComCode=AFCO&ufolderLegId=8&ufolderId=02318
&linkedDocument=true&urefProcYear=&urefProcNum=&urefProcCode=.
[15] Draft Report on Budgetary capacity for the Eurozone, European Parliament, PE 582.210v01, http://www.europarl.europa.eu/
committees/en/econ/draft-reports.html?ufolderComCode=CJ16&
ufolderLegId=8&ufolderId=05365&linkedDocument=true&
urefProcYear=&urefProcNum=&urefProcCode=.
[16] Draft Report on possible evolutions and adjustments of the current institutional set up of the European Union, http://www.europarl.
europa.eu/committees/en/afco/draft-reports.html?ufolderComCode=
AFCO&ufolderLegId=8&ufolderId=02315&linkedDocument=true
&urefProcYear=&urefProcNum=&urefProcCode=.
Anno LVII, 2015, Numero 3, Pagina 196
L’EUROPA E LA PROSPETTIVA
DELLA DIFESA COMUNE
L’Unione europea, ormai, è circondata da un arco di aree politicamente instabili, che si estende dai paesi del Nord Africa fino al Medio Oriente e ai paesi dell’Europa dell’Est: si tratta di un quadro che minaccia gravemente la sicurezza dei paesi europei.[1]
Sul fronte meridionale, le regioni nordafricane e mediorientali sono dilaniate dai conflitti in Libia e in Siria, mentre prosegue l’avanzata dell’autoproclamato Stato islamico, che sfrutta l’esistenza degli “Stati falliti” nell’area del Sahara/Sahel, nel Corno d’Africa, fino ad inserirsi nei conflitti civili che persistono in Nigeria e in Congo. Le ripercussioni sul continente europeo sono forti, sia per gli ingenti flussi migratori verso l’Europa, sia per la minaccia di possibili attacchi da parte delle organizzazioni terroristiche quali l’ISIS e Al-Qaeda.
Sul fronte orientale, i paesi europei sono coinvolti nelle tensioni tra l’Alleanza atlantica e la Russia, che rievocano scenari da Guerra fredda: all’allargamento della sfera d’influenza della NATO fino alle immediate frontiere russe, al riarmo di alcune basi americane e al dispiegamento di forze aggiuntive, all’esecuzione della grande esercitazione militare Trident Juncture 2015 in chiave anti-russa si contrappongono le infiltrazioni delle truppe russe in Ucraina, l’annessione della Crimea, il posizionamento di missili balistici a Kaliningrad, alle porte dell’Europa, l’indicazione da parte di Putin dell’espansione della NATO come principale minaccia per la sicurezza nazionale, cui si aggiungono le reciproche invasioni degli spazi aerei e delle acque territoriali. Le tensioni nei confronti della Russia hanno inoltre fatto emergere la fragilità delle forniture energetiche europee.
I paesi limitrofi dell’Unione europea sono quindi ben lontani dal costituire quello “spazio di prosperità e buon vicinato fondato sui valori dell'Unione e caratterizzato da relazioni strette e pacifiche basate sulla cooperazione" auspicate, a partire dal 2003, nell’articolo 8 del Trattato sull’Unione europea (TEU). In tale contesto, è palese l’incapacità da parte dell’Unione europea e degli Stati membri di esercitare un ruolo attivo nello scenario internazionale.
Il moltiplicarsi delle tensioni e dei conflitti esige però che gli europei imparino ad assumersi maggiori responsabilità e che riportino nell’agenda europea le questioni inerenti alla sicurezza e alla difesa. E’ sin dal fallimento del progetto della Comunità europea di difesa (CED) nel 1954 che gli Stati europei hanno deciso di preservare la propria sovranità nel campo della difesa e di gestire le questioni internazionali con un approccio puramente intergovernativo. Oggi possiamo constatare che questa scelta ha fortemente penalizzato la difesa europea. Essa ha prodotto una frammentazione delle strutture militari europee e del mercato europeo della difesa che comporta gravissime inefficienze economiche, penalizza la competitività delle industrie europee e, in ultima analisi, impedisce all’Unione europea di esercitare un ruolo autonomo di peace and security provider nello scenario mondiale, oltre che di garante degli interessi strategici dei cittadini europei.
* * *
Le forze europee, sebbene operino quasi esclusivamente all’interno di contingenti internazionali, sono finanziate, gestite e strutturate su base nazionale.
I finanziamenti delle missioni comuni si basano su fondi erogati dagli Stati europei in proporzione al loro PIL nazionale, nell’ambito del meccanismo Athena, finanziato al di fuori del bilancio dell’UE. Questi fondi coprono principalmente le spese per la fase preparatoria delle operazioni militari, come la creazione e la gestione del Quartier generale e la sistemazione delle infrastrutture. Si tratta, tuttavia, di una fetta generalmente piuttosto piccola dei costi totali delle missioni, circa il 10-15%[2] Le missioni EUFOR Chad/Car e EUNAVFOR Atalanta, per esempio, sono finanziate dal fondo europeo rispettivamente con 120 e 8,4 milioni di euro per un costo totale stimato di 1 miliardo e 400 milioni.[3] La quasi totalità delle spese è quindi ripartita su base nazionale, secondo il principio costs lie where they fall, secondo il quale ogni Stato copre i costi della propria missione.
Le strutture di comando, i programmi di addestramento e la produzione di armi ed equipaggiamenti rimangono di competenza dei singoli Stati. Una tale frammentazione dei sistemi militari europei non consente lo sviluppo di economie di scala di cui invece godono le forze armate degli Stati Uniti e, considerata l’entità di questo genere di costi, contribuisce ad un’importante dispersione di risorse.[4] Recenti studi hanno evidenziato che gli europei sviluppano e producono 154 diversi tipi di equipaggiamento (tra cui 14 diversi tipi di carri armati, 16 tipi di caccia, 13 tipi di sottomarini convenzionali, ecc) contro i 27 totali prodotti dagli americani:[5] per ogni grande progetto statunitense gli europei ne hanno cinque, ognuno dei quali beneficia di un quinto dei fondi che avrebbe potuto ottenere, potenzialmente, in caso di sviluppo comune europeo. Anche gli apparati militari di ultima generazione, come gli Unmanned Aircraft System (UAS), vengono moltiplicati: i paesi europei stanno utilizzando, o hanno in fase di progettazione e produzione, 71 diversi UAS, contro i 14 degli Stati Uniti.
Nel tentativo di attenuare l’impatto economico della duplicazione, l’Agenzia di difesa europea ha promosso diverse iniziative nell’ambito del cosiddetto pooling and sharing, ossia della condivisione degli assetti. Affinché queste iniziative diano risultati efficienti, tuttavia, è necessario che gli Stati europei condividano la stessa visione politica, le stesse ambizioni militari e che esista un sufficiente livello di fiducia reciproca. Potenzialmente si tratta di tematiche che hanno un forte impatto sulla sovranità degli Stati europei e perciò sono considerate particolarmente sensibili.[6] I governi europei preferiscono pertanto altre modalità di accordi, in particolare le iniziative bilaterali o le cooperazioni tra alcuni paesi europei come quella tra i paesi nordici Svezia, Finlandia, Norvegia, Danimarca e Islanda, l’accordo tra Olanda, Belgio e Lussemburgo o il reggimento di fanteria a cui contribuiscono Italia, Grecia, Turchia, Albania, Bulgaria e Romania.
Dal 2004, su iniziativa franco-anglo-tedesca nell’ambito della Politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC), è stato introdotto il concetto di Battle Group (BG) per incrementare l’integrazione militare e superare le iniziative bilaterali. Il BG consiste in una piccola unità militare multinazionale che è in grado di agire rapidamente e in modo flessibile per tamponare una situazione di crisi, prima dell’invio di un contingente maggiore. Ogni semestre uno Stato agisce da principale contributore e si assume la responsabilità di guidare tutto il processo. Nonostante le numerose crisi umanitarie e di sicurezza di questi anni, in particolare nella Repubblica Centrale Africana, in Mali, in Libia e in Congo, non è stato ancora impiegato alcun BG e la presenza di semestri rimasti vuoti nella programmazione dei prossimi anni indica la perdita di interesse nei confronti di questo strumento.[7] Secondo Angelien Eijsink, capo della delegazione olandese alla Conferenza interparlamentare per la PESC/PSDC dell’aprile 2014, il mancato sfruttamento del BG è da imputare principalmente alle divergenze strategiche nazionali europee, alle differenti procedure decisionali nazionali in fatto di dispiegamento di forze militari e ai costi elevati che ricadono sugli Stati partecipanti; quindi, di fatto, alla mancanza di una chiara volontà politica a livello europeo.[8]
La frammentazione su base nazionale delle forze armate penalizza fortemente anche il mercato della difesa. Lo sviluppo di questo mercato riveste un’importanza strategica, in quanto costituisce l’infrastruttura tecnologica e industriale per la produzione e la diffusione dei beni e dei servizi a disposizione delle forze armate. I progetti per le difesa, inoltre, sono quelli a più alto impatto e contenuto innovativo: Internet o il sistema satellitare GPS, ad esempio, sono nati nell’ambito della ricerca per la difesa degli Stati Uniti. La penalizzazione di questo mercato ostacola, quindi, anche le ricadute civili di progetti ad alto contenuto tecnologico e l’accesso alle nuove tecnologie.
Per l’importanza strategica e per il livello di riservatezza della materia, il settore della difesa è rimasto escluso dal processo di integrazione del mercato unico europeo, restando fortemente frammentato in 28 mercati nazionali. Gli Stati preferiscono acquistare armamenti di produzione nazionale ed impedire la competizione con i fornitori esteri.[9]
L’aumento del livello tecnologico e del costo di sviluppo degli armamenti e, al contempo, le riduzioni dei budget nazionali per la difesa hanno tuttavia reso evidente le difficoltà degli Stati europei di finanziare da soli progetti di alto profilo. Alcuni Stati europei hanno quindi costituito dei consorzi per la realizzazione di armamenti come il caccia Eurofighter Typhoon (sviluppato a partire da una collaborazione tra Regno Unito, Germania, Italia e Spagna), il quadrimotore Airbus A-400M Atlas (progettato e realizzato dal consorzio europeo EADS/Airbus di cui fanno parte Francia, Germania, Regno Unito e Spagna) o gli elicotteri Eurocopter Tyger (di progettazione e realizzazione franco-tedesca) e l’NH-90 (realizzato dal consorzio NHIndustry, costituito da Regno Unito, Italia, Francia, Germania e Olanda). Questi progetti portati avanti in un quadro continentale consentirebbero alle industrie europee di compiere notevoli passi avanti nella ricerca e nello sviluppo di tecnologie. Il loro successo dipende, però, dal superamento di difficoltà che derivano dalla struttura dei consorzi, basati sulla cooperazione tra gli Stati. Questa non basta ad impedire il prevalere degli egoismi e delle rivalità nazionali, che si traducono in ritardi, lievitazione dei costi e incertezza nel raggiungimento degli obbiettivi. E’ ciò che è accaduto ad ambiziosi progetti come il lanciatore Ariane 5 o il sistema satellitare Galileo.
Nel 2013, l’84% del materiale per la difesa è stato reperito entro i confini nazionali.[10] Questo impedisce agli Stati europei di sfruttare i vantaggi economici che derivano dall’economia di scala e penalizza la crescita dell’industria militare dalla quale dipendono le capacità operative delle forze armate e, in ultima analisi, la stessa politica di difesa europea.
L’Unione europea, complessivamente, è al secondo posto nel mondo per quanto riguarda la spesa per la difesa, tuttavia non costituisce la seconda potenza militare.[11] Le azioni militari europee, al contrario, si dimostrano inefficaci. Ad esempio, in occasione degli interventi militari nel Chad nel 2008 e in Libia nel 2011 è emersa la carenza di munizioni ad alta precisione, di rifornimento aereo e di infrastrutture necessarie per la logistica, mancanze a cui hanno poi fatto fronte gli Stati Uniti. Una situazione molto simile si era verificata precedentemente nella guerra del Kosovo, che aveva visto 30.000 interventi aerei americani su un totale NATO di 38.000.[12] Anche le più recenti operazioni in Libia e in Siria dimostrano che nessun paese europeo è più in grado di condurre, senza il sostegno degli Stati Uniti o della NATO, operazioni di media e alta intensità. La capacità di intervento rapido di jet ed elicotteri d’attacco o per il trasporto di mezzi e truppe è a livelli molto ridotti rispetto al minimo indispensabile, inferiore al 50%, in molti Stati europei[13] e, in generale, il “deficit di difesa”, che consiste nel gap tra le capacità militari possedute dagli Stati e quelle necessarie per la difesa dei propri interessi,[14] continua a crescere.
Le inefficienze economiche che derivano dall’assenza di una difesa comune europea sono divenute più preoccupanti a seguito dell’impatto della crisi economica, che ha spinto i governi europei a ridurre i budget della difesa, quando la tendenza globale ha visto invece un aumento delle spese militari. Nell’Unione europea la spesa totale per la difesa tra il 2005 e il 2014 è diminuita del 9%, riducendosi all’1,15% del PIL; nello stesso periodo la Cina ha aumentato la spesa militare del 167%, la Russia del 97% (di cui un terzo dedicato al nucleare),l’India del 39% e il Brasile del 41%.[15] Questi paesi, che non soffrono delle inefficienze europee, stanno colmando rapidamente il gap che li separa dalle potenze occidentali. In particolare la Cina ha dichiarato di voler raggiungere il livello di spesa degli Stati Uniti (anche se ad oggi questo è ancora pari ad un quarto di quella americana e nel 2014 ammontava al 2,1% del PIL contro il 3,5% degli USA).[16]
La maggior parte dei governi europei è convinta di poter tagliare le spese militari contando sul fatto che gli Stati Uniti continueranno a garantire la sicurezza dei loro paesi, incentrando pertanto le proprie politiche in ambito della difesa sulla logica “NATO-first” e privilegiando buoni rapporti bilaterali con Washington. In realtà, è velleitario adottare questa logica da Guerra fredda a ormai 20 anni dalla sua conclusione. I tagli alla spesa pubblica che hanno ridotto le capacità militari statunitensi, il disimpegno in Iraq e in Afghanistan, lo spostamento del focus strategico americano verso l’Asia per contenere la Cina stanno mettendo in dubbio l’affidabilità del sostegno americano nelle questioni militari europee. Lo stesso governo statunitense, alla luce dei suoi nuovi interessi strategici e delle proprie difficoltà nella risoluzione dei conflitti nell’area mediorientale, sta spingendo l’Europa ad integrare la propria difesa e ad assumersi maggiori responsabilità in campo militare, ritenendo che “a stronger European defence will contribute to a stronger NATO”.[17]
Nel 2014 si è registrato il picco storico della spesa militare mondiale, pari a 1.767 miliardi di dollari.[18] I trend di spesa delle diverse potenze globali e regionali riflettono l’orientamento verso un sistema internazionale multipolare, in cui l’Europa non può più permettersi di sottrarsi alle proprie responsabilità, delegando agli Stati Uniti, nel quadro della NATO, il compito di rappresentare l’intero blocco occidentale.
Come Spinelli aveva anticipato in seguito al fallimento del progetto della CED, senza una struttura federale europea l’unico ruolo che gli Stati europei avrebbero potuto giocare nel mondo sarebbe stato quello di “Stati tributari del comandante atlantico”.[19] A questo proposito è esemplare il caso dell’Afghanistan: fino al 2008, gli europei hanno speso nel loro insieme in Afghanistan praticamente quanto gli Stati Uniti (4.7 miliardi di dollari contro 5 miliardi di dollari[20]). Tuttavia gli Stati europei hanno avuto un’influenza minima sull’evoluzione delle strategie in quell’area vitale per la loro sicurezza. Mantenendo le proprie strutture nazionali, gli Stati europei si dimostrano incapaci di esercitare un peso politico all’interno della NATO e finiscono per subire le politiche dettate dagli interessi dello Stato più forte, cioè gli USA, che non sempre coincidono con quelli europei. Nei più recenti coinvolgimenti della NATO in Libia ed in Ucraina, risulta evidente il contrasto tra gli interessi americani e quelli dei paesi europei e l’inconsistenza dell’Unione europea, che ha consentito agli Stati Uniti di far leva opportunisticamente sugli interessi nazionali particolari di alcuni dei paesi membri dell’UE.
D’altra parte, quando gli Stati europei non sono protetti dallo scudo americano subiscono la volontà delle altre potenze mondiali, come accade con la Russia, oppure sono coinvolti loro malgrado nelle crisi che colpiscono il Vicino Oriente e l’Africa, come dimostra la crisi migratoria.
Ciò che sta accadendo ai confini dell’Europa rende sempre più necessario riempire questo vuoto di potere. Solo diventando un polo autonomo della politica mondiale l’Europa restituirà agli europei la possibilità di influire in modo efficace sulle questioni globali, rendendo possibile un equilibrio internazionale più stabile e pacifico.
Negli ultimi anni sono stati avanzati numerosi appelli sulla necessità di istituire un esercito e un apparato difensivo comune, anche da parte di personalità istituzionali, come il Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, l’Alto rappresentante Federica Mogherini o il Ministro tedesco delle finanze Schaeuble. L’esercito europeo è considerato uno obiettivo militare capace di rappresentare un deterrente ai conflitti, di esercitare una prevenzione attiva e, al tempo stesso, in grado di “dare forma ad una politica estera e di sicurezza comune che permetta all’Europa di assumersi responsabilità nel mondo”.[21]
Purtroppo i vertici del Consiglio europeo focalizzati sulla questione della difesa europea, l’ultimo dei quali si è tenuto lo scorso autunno, non si sono conclusi con una concreta roadmap che spinga verso una qualsivoglia evoluzione della difesa dell’Unione europea e non hanno nemmeno introdotto sostanziali novità in materia. L’approfondimento della questione è stato nuovamente posticipato a giugno 2016, quando l’Alto rappresentante presenterà la nuova Strategia europea globale sulla politica estera e di sicurezza.
L’inerzia dei governi europei nel superare l’attuale situazione della difesa europea si è manifestata anche recentemente in seguito all’attivazione, per la prima volta nella storia, dell’articolo 42.7 del TUE, invocato da François Hollande dopo gli attentati di Parigi del 13 Novembre. Come ha dichiarato l’Alto rappresentante Federica Mogherini, “l’aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso” che gli Stati membri sono obbligati a fornire alla Francia non si è tradotto in una nuova missione comune o in una spinta verso l’approfondimento della PESC e della PSDC. I leader dei paesi europei hanno dato il via a consultazioni bilaterali con il governo francese, che, ancora una volta, hanno portato alla luce le divergenze di visione in merito al tipo di strumenti e di sostegno che i paesi sono disposti a dare e le loro differenti posizioni sul conflitto siriano.[22]
Il problema fondamentale della difesa europea è pertanto di natura politica. I vantaggi economici e strategici che deriverebbero dall’integrazione della difesa europea (il risparmio, il miglior impiego delle risorse, la riduzione delle duplicazioni, l’acquisizione di armamenti d’avanguardia, lo sviluppo del mercato della difesa e delle industrie europee, l’innovazione tecnologica) non trovano corrispondenza nella volontà politica dei governi degli Stati membri.
Ogni proposta di maggiore integrazione in ambito militare resta lettera morta se non affronta la delicata questione della cessione di sovranità e della ripartizione dei poteri tra le istituzioni nazionali e quelle europee. Ciò è chiaramente possibile solo nell’ambito dei paesi dell’eurogruppo che hanno già avviato il processo di trasferimento della sovranità in ambito monetario. Un esercito europeo degno di questo nome comporta il potere di prendere decisioni strategiche, di procurarsi le risorse per realizzarle e di intraprendere azioni militari, richiede cioè un governo europeo. Risulta perciò difficile immaginare cessioni reali di sovranità in ambito militare senza affrontare da subito il tema della legittimazione democratica dei nuovi poteri assegnati alle istituzioni europee, in particolare i poteri legislativi e di controllo sul bilancio e sull’azione di governo.
Laura Filippi
[1] Steven Blockmans e Giovanni Faleg, More Union in European Defence, report finale della task force del Centre for European Policy Study presieduta da Javer Solana, febbraio 2015.
[2] Proposta di risoluzione del Parlamento europeo sul finanziamento della politica di sicurezza comune del 22 aprile 2015. Testo consultabile online all’indirizzo http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+REPORT+A8-2015-0136+0+DOC+XML+V0//IT#title1.
[3] CSF-IAI, I costi della non-Europa della difesa, ricerca a cura di Valerio Briani, aprile 2013, pp. 11 e 12.
[4] CSF-IAI, I costi della non-Europa della difesa, op. cit., p. 13.
[5] Domenico Moro, Costo della non Europa della difesa o costo della non-difesa nazionale, Il Federalista, 56, n. 3 (2014), p. 293.
[6] CSF-IAI, I costi della non-Europa della difesa, op. cit., p. 13.
[7] CSF-IAI, I costi della non-Europa della difesa, op. cit., p. 15.
[8] Filippo Maria Giordano, Quali prospettive per la sicurezza europea? Modelli d’integrazione e ipotesi di cooperazione, Centro studi sul federalismo, giugno 2015.
[9] CSF-IAI, I costi della non-Europa della difesa, op. cit., p. 20.
[10] In defence of Europe, nota strategica dello European Political Strategy Centre, giugno 2015, p. 3.
[11] Ibidem.
[12] Domenico Moro, Costo della non Europa della difesa…, op. cit., p. 289.
[13] In defence of Europe, op. cit., p. 3.
[14] Anand Menon, e Nick Witney, After Paris: What price European defence?, European Council on Foreign Relations, novembre 2015.
[15] In defence of Europe, op. cit., p. 3.
[16] SIPRI Military expenditure database,2014.
[17] NATO, Wales Declaration on Transatlantic Bond, settembre 2014.Ciò non significa però che le frequenti richieste degli USA agli europei di aumentare il loro contributo alla NATO siano accompagnate dalla disponibilità a concedere maggiori responsabilità nelle posizioni di comando dell’organizzazione. Questa tendenza può pertanto indebolire la prospettiva di una difesa europea autonoma.
[18] http://www.rivistaeuropae.eu/esteri/sicurezza-2/la-spesa-militare-cresce-ma-non-in-europa.
[19] Altiero Spinelli, Promemoria sul Rapporto provvisorio presentato nel luglio 1951 dalla Conferenza per l’organizzazione di una Comunità europea della difesa, citato in Giovanni Salpietro, Attualità della CED, Il Federalista, 56, n. 3 (2014), p. 237.
[20] Jeremy Shapiro e Nick Witney, Towards a Post-American Europe: a power audit of EU-US relations, European Council on Foreign Relations, ottobre 2009.
[21] Jean-Claude Juncker in un'intervista pubblicata l’8 marzo dal domenicale tedesco Welt am Sonntag.
[22] http://www.rivistaeuropae.eu/esteri/sicurezza-2/paris-attacks-eu-solidarity-does-not-mean-integration/.
Anno LVII, 2015, Numero 3, Pagina 204
L’OCEANO DELLA DISCORDIA
Il 5 ottobre 2015 è stato siglato ad Atlanta, Stati Uniti, il Trattato di libero scambio nel Pacifico (TPP) tra 12 nazioni che si affacciano su questo oceano.[1] Sulla firma di questo accordo,[2] dopo oltre cinque anni di trattative, aleggia l’ombra di un grande assente: la Cina. Il Trattato viene visto da molti come il tentativo delle nazioni firmatarie, in particolare degli USA, di contenere l’espansionismo economico cinese. Tuttavia nei discorsi di chiusura dell’evento da parte di molti leader, vi sono state dichiarazioni di apertura per un futuro ingresso della Cina quale nuovo partner. Ma vi è un altro assente, la Russia, che sul piano economico viene esclusa da ogni accordo economico che includa nazioni dell’Occidente o che siano, sul piano politico, filo occidentali. Una esclusione, beninteso, che la stessa Russia sta alimentando da quando è iniziata la crisi ucraina nel 2013.
La crescita economica dell’area del Pacifico è una costante dell’ultimo decennio e non è garantita solo dall’economia cinese. E’ proprio in quest’area che si è spostato il baricentro della politica commerciale statunitense, di fronte ad un’Europa ancora bloccata da una crisi economica non risolta e dai conflitti interni all’area euro. L’ambizione degli USA è di aprire nuovi accessi al mercato transpacifico grazie a questo nuovo trattato che raggruppa paesi che nel loro insieme rappresentano il 40% del PIL mondiale, l’11% della popolazione mondiale ed il 25% del commercio mondiale.[3] In attesa di conoscere l’esito degli accordi tra USA e Europa a proposito del Trattato transatlantico, è nella regione del Pacifico che si gioca nel prossimo futuro il destino dell’economia mondiale in ansia per lo stato dell’economia cinese e per le possibili nuove bolle finanziarie.[4] Ma oltre all’importanza strategica sul piano economico e finanziario che questa regione ha assunto, vi sono altri aspetti che rendono l’area del Pacifico il centro di importanti scenari geopolitici cui gli europei assistono passivamente o del tutto ignari.
Da quando nel 2014, a seguito della crisi in Ucraina, gli Stati Uniti e l’Unione europea hanno dato corso ad una serie di sanzioni economiche contro la Russia, questa ha rafforzato le proprie relazioni economiche con la Cina siglando importanti accordi in ambito commerciale ed energetico.[5] Inoltre, sul piano politico, Russia e Cina, in seno al Consiglio delle Nazioni unite, non hanno mancato di sostenersi a vicenda come dimostrato in occasione delle votazioni sulla crisi in Ucraina o a proposito della annessione della Crimea alla Federazione Russa. Da parte sua la Russia non si sta opponendo alle operazioni cinesi nell’Oceano Pacifico, che hanno il chiaro obiettivo di contrastare l’influenza degli Stati Uniti nell’area.
L’aspetto più inquietante, tuttavia, risiede nel fatto che le due potenze stanno sviluppando accordi in campo militare, dando dimostrazione al resto del mondo che la loro intesa è profonda e va oltre la attuale contingenza politica in cui la Russia si ritrova al centro delle critiche da parte dell’Occidente (anche per il diretto intervento militare in Siria[6]). Nel mese di maggio 2015 vi è stata, per la prima volta nella loro storia, una esercitazione navale congiunta russo-cinese nel Mar Mediterraneo denominata “Joint Sea 2015 I”. Se la presenza di navi da guerra russe nel Mediterraneo è una costante dai tempi della Seconda guerra mondiale, disponendo per altro di porti di appoggio in Siria, ben diverso è il senso della presenza di navi da guerra cinesi. In realtà questa prima operazione congiunta voleva essere un messaggio da parte russa verso il mondo occidentale che, con il suo tentativo di isolare Putin, porta al rafforzamento dei suoi legami con la Cina e al fatto di guardare all’Asia come a nuovi mercati. Nell’ottica cinese, invece, l’operazione nel Mediterraneo era un segnale verso gli Stati Uniti in risposta alla loro presenza in acque territoriali che la Cina considera di propria influenza sia sul piano commerciale, sia sul piano militare. Non a caso nel mese di agosto del 2015 si è ripetuta una nuova esercitazione congiunta russo-cinese denominata “Joint Sea 2015 II”; e questa volta le operazioni si sono svolte a largo delle coste russe di Vladivostok e nel Mar del Giappone. Non solo: l’esercitazione ha simulato lo sbarco di marines cinesi su di un’isola. Fonti cinesi hanno dichiarato che queste esercitazioni “…non sono dirette ad alcuna terza parte e non riguardano lo status quo nella regione”; ma la versione russa, per bocca del Ministro della difesa Sergei Shoigu, è stata diversa e fa trasparire il vero senso di queste operazioni: “lo scopo principale di addestrare le nostre forze con i cinesi è di formare un sistema collettivo di sicurezza regionale, visti i tentativi americani di rafforzare la loro presa politica e militare in Asia e nel Pacifico”.[7]
Mentre la Cina, dunque, mantiene la sua cosiddetta politica del sorriso, la Russia non esita ad accusare gli USA di ingerenza nella regione, le stesse accuse che ha mosso a proposito della questione ucraina. Ma anche la Cina, nonostante le parole rassicuranti, mantiene un atteggiamento guardingo verso la potenza statunitense e infatti lo scorso mese di settembre ha presentato un sistema missilistico denominato non a caso Guam killer: Guam è l’avamposto americano nel Pacifico ove è presente la base aerea Andersen.[8] La politica del sorriso non nasconde quindi nei fatti i timori cinesi. In realtà è dal 2012 che la Cina sta agendo nell’area del Pacifico con operazioni che rasentano la fantascienza. Nel Mar Cinese meridionale da tre anni il governo cinese sta riversando tonnellate di sabbia e cemento lungo delle barriere coralline semisommerse, creando, di fatto, delle isole artificiali dove, per altro, è già stato installato un aeroporto militare in base ai rilevamenti satellitari statunitensi. Pechino rassicura i propri vicini sostenendo di star costruendo rifugi anti tifone utili a tutti. In realtà lungo queste ex barriere coralline ora trasformate in isole artificiali transitano ogni anno 5000 miliardi di dollari di merci e petrolio.[9] In quest’area del Pacifico sono stati scoperti importanti giacimenti petroliferi. L’area è strategica. Il punto è che queste acque, che la Cina rivendica come proprie, sono in realtà contese anche da Filippine, Vietnam, Malesia, Brunei e Taiwan:[10] nazioni alleate degli USA e alcune anche firmatarie del nuovo Trattato transpacifico. E in prossimità di questi atolli sono già iniziate le polemiche a proposito del mancato rispetto del limite delle acque territoriali: la Cina ha accusato gli Stati Uniti di violare le proprie acque territoriali avendo inviato in prossimità degli atolli unità navali da guerra.[11] Da alcuni osservatori viene fatto notare come la creazione di queste isole artificiali da parte di Pechino costituisca una valida alternativa alla messa in cantiere di portaerei. Nel Pacifico gli USA possono disporre di 10 portaerei cui la Cina può oggi contrapporne una sola; le isole artificiali dotate di aeroporto, in mezzo all’Oceano, costituiscono una valida alternativa.[12]
La regione sta vivendo pertanto anni di gravi tensioni acuite di recente anche dalla decisione del governo giapponese di interpretare in un modo completamente nuovo l’art. 9 della propria Costituzione che prevedeva “…la rinuncia per sempre alla guerra… alla minaccia o all’uso della forza quale mezzo per risolvere le controversie internazionali”. Con il voto parlamentare del 18 settembre la Camera alta, su proposta del governo Abe, d’ora innanzi legittimerà i soldati giapponesi a combattere fuori dal territorio nazionale se “…il Giappone o un suo stretto alleato sono sotto attacco”.[13] Tra Cina e Giappone i contrasti diplomatici non si sono mai placati sin dalla fine della Seconda guerra mondiale e si stanno acuendo in coincidenza con il rafforzamento dell’esercito popolare cinese e di questa nuova linea in politica estera del Giappone. D’altro canto il Giappone per il 2015 ha stanziato 36 miliardi di dollari per la Difesa, la Cina 98 miliardi, gli USA 663 miliardi, la Russia 61 miliardi e l’Unione europea 331 miliardi.[14] Quest’ultima rappresenta in apparenza una cifra enorme, che però va suddivisa per i 28 paesi membri e che diventa, quindi, di fatto, una dispersione di risorse, anche perché, in mancanza di un governo dell’Unione che possa garantire una politica di difesa europea, ogni Stato membro mantiene un proprio standard negli armamenti.
La corsa agli armamenti vede dunque competere Stati Uniti, Cina e Russia nella ricerca di una leadership che ha oggi come scenario l’Oceano Pacifico. Nonostante gli accordi START[15] prevedano entro il 2018 una graduale riduzione delle testate nucleari e delle bombe strategiche, le due potenze stanno procedendo esattamente in senso opposto.[16] Nell’ambito degli armamenti nucleari Stati Uniti e Russia mantengono una netta superiorità rispetto alla Cina che invece ha una netta preminenza nell’ambito delle forze convenzionali. Ma una lettura degli investimenti in campo militare rivela nuovi scenari, che mostrano come Cina, Russia e Stati Uniti nel campo della difesa abbiano programmi che si svilupperanno sino all’anno 2050. L’Europa di oggi, invece, è completamente esclusa, del tutto impotente a causa della sua divisione di fronte a nazioni di dimensioni continentali che dispongono di un governo che programma gli obiettivi e le strategie da perseguire.
Se si analizza il recente National Military Strategy degli Stati Uniti,[17] si vede che parte dagli scenari geopolitici che li coinvolgeranno insieme a Russia e Cina in una competizione militare che avrà al proprio centro il Pacifico imponendo agli USA un minor impegno in ambito NATO. In questo contesto viene anche ribadita la necessità che gli alleati europei provvedano all’onere della propria difesa.[18] Nel settore degli investimenti è interessante osservare come nei prossimi tre anni gli USA investiranno in ricerca e sviluppo oltre 21 miliardi di dollari, a favore della aviazione (oltre 15 miliardi) e della marina (6 miliardi). A questi investimenti vanno aggiunti quelli che riguardano un nuovo e strategico settore: quello aerospaziale, in particolare per lo sviluppo dei satelliti militari. Se una presenza militare agguerrita nei mari o lungo le frontiere garantisce l’immagine di potenza di una nazione, è altrettanto vero che oggi il controllo dello spazio è ugualmente importante. Si stima che ammontino a circa 35 miliardi di dollari le spese militari globali nel settore satellitare con USA e Russia che ne coprono circa l’80%. La Cina in questo campo è in ritardo, ma rapporti dell’intelligence statunitense informano che Pechino dispone ormai di sistemi anti satellitari in grado di distruggere il 90% dei satelliti USA (ne dispone di 150 nello spazio, a fronte dei 70 della Russia).[19] E per capire la delicatezza della situazione bisogna tenere presente che colpire i sistemi satellitari, in primis quelli militari e poi quelli civili, significherebbe oggi interrompere le comunicazioni a livello mondiale riportando il mondo indietro di due secoli e scatenando un caos dalle conseguenze inimmaginabili.
In questo contesto è evidente come l’Europa resti ai margini di ogni questione cruciale. Se sino agli anni Ottanta attraverso il nostro continente transitava il 50% del commercio internazionale, ora il baricentro del mondo si è spostato verso l’Asia e le coste americane del Pacifico. Nel campo dei sistemi satellitari, l’Europa sta tentando con il progetto Galileo di predisporre un proprio sistema (per quanto pensato per integrarsi con quello statunitense, il GPS)[20] ma è in ritardo sui tempi. Il gap degli investimenti nel settore resta comunque incolmabile rispetto agli USA e alla Russia. Mentre, in campo militare, abbiamo ricordato come la mancanza di un governo e di una difesa comune europea disperda una grande quantità di denaro pubblico senza alcuna possibilità di rendere l’Unione europea capace di intervenire con efficacia nei vari scenari internazionali. In caso di missioni all’estero sono ancora i singoli paesi ad agire o intervenire, avendo anche grandi difficoltà a coordinarsi in caso di operazioni congiunte: le vicende in Libia e quelle più recenti in Siria ne sono una triste testimonianza. Di fronte ad un mondo che sta rapidamente mutando nei rapporti di forza economici, militari e finanziari è indispensabile che al più presto l’Unione europea agisca per definire una struttura istituzionale che le garantisca competenze e poteri reali nei campi della difesa e della politica estera. La cessione della sovranità è il totem che deve essere abbattuto da parte degli Stati disponibili all’interno dell’Unione: sarebbe sufficiente che un nucleo di paesi compisse il primo passo, come è già accaduto per dar vita all’euro.
Stefano Spoltore
[1] Stati Uniti, Canada, Messico, Perù, Cile, Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Brunei, Vietnam, Malesia e Singapore.
[2] TPP trade deal: seven things you need to know, Financial Times, 5 ottobre 2015.
[3] Negoziati commerciali e nuovi equilibri tra Usa, Area del Pacifico e UE, Agriregioni, n. 39, 2014.
[4] E’ sintomatico comunque che si parli di crisi cinese, con ripercussioni a livello mondiale, quando la crescita del suo PIL nel 2015 è di circa il 7% mentre nella UE si stenta ad arrivare all’1,5%.
[5] Si veda: S. Spoltore, L’Ucraina tra est ed Ovest, Il Federalista, 56 n. 1-2 (2014), pp. 87-98.
[6] L’atteggiamento verso il ruolo della Russia in Siria è però mutato dopo l’abbattimento dell’aereo di turisti russi nei cieli dell’Egitto e i tragici attentati di Parigi nel novembre 2015. Si sono anzi attivati accordi per svolgere operazioni militari congiunte in Siria tra la Russia e la Francia in primis. La crisi siriana ha ridato alla Russia un ruolo primario che sta migliorando i rapporti con la UE e con gli Stati Uniti, consci che senza una partecipazione russa nella lotta contro l’estremismo islamico è impossibile pensare di stabilizzare l’area medio orientale.
[7] Corriere della Sera, 21 agosto 2015.
[8] Aeronautica&Difesa, n. 348, ottobre 2015.
[9] Corriere della Sera, 16 aprile 2015.
[10] La Difesa, Padova, 15 maggio 2015.
[11] Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2015.
[12] Corriere della Sera, 28 ottobre 2015.
[13] Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2015.
[14] Fonte: Stockholm Int. Peace Research Institute.
[15] Strategic Arms Reduction Treaty(START), siglato l’8 aprile 2010 tra i presidenti Obama e Medvedev.
[16] Aeronautica&Difesa, n. 346, agosto 2015.
[17] The United States Military’s Contribution to National Security2015.
[18] Si veda Aeronautica&Difesa, n. 346, agosto 2015.
[19] Avvenire, 29 agosto 2015.
[20] Agenzia Spaziale Italiana, www.asi.it.
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