Anno LIX, 2017, Numero 3, Pagina 162
CITTA’ E PROGRESSO
NELL’ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE E DELL’UNIFICAZIONE EUROPEA
Con la globalizzazione è tornata d’attualità la grande questione, messa in luce da Lewis Mumford nel secolo scorso, del ruolo della città nel processo di crescita e avanzamento della civiltà ed è venuta la risposta alla domanda che è alla base della sua opera, e cioè se l’evoluzione urbana, partita da una città che era, simbolicamente, un mondo, si sarebbe conclusa con un mondo “diventato, per molti aspetti politici, una città”. L’analisi di Mumford costituisce non solo un approfondimento dell’intuizione di Adam Smith, secondo il quale “la causa del progresso nelle capacità produttive del lavoro, nonché della maggior parte dell’arte, destrezza e intelligenza con cui il lavoro viene svolto e diretto, sembra sia stata la divisione del lavoro”,[1] ma ha integrato e contribuito a chiarirla. Questo perché l’intuizione di Smith sui fattori che hanno influito sulla produttività spiega perché l’andamento della produttività storicamente sia stata e resti così diversa nel tempo e nello spazio e perché alcune città e regioni siano diventate più ricche e centrali di altre. Ma essa non spiega che cosa c’è alla base del processo di ascesa e di declino delle economie-mondo a dominazione urbana, né il ruolo che alcune città hanno avuto ed hanno nel promuovere lo sviluppo nell’ambito degli Stati. Sviluppo che, come avrebbe invece ben spiegato Lewis Mumford,[2] è diverso per una città-Stato del XV secolo quale Venezia per esempio, rispetto a una città del XVIII secolo come Londra, cioè “dell’enorme città che dispone(va) di tutto il mercato nazionale inglese, e quindi delle isole britanniche, fino al giorno in cui, essendo mutate le proporzioni del mondo, questo agglomerato di potenza non si è ridotto alla piccola Inghilterra” di fronte ad un sistema urbano e politico continentale come quello degli Stati Uniti.[3] La globalizzazione sta mettendo ogni individuo ed ogni istituzione di fronte ad un paradosso. Quello secondo il quale la democrazia, la sovranità nazionale e l’integrazione economica globale diventano mutualmente incompatibili, in quanto “anche combinando due tra di esse, non potremo mai più averle tutte e tre completamente”.[4] Questo paradosso rende difficile colmare il deficit democratico nel governo delle cose e non serve a contrastare il crescente indebolimento della legittimità delle istituzioni un po’ in tutti i continenti e su scala mondiale, alimentando l’inefficienza e l’instabilità sociale e politica che sono alla base delle crisi di legittimazione delle istituzioni a livello mondiale, continentale, nazionale e locale. Crisi alle quali si è finora cercato di rispondere riaffermando, anziché cercando di superare, la centralità del funzionamento dello Stato nazionale,[5] cioè dell’ultima grande innovazione istituzionale adottata dall’umanità per governare il territorio ed il destino delle comunità locali. Un paradosso che, pur riconoscendo che l’equilibrio delle forze globali sta diventando sempre più centrifugo, in un mondo in cui gli USA stanno perdendo il loro ruolo a livello mondiale, e dove l’Europa resta prigioniera delle resistenze dei suoi Stati a dotarsi di un governo continentale efficace, ripropone per molti la necessità di recuperare la sovranità su scala nazionale, o addirittura a livello inferiore, come ha fatto a suo tempo un’altra grande studiosa del fenomeno urbano, Jane Jacobs. Per rimettere le città al centro del governo dello sviluppo la Jacobs arrivò a proporre il recupero della sovranità monetaria a livello cittadino, sperando di salvare in questo modo il ruolo propulsivo delle città, recuperando nel contempo una leadership mondiale da parte di alcuni Stati per mantenere la pace e garantire il funzionamento del mercato (ma senza spiegare quali Stati e con quali strumenti farlo in un mondo sempre più frammentato istituzionalmente). Questo rimedio “casalingo”, per usare un’immagine critica usata a suo tempo dall’urbanista Lewis Mumford, appare sempre più come il tentativo di far fronte con strumenti vecchi, che hanno già mostrato storicamente tutti i loro limiti, ad una sfida del tutto nuova: quella di promuovere e conciliare lo sviluppo e la crescita materiale e civile dell’umanità coordinando lo sviluppo del territorio tra più livelli di governo. Un problema questo rimasto finora senza soluzione, nonostante i contributi forniti da Smith, Mumford, Braudel sulla centralità del ruolo delle città nello sviluppo della civiltà. Per questo resta attuale domandarsi come sta cambiando la dimensione urbana, e quali sono le caratteristiche della città che, nei loro aspetti sociali, politici ed economici, hanno determinato e continuano a determinare lo sviluppo ed il benessere delle società.
E’ un dato di fatto che ancora oggi lo stato dell’economia mondiale dipende da quello di qualche decina di città, e che lo stesso destino delle economie nazionali dipende a sua volta da pochi sistemi urbani regionali e sub-nazionali.
Le città sono tuttora diseguali in termini di politiche abitative, di politiche per la sicurezza o per la gestione dei flussi migratori, dovute a scelte urbanistiche che, più che alla pianificazione, sono tese a massimizzare i profitti o ad assecondare trend politici e sociali dai quali dipendono gli equilibri di potere sui quali si basa il governo dei territori. In termini di sicurezza e di pianificazione, le citt<à sono diventate dei luoghi sempre meno vissuti da chi vi abita. Luoghi con caratteristiche commerciali, ma senza un carattere preciso, con politiche urbane caratterizzate da contraddittori interventi nel campo dell’integrazione sociale e della promozione della competitività economica.
Detto ciò, le città sono state e restano gli incubatori dello sviluppo e della civiltà[6] a livello prima locale, poi regionale, infine nazionale e continentale. Esse sono i punti materiali di radicamento e di irraggiamento delle politiche dei grandi poli di controllo e sviluppo dell’economia mondiale. Storicamente il continente in cui questo processo è nato e resta più radicato è quello europeo, e ciò costituisce una sfida storica oltre che politica per coordinare gli strumenti di governo del territorio e dell’economia dal livello locale a quello continentale e sovranazionale: una sfida istituzionale che può essere affrontata solo adottando i principi federali.
Per questo resta attuale il problema di studiare lo sviluppo dei sistemi urbani in relazione a quello delle istituzioni su cui si è basato e si basa il governo del territorio e della società.
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L’evoluzione dei vari sistemi urbani non è e non è stata semplicemente il prodotto dell’industrializzazione e della modernizzazione, bensì è stata e resta la precondizione per lo sviluppo di questi fenomeni.[7] L’aspetto demografico ha avuto e conserva la sua importanza nella formazione delle gerarchie tra centri urbani in termini di servizi e beni prodotti. Ma storicamente, come hanno evidenziato Mumford e Braudel, le innovazioni tecnologiche e scientifiche si sono affermate e diffuse a partire da ambienti urbani preesistenti, non in zone rurali o desertiche. Questo è stato vero sia in passato ai tempi dell’invenzione della stampa a caratteri mobili, sia più recentemente per altre innovazioni come Internet e la diffusione degli smartphone. In definitiva è stato lo sviluppo di relazioni ed interazioni tra individui nelle e tra le città a produrre innovazione, progresso e benessere. E solo nella misura in cui si sono stabilite delle relazioni di convivenza pacifica e comunitaria a livello locale, estese poi ad un livello superiore regionale, nazionale o continentale, la ricchezza della vita urbana ha contribuito a generare la ricchezza delle nazioni.[8] Dove e quando ciò non è accaduto, i sistemi urbani regionali sono rimasti immaturi, come nell’Italia meridionale e in gran parte del mondo extra-europeo (basti pensare all’America latina, a gran parte dell’Asia, all’Africa) con conseguenze negative sia sullo sviluppo delle rispettive economie regionali e nazionali, sia sul progresso del livello di benessere delle popolazioni, generando squilibri territoriali e acuendo i contrasti tra regioni più ricche e più povere, tra aree urbane e zone rurali, tra regioni industrializzate ed aree sottosviluppate.
Lo storico dell’urbanistica Peter Hall ha individuato quattro distinte espressioni dell’innovazione urbana: la crescita artistica, di cui le più grandi espressioni sono state Atene, Firenze, l’Inghilterra elisabettiana e Vienna nell’800-primi ‘900, con l’interazione tra le esigenze di rappresentazioni teatrali, l’architettura, la produzione di macchine da teatro per riprodurre suoni o effetti e delle maschere; il progresso tecnologico, attraverso l’interazione tra cultura e tecnologia come avvenuto anche successivamente nel rinascimento italiano, nell’Inghilterra elisabettiana e sul continente europeo; la rivoluzione industriale come avvenuto a Manchester in Europa e a Detroit negli USA, fino all’avvento dei computer a Palo Alto; la soluzione architettonica di problemi creati dall’alta concentrazione demografica, in termini abitativi e di igiene pubblica, come si cercò di fare già a partire dalla Roma imperiale (ma in modo inadeguato a causa dell’arretratezza delle caratteristiche dei materiali, basti pensare alle gigantesche opere per portare l’acqua nei centri abitati). Dalle forze sprigionate da queste quattro componenti del progresso urbano sarebbero scaturite e continuano a scaturire le energie che hanno caratterizzato e caratterizzano tuttora la crescita urbana nelle diverse parti del mondo.[9] In particolare dall’esperienza storica si possono trarre tre esempi di sviluppo di regioni urbane: nei secoli avanti Cristo in Grecia, con Atene, come analizzato da Hall, con l’allestimento degli spettacoli teatrali ed il coinvolgimento di tutti gli abitanti della città; in Italia nel rinascimento, in particolare nella pianura padana, con l’interazione tra produzione e commercio agricoli e produzioni artigianali, come analizzato e descritto nelle lezioni presso l’Università di Pavia dallo studioso di problemi urbani Gianfranco Testa, e nella Germania meridionale, come descritto dal geografo Walter Christaller;[10] nelle Fiandre e nei Paesi Bassi dal Rinascimento in poi per rendere più vivibili e confortevoli le abitazioni in tutte le stagioni, nonostante la rigidità del clima.[11] Questi flussi di merci e di persone, e le interazioni nelle e tra città sono avvenuti nel tempo in funzione dei mezzi di trasporto e di comunicazione resi disponibili dallo sviluppo tecnologico. Per questo diventa importante capire quali sono oggi le prospettive di sviluppo del mezzo di trasporto che, più d’ogni altro, ha influito sulla configurazione urbana e sulla mobilità nelle e tra le città nell’ultimo secolo: l’automobile con il motore a combustione interna.[12] Il secondo fattore di mutamento dell’ordine urbano da tenere presente è rappresentato dall’accrescimento demografico delle città prima con l’immigrazione attraverso lo svuotamento delle campagne limitrofe e, successivamente, con le massicce migrazioni da un continente ad un altro. Questo fenomeno ha assunto connotati e significati diversi, a secondo della prospettiva culturale in cui ci si pone. Basti pensare che esse vennero considerate delle “invasioni barbariche” in epoca romana, quando in Germania erano invece considerate delle “migrazioni di popoli” (Völkerwanderung). Le città, proprio per le opportunità che offrivano ed offrono in termini di occupazione, migliori e più sicure prospettive di condizioni di vita, sono state e restano degli immensi magneti e contenitori di individui.[13] Per questo l’Europa e le sue città, soprattutto per il ruolo che hanno storicamente giocato nel diffondere nel mondo modelli urbani e di governo del territorio e nell’uso dei mezzi di trasporto, hanno una responsabilità storica per contribuire a costruire un sistema istituzionale globale in cui diversi livelli di governo possano interagire in modo coordinato e democratico, preservando un certo grado di indipendenza. Ebbene, questo sistema istituzionale esiste, ed è già stato sperimentato su scala ridotta, e altro non è che quello federale.
Questo è il campo di indagine culturale e l’ambito d’azione politica che questa rivista intende continuare a contribuire a definire e promuovere affrontando il tema urbano.
Franco Spoltore
[1] Adam Smith La ricchezza delle nazioni, Roma, Grandi Tascabili Economici Newton, 1995, p. 66.
[2] Lewis Mumford, prefazione al libro La città nella storia, Milano, Tascabili Bompiani, 1967, vol. 1. “I bisogni e gli impulsi che hanno spinto gli uomini a vivere nelle città possono ritrovare – ad un livello ancora più alto – tutto ciò che Gerusalemme, Atene, Firenze, sembravano un tempo promettere?”
[3] Fernand Braudel, Civilisation matérielle, économie et capitalisme (XV-XVIII siècle). Le temps du monde, Paris, Librairie Armand Colin, 1979 (trad. it. I tempi del mondo, Torino, Einaudi, 1982). Nell’esporre le regole tendenziali che “precisano e definiscono anche i loro rapporti con lo spazio”, Braudel scrive: “Non esiste economia-mondo senza uno spazio proprio e per più ragioni significante: esso ha dei confini, e la linea che lo contorna gli dà un senso particolare, come le coste definiscono il mare; implica un centro, a favore di una città e di un capitalismo già dominante, qualunque ne sia la forma. La moltiplicazione dei centri costituisce una testimonianza di giovinezza, o una forma di degenerazione o di mutazione. Sotto la spinta di forze esterne e interne possono in effetti delinearsi e quindi compiersi forme di decentramento: le città a vocazione internazionale, le ‘città mondo’, sono in continua competizione reciproca, e si sostituiscono a vicenda; ordinato gerarchicamente, tale spazio è una somma di economie particolari, alcune povere, altre modeste, una sola relativamente ricca nel proprio nucleo. Ne derivano diseguaglianze, differenze di quel voltaggio che assicura il funzionamento dell’insieme. Ne deriva quella ‘divisione internazionale del lavoro’ della quale Sweezy spiega come Marx non avesse previsto che si sarebbe concretizzata in un modello (spaziale) di sviluppo e di sottosviluppo tale da dividere l’umanità in due campi, gli have e gli have not, separati da un fossato ancora più profondo di quello che oppone borghesia e proletariato nei paesi capitalistici avanzati. Non si tratta comunque di una ‘nuova’ separazione, ma di una ferita antica, e probabilmente inguaribile. Una ferita che esisteva ben prima dei tempi di Marx” (p. 7).
[4] Dani Rodrik: “The balance of global forces is becoming more centrifugal: declining role of U.S. in global economy; EU likely to remain preoccupied with own matters; China and the other emerging powers place, if anything, greater emphasis on national sovereignty. The supply of global leadership will be in short supply… Democracy, national sovereignty and global econmic integration are mutually incompatible: we can combine any two of the three, but never have all three simultaneously and in full”.
[6] Norbert Elias, La civiltà delle buone maniere, Bologna, Il Mulino, 1982.
[7] Ad van der Woude, Jan de Vries, Akira Hayami, Urbanization in History, A Process of Dynamic Interactions, Oxford, Clarendon Press, 1990, p. 2.
[8] Un’analisi di questo aspetto è stata fatta da Jane Jacobs in Cities and the Wealth of Nations - Principles of Economic Life, Viking, Random House, 1984. Purtroppo la Jacobs, ignorando le potenzialità istituzionali di un ordinamento federale, ne ha tratto la conclusione che bisogna ristabilire la sovranità, innanzitutto monetaria, a livello cittadino, rimedio questo che invece ci porterebbe a rivivere un passato di conflitti tra città grandi e piccole oltretutto in un’era nucleare. Un rimedio casalingo, come cercò, senza successo, di spiegarle Mumford. Si veda in proposito di Franco Spoltore, I rimedi casalinghi di Jane Jacobs, Il Federalista, 29, n. 1 (1987), p. 57.
[9] Peter Hall, Cities in Civiliazation, New York, First Fromm International Paperback Edition, 2001.
[10] Walter Christaller, Le località centrali della Germania meridionale - Un’indagine economico-geografica sulla regolarità della distribuzione e dello sviluppo degli insediamenti con funzioni urbane, Milano, Franco Angeli editore, 1980.
[11] “We know little about the fuel sources available to the southern Netherlands’ cities after the Dutch Revolt, but when they began to grow again at the end of the eighteenth century they shifted to coal, available from Liège and Hainault, and pushed ahead with an extensive programme of road and canal improvements. Urbanization came later in the northern Netherlands than in Flanders and Brabant, but attained even higher levels: during the early sixteenth century 31% of the population lived in cities, and by 1675 45% of the Republic’s population were urban. In the province of Holland these figures were higher still; over half the population were urban throughout the seventeenth and eighteenth centuries. One derivation of the name ‘Holland’ is that it was originally ‘Holt-land’, i. e. woodland. By 1600, there was precious little evidence to support the plausibility of that explanation. The Republic was substantially deforested”. Ad van der Woude, Jan de Vries, Akira Hayami, op. cit. p. 11.
[12] Rivoluzione a quattro ruote, L’Internazionale 28/09/2017“La Francia e il Regno Unito hanno recentemente annunciato che vieteranno la vendita delle auto con motore a benzina o diesel a partire dal 2040. La camera bassa del parlamento olandese ha approvato una legge che vieta la vendita di queste auto dal 2025. E l’India sostiene che introdurrà un analogo divieto entro il 2030.
Anche la Cina, la principale produttrice mondiale di automobili (28 milioni di esemplari lo scorso anno, più di Stati Uniti, Giappone e Germania messi insieme), sta progettando d’imporre presto un divieto, anche se non ha ancora stabilito la data in cui questo entrerà in vigore. E a novembre la Commissione europea discuterà l’introduzione di una quota minima annua di veicoli elettrici per tutti i produttori automobilistici europei…Poco più della metà dei 98 milioni di barili di petrolio prodotti nel mondo ogni giorno è utilizzata direttamente per produrre benzina, destinata quasi solo ai veicoli a motore. Un altro 15% viene usato per produrre ‘olio combustibile distillato’, almeno metà del quale è combustibile diesel. Circa il 58% della produzione petrolifera mondiale odierna serve quindi ai veicoli a motore, ma fra 35 anni potrebbe essere azzerata.
È sicuramente questa l’intenzione di molti governi. Il Regno Unito, per esempio, prevede di consentire la circolazione solo ai veicoli a zero emissioni (se si escludono alcune auto d’epoca dotate di licenza speciale) entro il 2050, appena dieci anni dopo il momento in cui entrerà il vigore il divieto di vendere nuove auto con motori a combustione interna.La produzione di auto alimentate a benzina o gasolio sarà quindi già crollata entro la fine degli anni trenta del duemila”.
https://www.internazionale.it/opinione...
[13] Robert E. Dickinson, City and Region – A Geographical Interpretation, London, Routledge & Kegan Paul Ltd, 1964, p. 19: “The city is not merely an aggregate of economic functions. Throughout history it has been above all else a seat of institutions in the service of the people of the countryside. In the words of Lewis Mumford, ‘it is art, culture, and political purposes, not numbers, that define a city’. The city has the characteristics of what Mumford calls both a container and a magnet. The container is the physical and permanent assembly of physical structures in which the functions, processes, and purposes of the city are developed and transmitted through time. The idea of the magnet refers to the force of attraction (and repulsion) of people and institutions. It is a spatial force. With this must be associated, writes Mumford, ‘the existence of a field, and the possibility of action at a distance, visible in the lines of social force, which draw to the centre particles of a different nature’ (Lewis Mumford, The City in History, London, 1961, p. 125)”.