Anno LXI, 2019, Numero 1-2, Pagina 72
DEMOCRAZIA E POLITICA NELL’ERA TECNOLOGICA E DELLA GUERRA CIBERNETICA. L’EUROPA SOTTO ATTACCO
Premessa.
Tanti fattori si combinano nella lotta politica in atto che sta portando l’elettorato di molti paesi ad abbracciare forme di populismo e di nazionalismo, che offrono risposte facili ed emotive ai problemi complessi della società odierna; e questo nonostante le ricette nazionaliste non possano offrire reali soluzioni, come dimostra l’esempio significativo del problema migratorio.
Uno degli aspetti che emerge è l’incidenza della tecnologia informatica nel successo di certe campagne, che sono spesso orchestrate da potenze esterne e basate sull’uso dei dati e dei profili dell’elettorato, l’impiego dei trolls e dei bot twitters, che contribuiscono a influenzare la parte della popolazione più fragile culturalmente o più esposta ai divari socio-economici. Si tratta di un’ingerenza che mette in serio pericolo l’esercizio dei diritti democratici, al punto che è molto acceso il dibattito se esista ancora una democrazia liberale e se i suoi valori siano ancora fondanti nella vita del mondo democratico occidentale o se quest’ultimo si stia avviando a un veloce declino.
Ciò che è inequivocabile è comunque il fatto che è in atto da tempo una vera propria guerra per la destabilizzazione politica di molti paesi dell’Unione Europea, che è vista come avversaria delle superpotenze, anche grazie allo spazio di manovra lasciato libero dalla debolezza politica delle sue istituzioni.
Sono numerosi gli autori che hanno trattato questi temi. I riferimenti presenti in questa nota sono legati ad alcuni testi o articoli particolarmente rilevanti che riguardano storici e sociologi quali Timothy Snyder (La paura e la ragione), universitari informatici quali Giovanni Ziccardi (Tecnologie per il potere), economisti sociologi quali William Davies (Stati nervosi), filosofi come Remo Bodei (Vivere on line), e politici come Carlo Calenda (Orizzonti selvaggi).
Tecnologia e potere: il peso delle BIG TECH.
L’era della tecnologia in cui siamo immersi ha prodotto una serie di vantaggi e ha fatto fare incredibili passi avanti per l’umanità in campo industriale, commerciale, medico-scientifico, nei trasporti, nella vita quotidiana, ecc.. Al tempo stesso, nel nostro mondo sempre più complesso le regine della tecnologia, le cosiddette BIG TECH, hanno assunto un peso preponderante in termini di:
– Condizionamento degli individui,
– Disintermediazione,
– Destabilizzazione della società e delle istituzioni,
– Collusione con la politica.
Il peso economico delle BIG TECH è rilevantissimo. “Amazon cattura più di un terzo della spesa americana per il commercio on-line. Google rappresenta l’88% del mercato USA dei motori di ricerca e il 95% di tutte le ricerche su mobile. Due americani su tre sono su Facebook che, avendo comprato Instagram e WhatsApp, possiede ora quattro delle otto maggiori app social”, come scrive Rana Foroohar sul Financial Times.[1]
Secondo William Davies, “Google, Apple, Facebook, Amazon (…) in particolare stanno acquisendo una padronanza senza precedenti dei nostri pensieri, sensazioni, movimenti relazioni e gusti, a un livello che non è mai stato accessibile agli scienziati sociali o ai ricercatori di mercato tradizionali (…).”[2]
Nel giugno del 2015 Mark Zucherberg, l’inventore e proprietario di Facebook, che oggi conta oltre due miliardi di utenti, ha annunciato nuovi arditi programmi di sviluppo: “Ritengo che un giorno potremo inviarci pensieri complessi direttamente tramite la tecnologia. Basterà che pensiate qualcosa e se vorrete potranno sentirla anche i vostri amici. Sarà il massimo della tecnologia della comunicazione.”[3]
Analizzando e approfondendo questa prospettiva Davies indica come “la possibilità di una comunicazione da cervello a cervello stia diventando realtà senza bisogno di scomodare il paranormale (…) e dipenderà da una forma di linguaggio che la maggior parte delle persone non sarà in grado di comprendere. I mezzi di comunicazione saranno privatizzati”.[4] “I processi mentali sono compiti separabili in una serie di elementi distinti: è questo il senso di una elaborazione digitale. Questi compiti si possono poi ricomporre in forma di codice e una macchina può eseguirli uno alla volta. La fede di Mark Zuckerberg nella telepatia si basa in ultima istanza sull’idea che ‘i pensieri’ non siano altro che una serie di movimenti fisici il cui andamento si può potenzialmente leggere come un sorriso di un volto o un messaggio criptato da decifrare.”[5]
Il timore filosofico più ampio è quello di una società in cui le persone diventino “pezzi leggibili di dati ai quali non è riconosciuto nessun tipo di interiorità”[6].
A ulteriore accentuazione dell’importanza di Facebook, il 18 giugno scorso, Mark Zuckerberg ha presentato la sua criptovaluta, la Libra, da usarsi inizialmente tra una ventina di grandissime imprese del commercio o finanziarie quali UBER, Spotify, Visa, Mastercard, Paypal o Free. Un potere, quello di emettere e controllare una valuta, finora riservato agli Stati, con una prevedibile perdita di sovranità monetaria da parte delle banche centrali, di potere delle istituzioni statali e che può mettere in crisi il funzionamento della democrazia.
Queste profonde modificazioni tecnologiche hanno avuto un impatto destabilizzante soprattutto in quella parte della popolazione meno giovane, non preparata all’evoluzione così veloce in atto e, spesso, emarginata economicamente, socialmente e politicamente provocando un grande disorientamento.
La rottura dell’equilibrio bipolare e gli effetti della globalizzazione.
Attribuire solo all’uso distorto della tecnologia questi risultati è però errato, perché le paure della gente sono nate anche in seguito agli effetti della rottura dell’equilibrio bipolare e del processo di globalizzazione, che hanno prodotto diversi fenomeni negativi e aiutato lo scivolamento verso certe reazioni irrazionali dell’elettorato di oggi quali:
– la crisi economica e finanziaria scatenata dagli Usa dal 2008 in poi,
– le guerre incontrollabili,
– i gravi effetti in certe aree del mondo del riscaldamento globale,
– il fenomeno migratorio,
– i divari di ricchezza che si sono accentuati soprattutto all’interno dei paesi.
Uno dei temi affrontati nel libro di Timothy Snyder La paura e la ragione, che è concentrato soprattutto sul ruolo destabilizzante della Russia di Putin sulle democrazie liberali dell’Occidente, è proprio il grande divario di condizioni socio economiche e politiche all’interno di diversi paesi e come questo, tra gli altri fattori, abbia prodotto un forte distacco dalla politica tradizionale. Un esempio, tra tutti, il caso inglese: “Come ha osservato Davies, in Gran Bretagna nel 2016 la polarizzazione geografica tra regioni ricche e povere è più pronunciata di qualsiasi altra nazione dell’Europa occidentale e ciò ha contribuito direttamente al risultato del referendum sulla Brexit. Il prodotto pro capite di West London è otto volte più alto di quello delle valli gallesi, una delle regioni più favorevoli alla Brexit (…). A Londra il valore mediano della ricchezza delle famiglie è cresciuto del 14 per cento, mentre è sceso dell’8 per cento nello Yorkshire e nell’Humber, aree che hanno ugualmente presentato un’elevata percentuale di voti pro-Brexit. L’economia della Gran Bretagna è la quinta nel mondo, ma la maggior parte delle regioni detiene un PIL pro capite al di sotto della media europea, dato che viene mascherato dalla ricchezza e dalla produttività sproporzionate di Londra.”[7]
La nuova politica.
Da tutto ciò consegue un mondo sempre più conflittuale e si è venuta a formare una reazione agli eventi basata più sull’emotività che sulla razionalità. Sono così state messe in discussione verità fino a oggi indiscutibili: veridicità delle statistiche e dei dati ufficiali, dei metodi scientifici, del parere degli esperti, ritenuti faziosi, e, da tempo, si è manifestata una crescente sfiducia nei partiti e nelle ideologie.
Bodei rileva che “Quello che oggi colpisce è (…) da un lato, lo spreco dell’intelligenza, la sproporzione tra le possibilità offerte dalla tecnica e dalla scolarizzazione moderne e, dall’altro, il deperimento del senso comune diffuso, che tende ad appiattirsi, raggiungendo talvolta incredibili livelli di credulità”[8].
La reazione di molte persone di fronte alla complessità della situazione è la ricerca di soluzioni semplicistiche oppure il disinteresse nella politica e il disimpegno politico.
Alcuni politici hanno intercettato prima di altri questi disagi e queste paure e, su questa base di malcontento hanno attuato un nuovo modo di fare politica attraverso i social media e messaggi violenti, offrendo sfogo alla rabbia della gente.
Grazie alle nuove tecnologie comunicative essi hanno creato campagne politiche tendenti al recupero elettorale di della parte della popolazione impaurita e insoddisfatta, cercando di renderla protagonista, attraverso rapporti diretti con i decisori politici, del rivendicare tutto e subito, della lotta alle élite e del rifiuto di qualsiasi intermediazione.
Come constata Davies “…i populisti sono pessimi decisori politici ma hanno dalla loro ottimi slogan, bellissimi raduni e pochi scrupoli rispetto al mentire”; “…la promessa che si cela dietro al nazionalismo (…) è quella di dare significato alla vita delle persone comuni”.[9]
BIG TECH e la guerra cibernetica.
Nel suo libro, Tecnologia per il potere, Giovanni Ziccardi rileva che poiché “…oggi, in quasi tutti gli Stati, gran parte delle persone trascorrono sino a otto ore al giorno sui social networks”,[10] questi ultimi sono diventati strumento di una ferocissima guerra non guerreggiata con le armi ma con la tecnologia. Siamo di fronte ad una guerra cibernetica in politica, dove, secondo il filosofo Remo Bodei, “…sono attualmente i mezzi interattivi, specie Internet e i social networks, a rappresentare l’incubatrice o la nuova serra della politica, i ‘siti’ dove il consenso non viene assegnato e distribuito con i mezzi tradizionali (di governo, partiti, giornali, manifestazioni di piazza) ma viene appunto forzato, drogato”.[11]
Parte di questa guerra cibernetica ha come regista la Russia. E’ lo stesso Putin a dichiarare “che a dominare il XXI secolo sarà il paese più avanzato in termini di intelligenza artificiale.”[12]
Secondo Dmitrij Kiselev, coordinatore dell’agenzia di Stato russa per l’informazione internazionale, “la guerra dell’informazione è oggi il principale tipo di guerra”.[13]
“Il concetto di ‘utilizzare in senso offensivo‘ strumenti quotidiani è diventato parte del lessico politico comune. Il Cremlino è stato accusato di farlo con i social media, per interferire in elezioni democratiche e confondere i mezzi di informazione. Avendo la capacità di destabilizzare e di diffondere la paura, Facebook e Twitter si possono utilizzare come strumenti di disturbo e persino di violenza”.[14]
La politica di disinformazione, portata avanti soprattutto da agenzie russe, risale almeno al periodo della guerra in Ucraina del 2014, con i suoi riscontri più significativi nella Brexit e nell’elezione di Trump. E’ il caso segnalato anche dall’interessante articolo della giornalista scandinava Karin Pettersson, che mette in rilievo come “già dal 2016 il referendum della Brexit e l’elezione di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti, l’anno seguente, la discussione circa il negativo impatto dei social networks sulla democrazia si sia intensificato. ‘Fake news’, disinformazione, interferenza e propaganda russa sono diventati la nuova prassi. In un recente TED-talk, la giornalista del Guardian Carole Cadwalladr ha descritto come Facebook sia diventata una piattaforma di legami e condotta illegali nella campagna della Brexit.”[15] La Pettersson commentando le annuali dichiarazioni di Mark Zuckerberg nello stage del 1° maggio di San Josè in California, rileva come Facebook sia ora più potente di molti Stati nazionali e si chiede se ci siano soluzioni democratiche per far fronte a questa situazione o se, come puntualizza l’economista Dani Rodrik, ci sia a monte il trilemma di come la iperglobalizzazione, le politiche democratiche e le sovranità nazionali non possano coesistere nello stesso tempo.
Su cosa si basa la guerra cibernetica? Come si agisce in tale contesto? Tutto ciò è ben spiegato nel libro di Giovanni Ziccardi, dove si legge: “La capacità che ha un uso scorretto delle tecnologie di alterare equilibri elettorali e democratici è provata ed è da tempo sotto la lente di Stati, candidati, studiosi di comunicazione e di politica”[16] e dove si constata che “la tecnica della falsificazione dei dati e della violenza del linguaggio sono tipici di questa strategia. Se si osserva a grandi linee il quadro attuale della politica connessa, il panorama che si delinea non è affatto positivo. Sembra di essere nel pieno dell’era della falsificazione delle informazioni e della diffusione on-line di reciproche accuse, con un uso del messaggio pre- e post-elettorale che si divide tra creazione e divulgazione di assunti falsi e attacchi personali.”[17]
Ziccardi mette in particolare rilievo come il controllo dei dati degli utenti è una delle battaglie in corso che, per esempio, ha prodotto lo scandalo della Cambridge Analytica per cui questa agenzia, con il “facebookgate ha ottenuto l’accesso ai profili Facebook e ha potuto catturare i dati di 87 milioni di utenti”,[18] utilizzati poi per indirizzare le scelte dell’elettorato in occasione della Brexit e dell’elezione di Trump. E ancora, “si pensi (…) ai sospetti di interferenze russe nello svolgimento delle elezioni in altri paesi (soprattutto in Nord America, nel Regno Unito e in Francia), alle frequenti accuse di volontaria e organizzata diffusione di informazioni false o di odio via Facebook, Twitter e in gruppi Whatsapp, come in occasione delle recenti elezioni brasiliane che hanno visto vittorioso Jair Bolsonaro – o di attivazione, anche in Italia, di vere e proprie macchine del fango digitali allestite in pochi secondi per diffamare, senza pietà, oppositori o critici di una determinata forza politica”.[19]
“Per la prima volta nella storia della politica, un team, una struttura, una strategia e un enorme data base creati appositamente per la gestione delle tecnologie, per la profilazione dei potenziali elettori, per la raccolta dei loro contributi e per sfruttare i big data, la creazione di grandi archivi e i social networks, mostrarono al mondo intero come l’informatica e le piattaforme tecnologiche potessero costituire un fattore essenziale e determinante alla base di una non scontata vittoria elettorale. In sintesi si potevano vincere le elezioni più importanti al mondo ponendo al centro della strategia elettorale, come motore, la tecnologia.”[20]
Anche Snyder denuncia “La campagna russa per riempire la sfera pubblica internazionale di finzioni è iniziata in Ucraina nel 2014, quindi si è allargata agli Stati Uniti nel 2015, dove ha aiutato a eleggere un presidente nel 2016.”[21] e aggiunge che il fatto che le elezioni americane siano state pilotate da Mosca è più di un sospetto: “la Russia ha fatto salire ‘una sua creatura’ alla presidenza degli Stati Uniti”,[22] tenendo conto che Trump era stato salvato dalla bancarotta anni prima proprio dai russi.
Lyudmilla Savchuk, una giornalista che ha lavorato sotto copertura per due mesi e mezzo nella suddetta fabbrica di troll, ha spiegato, in un sua intervista a Public Radio International, come funziona l’Internet Research Agengy (IRA) “…dove lavoravano a rotazione 24 ore su 24 centinaia di giovani, alcuni dedicati alla produzione di meme visivi noti come ‘demotivators’, altri nella ‘divisione notizie demotivators’, e un altro reparto come ‘seminatori di social media’. (…) Nonostante la divisione del lavoro, il contenuto era uniforme e i nemici da colpire erano gli Stati Uniti, l’UE, il governo filo europeo dell’Ucraina e l’opposizione della Russia erano obiettivi regolari di disprezzo. E poi c’era il presidente russo Vladimir Putin – apparentemente nessun trionfo russo sotto il suo governo era troppo piccolo da giustificare un tweet celebrativo, un meme o un post.”
L’operazione era gestita da Evgeny Prigozhin, un ristoratore di San Pietroburgo, “spesso chiamato ‘lo chef di Putin’ per i suoi stretti legami con presidente russo. Costui è stato posto sotto le sanzioni statunitensi nel 2018 per quello che i funzionari americani dicono essere un tentativo coordinato di interferire con le elezioni americane ed è stato incriminato dallo staff investigativo del Consigliere speciale Robert Mueller l’anno scorso.”[23]
Attacco all’Europa.
Anche Carlo Calenda rileva che “esiste una chiara strategia di destabilizzazione dell’Occidente e delle democrazie liberali portata avanti dalla leadership russa.”
“La Russia (…) ha perso ogni aggancio con l’Europa e con l’Occidente ed è tornata a fare un’aggressiva e spregiudicata politica di potenza. (…) A Putin si ispirano Orbàn, Salvini e Le Pen. Da Putin hanno ottenuto sostegno probabilmente non solo ideologico.”[24]
Secondo Davies, “la rabbia, l’intimidazione e le bugie che si sono insinuate nei mezzi di informazione e nella società civile, destabilizzando le istituzioni senza costruirne di alternative, possono degenerare in una spirale di paura e di sospetto reciproco. I politici di estrema destra, spesso vagamente allineati tramite il sopruso con gruppi in rete e fuori, stanno mobilitando con successo persone che sono e si sentono destituite. L’Europa, l’Unione europea rappresenta un bersaglio per i nazionalisti che cercano di spiegare perché le loro società non sono più sicure e più ricche.”[25]
Snyder scrive, con riferimento alla Gran Bretagna che “nelle settimane prima del referendum, tenutosi il 23 giugno 2016, tutti i maggiori canali televisivi russi, tra cui RT, sostennero la scelta di lasciare l’UE: (…) i troll russi (persone in carne e ossa che partecipavano a discussioni su internet con gli elettori britannici) e i bot usati dalla Russia su Twitter (programmi informatici che mandano milioni di messaggi mirati) si prodigarono in un ingente sforzo per appoggiare la campagna del Leave. Quattrocentodiciannove accounts Twitter che postarono sulla Brexit erano basati presso l’Agenzia russa per la ricerca su internet; in seguito, ognuno di essi avrebbe anche postato messaggi in sostegno della campagna presidenziale di Donald Trump. Circa un terzo del dibattito sulla Brexit su Twitter fu generato da bot, e più del 90% dei bot che twittavano materiale politico lo facevano dall’esterno del Regno Unito.”[26]
“Nella campagna per le elezioni presidenziali francesi del 2017, Marine Le Pen elogiò il suo patrono Putin. Arrivò seconda al primo turno, battendo tutti i candidati dei partiti tradizionali francesi. Al ballottaggio, la Le Pen ricevette il 34% dei suffragi. Pur perdendo la sfida con Macron, ottenne il miglior risultato mai raggiunto da un candidato dell’estrema destra nella storia della Francia post-bellica. Appoggiare il Front National significava attaccare l’Unione Europea.”[27]
Questo tipo di azioni di disturbo ci sono sempre state in politica ma in nessun tempo hanno avuto la forza prorompente data dall’uso della nuova tecnologia e dalle piattaforme social.
Tentativi di difesa dalle ingerenze.
Secondo Ziccardi “se i big data e l’uso del digitale sono al centro dell’attività politica, il tema della sicurezza è diventato il fulcro del problema, dato anche l’utilizzo sempre più ampio dell’informatica nelle campagne elettorali.”[28]
Il 14 giugno 2019 le autorità europee nel rapporto sulla lotta alla disinformazione della Commissione europea hanno accertato attività di disinformazione prolungata nel tempo e portata avanti da non meglio identificate fonti russe in occasione delle elezioni europee, finalizzata a contenere l’affluenza alle urne e influenzare le preferenze dei votanti.
Macron nella sua Lettera agli europei del 4 marzo 2019,[29] ha messo in luce la necessità che l’Unione si doti di un’Agenzia europea di protezione delle democrazie, sottolineando che “la nostra prima libertà è la libertà democratica, quella di scegliere i nostri governanti laddove, ad ogni scrutinio, alcune potenze straniere cercano di influenzare i nostri voti. Propongo che venga creata un’Agenzia europea di protezione delle democrazie che fornirà esperti europei in ogni Stato membro per proteggere il proprio iter elettorale contro i cyber-attacchi e le manipolazioni. In questo spirito di indipendenza, dobbiamo anche vietare il finanziamento dei partiti politici europei da parte delle potenze straniere. Dovremmo bandire da Internet, con regole europee, tutti i discorsi di odio e di violenza, in quanto il rispetto dell’individuo è il fondamento della nostra civiltà di dignità”.
L’Assemblea nazionale francese il 2 luglio ha cominciato a discutere di come arginare l’invadenza crescente di Google, Facebook e Amazon nell’influenzare il dibattito politico e come tassarle.
Democrazia e crisi politica dell’Occidente.
Questa guerra sta cambiando le regole democratiche della formazione del consenso basate sul confronto delle idee, così come le abbiamo conosciute finora nel mondo occidentale. E’ una guerra globale che però entra nella casa di ciascuno di noi attraverso i social media Facebook, Google, YouTube, che influenzano pesantemente il modo di pensare soprattutto di chi non ha gli strumenti culturali per difendersi.
Bodei rileva che “molti hanno la sensazione che in democrazia la politica si sia svuotata dall’interno tanto nelle sue motivazioni razionali, quanto nelle sue passioni civili. Non resterebbe altro che il guscio della spettacolarità riempito di un’emotività povera di contenuti”; e prosegue affermando che “la verità è oggi insidiata da quelli che nell’entourage di Trump si chiamano ‘fatti alternativi’, perché viviamo – è un’espressione che si sta affermando – nell’epoca della post-verità.”[30] Bodei si chiede anche “se la democrazia esista ancora o non si viva già nell’età della post-democrazia, che assume il volto del populismo, della smobilitazione e infantilizzazione delle masse, dell’autocrazia elettiva, del conformismo, della degradazione della verità a semplice opinione, e dell’inaridimento della facoltà di giudicare, spesso paralizzata da paure diffuse ad arte. Con il loro tasso di insicurezza e di complementare bisogno di rassicurazione e di protezione, tutti questi fattori rendono gli individui meno razionali e creano uno stato d’animo di allerta mista a rassegnazione. Nei meccanismi di protezione e garanzia dei cittadini qualcosa si è rotto: è come se una caduta delle difese immunitarie avesse lasciato maggior spazio di manovra alle potenze della seduzione, per cui le analisi, i ragionamenti e i progetti si trasformano in storytelling.”[31]
Come spiega Nunziante Mastrolia, “la democrazia è a rischio quando abbandona ‘il popolo’ e coccola ‘la folla’”. E’ la categoria dell’oclocrazia elaborata da Platone, la forma degenerata della folla senza legge. “La folla è una massa che ha paura del futuro. Una paura che può essere accentuata dalla mancanza di mezzi propri di sostentamento (o dalla percezione di un impoverimento relativo) o dall’assenza degli strumenti intellettuali in grado di razionalizzare i problemi che l’affliggono. (…) La massa che ha paura del futuro si sente povera e vittima di forze oscure che ne rovinano l’esistenza (qualsiasi capro espiatorio va bene); (…) lasciare che la folla faccia ingresso nella cittadella liberale significa spalancare le porte alla tirannide. Non a caso i grandi despoti del XX secolo da Mussolini a Hitler, non hanno certo occupato il potere nottetempo con un colpo di mano. Ma anzi tra gli applausi delle folle osannanti! La folla è reazionaria e irrazionale (…) c’è bisogno del popolo perché ci sia democrazia.” Il popolo è una costruzione politica derivante dalle grandi conquiste che si sono ottenute anche attraverso lo Stato sociale e la costituzionalizzazione delle istituzioni che lo hanno liberato dalla paura, dalla miseria, dall’ignoranza: “…la crisi politica dell’Occidente deriva dall’aver prodotto un cambiamento scientifico, tecnologico ed economico così straordinario che le strutture politiche e sociali, pensate per l’era fordista, non sono in grado di curare e prevenire gli effetti collaterali dannosi che tale progresso ha provocato su ampi strati dei cittadini delle società aperte occidentali. Cittadini che ora hanno paura. Il che vuol dire che la crisi politica dell’Occidente è tutta qui! Nell’aver consentito senza intervenire che il popolo si trasformasse in folla. E’ la folla che ha votato la Brexit, è la folla che ha votato Trump, è la folla che ha votato i populisti italiani.”[32]
Anche Davies rileva che “la sensazione di trovarci in una nuova epoca delle folle è rafforzata dalla diffusione e dalla crescente influenza dei social media (…). Le folle sono un aspetto fondamentale della politica sin dall’antichità, ma prima del XXI secolo non avevano mai disposto di strumenti di coordinamento in tempo reale.”[33]
Calenda rileva invece come un’importante ragione della crisi della politica e della democrazia liberale in occidente risieda “…nella separazione tra politica e potere conseguente all’indebolimento dello Stato-nazione. Con il prevalere dei mercati internazionali rispetto ai mercati nazionali, lo Stato ha piano piano perso i propri poteri. A questa perdita non si è associata la nascita di un potere politico democratico internazionale. L’unico esperimento tentato, in questo senso è stato quello europeo, ma (…) l’integrazione economica è andata molto più avanti di quella politica (…). L’internazionalizzazione dell’economia ha così finito per indebolire la democrazia liberale (...) quando i cambiamenti investono la società a una velocità superiore alla sua capacità di adattamento, i cittadini continuano a pretendere, giustamente, che sia lo Stato a proteggerli e a garantirli.”[34]
Recentemente Vladimir Putin in un’intervista al Financial Times ha, tra l’altro, dichiarato che: “l’idea liberale è diventata obsoleta ed è entrata in conflitto con gli interessi della stragrande maggioranza della popolazione” e che “i nostri partner occidentali hanno ammesso che alcuni elementi dell’idea liberale come il multiculturalismo non sono più realizzabili”.[35]
I risultati elettorali più recenti, che hanno in molti paesi bocciato le tradizionali forze liberal-democratiche a favore di populisti e nazionalisti, danno ragione a Putin In effetti un liberalismo troppo spinto e senza regole ha favorito la crisi finanziaria, e i profondi divari di ricchezza, già ben messi in evidenza ne Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty,[36] creano forti fratture nella società.
La liberal-democrazia va coniugata con la giustizia sociale e il liberalismo spinto va controllato e, come ha scritto Martin Wolf, commentando le dichiarazioni di Putin “Le società liberali hanno bisogno di valori condivisi e identità, questo è perfino compatibile con l’immigrazione e con le differenze culturali, ma entrambe devono essere governate, altrimenti lo scontento popolare porterà al potere leader che disprezzano le norme della democrazia liberale e i fragili equilibri collasseranno.”[37]
Al tempo stesso, è chiaro che l’alternativa non può essere l’oligarchia illiberale esistente in Russia, paese in cui i divari di reddito sono tra i più alti al mondo. Resta il fatto che nei nostri paesi la democrazia è ormai entrata in profonda crisi. Come nota Calenda, “solo il 47 per cento degli europei e il 31 per cento degli americani considerano essenziale vivere in democrazia”[38] mentre in Italia “oltre il 73 per cento dei giovani sotto i vent’anni non si informano sulla politica e il 30 per cento non ne parla mai.”[39]
E’ dunque una società senza valori e senza rispetto della vita e della dignità umana quella che si prospetta con l’affermarsi della società cibernetica? Una società incapace di pensare alle conseguenze di ciò che fa, una società che, in preda ad emozioni negative e distruttive, perde i riferimenti individuali per diventare parte di un ingranaggio, un robot, una società che dimentica la storia, oppure una società indifferente nel senso indicato da Gramsci?
C’è ancora tempo per attuare una resistenza europea in nome dell’umanità?
Che fare? L’illusione della continuità.
Il mondo globale è veramente un mondo diverso in cui politicamente servono atteggiamenti diversi, non attendisti, soprattutto da parte dell’Europa.
Gli enormi divari di potenza esistenti nel mondo non possono essere risolti a livello nazionale europeo.
In questo quadro schizofrenico l’Europa può avvitarsi su sé stessa nell’immobilismo e collassare, ma, per ora, rimane l’unico baluardo di democrazia e civiltà. Ma quale Europa? Troppi anni di autoreferenzialità, troppo tiepidi i suoi sostenitori a partire dai partiti che si professano progressisti, non sempre convintamente a favore dell’unità europea.
I nemici dell’unità europea sono tanti e forti ad iniziare da Trump, Putin e in parte dalla Cina, che fomentano il malcontento, finanziano i partiti contrari, gestiscono le guerre cibernetiche e operano con il divide et impera, o aspettano di accaparrarsi i pezzi della dissoluzione dell’Unione.
Di fronte alla forza dei nemici non si può continuare con la politica dei piccoli passi con l’illusione che la continuità sia vincente.
Uno degli errori, come descrive molto bene Snyder, è che “gli americani e gli europei sono entrati nel nuovo secolo guidati da un racconto sulla ‘fine della storia’, da quella che chiamerò la politica dell’inevitabilità, ossia la convinzione che il futuro sia soltanto una continuazione del presente, che le leggi del progresso siano note, che non vi siano alternative e, dunque, nemmeno rimedi. Nella versione capitalista americana di questo racconto, la natura ha prodotto il mercato, che ha prodotto la democrazia, che ha prodotto la felicità. Nella versione europea, la storia ha prodotto la nazione, che ha imparato dalla guerra l'utilità della pace, e pertanto ha scelto l'integrazione e la prosperità.”[40]
La cosa più importante e urgente è quella di costruire un nuovo quadro istituzionale europeo che, all’interno dell’Unione, porti avanti con i paesi più favorevoli un progetto di federazione.
Occorre ripensare il modello di sviluppo sociale in termini di minori divari economici, occorre ridare peso e serietà alle istituzioni e là dove non sono sufficienti, come in Europa, occorrono risposte politiche efficaci ai gravi problemi mondiali, cui la “nuova politica” non dà risposte.
Recentemente è apparsa la notizia, su tutti i principali quotidiani del mondo, che la Federal Trade Commission, l’autorità statunitense indipendente che protegge i consumatori, ha comminato a Facebook una multa di 5 miliardi di dollari per aver fornito alla Cambridge Analytica per scopi politici i dati di circa 87 milioni di utenti.
Serve una federazione europea in grado di controllare con leggi adeguate lo strapotere delle BIG TECH, ora alle prese con Stati nazionali inadeguati per dimensione e risorse.
La destra e i populisti hanno capito meglio dei partiti progressisti i disagi delle fasce più in difficoltà della società e le hanno manipolate. Il disorientamento di gran parte dell’elettorato è il tessuto e la base dell’azione dei nazionalisti e dei populisti. Se cade l’Europa, con la vittoria dei nazionalisti e con il caos che ne conseguirà, si arriverà alla guerra che, forse, le superpotenze auspicano.
Ma chi fa che cosa in un Unione europea in cui tutti i 28 paesi vogliono il mercato unico, ma in cui molti di essi contrastano l’idea di una più profonda integrazione e quella di un’Europa politica? Da dove si può cominciare?
Come ha scritto Calenda “…un tentativo di passi avanti nella costruzione europea potrà essere fatto (solo e tra) i paesi fondatori allargati (Germania, Francia, Italia e Spagna). (…) La frattura con i paesi Visegrad è insanabile…”. E’ necessario costituire un ‘Gruppo di Roma’, per rivendicare il luogo di nascita dell’Europa, opposto al gruppo di Visegrad che inneschi il nocciolo duro della futura Europa federale.”[41] “Può essere che questo percorso sia difficile, o persino impossibile, ma non ci sono alternative. Se il clima di sfiducia non verrà debellato almeno tra un nucleo più piccolo e omogeneo di paesi, le istituzioni dell’Unione poco potranno fare per fare avanzare l’Europa (…). E dobbiamo muoverci presto, perché la prossima crisi finanziaria o geo-politica (migratoria o bellica) rischierà di essere l’ultima per l’Europa.”[42]
La struttura federale con livelli di potere autonomi dal quartiere all’Europa e, in prospettiva al mondo, è la struttura ideale per rispondere alle sfide della globalizzazione per combattere le nuove frontiere delle divisioni e degli odi e ridare fiducia nel futuro.
“Ritrasformare la folla in un popolo e guardare al futuro con la fiducia di una società aperta.”[43] E più di tutto con Snyder “...Arrestiamo il nostro cammino irriflessivo dall’inevitabilità all’eternità e usciamo dal sentiero che conduce alla perdita della libertà. E iniziamo a coltivare una politica della responsabilità.”[44]
E’ proprio questo il punto, al di là delle ingerenze esterne, che pure incidono: è l’Europa che deve acquisire fiducia in sé stessa, iniziando da un nucleo di Paesi a rompere l’immobilismo, a dar vita a un potere politico decisionale vero ed europeo, nei nuovi modi che la politica richiede, con una responsabilità che i partititi progressisti e liberali devono assumersi in fretta.
Anna Costa
[1] Rana Foroohar, Big Tech is America’s new railroad problem, Financial Times, 16 giugno 2019.
[2] William Davies, Stati nervosi, Torino, Einaudi, 2019, pp. 299-300.
[3] Ibidem, p. 285.
[4] Ibidem, p. 288.
[5] Ibidem, p. 293.
[6] Ibidem, p. 289.
[7] William Davies, op. cit.
[8] Remo Bodei, Vivere on line, Il Mulino, 2/2017, p. 207-208.
[9] William Davies, op. cit., p. 339.
[10] Giovanni Ziccardi, Tecnologia per il potere, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2019, p. 116.
[11] Remo Bodei, op. cit., p. 207.
[12] William Davies, op. cit., p. 296.
[13] Timothy Snyder, op. cit., p. 178.
[14] Wlliam Davies, op. cit., p. 42.
[15] Karin Pettersson, The trilemma of Big Tech, on 7th May 2019@AB_Karin e-mail.
[16] Giovanni Ziccardi, op. cit., p. 11.
[17] Ibidem, p. 51.
[18] Ibidem, p. 111.
[19] Ibidem, pp. 9-10.
[20] Ibidem, p. 18.
[21] Timothy Snyder, op. cit., p. 18.
[22] Ibidem, p. 240.
[23] Charles Maynes, PRI’s The World, https://it.businessinsider.com/una-inflitrata-in-una-fabbrica-di-troll-russa-centinaia-di-persone-lavoravano-a-ciclo-continuo-come-troll-a-pagamento/.
[24] Carlo Calenda, Orizzonti selvaggi, Milano, Feltrinelli, 2018, p. 153.
[25] William Davies, op. cit., p. 49.
[26] Timothy Snyder, op. cit., p. 121.
[27] Ibidem p. 119.
[28] Giovanni Ziccardi, op. cit., p. 224.
[29] Emmanuel Macron, Per un rinascimento europeo, https://www.elysee.
[30] Remo Bodei, op. cit., p. 208.
[31] Ibidem, p. 209.
[32] Nunziante Mastrolia, La democrazia è a rischio quando abbandona “il popolo” e coccola “la folla”, https://open.luiss.it/2018/04/20/la-democrazia-e-a-rischio-quando-abbandona-il-popolo-e-coccola-la-folla/. Si rimanda in proposito anche all’articolo di Mastrolia pubblicato in questo numero della rivista.
[33] William Davies, op. cit., p. 24.
[34] Carlo Calenda, op. cit., p. 143.
[35] Martin Wolf, Liberalism will endure but must be renewed, Financial Times, 2 luglio 2019.
[36] Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Firenze, Bompiani, 2016.
[37] Martin Wolf, Liberalism will endure but must be renewed, op. cit..
[38] Carlo Calenda, op. cit., p. 27.
[39] Ibidem, p. 50.
[40] Timothy Snyder, op. cit., p. 13.
[41] Carlo Calenda, op. cit., p.159.
[42] Ibidem, p.160.
[43] Nunziante Mastrolia, op. cit..
[44] Timothy Snyder, op. cit., p. 311.
Anno LX, 2018, Numero 2-3, Pagina 131
SOLUZIONI ISTITUZIONALI SONO IN GRADO
DI RIDURRE IL “DEFICIT DEMOCRATICO”
DELL’UNIONE EUROPEA?
Le istituzioni democratiche non sono strutture statiche dello spazio politico, sono anzi continuamente esposte a sfide e cambiamenti. La democrazia europea ha subito modificazioni sostanziali negli ultimi cinquant’anni parallelamente agli sviluppi politici: un’Unione europea in espansione sta attribuendo poteri sostanziali a istituzioni sovranazionali molto lontane, se non addirittura completamente indipendenti, dai cittadini.[1] Questa evoluzione mette in discussione le caratteristiche dell’attuale e della futura democrazia in Europa: chi governerà e a quali interessi il governo dovrebbe rispondere quando i cittadini sono in disaccordo ed hanno richieste divergenti?[2] Il “deficit democratico” può nascere sia dall’input, sia dall’output del processo politico. Il primo si riferisce alla rappresentanza dei cittadini nel processo legislativo; il secondo, invece, alla misura in cui le politiche rispecchiano le preferenze dei votanti.[3] Date le dimensioni e la varietà delle comunità politiche che formano l’Unione europea, la democrazia ha bisogno di basarsi sul consenso e sulla partecipazione. Nei prossimi paragrafi intendo sviluppare ulteriormente l’analisi del concetto di “deficit democratico”, contestualizzandolo poi nel caso dell’Unione europea. Alla luce dell’evoluzione storica delle istituzioni europee e della loro struttura attuale, sostengo che il “deficit democratico” stia nella mancanza di governo per il popolo e di governo del popolo. È tuttavia necessario definire queste due categorie e identificare i loro contorni. Per fare ciò, faccio riferimento alla definizione delle istituzioni politiche data da Mosca,[4] secondo il quale la democrazia rappresentativa è un sistema politico che dà al pubblico una qualche voce nella selezione dell’élite politica, ma non è in grado di cancellare sostanziali diseguaglianze di potere, e di conseguenza le società differiscono in primo luogo per la misura in cui le loro istituzioni assicurano una “circolazione delle élites”, e verifico quale sia lo stato delle élites europee.
L’analisi della democrazia nell’Unione europea deve prendere in considerazione due relazioni diverse. In primo luogo: il canale cittadini-istituzioni europee offre una rappresentanza democratica (input) – i cittadini dei paesi europei sono ben rappresentati nelle istituzioni europee? Questo tipo di problema richiede l’analisi dello spazio politico nel suo insieme e di domandarsi se esso soddisfi tre condizioni di base: 1) l’esistenza di un’opinione pubblica, che renda trasparente il processo politico; 2) il fatto che il processo legislativo non comporti un numero eccessivo di livelli di delega, perché la delega introduce un elemento di disturbo; 3) la protezione dei diritti delle minoranze.[5] Per la terza condizione è cruciale essere coscienti del fatto che a livello europeo non è sufficiente avere una rappresentanza nazionale, intesa come “tutti i paesi dovrebbero essere rappresentati”, ma anche una rappresentanza politica, nel senso che i membri delle istituzioni sovranazionali discutano i problemi in un’ottica politica e non solo tecnica. In secondo luogo, nel processo di integrazione europea gli Stati nazionali hanno delegato competenze ad organismi sovranazionali. Ora, poiché nel complesso sistema dell’Unione europea le istituzioni creano norme, ma gli Stati nazionali sono tuttora i soli che mettono in atto politiche (output) nei settori più importanti per i concreti diritti dei cittadini (mercati del lavoro e politiche sociali), è cruciale capire se gli Stati nazionali siano in grado di operare entro i limiti fissati dalle prime. Riunendo le due relazioni e attenendoci alla definizione di Mosca: ai cittadini dei paesi europei è stata data la possibilità di scegliere con il voto i loro rappresentanti nelle istituzioni sovranazionali (e di decidere sulla creazione delle istituzioni stesse) che ora definiscono le regole secondo cui i governi nazionali intervengono sulle loro preferenze?
E’ necessario un breve excursus storico per rispondere a queste domande. Le tre principali istituzioni che detengono il potere legislativo ed esecutivo, il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Unione europea per il primo e la Commissione per il secondo, sono nate come istituzioni della CECA con il Trattato di Parigi nel 1951, con nomi e funzioni differenti. Il Trattato è stato firmato dai Primi ministri di sei paesi europei. Col tempo, le istituzioni sono evolute ed hanno accolto nuovi membri; infine è stato introdotto il suffragio universale per l’elezione del Parlamento europeo con una decisione del Consiglio europeo del 1976 e la prima elezione ha avuto luogo nel 1979. Oggi il Presidente della Commissione è eletto dal Parlamento europeo su proposta del Consiglio Europeo, mentre il Consiglio dell’UE è formato da rappresentanti degli Stati nazionali eletti con cariche ministeriali all’interno dei loro governi. Tornando alle condizioni di base di Crombez per la rappresentanza,[6] si può onestamente affermare che la vox populi non abbia avuto un ruolo centrale nella scelta delle élites che hanno dato vita alle istituzioni europee[7] e che il sistema che ne è scaturito sia complesso e con un elevato grado di delega. Una tappa fondamentale nell’integrazione europea è stato il Trattato di Maastricht, firmato nel 1992, con il quale è stata decisa l’Unione economica e monetaria; esso è successivamente evoluto con la creazione della Banca centrale europea e con l’introduzione dell’euro. La prima ha tolto ai governi nazionali il controllo della politica monetaria e l’introduzione del secondo ha portato alla convergenza dei tassi di interesse in tutti gli Stati europei. La politica fiscale è rimasta nelle mani dei governi nazionali, sottoposta, però, (in teoria) a stretti vincoli.[8] Tuttavia da allora sono state portate avanti iniziative sporadiche e spesso non coerenti per allineare economie che continuano a mantenere strutture diverse, nelle quali i cittadini hanno diverse preferenze, per cui la produzione di politiche può essere divergente, come ha dimostrato la crisi dell’eurozona. Inoltre, gli stretti vincoli esistono, ma le sanzioni correlate alla loro violazione non sono mai state applicate.
La mancanza di un’opinione pubblica è una caratteristica centrale dell’UE, dal momento che i cittadini non erano in grado di selezionare, se non in modo molto indiretto, le élites che li avrebbero rappresentati a livello sovranazionale. Tuttavia l’evoluzione delle istituzioni ha portato ad un quadro istituzionale che non è sostanzialmente antidemocratico. Un sistema formato da un legislativo bicamerale e da un esecutivo può ben funzionare in modo democratico. Gli aspetti sui quali il dibattito sul deficit democratico si è spesso concentrato negli anni recenti, come la precisa composizione delle istituzioni e le modalità di voto in seno al Consiglio, sono interessanti ed importanti, ma non intaccano sostanzialmente il quadro istituzionale.[9] Ciò che invece è cruciale è la “circolazione delle élites” nell’attuale quadro istituzionale: nel loro comportamento, che si traduce nel processo decisionale dell’UE, l’interesse nazionale prevale sul conflitto sociale[10] o su qualsiasi altra forma di divisione sociale presente nelle società nazionali. Ciò è anche dovuto al fatto che la distinzione delega-sussidiarietà nell’UE è così complessa da non tracciare chiare demarcazioni di responsabilità, e così per i cittadini diventa difficile comprendere le dinamiche politiche a più livelli, rendendo tutto il processo governativo meno trasparente; inoltre la competizione tra i partiti politici che concorrono nelle elezioni europee non ha un riscontro reale nell’attribuzione di responsabilità nella scelta delle politiche comuni, alla luce dei poteri limitati del PE, cosicché le scelte elettorali finiscono per essere effettuate su problemi nazionali: piuttosto che richiedere la circolazione delle élites a livello dell’UE, un primo passo sarebbe di dar loro un effettivo potere. La mancanza di un preesistente senso di identità collettiva, la mancanza di un dibattito politico a livello europeo e la mancanza di un’infrastruttura istituzionale a livello europeo che possa assicurare la responsabilità politica di quanti svolgono ruolo politico europeo rappresentano un triplo deficit che sembra impossibile superare,[11] considerando anche il fatto che nessuno di questi deficit è stato colmato prima dell’allargamento ad Est, che ha esacerbato i contrasti. Nel quadro politico europeo manca quindi il governo del popolo.
Il secondo aspetto, quello della produzione di politiche, è il governo per il popolo.[12] L’importanza del principio di sussidiarietà è chiara: le regole espresse dalle élites europee, altamente delegate e tecniche, lasciano uno spazio politico e – cosa ancor più importante – economico sufficiente per decisioni politiche nazionali o locali? L’argomentazione sulla democrazia qui non è altrettanto chiara come nel caso del governo del popolo, ma se le istituzioni potessero portare avanti politiche che garantiscano diritti economici e sociali, la preoccupazione democratica per la rappresentanza dovrebbe almeno diminuire. Tuttavia, sorgono subito problemi: la pluralità degli interessi nazionali, che a loro volta dipendono dalle diverse identità entro gli Stati nazionali, limita sistematicamente la capacità dell’Europa di portare avanti un’integrazione positiva. Per tale motivo, la politica al livello europeo dà il suo meglio nel campo dell’integrazione negativa, dove la Commissione e la Corte di giustizia non hanno incontrato vincoli politici nell’espandere l’ampiezza e l’intensità della politica di concorrenza, che ha fortemente ridotto le opzioni politiche per il governo di economie capitalistiche, senza essere in grado di esprimere capacità di governo proporzionatamente ampie a livello europeo.[13] Questa affermazione generale trova espressione concreta nel Trattato di Maastricht, che ha conferito il potere della politica monetaria ad un’istituzione non elettiva, la Banca centrale europea, che agisce autonomamente nello stabilire i tassi di interesse. Il Trattato fissa inoltre strette linee guida per le politiche fiscali che lasciano poco spazio per interventi sul bilancio da parte dei governi, specialmente in caso di emergenze, come ha dimostrato la crisi dell’eurozona.[14] In termini di equilibrio di potere tra gli Stati nazionali nell’arena europea, l’introduzione dell’euro ha portato le prestazioni macroeconomiche al primo posto dell’ordine del giorno delle istituzioni. Dopo la crisi, il peso dell’assestamento tra le diverse strutture economiche e tra i diversi programmi di welfare ha creato due blocchi contrapposti, i paesi del Nord, con la Germani in testa, e i paesi del Sud. Poiché la bilancia del potere ha favorito la rigidità nordica, i paesi meridionali sono rimasti con ancor meno spazio di manovra. Non intendo sostenere una posizione “sovranista”, ma l’analisi condotta in questo capoverso mostra che il “dare spazio al mercato”[15] è la conseguenza di uno scarso spazio per l’integrazione positiva in seno all’UE. Inoltre, dopo la crisi, il governo per il popolo è stato messo sotto una pressione ancora maggiore a causa della divergenza dei cicli economici.
Secondo Moore,[16] lo sviluppo della democrazia nasce dalla competizione per realizzare tre obiettivi: 1) individuare le regole arbitrarie; 2) sostituire le regole arbitrarie con regole giuste e razionali; 3) ottenere la partecipazione alla fissazione delle regole da parte della popolazione ad esse sottoposta. I punti due e tre sono quanto la democrazia europea ha bisogno per un governo per il popolo e del popolo. Tuttavia le soluzioni non si realizzeranno all’improvviso. L’attuale sviluppo dell’Unione bancaria europea può essere considerato un buon passo avanti nell’evitare situazioni divergenti in tempi di crisi, insieme all’aumento della supervisione sovranazionale sul sistema bancario (e indirettamente sui conti nazionali). Tuttavia emerge un paradosso: completare l’Unione bancaria richiederebbe la mutualizzazione del debito, cosa sulla quale i paesi del Nord non sono d’accordo, in quanto questi richiedono anzitutto che i paesi meridionali riducano i propri debiti; contemporaneamente, nella misura in cui vengono realizzate politiche di austerità, questi ultimi dispongono di pochissimo spazio per ridurli senza tagli ai salari e alla protezione sociale. Il dibattito è aspro sia in ambiente accademico,[17], [18] sia nelle istituzioni. Questa specifica situazione mette in luce un quadro più ampio: le istituzioni sovranazionali sono state create e da allora sono state mantenute dagli Stati europei, che non intendono però conferire loro ulteriore potere. Ciò appare chiaramente nel fatto che il Consiglio è attualmente l’istituzione più forte e probabilmente la meno trasparente. Aumentare i poteri del Parlamento europeo, o dare al Presidente della Commissione una maggior legittimazione popolare, attraverso la sua elezione diretta, richiederebbero una diminuzione dei poteri del Consiglio,[19] e quindi dei governanti degli Stati. Il complesso sistema di check and balances a livello europeo riduce gli incentivi a procedere in questa direzione, in quanto la ricerca della democrazia si trasformerebbe in un’ennesima battaglia per il potere. Tuttavia l’integrazione “a piccoli passi” incontrerà ostacoli crescenti in relazione al contesto globalizzato in cui si trova l’UE. La capacità dello Stato di temperare la competizione del mercato con la protezione sociale[20] verrà svuotata da una maggior integrazione internazionale e la questione del governo per il popolo potrebbe essere ridotta ad uno slogan elettorale.
In conclusione, le cause del deficit democratico dell’UE stanno nell’impianto istituzionale dell’UE. I funzionari che richiedono “un’unione sempre più stretta” e sostengono che non ci sia alternativa all’integrazione europea hanno continuamente trovato resistenze a governare da Bruxelles nel mondo reale.[21] La crisi esistenziale dell’Europa è interamente istituzionale e la massima parte del dibattito è centrata su un problema che pone ancor maggior pressione sia sugli Stati sia sulle istituzionali sovranazionali: chi assicurerà in futuro il governo per il popolo? Ma ciò che viene trascurato è l’importanza del governo del popolo.
Emilio Massimo Caja
[1] P.A. Hall, Institutions and the Evolution of European Democracy, in J.E.S. Hayward and A. Menon (eds.), Governing Europe, Oxford, Oxford University Press, 2003, p. 1.
[2] A. Lijphart, Patterns of democracy: government forms and performance in thirty- six countries, New Haven – London, Yale University Press, 1999.
[3] C. Crombez, The democratic deficit in the European Union: much ado about nothing?, European Union Politics, 4 n. 1 (2003), p. 103.
[4] G. Mosca, The Ruling Class, New York, McGraw Hill, 1939 . La classe politica, Bari, Laterza, 1994
[5] C. Crombez, op. cit., p. 105.
[6] Ibid., p 104.
[7] L. Hooghe and G. Marks, A Postfunctionalist Theory of European Integration: From Permissive Consensus to Constraining Dissensus, British Journal of Political Science, 39, n. 1 (2008).
[8] P. De Grauwe, Design Failures in the Eurozone: can they be fixed?, London School of Economics Europe in question discussion paper series, 2013.
[9] C. Crombez, op. cit., p. 115.
[10] S. Hix, The Political System of the European Union, London, Macmillan, 1999.
[11] F. W. Scharpf, Governing in Europe: Effective and Democratic?, Oxford, Oxford University Press, 1999.
[12] Ibid.
[13] W. Streeck, From Market-Making to State-Building? Reflections on the Political Economy of European Social Policy, in S. Leibfried and P. Pierson (eds.), European Social Policy: Between Fragmentation and Integration, Washington, Brookings, 1995, pp. 389-431.
[14] Y. Dafermos, Debt cycles, instability and fiscal rules: a Godley-Minsky model, Economics Working Paper Series No. 1509 (2015), University of the West of England.
[15] P.A. Hall, op. cit..
[16] B. Moore, Social origins of dictatorship and democracy: lord and peasant in the making of the modern world, Boston, Beacon Press, 1996.
[17] A. Benassy-Quéré, M. Brunnermeier, H. Enderlein, E. Farhi, M. Fratzscher, C. Fuest, P. Gourinchas, P. Martin, J. Pisani-Ferry, H. Rey, I. Schnabel, N. Véron, B. Weder di Mauro and J. Zettelmeyer, Reconciling risk sharing with market discipline: A constructive approach to euro area reform, Policy Insight n. 91 (2018), CEPR, London.
[18] W. Schäuble, Non-paper for paving the way towards a Stability Union (2017).
[19] C. Crombez, op. cit., p.117.
[20] K. Polanyi, The Great Transformation, Boston, Beacon Press, 1957.
[21] J. Zielonka, Is the EU doomed?, Cambridge, Polity Press, 2014.
Anno LX, 2018, Numero 2-3, Pagina 119
LA TASSAZIONE DELLE ATTIVITA’ INQUINANTI E IL PROBLEMA DELLA SOVRANAZIONALITA’*
1. Introduzione
Lo studio delle misure mirate al contrasto dell’inquinamento deve necessariamente partire con la definizione di bene pubblico, di fallimento di mercato, di esternalità negative e di intervento pubblico. Com’è noto, i beni possono essere classificati come privati (se sono rivali ed escludibili nel consumo), tariffabili (non rivali ma escludibili), comuni (rivali ma non escludibili) e pubblici (né rivali né escludibili). L’aria non inquinata, dato che è condivisa con ogni persona e il suo consumo non può essere regolato, va quindi inserita nella categoria di bene pubblico. In un’economia di beni pubblici, gli individui non hanno interesse a rivelare le loro preferenze, in particolare le loro valutazioni marginali. Sottostimare o nascondere queste valutazioni è quindi la strategia dominante per i consumatori, che agiscono come free-riders e impediscono di fatto agli attori economici di produrre beni pubblici, che di conseguenza non verranno né domandati né offerti. Questo è un caso da manuale di fallimento di mercato, dato che in un’economia libera e decentrata tali beni non possono essere prodotti in modo efficiente. Nel caso dell’inquinamento atmosferico, vanno anche prese in considerazione le esternalità. Un’esternalità si verifica quando la scelta di produzione o consumo di un attore influenza direttamente il pay-off di un altro senza essere compensato. Nell’economia ambientale questo è un concetto essenziale, perché l’inquinamento è classificato come un’esternalità negativa, causata principalmente da produttori, che ha ricadute sia su produttori che su consumatori. Ciò costituisce un ulteriore fallimento di mercato, e rende quindi necessario un certo livello di intervento pubblico.[1] Nelle sezioni successive discuterò le più importanti strategie che le autorità pubbliche possono adottare per affrontare il problema dell’inquinamento.
2. Intervento pubblico per proteggere l’ambiente
Bosi[2] individua sei soluzioni principali di cui gli Stati dispongono per proteggere l’ambiente, attraverso incentivi, disincentivi e meccanismi regolativi. I primi due mirano a internalizzare le esternalità, e consistono nella produzione pubblica e nella fusione di aziende. Produzione pubblica implica che l’attività economica inquinante sia messa sotto il controllo di un’autorità politica, il che significa che le emissioni sono controllate dal processo politico. L’inquinamento cessa così di essere un’esternalità, perché il suo livello è deciso dai detentori del diritto di voto, inteso come una scelta politica basata su un calcolo costi-benefici da parte degli elettori. Il limite di questa strategia è che si tratta di un’opzione radicale che limita considerevolmente la libertà degli attori economici in un’economia decentralizzata. La fusione di imprese, invece, internalizza le esternalità unificando le funzioni dei costi di produzione delle aziende coinvolte. Il punto debole di questa strategia è che riguarda solamente le esternalità negative di tipo produttore-produttore. Tuttavia, un aspetto positivo è il costo inferiore di implementazione rispetto alla produzione pubblica. Analizzerò le altre politiche con maggior dettaglio.
2.1 Regolamentazione.
Attraverso la regolamentazione, le autorità politiche possono obbligare le imprese a contenere le emissioni sotto un determinato limite oppure i consumatori a evitare certi tipi di comportamento. Nel breve periodo, le imprese possono reagire alle restrizioni legali riducendo la produzione. Possono anche investire in ricerca e sviluppo per acquisire in futuro meno infrastrutture e strumenti di produzione inquinanti. La regolamentazione è tuttavia indebolita da due aspetti importanti. Da un lato, richiede l’impiego di ispettori, che costituiscono un costo importante per l’autorità pubblica. Inoltre, le singole fattispecie possono differire molto le une dalle altre, e quindi una singola regolamentazione può agire in modo iniquo sui produttori. Dall’altro lato, prendendo in considerazione l’arena internazionale, dato che la regolamentazione è considerata dalle imprese come un obbligo oneroso, esse possono prendere in considerazione la strategia di delocalizzare i loro impianti in paesi con regole meno severe.
La regolamentazione delle emissioni dei beni di consumo è meno problematica, soprattutto in caso di consumo di massa standardizzato. I controlli sono infatti più semplici da realizzare, dato che i beni sono standardizzati, e i cittadini non possono cambiare il luogo dei loro consumi così facilmente come le imprese possono delocalizzare la propria produzione. Il regolamento europeo sulle emissioni delle automobili è uno dei casi più noti. Un rapporto pubblicato dalla Commissione europea per monitorare l’effetto della regolamentazione sui prezzi[3] ha mostrato che in un’economia di libero mercato essi sono determinati più dalla concorrenza che dai costi delle contromisure contro le restrizioni legali. Alla luce di questa breve considerazione, possiamo affermare che una politica regolativa sui consumi è conveniente sia per gli Stati nazionali, sia per le organizzazioni regionali, perché i consumatori sono ancorati al loro territorio. La ragione che può spingere gli Stati a cedere a organismi sovranazionali queste competenze è che in tal modo potrebbero condividerne i costi e facilitare l’attività economica transfrontaliera. Inoltre, regolare le emissioni delle attività produttive a livello nazionale è meno efficiente, perché gli Stati sono sovrani solo su un territorio ristretto, mentre, teoricamente, in uno scenario globale, poche grandi organizzazioni sovranazionali potrebbero coordinarsi meglio tra di loro. Le politiche di regolamentazione non sono tuttavia sufficienti a finanziare organismi sovranazionali privi di una capacità fiscale propria, perché le entrate deriverebbero esclusivamente da multe in caso di violazioni delle regole, che sono per definizione intermittenti e imprevedibili.
2.2 Allocazione dei diritti di proprietà: il teorema di Coase.
Il teorema di Coase è stato enunciato nel 1960, lo stesso anno della nascita dell’economia ambientale.[4] Anche se ha ricevuto numerose critiche, l’argomento in questione è stato accompagnato da un dibattito che ha sviluppato notevolmente la materia. Robert Coase ha criticato il concetto di esternalità come causa di fallimenti di mercato, dato che le reazioni degli individui danneggiati sono esse stesse a loro volta esternalità contro l’attore che le ha causate. Si può venire a capo in modo efficiente delle esternalità solo se i diritti di proprietà sono completamente allocati, lasciando alle trattazioni di mercato il diritto di interferire con i beni altrui. Dunque, non è importante la destinazione dei diritti di proprietà, perché gli individui sono in grado di scambiarli in modo efficiente, ma che lo Stato sia in grado di assicurarli e di garantire le fondamenta del libero mercato.[5]
La prima grande critica a questo approccio è giunta da Allen Kneese,[6] a partire da due argomentazioni principali. Da un lato, si pone un problema di equità, dal momento che è meglio compensare una vittima dell’inquinamento piuttosto che aspettarsi che paghi per la sua salute; dall’altro, nel mondo reale, è difficile creare un mercato senza costi di transazione e, particolarmente nel caso di numerosi individui colpiti dalle esternalità, è troppo costoso aggregare le loro preferenze in modo da creare un mercato.[7] Lo studio di un caso concreto[8] dimostra che “il teorema di Coase non funziona in presenza di informazioni imperfette, comportamenti non massimizzanti e costi di transazione. […] L’utilizzazione di schemi standard o l’intervento del governo potrebbero essere, in date condizioni, un approccio più efficace e meno costoso.” Questa ricerca conferma le posizioni di Kneese, dimostrando che l’applicazione pratica del teorema è più complessa della teoria.
2.3. Le imposte pigouviane.
La teorizzazione delle cosiddette imposte pigouviane origina dal lavoro di Arthur C. Pigou.[9] Un intervento pubblico è giustificato dalla differenza tra prodotto marginale netto privato e prodotto marginale netto per la società. Tale differenza ha effetto sui costi marginali privati e pubblici, portando ad una situazione nella quale i produttori non hanno interesse a ridurre le perdite in cui incorre la società, che costituiscono esternalità negative. Di conseguenza, è necessario un intervento pubblico nella forma di una politica fiscale mirata. Il valore di questa tassa dovrebbe essere uguale al costo marginale esterno, calcolato da un punto di vista di efficienza a posteriori, spingendo il produttore a raggiungere un livello di produzione ottimale al netto della tassazione. Analogamente al caso del teorema di Coase, il passaggio dalla teoria alla politica è molto complesso. Di fatto, per un’autorità pubblica è difficile raccogliere informazioni circa i costi marginali e i livelli ottimali di produzione per ciascun produttore al fine di calcolare l’ammontare corretto della tassa. Inoltre, nell’ipotesi che venga trovato questo valore, esso rimarrebbe valido solo per il breve periodo, durante il quale le attività industriali rimangono costanti: un aumento o una diminuzione nel numero delle imprese renderebbe necessario ricalcolare la tassa.[10] Un esempio di tassa pigouviana vigente è la legislazione italiana varata in conseguenza della Conferenza di Kyoto del 1997, di cui si parlerà più avanti.
2.4. Diritti di inquinamento trasferibili: la base delle politiche di cap-and-trade.
La proposta dei diritti di inquinamento trasferibili (Emission Trading System, ETS) cerca di diminuire le esternalità negative combinando il ruolo delle istituzioni pubbliche con l’economia di mercato. In questo quadro, lo Stato distribuisce diritti di inquinamento sotto forma di vouchers che limitano ad un certo livello le emissioni delle imprese. In tal modo, l’ammontare totale di inquinamento consentito è deciso a livello politico, e l’assegnazione dei diritti dovrebbe essere ispirata a criteri sia di efficienza che di equità. Dopo questa fase, i produttori iniziano a contrattare il valore di questi vouchers e a redistribuirli alla luce di valutazioni individuali di costi-benefici. Il fatto che il numero totale dei permessi disponibili sia limitato ne assicura il valore, e il risultato di questo processo ne sarebbe una distribuzione ottimale.[11] Secondo il Fondo monetario internazionale,[12] la scelta tra carbon-tax ed ETS è meno importante del ricorso all’uno o all’altro e del fatto di assicurare una struttura di base corretta. Ciò che più conta è coprire completamente le emissioni, definire prezzi stabili in linea con gli obiettivi ambientali e sfruttare le opportunità fiscali. Gli ETS presentano comunque alcune debolezze: non assicurano piena copertura, dal momento che riguardano solo alcune attività inquinanti; richiedono provvedimenti per la stabilizzazione dei prezzi; richiedono la messa all’asta delle quote al fine di ottenere entrate per finanziare politiche fiscali più ampie. Nonostante le criticità, questo approccio teorico è stato adottato in diverse aree del mondo, in particolare dall’Unione europea.
3. Tassazione dell’inquinamento e istituzioni sovranazionali
3.1. L’approccio della teoria dei giochi.
La teoria dei giochi è una disciplina molto adatta per gli studi sul modo con cui sono gestiti i problemi ambientali a livello politico, perché è in grado di descrivere accuratamente alcune tipiche situazioni che si verificano nel corso delle trattative per gli accordi sul clima. Il quadro comunemente presentato dalle conferenze intergovernative è quello dello schema pledge-and-review, che, nel caso specifico, sostanzialmente implica che gli Stati debbano adempiere ad alcuni compiti e presentare un rendiconto dei loro sforzi. La situazione di pledge-and-review crea un ambiente competitivo il cui risultato è simile alla “tragedia dei beni comuni”.[13] Di conseguenza, la strategia dominante degli attori, supponendo che siano interessati al proprio vantaggio e ben informati sui vantaggi e sulle perdite, consiste nell’evitare la cooperazione perché non possono influenzare il comportamento dell’altro giocatore. L’equilibrio di Nash[14] porta ad una soluzione non cooperativa. Ciò succede perché l’agire unicamente in modo virtuoso è relativamente meno conveniente che rifiutarsi di agire. La tabella seguente illustra lo schema di base della situazione appena descritta, mostrando il risultato dei giocatori nel breve periodo. I più e i meno nelle celle della tabella indicano il pay-off, ossia il guadagno o la perdita, degli attori del gioco; in neretto la soluzione che corrisponde all’equilibrio di Nash.
B coopera |
B non coopera |
|
A coopera |
( + ; + ) |
( - - ; ++ ) |
A non coopera |
( ++ ; - - ) |
( - ; - ) |
La risposta tradizionale a questo dilemma, che condanna all’impotenza l’arena internazionale, è di creare un potere sovranazionale capace di costringere gli Stati a cooperare: questo nuovo attore politico dovrebbe essere in grado di creare leggi che diminuiscano il vantaggio offerto da comportamenti non cooperativi. Tuttavia, poiché questo sviluppo politico non è in vista, diversi studiosi del Carbon Price Project hanno proposto un nuovo approccio alla cooperazione internazionale.[15] L’idea consiste nel calcolare il contributo di ciascuno Stato e redistribuire la somma raccolta a livello internazionale in parti uguali. Supponendo che gli attori abbiano in dotazione due unità, che le risorse redistribuite raddoppino e che l’eccedente sia accumulato da un attore terzo, il pay-off di ciascun attore sarebbe quindi uguale alle risorse non redistribuite più il valore della minima contribuzione tra gli Stati moltiplicata per due. Ad esempio, se uno degli Stati non contribuisce, non viene redistribuito nulla, e quindi il suo pay-off è uguale alle risorse di partenza. Di conseguenza, gli Stati sono interessati a redistribuire tutti la medesima quantità di risorse. Tale nuovo approccio, noto come “gioco a impegno comune”, può essere sintetizzato con la seguente tabella.
B dà 0 |
B dà 1 |
B dà 2 |
|
A dà 0 |
( 2 ; 2 ) |
( 2 ; 1 ) |
( 2 ; 0 ) |
A dà 1 |
( 1 ; 2 ) |
( 3 ; 3 ) |
( 3 ; 2 ) |
A dà 2 |
( 0 ; 2 ) |
( 2 ; 3 ) |
( 4 ; 4 ) |
Questa situazione offre un equilibrio di Nash multiplo, dal momento che non c’è una strategia dominante come nel primo caso; perciò gli attori si coordineranno al fine di ottenere il massimo risultato, cioè la soluzione desiderabile per le esigenze ambientali.
La principale criticità nell’approccio che utilizza la teoria dei giochi sta nel fatto che si considerano gli Stati come individui e come attori omogenei. Diventa così difficile immaginare che scelte politiche, come lo stabilire un prezzo delle emissioni di anidride carbonica, siano determinate unicamente dall’interesse nazionale e dalle decisioni di altri Stati. Condizione necessaria per raggiungere una massiccia cooperazione è che ciascuno Stato coinvolto nel processo scelga di cooperare fino in fondo. Se anche solo uno Stato rifiuta, l’intero gioco cessa di essere uno strumento utile. Un altro motivo di preoccupazione è che il ruolo dell’arbitro non è ben definito e se fosse identificato con un’organizzazione internazionale, come la Banca mondiale o l’ONU, sarebbe privo di responsabilità democratica. Per di più, se non viene prevista alcuna esecuzione forzosa, l’arena internazionale rimarrebbe immutata, lasciando a negoziati intergovernativi il problema della fissazione del prezzo delle emissioni. Anche se questo risultato rappresentasse un successo pratico per uno specifico problema, non contribuirebbe alla creazione di una istituzione democratica sovranazionale. In conclusione, la teoria dei giochi è utile per spiegare il fallimento di accordi internazionali, ma, poiché prevede attori esclusivamente interessati al proprio vantaggio, non offre una roadmap per raggiungere una democrazia sovranazionale.
3.2. Le conferenze internazionali sul clima.
La teoria dei giochi permette un’utile analisi per capire il motivo per cui numerose conferenze internazionali sul clima basate sul metodo pledge-and-review hanno fallito. La Conferenza di Kyoto va considerata un fallimento perché, dopo aver dichiarato un unanime impegno comune a ridurre di una data percentuale le emissioni, gli Stati hanno deciso di agire in ordine sparso. Per di più, il 25 luglio 1997, il Senato degli Stati Uniti ha approvato la risoluzione Byrd-Hagel, che ha bloccato ogni tentativo di adottare le misure previste a Kyoto. I senatori americani erano preoccupati per il relativo vantaggio che i paesi in via di sviluppo avrebbero avuto se solo i paesi sviluppati fossero stati costretti a ridurre le proprie emissioni. In particolare, il testo della risoluzione afferma: “Gli Stati Uniti non dovrebbero sottoscrivere alcun protocollo […] che richieda nuovi impegni a limitare o a ridurre le emissioni di gas serra […], a meno che il protocollo o altro accordo non imponga anche alle Parti “Paesi in via di sviluppo” nuovi specifici impegni programmati a limitare o ridurre le emissioni di gas serra entro lo stesso periodo di tempo, o che risulti in seri danni all’economia degli Stati Uniti.”
L’accordo di Parigi è partito da un concetto diverso, in quanto il trattato è destinato a diventare vincolante se un numero minimo di Stati lo sottoscriverà. Il testo afferma che “l’accordo entrerà in vigore il trentesimo giorno a partire dalla data in cui almeno 55 Parti della Convenzione, corrispondenti nel loro insieme ad almeno il 55% del totale delle emissioni globali di gas serra, abbiano depositato i loro strumenti di ratifica, accettazione, approvazione o accessione.” Questi numeri suggeriscono che solo un’azione comune da parte dei maggiori inquinatori nel mondo, sempre riluttanti a ratificare questo tipo di accordi, avrebbe veramente il potere di vitalizzare il trattato. Inoltre, l’accordo di Parigi richiede a tutte le Parti di dichiarare lo sforzo massimo che sono disposte a compiere definendo a livello nazionale il proprio contributo e di rafforzarlo negli anni successivi. Ciò comporta la richiesta a tutte le Parti di riferire regolarmente sulle proprie emissioni e sui propri sforzi per implementare gli impegni. Questo meccanismo ricorda da vicino lo schema pledge-and-review che non è stato in grado di portare al successo la conferenza di Kyoto.
4. Le politiche ambientali nazionali ed europee
Dopo una rapida analisi delle due più note conferenze sul clima e delle loro debolezze, prenderò in esame il teatro europeo, sia a livello nazionale, sia dell’Unione europea.
4.1 Il livello degli Stati membri: le carbon taxes.
Poiché l’UE non ha raggiunto le caratteristiche di un’unione fiscale, solo gli Stati membri hanno il potere di attuare politiche fiscali. In Italia, la legge che per la prima volta regola la tassazione sulle emissioni è la n. 448/1998 “Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo”. L’articolo 8, comma 1 stabilisce: “Al fine di perseguire l’obiettivo di ridurre le emissioni di anidride carbonica derivante dall’impiego di oli minerali in accordo con le conclusioni della Conferenza di Kyoto dell’1-11 dicembre 1997, le aliquote delle accise sugli oli minerali sono rideterminate […].” Il secondo comma prescrive che la variazione delle accise non debba aumentare la pressione fiscale complessiva sui cittadini, perciò il comma 10 stabilisce che l’aumento del gettito debba essere compensato da una diminuzione della pressione fiscale su altre linee di bilancio. Quindi l’Italia ha tradotto in legge i principi della Conferenza di Kyoto, ma il risultato è limitato a una riallocazione del carico fiscale, senza il finanziamento di strumenti politici per ulteriori tagli nelle emissioni di anidride carbonica.[16] Attualmente, il paese tassa i prodotti petroliferi quando sono utilizzati per produrre energia. Questo caso costituisce un’eccezione alla Direttiva sulla tassa sull’energia dell’UE, che prevede un drenaggio fiscale sulla produzione di elettricità.[17]
Un interessante caso tra le politiche nazionali è il British Climate Change Levy (CCL). Come dimostrato da McEldowney e Salter,[18] il CCL non arriva ad essere una carbon tax ed è, in effetti, una tassa sull’energia, ma non varia direttamente al variare del contenuto in carbonio dei carburanti. Tuttavia, in questi termini, ha dato un contributo al raggiungimento degli obiettivi di contenimento dei cambiamenti climatici del Regno Unito: sebbene le stime precise varino, si calcola che tra il 2001 e il 2010 siano stati risparmiati 12,8 milioni di tonnellate di anidride carbonica, che corrispondono ad una riduzione del 20% delle emissioni totali di anidride carbonica.[19] Questo esempio dimostra che una politica nazionale, anche se non è assicurato il coordinamento con altri paesi, può ottenere importanti risultati.
4.2 Il livello dell’Unione europea: il sistema di scambio delle emissioni.
Il sistema di scambio delle emissioni dell’Unione europea (ETS) è stato creato nel 2005 e interessa i paesi dell’area economica europea, cioè gli Stati membri dell’UE più Islanda, Liechtenstein e Norvegia. Copre circa il 45% delle emissioni di gas serra di quest’area. L’intera operazione è stata divisa in tre fasi. La fase 1 (2005-2007) ha coperto solamente le emissioni di CO2 da parte di centrali elettriche ed industrie ad alta intensità energetica, e sono state distribuite quote gratuite. Nella fase 2 (2008-2012) il tetto delle quote è stato abbassato: la proporzione di assegnazioni gratuite è leggermente calata al 90%; diversi paesi hanno tenuto aste; la penalità per inadempienza è stata aumentata. Nella fase 1, il volume degli scambi è aumentato da 321 milioni di quote del 2005 a 1,1 miliardi nel 2006 e a 2,1 miliardi nel 2007. Attualmente il programma è entrato nella fase 3, la cui caratteristica principale consiste nell’applicazione di un singolo tetto per tutta l’EU al posto del sistema precedente di singoli tetti nazionali; la messa all’asta è il metodo di default per l’assegnazione delle quote (al posto dell’assegnazione gratuita) e sono stati inclusi un maggior numero di settori e di gas. La fase 4 inizierà nel 2021 e durerà fino al 2030, termine ufficialmente previsto dalla Convenzione di Parigi. Per raggiungere l’obiettivo UE della diminuzione di almeno 40%, i settori coperti dal ETS devono ridurre le loro emissioni del 43% rispetto al 2005.
Il sistema di scambio delle emissioni presenta due limiti principali: copre solamente una parte delle emissioni e le entrate delle aste sono a disposizione solamente degli Stati membri, non dell’UE, per cui la massima parte dei crediti ottenuti è stata utilizzata per finanziare attività a livello nazionale. Le principali utilizzazioni delle entrate riguardano le energie rinnovabili (2,89 miliardi di euro, pari al 40,6% delle utilizzazioni totali), spese connesse all’efficienza energetica (1,95 miliardi di euro, pari al 27,4%) e il trasporto sostenibile (774 milioni di euro, pari al 10,9%).[20]
5. Conclusioni
Come abbiamo visto, i progetti attuali possono essere suddivisi in due categorie: politiche di carbon pricing e di cap-and-trade. La prima soluzione non prevede attori sovranazionali democratici, dal momento che si basa sulla cooperazione tra singoli Stati. Un “prezzo della CO2 armonizzato a livello internazionale e riscosso a livello nazionale”[21] è sostenibile. Il secondo richiede attori sovranazionali in grado di coordinare gli Stati e di creare uno schema comune: in tal modo non si rende indispensabile una responsabilità democratica.
Lo scopo di questo saggio era di analizzare il problema specifico delle emissioni di anidride carbonica e gli strumenti adottati dai governi per limitarle. Ma tutti i rapporti indicano che il successo di un intervento ambientale deriva da un insieme di proposte, che coinvolgono sia iniziative promosse dallo Stato, sia iniziative legate al mercato e abbracciano diversi tipi di intervento. Per realizzare efficacemente un insieme di queste politiche, i cittadini ed i governi hanno probabilmente bisogno di istituzioni sovranazionali, come ha dichiarato recentemente il Presidente francese Macron, che, in un discorso sulla finanza verde tenuto a Bruxelles il 28 marzo 2018, ha affermato che i cittadini europei hanno bisogno di un vero sistema di risorse proprie europee per essere in grado di sostenere una economia verde durevole; infatti, un bilancio autonomo assicurerebbe la capacità di fare importanti investimenti per infrastrutture e progetti nella transizione ecologica. Tale bilancio non deve essere incoerente con obiettivi ambientali o con altre politiche, ma deve contribuire con nuovi strumenti alla realizzazione della visione ecologica. Macron ha poi proposto l’istituzione di una tariffa esterna come strumento per finanziare una linea di bilancio europea a sostegno delle politiche ambientali.[22] Questa sorta di dumping verde è suggestiva, ma sembra mancare di realismo, in particolare perché la Germania, che ha specifici rapporti commerciali con paesi dipendenti dalla CO2, probabilmente vi si opporrebbe. In ogni caso, la proposta nel suo insieme si inquadra nell’idea macroniana di un’Europa sovrana, la cui realizzazione richiede un bilancio dell’eurozona dotato di risorse proprie e posto sotto controllo democratico. Anche se il dazio proposto divenisse operativo, questo bilancio si baserebbe su ipotetiche entrate europee di tipo diverso. Tuttavia, attualmente è l’unica posizione “sovranazionalista” tenuta da un capo di governo dell’Unione europea e perciò il suo successo è importante per coloro che auspicano la creazione di istituzioni democratiche al di sopra degli Stati nazionali.
Federico Bonomi
* Si tratta della relazione tenuta all’incontro Supranational Democracy Dialogue, svoltosi all’Università del Salento nell’aprile 2018.
[1] Paolo Bosi, Corso di Scienza delle Finanze, Bologna, Il Mulino, 7a ed., 2015.
[2] Ibidem.
[3] Adarsh Varma, Dan Newman, Duncan Kay, Gena Gibson, Jamie Beevor, Ian Skinner, and Peter Wells, Effect of regulations and standards on vehicle prices. Technical report, Didcot, AEA Technology plc., 2011.
[4] Steven G. Medema, Of Coase and Carbon: The Coase theorem in Environmental Economics, 1960-1979, Denver, University of Colorado 2011.
[5] Paolo Bosi, Corso di Scienza delle Finanze, op. cit..
[6] Allen V. Kneese, The Economics of Regional Water Quality Management, Baltimore, The Johns Hopkins Press and Resources for the Future, 1964.
[7] Ibidem.
[8] Jens Abildtrupa, Frank Jensenb, and Alex Dubgaardb, Does the Coase theorem hold in real markets? An application to the negotiations between waterworks and farmers in Denmark, Journal of Environmental Management, 93 (2012), p. 169.
[9] Arthur C. Pigou, The Economics of Welfare, London, Macmillan and Co., 1920.
[10] Dennis W. Carlton and Glenn C. Loury, The Limitations of Pigouvian Taxes as a Long-Run Remedy for Externalities, The Quarterly Journal of Economics, 95 (1980), n. 3, p. 559. Richard N. Cooper, Peter Cramton, Ottmar Edenhofer, Christian Gollier, ´Eloi Laurent, David JC MacKay, William Nordhaus, Axel Ockenfels, Joseph Stiglitz, Steven Stoft, Jean Tirole, and Martin L. Weitzman, Global Carbon Pricing. The Path to Climate Cooperation, Cambridge, Mass, The MIT Press, 2017.
[11] Paolo Bosi, Corso di Scienza delle Finanze, op. cit..
[12] Mai Farid, Michael Keen, Michael Papaioannou, Ian Parry, Catherine Pattillo, Anna Ter-Martirosyan, and other IMF Staff, After Paris: Fiscal, Macroeconomic, and Financial Implications of Climate Change, Staff Discussion Notes No. 16/01, International Monetary Fund, 2016.
[13] Questa espressione è stata coniata da G. Hardin nel 1968 (G. Hardin, The Tragedy of the Commons, Science, 162 (1968), p. 1243) per descrivere le situazioni in cui beni liberamente accessibili, di cui non sia chiaramente identificata la proprietà e il cui sfruttamento non sia regolamentato, sono inevitabilmente destinati ad esaurirsi in seguito allo sfruttamento da parte di individui unicamente tesi al proprio interesse (free-riders). La tragedia può essere evitata solo se la proprietà di tali beni viene chiaramente identificata e il suo uso viene regolamentato dal o dai proprietari.
[14] J.F. Nash, jr. ha dimostrato che in un gioco, in cui ciascun giocatore sceglie la propria strategia in modo da ottenere il massimo vantaggio, nessun giocatore ha interesse a cambiare la propria strategia a meno che non la cambi anche qualcun altro (razionalità strategica). Se ciascun attore presenta una strategia dominante, vale a dire la scelta che massimizzi la propria utilità tenendo conto delle strategie degli avversari, si verifica un equilibrio di Nash. Nel caso della tragedia dei beni comuni, l’equilibrio di Nash, dato dall’intersezione delle strategie dominanti degli attori, conduce a una soluzione non cooperativa, e pertanto sub-ottimale.
[15] Richard N. Cooper et al., Global Carbon Pricing. The Path to Climate Cooperation, op. cit..
[16] Legge 23 dicembre 1998, n. 448, Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo, Gazzetta Ufficiale, n. 302 del 29 dicembre 1998, supplemento ordinario n. 210/L.
[17] OECD, Taxing Energy Use 2018, Parigi, OECD Publishing, 2018.
[18] John McEldowney and David Salter, Environmental taxation in the UK: The Climate Change Levy and policy making, Denning Law Journal, 27 (2015), p. 37.
[19] Ibidem.
[20] Xavier Le Den, Edmund Beavor, Samy Porteron, and Adriana Ilisescu, Analysis of the use of Auction Revenues by the Member States, European Commission, 2017.
[21] Martin L. Weitzman, Can Negotiating a Uniform Carbon Price Help to Internalize the Global Warming Externality? Harvard Project on Climate Agreements, Journal of the Association of Environmental and Resource Economists, 1 (2014), p. 29.
[22] Emmanuel Macron, Discours du Président de la République à la conférence sur la finance verte, Bruxelles, marzo 2018.
Anno LX, 2018, Numero 2-3, Pagina 114
L'AGONIA DI UNA NAZIONE
Un declino politico ed economico che dura da cinque anni e che sta portando il Venezuela verso la catastrofe. Una nazione tra le prime dieci al mondo in termini di riserve petrolifere, a seguito di politiche dissennate, è in ginocchio, con la popolazione ridotta alla fame e in fuga verso i Paesi confinanti. Nel corso del 2017 e degli inizi del 2018 si stima che oltre due milioni di venezuelani abbiano lasciato il proprio Paese, spesso in modo illegale, creando così anche nell’America Meridionale, come già nel resto dell’America Latina, il triste fenomeno dell’emigrazione.[1] La dimensione di questo flusso migratorio assume connotati impressionanti se si pensa che il Venezuela conta 31 milioni di abitanti. Si tratta di cifre che rendono quasi irrilevante il fenomeno migratorio che stiamo conoscendo in Europa[2] anche perché la massa dei venezuelani in fuga si è concentrata nell’arco temporale di poco più di un anno. Il Venezuela si sta spopolando e i suoi cittadini emigrati, in Ecuador come in Perù, sono come ghettizzati e svolgono i lavori più umili nonostante, in molti casi, abbiano un’alta scolarità. Ed è così che in Ecuador e Perù la popolazione locale riversa sui venezuelani emigrati le umiliazioni che i loro connazionali conoscono in Europa o negli USA.
La crisi venezuelana trova le sue origini già nei primi anni della presidenza Chavez, nonostante le grandi aspettative che il suo mandato presidenziale aveva suscitato in America Latina e in molte forze politiche occidentali, che vedevano in lui il prototipo del Presidente amico del popolo, anti-capitalista e anti-statunitense. La sua salita al governo, insieme a quella di Morales in Bolivia, sembrava prospettare la nuova via al socialismo nel subcontinente, dopo che a Cuba prima e in Nicaragua poi il socialismo si era trasformato in dittatura. L’avvio di un politica di nazionalizzazioni e di una politica estera fortemente anti-statunitense, portò in breve il Venezuela a stringere accordi commerciali con Cuba, Nicaragua, Russia, Cina e Iran al punto che il Paese venne classificato dal Presidente statunitense Bush una “nazione canaglia”. L’aspetto più importante è che l’intera politica economica e commerciale del Venezuela venne vincolata all’estrazione e al prezzo del greggio sul mercato internazionale. Nei primi anni della presidenza Chavez l’alto prezzo del petrolio al barile consentì facili elargizioni all’intera popolazione con l’applicazione di prezzi “politici” a molti beni primari. Il costo di un litro di benzina in Venezuela durante la presidenza Chavez era pari a 0,01 euro e ancora oggi, in piena crisi, il costo è di pochi centesimi, anche se ora il problema è riuscire a trovare distributori di benzina che ne abbiano disponibilità. Il paradosso è che il Venezuela si trova nella condizione di dover importare petrolio a seguito della chiusura di molti pozzi per la mancanza di pezzi di ricambio. L’intera economia venezuelana si è basata per anni sul petrolio, ma i ricchi proventi, anziché venire almeno in parte reinvestiti in infrastrutture o in nuove attività economiche, sono serviti per pagare l’acquisto di beni e servizi dall’estero, in particolare dai Paesi avversari degli USA. Da Cuba, per esempio, provenivano medici e farmaci che il Venezuela ripagava in barili di petrolio in una sorta di baratto che non comportava la movimentazione di capitali. Da Russia e Iran venivano acquistati armamenti. Il carisma di Chavez, la sua popolarità, il suo dichiararsi figlio del popolo, l’ossessiva propaganda che ne esaltava l’operato, riuscivano a far passare in secondo piano la tendenza all’autoritarismo che ormai stava portando alla nascita di un regime. La realtà della situazione divenne evidente con la sua morte nel marzo 2013 e con il crollo del prezzo del petrolio.[3] Dopo quattordici anni di presidenza Chavez salì alla presidenza del Paese il delfino designato Maduro, un altro cosiddetto “uomo del popolo”,[4] privo però di quel carisma che aveva consentito al suo predecessore di governare incontrastato.
La salita alla presidenza di Maduro e il contemporaneo crollo del prezzo del petrolio misero in evidenza una politica che stava portando la nazione al caos sociale e al default economico. Ai primi segnali di crisi la risposta di Maduro fu un inasprimento del sistema poliziesco, la chiusura di testate giornalistiche che lo contestavano e la prigione per gli oppositori. La mancanza di beni primari, la necessità quasi inverosimile per il Venezuela di dover importare petrolio raffinato, la mancanza di riserve in valuta della Banca centrale non erano viste come il fallimento della propria politica: le cause della crisi erano indicate nella borghesia che aveva esportato le proprie ricchezze all’estero; nel fatto che vi era un complotto capeggiato dagli USA per affamare il popolo venezuelano e osteggiare la politica socialista del governo; oppure erano gli oppositori che diffamavano il governo. Il populismo di Maduro, e quello di Chavez prima, negavano l’evidenza di una politica economica demagogica. La volontà di nascondere le vere cause della crisi portò infine Maduro alla scelta di indire un referendum costituzionale che, di fatto, proclamava la definitiva trasformazione del suo governo in una dittatura legalizzata da un voto popolare. Maduro conseguì la vittoria referendaria nonostante le accuse di frode e la contestazione da parte dell’intera comunità internazionale, con la sola eccezione della Russia e del silenzio della Cina. Il primo risultato della vittoria al referendum fu la sospensione del Venezuela dal Mercosur in base alla clausola democratica prevista dal Protocolo sobre compromiso democrático.[5] I Paesi membri del Mercosur, Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay, votarono alla unanimità per la sospensione del Venezuela, accusando Maduro di violare i diritti fondamentali di una democrazia.[6] Questo atto politico del Mercosur è stato altamente significativo: chi non rispetta le regole fondamentali della democrazia non può far parte di una comunità e merita l’isolamento. Si tratta di un segnale che in Europa dovremmo imparare ad utilizzare pensando alle situazioni di attacco alle basi della democrazia per esempio in Ungheria o Polonia.
Ma mentre il Venezuela vede venir meno anche la fratellanza continentale, il regime persiste nel proclamare la propria sovranità nazionale minacciata da vicini traditori o da potenze straniere che vogliono piegare un governo del popolo. Un governo però che ha dovuto rinunciare alla propria valuta nazionale, il bolivar, perché in default nonostante gli aiuti finanziari già pervenuti da Mosca agli inizi del 2018. Il tasso di inflazione dalla fine del 2017 ha raggiunto cifre assurde, a tre zeri, rendendo praticamente impossibile stabilire il prezzo di un qualsiasi bene tra il mattino e il pomeriggio, portando così al blocco degli acquisti interni e al blocco anche delle importazioni dall’estero per mancanza di valuta. Molti osservatori paragonano la situazione finanziaria del Venezuela a quella della Repubblica di Weimar del secolo scorso. Ma la Germania di Weimar usciva da una guerra disastrosa ed era gravata dalle esorbitanti richieste di risarcimento da parte delle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale. Il Venezuela invece ha provocato da sé il proprio dissesto e caos sociale nel nome di un sovranismo esasperato. Nell’anno 2017 il tasso di inflazione nel Paese era stimato al 1.000% e a luglio 2018 al 1.000.000%, il PIL è al -50% rispetto al 2013.[7] Cifre fuori da ogni controllo. La crisi del Venezuela però ha conseguenze drammatiche che vanno oltre i propri confini. Si tratta di uno dei principali Paesi produttori di petrolio, è membro dell’accordo regionale del Mercosur (in questo momento ne è sospeso), vanta appoggi finanziari da parte di Cina e Russia ponendo la nazione in aperto contrasto con gli USA. La Russia è l’unica nazione al mondo ad aver accettato la criptovaluta imposta da Maduro in sostituzione del bolivar. La criptovaluta denominata Petro lega il proprio valore a quello del prezzo al barile del petrolio. Maduro la classifica come criptovaluta, ma è un termine improprio: in realtà il Venezuela sta vendendo la produzione petrolifera dei prossimi anni alla Russia in cambio di aiuti finanziari immediati. Il punto è che neppure la Russia può sostenere all’infinito una nazione di 30 milioni di abitanti che è in agonia economica.
Il fatto più grave resta però l’isolamento continentale che per altro sta creando una profonda frattura in seno al Mercosur. Lo scorso 4 settembre a Quito, capitale dell’Ecuador, i Ministri degli esteri di 13 nazioni latinoamericane si sono riuniti per discutere della crisi migratoria dal Venezuela. La fuga dal Venezuela ogni giorno di migliaia di persone ha colpito pesantemente la città di Cucuta in Colombia dove in poco più di un anno sono transitati oltre 600.000 profughi. Nel nord del Brasile, nella provincia di Roraima, al confine con il Venezuela, è stato schierato l’esercito per contenere il flusso migratorio. Perù, Ecuador e Cile richiedono il visto di ingresso e il passaporto ai cittadini venezuelani in fuga o in transito: sino al mese di luglio era sufficiente la carta di identità, in una sorta di Schengen sudamericana ora sospesa. L’agenzia di stampa venezuelana ha classificato l’incontro di Quito come inutile e tendente a screditare l’ immagine del Venezuela.[8] Il governo venezuelano vive quella che può essere chiamata la “sindrome dell’assedio”, tipica di quei governi populisti che, in America come in Europa, incapaci di un buon governo, scorgono nemici ovunque: nelle istituzioni internazionali, nelle banche, nelle nazioni confinanti o in quelle forze definite genericamente élite che neppure riescono a definire, perché il punto è quello di indicare un nemico sempre e comunque in nome del popolo sovrano in nome del quale si arrogano il diritto di parlare.
Maduro ha classificato come fakenews le notizie di una nazione allo sbando e con la popolazione in fuga. Tuttavia ha chiesto all’ONU un contributo di mezzo milione di dollari per favorire il rientro in patria (il progetto è denominato “Ritorno in Patria”) dei concittadini emigrati, che, secondo Maduro, sono fuggiti “…perché tratti in inganno… per essere depredati delle loro cose”.[9] Parole che danno il senso della totale perdita di contatto con la realtà. Dal momento che però l’opposizione a Maduro è incapace di agire unita e con alcuni dei propri leader in prigione, il rischio è che l’arbitro della situazione diventi l’esercito. Sarebbe un triste destino per una nazione che già in passato ha conosciuto la dittatura militare e un triste ritorno al passato per l’intera America latina che dagli anni Novanta ha visto la caduta di tutti i regimi militari e l’avvento della democrazia. Il vento del populismo venezuelano, la politica del facile consenso stanno però colpendo anche al di fuori dei propri confini. La più grande nazione latino americana, il Brasile, membro fondatore del Mercosur, ha eletto come proprio Presidente un populista che proviene dalle file dell’esercito e che in più di una occasione ha elogiato gli anni della dittatura militare e ha criticato aspramente la politica commerciale del Mercosur.[10] Il Venezuela e il vento populista che soffia anche dal Brasile rischiano di rimettere in gioco non solo il ruolo del Mercosur, ma anche le conquiste democratiche conseguite con la caduta dei regimi militari negli anni Ottanta in America Latina.
Stefano Spoltore
[1] Agencia Brasil, 24 agosto 2018.
[2] Avvenire, Milano, 15 settembre 2018. Da gennaio 2018 ad oggi dal Mar Mediterraneo sono sbarcati sulle coste dell’Unione europea circa 74.000 profughi.
[3] A marzo 2013, quando Chaverz morì, il prezzo medio del barile era di 112 dollari. Ad agosto 2018 era di 71 dollari (a marzo, 66). Fonte: CLAL.IT/MINI_INDEX.PHP.
[4] Maduro, prima di diventare un fedelissimo di Chavez e suo portaborse, era un sindacalista e autista di tram.
[5] Il Protocolo de Usuhuaia sobre compromiso democrático en el Mercosur fu sottoscritto nel luglio 1998 e successivamente integrato nel dicembre 2011. Con la sospensione del Venezuela è la terza volta che viene applicato contro un Paese membro; le due precedenti volte fu applicato contro il Paraguay.
[6] Si veda: Venezuela e Mercosur: la difficile via verso la democrazia, Il Federalista, 59 (2017), n. 2, p. 169.
[7] Si veda: Business Insider, 26 luglio 2017 e InvestireOggi.it del 24 luglio 2018.
[8] AgenciaNova, Caracas, 5 settembre 2018.
[9] Avvenire, Milano, 22 settembre 2018.
[10] Si veda: El Observador, Montevideo, 21 ottobre 2018; La Nación, Buenos Aires, 29 ottobre 2018.
Anno LX, 2018, Numero 1, Pagina 43
BELT AND ROAD INITIATIVE,
LA POLITICA ESTERA CINESE
E LE OPPOTUNITA’ PER L’EUROPA
Introduzione.
Negli ultimi 35 anni, la Cina è cresciuta economicamente e ha consolidato, nonostante molte sfide, il sistema politico interno. La Cina ha sempre mantenuto alcuni principi-chiave in politica estera: “Economy first”, l’economia come perno delle relazioni internazionali; la garanzia della “sicurezza delle periferie”, il controllo sui propri confini politici; la Cina come “leader” dei Paesi in via di sviluppo.
Jiang Zemin e Hu Jintao, a più riprese, hanno fornito un’interpretazione geopolitica interessante delle loro priorità in politica estera: “la nostra politica deve procedere in tutte le direzioni e tutto attorno a noi” (all around - all directional).[1] Se, dal punto di vista geopolitico, in coerenza con le proprie convinzioni strategiche, il contesto regionale è quello più importante, le grandi potenze (ovunque esse siano collocate) sono però il perno della propria politica estera.[2] In buona sostanza, la Cina mira ad essere il principale attore nella sua regione e la sua azione politica e diplomatica nelle relazioni internazionali è rivolta verso le grandi potenze che detengono il potere nei proprî contesti regionali e verso le poche che riescono a proiettarsi in altri contesti, le superpotenze.[3]
I principali attori della politica estera cinese, oltre al Segretario del PCC/Presidente cinese (nonché presidente della Commissione affari militari), sono il Ministero degli affari esteri (MFA) e il potente Ministero del commercio (MOFCOM).
La Belt and Road Initiative (precedentemente definita One belt, one road) ricalca le strategie storiche della politica estera cinese oltre a fornire un messaggio rassicurante per il mondo, utilizzando come simbolo il principale simbolo di apertura della Cina: la Via della seta.
1. Belt and Road Initiative: la nuova Via della seta.
La Belt and Road Initiative è un programma di investimenti sull’asse euroasiatico volto a rinnovare e ripensare le reti nello spazio geografico tra Europa e Asia. Non si tratta semplicemente di un progetto economico, ma di un vero e proprio programma politico che crea e sviluppa un sistema di relazioni economiche multilaterali con il centro di gravità nel Sud Est asiatico, ma che investe l’intera Eurasia.
Il contesto multilaterale del Sud Est asiatico, i rapporti con il vicino russo (e prima ancora sovietico), le relazioni con l’India, non sono state sempre caratterizzate da uno spirito costruttivo nel corso dei decenni (in particolare durante la Guerra fredda). La Cina si è trovata sovente in una posizione di isolamento, in un contesto politico piuttosto ostile in cui, in ogni caso, ha sempre cercato di giocare un ruolo (magari con l’ausilio dei cinesi all’estero), ma in cui, anche a causa delle sue alterne vicende storiche, non ha saputo costruire relazioni stabili e durature. La stessa ASEAN, nata in funzione anticinese e anticomunista nel 1967, è stata una dimostrazione di questa tendenza.
La Belt and Road Initiative costituisce un importante segno di discontinuità al quale prestare attenzione. La Cina ha preso coscienza del proprio ruolo politico oltreché economico. Essa è perfettamente consapevole del fatto che senza cooperazione economica e commerciale, senza apertura al mondo, senza nuovi progetti industriali e senza un rinnovamento delle infrastrutture al suo interno e in Asia, sarà impossibile conseguire gli obiettivi che si è prefissata dal XIX Congresso del Partito comunista cinese: continuare a crescere economicamente, combattere la povertà ed essere un esempio per i paesi in via di sviluppo.[4] Il gigante cinese, prima manifattura al mondo, con un crescente settore hi-tech, necessita di collegamenti moderni ed efficienti in tutta l’area che lo circonda, in grado di sostenere i propri investimenti e la propria crescita economica.
In questo scenario, la riorganizzazione delle reti costituisce una partita importante per chi vuole provare ad esercitare una posizione di primo piano nella regione di riferimento. La BRI coinvolge gli attori asiatici ma anche un attore transcontinentale come la Russia e la gran parte degli Stati europei, considerati il principale approdo delle relazioni commerciali della Repubblica popolare.
Il progetto, licenziato nel 2013 dal Comitato centrale del Partito comunista cinese e approvato dalla Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme nel marzo del 2015,[5] si guarda bene dall’imporre visioni ideologiche o di sistema: vi è il massimo rispetto per le tradizioni culturali e politiche di ogni paese coinvolto nel progetto.[6] I principii guida di “armonia”, “fiducia reciproca”, “tolleranza verso gli orientamenti prevalenti nei diversi paesi”,[7] oltreché la Carta delle Nazioni Unite costituiscono il territorio ideale comune. Se i primi, tipici della tradizione confuciana, sono facilmente riconoscibili dagli attori asiatici, la Carta delle Nazioni Unite costituisce un riferimento chiaro per i partner occidentali (ma anche africani) interessati a partecipare a questo progetto.
A cementare il progetto contribuiranno due istituzioni multilaterali: la Banca asiatica per le infrastrutture e gli investimenti (Asian Infrastructure Investments Bank, AIIB) e il fondo per la via della seta (Silk Road Fund, SRF). Tali istituzioni, costituite sul modello della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale contribuiranno alla raccolta delle risorse e a costituire un foro permanente sui progetti che, con tutta probabilità, cambieranno il volto dell’Asia e le sue connessioni con il resto del mondo. Esse avranno anche un ruolo (assieme alle altre organizzazioni finanziare della regione asiatica, come la New Development Bank[8]) nel contribuire ad integrare le istituzioni finanziare della regione, contribuendo alla vendita di titoli di Stato e di altri strumenti finanziari e alla stabilità del sistema dei cambi. Un altro obiettivo è una maggiore regolamentazione finanziaria internazionale tra i paesi dell’Asia e la Russia al fine di coordinare una risposta efficace in caso di crisi finanziare internazionali.[9] Tutto ciò faciliterà gli investimenti internazionali nei progetti della Belt and Road e, più in generale, potrebbe costituire l’inizio di una fase nuova nell’integrazione finanziaria internazionale in Asia.
E’ singolare che la Cina scelga di costruire nuove organizzazioni internazionali con una chiara impronta regionale. Tuttavia, è chiaro che una tale costruzione multilaterale costituirà anche una sfida aperta al ruolo delle istituzioni finanziarie internazionali fondate sul Washington consensus. Se è vero che le istituzioni internazionali economiche hanno costituito un volano per l’egemonia degli Stati Uniti nel sistema economico,[10] è allora ragionevole pensare che tali nuove istituzioni, oltre ad essere il “braccio” della BRI, potranno essere uno strumento potente per estendere l’influenza della Cina nell’Asia centrale e nel Sud Est asiatico in modo particolare.
2. Via mare e via terra: la Silk Road Economic Belt e la 21st Century Maritime Silk Road.
La Nuova Via della seta si articolerà su due assi principali: la Silk Road Economic Belt (via terra) e la 21st Century Maritime Silk Road (via mare). Il primo, un asse completamente terrestre, collegherà la Cina attraverso l’Asia centrale e la Russia con i porti europei del Baltico e del Mediterraneo, mentre la seconda tratta, via mare, coinvolgerà l’Asia del sud, costeggiando la Cina, l’Indocina, la Malaysia, l’Indonesia, la Birmania, l’India, i paesi del Golfo (e gli immediati rivieraschi africani), fino al Mediterraneo attraverso il Canale di Suez.
Come elemento ulteriore di organizzazione dello spazio e a corredo degli assi principali via terra e via mare, vi saranno sei corridoi principali sui cui far convergere i primi progetti e i primi investimenti: Cina-Mongolia-Russia, Cina-Asia centrale, Cina-Asia dell’ovest, Cina-penisola indocinese, Cina-Pakistan e Cina-Myammar-India. Sugli assi principali e lungo le sei direttrici stabilite verranno costruite nuove strade, eliminate le “strozzature”, costruiti solidi collegamenti ferroviari, costruiti nuovi aeroporti internazionali, tutti con una capacità di integrazione intermodale, per integrare i trasporti su ferro e su gomma e assicurare le connessioni degli assi ferroviari o viari con i porti.[11]
Se è vero che la sicurezza e la manutenzione saranno appannaggio dei paesi della BRI, è vero e che lo sarà anche il loro ammodernamento nel corso del tempo. Per garantire questo obiettivo e il costante progresso in campo economico, nell’industria, nella logistica e nelle professioni ad esse legate, verranno istituiti capitoli dedicati alla Ricerca & Sviluppo con massicci investimenti nella cooperazione culturale e universitaria tra i vari paesi dell’iniziativa. La competitività del sistema universitario cinese e, più in generale, la crescita del sistema delle università in Asia, costituiranno un elemento centrale nello sviluppo della Cina e dell’Asia e nella competizione tra sistemi educativi. La Cina ha promesso 10000 borse di studio all’anno per i paesi aderenti all’iniziativa e numerose altre attività di cooperazione in ambito culturale.[12]
La governance dell’intero progetto è affidata ai singoli governi e alle nuove strutture multilaterali costruite per l’occasione. È peraltro pacifico che la Cina eserciterà una funzione di coordinamento,[13] essendo il promotore dell’iniziativa, ma è altresì chiaro che la facilitazione del libero commercio (attraverso la fattiva applicazione degli accordi sulla facilitazione degli investimenti del WTO[14]), la ripulsa di ogni tentazione protezionistica, la sicurezza geopolitica saranno una responsabilità di ogni singolo attore. L’azione coordinata nell’ambito di altre organizzazioni internazionali (tra cui l’ASEAN plus China) e nella cooperazione intergovernativa potranno dare risposte in questo senso.
3. BRI: il dialogo Cina-Europa.
I paesi europei che, al momento, hanno ufficialmente aderito alla BRI sono più di venti tra cui: Russia, Germania, Italia, Georgia, Armenia, Azerbaijan, Grecia, Polonia, Serbia, Romania, Ungheria, Austria, Svizzera, Bielorussia, Turchia, Spagna e Paesi baltici. Molti altri hanno deciso di entrare nel sistema di quote della AIIB. È ovvio che i paesi europei siano interessati a giocare un ruolo in un progetto così ambizioso. Si badi bene, i paesi europei e non l’Europa, perché la Cina ha trattato prevalentemente in modo bilaterale con le sue controparti europee, senza una sostanziale mediazione delle istituzioni dell’Unione europea. Tale situazione pone Pechino in una posizione negoziale di vantaggio nei confronti dei partner europei che, in una trattativa così complessa, trarrebbero un indubbio beneficio da un’impostazione multilaterale. La delicatezza, inoltre, della riorganizzazione delle reti pone un altro problema all’Europa che, a sua volta, potrebbe specializzare alcuni siti rispetto ad altri, determinando essa stessa i principali poli intermodali senza che altri decidano per l’Europa stessa dove investire. Un caso emblematico è l’investimento cinese nella ferrovia ad alta velocità Budapest-Belgrado-Pireo. La Commissione europea ha posto il progetto “sotto osservazione” mettendo in dubbio il rispetto delle norme europee in materia.[15] Tuttavia, se la Serbia considera l’opera come “volano” dell’economia,[16] uno studioso ungherese, Zoltán Vörös, fa notare come il reale vincitore di questa operazione sia la Cina: “il treno”, secondo Vörös, “non connetterà città ungheresi lungo il percorso (da Budapest a Szeged, terza città dell’Ungheria)”; “l’Ungheria”, continua lo studioso, “per le proprie relazioni economiche, avrebbe maggior vantaggio nel migliorare le connessioni con Romania e Ucraina, molto più importanti sotto il profilo economico”. Inoltre, la Cina guadagnerebbe dai prestiti concessi ai partner europei.[17] Come se ciò non bastasse, la Cina è già presente nel continente europeo con numerosi investimenti diretti: basti pensare ai porti di Napoli e del Pireo e ai suoi numerosi investimenti in aziende pubbliche e private in Europa.
L’incapacità di agire di concerto rischia di nuocere all’Europa e limitare la sua capacità di organizzare i propri spazi geopolitici secondo le proprie necessità, in una posizione di reciproco vantaggio con il munifico partner cinese.
Conclusioni.
Belt and Road Initiative costituisce il principale progetto di investimento e di riorganizzazione delle reti dell’Asia e tra i più ambiziosi visti finora. Tuttavia, una delle maggiori difficoltà dei vertici politici cinesi sarà rassicurare i partner asiatici ed europei sul reciproco vantaggio politico ed economico. Sebbene la Cina sia una posizione di primazia dovrà investire molta della sua credibilità, fornendo garanzie a partner importanti come Russia, India, Malaysia, Indonesia. Probabilmente, la proposta migliore che Pechino può fare ai suoi vicini è l’approccio multilaterale: se la Cina saprà consolidare e costruire relazioni durature, consolidare il sistema finanziario, e garantire la sicurezza internazionale nella regione (contribuendo al processo di pace in Corea e migliorando le proprie relazioni con alcuni paesi come Vietnam e Giappone), avrà fornito risposte adeguate, assicurando protezione, crescita e investimenti per tutti i partner asiatici nella regione.
Va altresì considerato che la Cina è in una fase delicata anche sul piano interno: lo sviluppo delle aree rurali, la lotta all’inquinamento (lo sviluppo sostenibile e la riconversione ecologica delle imprese), la lotta alla corruzione, l’aumento del reddito pro capite costituiscono solo alcune delle sfide che dovrà affrontare. Interessante è anche la posizione nei confronti degli Stati Uniti: oggigiorno, la Cina è il principale difensore del principio dell’apertura agli scambi internazionali, mentre gli Stati Uniti, dopo il fallimento del TTIP e del TPP, sono entrati in una fase neo-protezionistica, rischiosa per la crescita internazionale. In questo contesto, la relazione con l’Europa presenta prospettive ambigue: la Cina non considera l’Europa come un partner unico, preferisce accordi à la carte con i singoli Stati, assicurandosi una posizione di certo più vantaggiosa.
Uno degli elementi che hanno contribuito ad acuire la crisi economica del recente passato sul continente europeo è stato il deficit delle infrastrutture per ragioni di vetustà, di mancanza di investimenti o di visione. La BRI potrebbe essere uno strumento interessante per migliorare e rinnovare, in una posizione negoziale paritaria, le infrastrutture e i collegamenti sul continente europeo con il contributo cinese.
Un’ultima riflessione può essere compiuta sulla natura del progetto Belt and Road: si tratta di un progetto egemonico? Forse. Ciò che è certo è che la Cina dimostra di poter agire da leader nella propria regione di riferimento, portando ben al di fuori di essa le conseguenze della propria potenza economica e questo, a prescindere dall’esito finale della BRI, è già un segnale importante su cui riflettere.
Belt and Road Initiative ci conferma, in conclusione, che il mondo è in una fase delicata e che le trasformazioni in atto determineranno il volto di questo secolo. Non sappiamo se il mondo sarà veramente multipolare; ciò che appare certo è che l’Europa ha bisogno di essere unita se vuole essere un attore della vita internazionale.
Carlo Maria Palermo
[1] A. Carlsson, R. Xiao (Eds.), New Frontiers in China’s Foreign Relations: Zhongguo Waijiao de Xin Bianjiang, Lanham, Lexington, 2011.
[2] Per una breve ricognizione della politica estera cinese, cfr. M. Swaine, Chinese views and commentary on Periphery Diplomacy, China Leadership Monitor, no. 44, luglio 2014.
[3] Per una distinzione tra grandi potenze e superpotenze, rimando a B. Buzan, O. Waever, Regions and Powers, Cambridge, Cambridge University Press, 2003.
[4] Cfr. J. Manning, The Economic implication of 19th Party Congress, The International Banker, 28 novembre 2017. Cfr. AA.VV., The essence of Chinese experience, Ministry of Commerce (People’s Republic of China), 19 ottobre 2017.
[5] AA.VV. Vision and Actions on Jointly building Silk Road Economic Belt and 21st Century Maritime Silk Road, National Development and Reform Commission, 28 marzo 2015.
[6] Ibidem, pp. 4-5.
[7] “…It advocates tolerance among civilizations, respects the paths and modes of development chosen by different countries, and supports dialogues among different civilizations […] so that all countries can coexist in peace for common prosperity…”, ibidem p. 5.
[8] La New Development Bank è una banca per lo sviluppo internazionale costituita dai paesi BRICS come risposta ad un rifiuto da parte degli Stati Uniti (e di altri paesi) di redistribuire in modo più equo le quote di IMF e World Bank. Cfr. a questo indirizzo.
[9] AA.VV. Vision and Actions on Jointly building Silk Road Economic Belt and 21st Century Maritime Silk Road, op. cit., p. 10.
[10] R. Foot, S.N. MacFarlane, M. Mastanduno, US Hegemony and International Organizations: The United States and Multilateral Institutions, Oxford, Oxford University Press, 2003.
[11] AA.VV. Vision and Actions on Jointly building Silk Road Economic Belt and 21st Century Maritime Silk Road, op. cit., p. 6.
[12] Ibidem, pp. 11-12.
[13] La funzione di coordinamento sarà svolta dal Ministero degli affari esteri (MFA), dal Ministero per il commercio internazionale (MOFCOM) e dalle organizzazioni specializzate – all’interno dell’amministrazione cinese – già previste per questo scopo.
[14] WTO Agreement: Protocol Amending The Marrakesh Agreement Establishing The World Trade Organization, WT/L/940, 28 November 2014, 1-3.2.
[15] S. Giantin, L’Ue frena i treni cinesi sulla Belgrado-Budapest, Il Piccolo Balcani, 24/02/2017.
[16] AA.VV., Soon we will travel at 200 km/h from Belgrade to Budapest and Athens by train!, Telegraf.rs (Belgrado).
[17] Z. Vörös, Who Benefits from the Chinese-Built Hungary-Serbia Railway?, The Diplomat, 4/01/2018.
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