Anno LX, 2018, Numero 1, Pagina 35
LA SFIDA DELLA RUSSIA
Nel mese di marzo Putin è stato rieletto Presidente della Federazione Russia per un quarto mandato. La sua rielezione è avvenuta con un consenso superiore al 75% dei suffragi, ma va sottolineato come l’opposizione abbia avuto grosse difficoltà ad esprimersi liberamente. La Russia non è ancora una democrazia come noi la intendiamo in Occidente, mantenendo un potere fortemente centralizzato e personalistico come ai tempi dell’Unione Sovietica e ancor prima come ai tempi degli zar. C’è una cosa che tuttavia anche gli oppositori riconoscono a Putin: l’aver ridato dignità e autorevolezza alla politica estera della Russia dopo oltre venti anni di emarginazione in cui lo scenario internazionale è stato dominato dagli Stati Uniti.
Dalla fine degli anni Ottanta la Russia ha vissuto una profonda crisi interna dovuta al crollo del modello e del sistema politico dei Soviet, e si è riaffacciata sulla scena internazionale solo dopo il 2010.
Dal crollo dell’URSS all’isolamento della nuova Russia.
Negli anni Ottanta era più vivo che mai il confronto-scontro con gli Stati Uniti nella rincorsa agli armamenti. Erano gli anni della sfida lanciata dagli USA con il progetto dello scudo spaziale che impose all’URSS consistenti investimenti in campo militare per reggere la competizione. Ma erano anche gli anni della tragica guerra in Afghanistan nel vano tentativo dell’URSS di controllare questo paese e di imporre un proprio governo fantoccio. L’occupazione dell’Afghanistan si rivelò un disastro sul piano militare per i continui attacchi condotti dai mujahidin che godevano degli aiuti finanziari e militari dei Paesi occidentali. Altro tragico destino di quella guerra fu che gli stessi mujahidin anni dopo sarebbero diventatiacerrimi nemici dell’Occidente e avrebbero trasformatol’Afghanistan in una base di addestramento per gli attentatori islamici. La guerra in Afghanistan e la corsa agli armamenti furono all’origine dell’indebolimento dell’URSS. Nel Paese per la prima volta si levavano grida di malcontento contro il governo e il Partito: erano migliaia i giovani militari morti in Afghanistan, oltre 400.000 tornarono in patria con gravi malattie dovute alle pessime condizioni di vita in una nazione ferma al nostro Medio Evo e oltre 100.000 erano i giovani divenuti invalidi permanenti a seguito degli attacchi dei mujahidin. Morti e feriti che il regime sovietico non poteva nascondere all’opinione pubblica che invece chiedeva riforme e investimenti in infrastrutture e in servizi sociali. Investimenti che mancavano da anni a causa della guerra e della competizione nella corsa agli armamenti con gli USA. In questo contesto per l’URSS diventava sempre più difficile mantenere alta la pressione e il controllo politico sui propri vicini confinanti europei che facevano parte del suo blocco economico e militare (Comecon e Patto di Varsavia), in particolare in Polonia. Di fronte alle difficoltà di quei momenti il Partito comunista ebbe tuttavia un colpo di coda cercando di rimediare alle difficoltà eleggendo segretario nel 1985 un uomo nuovo: Michail Gorbaciov.[1] Il suo desiderio di riforme si concretizzò in due parole passate alla storia: glasnost (trasparenza) e perestrojka (ristrutturazione). Una vera e propria rivoluzione per un Paese che da oltre 70 anni viveva in un regime poliziesco, ma una rivoluzione che aprendo alle prime forme di democrazia interna portò al crollo dell’URSS. L’apertura al dialogo di Gorbaciov verso gli Stati Uniti, la proposta di creare una stretta collaborazione con l’Unione europea con il progetto della “Casa comune europea”, il porre fine alla guerra in Afghanistan (1988), l’accettare la nascita di nuove forme di aggregazione politica e la dichiarazione della fine del primato e del monopolio del Partito comunista portarono al dissolvimento dell’Unione Sovietica simboleggiato dal crollo del muro di Berlino nel novembre del 1989. Il crollo dell’URSS portò l’Occidente e in primis gli Stati Uniti a dichiarare la vittoria del modello liberale e capitalistico. Ma il crollo dell’URSS portò con sé anche ben altre conseguenze: la fine del mondo bipolare e l’inizio di una serie di conflitti a livello regionale che imposero agli Stati Uniti continui interventi anche in campo militare rendendoli, di fatto, dei poliziotti dell’ordine mondiale. E mentre l’URSS si trasformava e gli USA dovevano agire su scala mondiale, gli europei si beavano del proprio relativo benessere e anziché cogliere il mutamento dello scenario internazionale per consolidare le proprie istituzioni comunitarie gettavano i semi di nuove e future tensioni. Quando, timidamente, l’Unione europea tentò di giocare un proprio ruolo, prima nella ex-Jugoslavia ove era in corso una guerra fratricida tra serbi e croati e successivamente in Libia, alla fine dovette sempre chiedere il soccorso degli USA. Ma se l’intervento USA servì per riportare la pace nei Balcani, in Libia ancora oggi, dopo la caduta del dittatore Gheddafi voluta dagli europei, il caos regna sovrano. Mentre il mondo bipolare uscito dal secondo conflitto mondiale mutava radicalmente e in molte aree del mondo scoppiavano continui conflitti che coinvolgevano gli USA (in Iran, Iraq, Somalia, Jugoslavia, Afghanistan), l’URSS si dissolveva per trasformarsi nella nuova Russia con un percorso irto di difficoltà e tensioni.
Dall’URSS alla nuova Russia.
La fine del centralismo politico da parte di Mosca favorì lo sfaldamento delle sue alleanze nell’Est e la caduta dei regimi comunisti dalla Polonia alla Romania, nonché la riunificazione tedesca. Ma mentre questo accadeva ai confini occidentali dell’URSS, al proprio interno i nazionalismi regionali portarono alla nascita di 13 nuove repubbliche indipendenti[2] e alla nascita della nuova Russia. Agli inizi degli anni Novanta Mosca dovette affrontare la ridefinizione dei propri confini con le nuove repubbliche, discutere con loro della ripartizione del tesoro della Banca centrale, della ripartizione delle forze armate nonché dell’arsenale nucleare. Problemi enormi con un potere centrale, a Mosca, ancora in fase embrionale che per altro doveva riscrivere la Costituzione e le nuove regole di governo con forze politiche appena sorte e già in lotta per il potere. La nascita della nuova Russia avvenne anche con fasi cruente quando nel 1991 vi fu un tentativo di colpo di Stato da parte di reparti dell’esercito che non volevano la fine dell’URSS. In quei giorni movimentati che videro anche il sequestro del Presidente Gorbaciov da parte dei golpisti, la popolazione di Mosca con a capo il proprio sindaco, Eltsin, scese in piazza per manifestare il proprio desiderio di libertà condannando al fallimento il tentativo di golpe. Ma altrove i tentativi secessionisti da parte delle Repubbliche che facevano parte dell’ex-URSS avvennero con gravi fatti di sangue e vere guerre, in particolare nella regione del Caucaso e in Cecenia.
Mentre questi gravi fatti si svolgevano entro i propri confini, la Russia vedeva l’Unione europea che si allargava alle nazioni che un tempo facevano parte della sua sfera di influenza: Polonia, Bulgaria, Romania, Ungheria e Cecoslovacchia (diventata nel frattempo Repubblica Ceca e Slovacchia) divennero membri dell’Unione che portava così a 28 i propri Stati. Un allargamento che senza un rafforzamento delle proprie istituzioni indebolirà l’Unione rendendo ancor più difficile ogni sua decisione. Inoltre le nuove nazioni, non avendo una consolidata tradizione democratica, evidenziarono subito una forte politica di stampo nazionalista e anti russa che mal si conciliava e si concilia con la tradizione democratica dell’Unione.
Ma la nuova nascente Russia nulla poteva al momento per contrastare la perdita di influenza sulle nazioni un tempo sue alleate e assisteva anche impotente alle vicende politiche e belliche che si svolgevano non lontano dai propri confini nell’area Medio orientale ove imperversavano le Guerre del Golfo con gli USA e gli eserciti di diverse nazioni dell’Unione europea che combattevano in Iraq e Kuwait con l’obiettivo di deporre il dittatore Saddam Hussein.
Avvenimenti drammatici che in altri momenti la Russia non avrebbe accettato in modo silente, ma che ora, presa dai propri problemi di politica interna, vedeva svolgersi sotto i propri occhi senza poter intervenire direttamente. L’URSS di un tempo non esisteva più e la nuova Russia stentava ancora, agli inizi del nuovo secolo, a mostrarsi al mondo. Qualcosa comunque, seppur lentamente, iniziava a muoversi all’interno del nuovo establishment a Mosca che nel 1999 elesse come nuovo Presidente, dopo Eltsin, un giovane Vladimir Putin, già ex-funzionario della polizia segreta sovietica (KGB) nella Germania dell’Est. Si impose da subito come l’uomo forte del nuovo corso e in più di una occasione ebbe a dichiarare: “Chi non rimpiange l’Unione Sovietica non ha cuore, chi vorrebbe resuscitarla non ha cervello”. Un misto di nostalgia e di voglia di rivalsa. I tempi però per un ritorno della Russia nello scacchiere internazionale non erano ancora maturi, il potere politico a Mosca era ancora in fase di consolidamento così come i rapporti con le nuove Repubbliche nate dalla dissoluzione dell’URSS. A metà dei primi anni del nuovo secolo qualcosa di nuovo però iniziava a manifestarsi così che nella Conferenza sulla sicurezza svoltasi a Monaco nel febbraio del 2007, Putin, invitato a parlare ebbe modo di dichiarare: “…Il mondo cambia e noi non possiamo agire in base a schemi che si formarono dopo la Seconda guerra mondiale. Perfino con gli alleati non si può più parlare come in passato. Nuovi pericoli si manifestano e tutto ciò deve esse messo nel conto, perché può accadere che qualcuno ne resti scottato. E noi dobbiamo creare una situazione più sicura, perché se non lo faremo sorgeranno continuamente conflitti.” Un primo segnale della volontà della Russia di tornare a contare nel mondo: occorreva solo attendere l’occasione più opportuna che arrivò, offerta, ingenuamente, dall’Unione europea nel novembre 2013.
La Russia è tornata.
Nel mese di novembre 2013, l’Ucraina, una delle nuove repubbliche nate dalla dissoluzione dell’URSS, aveva in programma la firma di associazione all’Unione europea. Il Trattato di associazione prevedeva una serie di aiuti commerciali atti a favorire la disastrata economia ucraina che, dopo l’indipendenza, era precipitata nel più totale caos. L’associazione all’Unione europea prevedeva inoltre, nel giro di pochi anni, la partecipazione dell’Ucraina allo sviluppo di progetti in campo militare.[3]
Agli occhi anche del cittadino medio russo si trattava di un fatto estremamente grave. Anche perché, dal punto di vista russo, gli avvenimenti degli ultimi anni non sembravano affatto indirizzare la politica degli occidentali verso un dialogo costruttivo con la nuova Russia. L’allargamento dell’Unione europea ai suoi ex-alleati di un tempo nonché il loro ingresso addirittura nella NATO insospettiva e allarmava nel contempo. Come era possibile che l’Occidente, che aveva dichiarato al mondo di aver sconfitto l’URSS, continuasse a favorire l’allargamento ad Est della NATO? La NATO non era nata per contrastare una possibile aggressione sovietica? E contro chi venivano puntati i missili che gli USA installavano in Polonia o nelle Repubbliche Baltiche? Se questo accadeva era perché gli occidentali non si fidavano della nuova Russia e voleva anche dire che se la NATO non veniva sciolta e anzi si allargava, la Russia era vista ancora come un avversario da temere.
Accadde così che a pochi giorni dalla firma dell’Ucraina al Trattato di associazione, Putin fece una allettante proposta economica e finanziaria al Presidente ucraino Yanukovich. Propose l’adesione dell’Ucraina all’Unione economica euroasiatica, un forte sconto sull’acquisto del gas e un aiuto finanziario immediato di 15 miliardi di dollari. Una ricca proposta per l’Ucraina, ma provocatoria, nel contempo, verso l’Unione europea che seppe rispondere in modo quanto mai timido e inconsistente, offrendo un aiuto di 1 miliardo di dollari alle disastrate finanze ucraine. Una dimostrazione di ignoranza della realtà ucraina e di totale impreparazione nel proporre ad una giovane nazione un Trattato di associazione senza conoscerne a fondo la situazione. L’Ucraina aveva in scadenza nel mese di marzo 2014 un rimborso in titoli di 15 miliardi di dollari che la Banca centrale non era assolutamente in grado di garantire senza un intervento tempestivo di liquidità. Senza un aiuto finanziario nel giro di pochi mesi l’Ucraina avrebbe dovuto dichiarare il proprio default.[4] Il governo ucraino non ratificò il Trattato di associazione e accettò la proposta russa. Nel Paese si scatenò nel giro di poche settimane una guerra civile che portò alla fuga del Presidente in carica che si rifugiò in Russia e a una serie di manifestazioni tra coloro che sostenevano l’associazione all’Unione europea e coloro che al contrario sostenevano il progetto russo. La regione più ricca dell’Ucraina, il Donbass, con una forte componente etnica russofona, si proclamò indipendente e da allora è iniziata una guerra tra gli indipendentisti, sostenuti finanziariamente e militarmente dalla Russia, e il nuovo governo di Kiev filo occidentale. Da quel momento tra la Russia, gli USA e i governi europei partirono una serie di reciproche accuse di intromissione negli affari interni ucraini. La Russia rispose sostenendo il diritto all’autonomia della neonata Repubblica del Donbass e sostenne un referendum per il distacco della Crimea dall’Ucraina a favore di una adesione di questa regione alla Russia. Il referendum portò al distacco della Crimea dall’Ucraina. Nel contempo gli USA proposero al nuovo governo ucraino di entrare a far parte della NATO e la stessa proposta fu formulata alla Moldavia (a suo tempo parte integrante del territorio sovietico), nazione confinante con l’Ucraina. Inoltre USA e Unione europea diedero vita ad una serie di sanzioni economiche contro la Russia ancora oggi in corso e per altro aggravate dopo la crisi in Siria.
Per tutta risposta alle sanzioni del mondo occidentale, la Russia strinse tempestivamente un importante accordo commerciale pluriennale con la Cina per oltre 400 miliardi di dollari. Non solo, all’accordo commerciale fece seguito un accordo in campo militare, un fatto impensabile pochi anni prima quando l’URSS e la Cina mantenevano rapporti estremamente difficili.
L’intesa tra la Russia di Putin e la Cina era anche un chiaro messaggio che le due potenze davano in particolare agli Stati Uniti. Nel mese di maggio 2015, mentre gli Stati Uniti trasferivano oltre 4000 soldati in Polonia e nelle Repubbliche baltiche, nell’ambito dell’adesione di queste nazioni alla NATO, Russia e Cina svolsero nel mar Mediterraneo esercitazioni navali congiunte. Nuove esercitazioni navali tra parte della flotta russa e quella cinese si svolsero nel mese di agosto nell’oceano Pacifico dove venne anche simulata l’occupazione di un’isola da parte di marines russi e cinesi. Al termine delle esercitazioni il Ministro della difesa russo Sergei Shoigu dichiarò: “…lo scopo principale di addestrare le nostre forze con i cinesi è di formare un sistema collettivo di sicurezza regionale, visti i tentativi americani di rafforzare la loro presa politica e militare in Asia e nel Pacifico.”[5] Più recentemente, nel mese di aprile 2018, il Ministro della difesa cinese Fenghe, invitato a Mosca in occasione della Conferenza sulla sicurezza internazionale ha dichiarato: “L’alto livello dello sviluppo dei nostri rapporti bilaterali [ndr: russo-cinesi] nonché la ferma determinazione delle nostre forze armate a rafforzare la cooperazione bilaterale (…) serve a far capire agli americani gli stretti rapporti tra le forze armate cinesi e russe…”.
La Russia con l’inizio della crisi ucraina aveva fatto il suo ritorno sulla scena politica internazionale che si è rafforzato ulteriormente con il peggiorare della crisi in Siria.
Non fu un caso che l’esercitazione navale congiunta tra russi e cinesi si svolgesse nel mar Mediterraneo. Parte della flotta russa era ed è infatti di stanza in Siria dagli anni Cinquanta, quando l’allora governo siriano concesse in modo permanente una base navale (a Tartus) e una aerea (a Khmeimim) all’Unione Sovietica e rinnovò l’accordo successivamente con la Russia. Dopo la nascita dello Stato di Israele, i Paesi arabi della regione chiesero un aiuto militare all’Unione Sovietica nel tentativo di osteggiare la nuova nazione sostenuta dagli Stati Uniti e dai governi europei. Da allora la Russia ha sempre mantenuto stretti rapporti con le nazioni della regione, in particolare con la Siria, suo fedele alleato. Nasce da qui la presenza in Siria di truppe russe apertamente schierate con il governo del dittatore Assad. La crisi siriana meriterebbe una analisi a parte; qui basti segnalare come dal 2010 in Siria è in atto una guerra civile che punta a far cadere il governo di Assad. Ma nel contempo in Siria parte del territorio è stato occupato dal sedicente Stato islamico (ISIS) combattuto sia dai sostenitori di Assad come dai suoi oppositori, per esempio i Curdi, che però a loro volta rivendicano la nascita di un proprio Stato indipendente dalla Siria e per questo osteggiano Assad e i russi. A complicare la situazione siriana vi è il fatto che parte del territorio che i curdi rivendicano è anche in territorio turco che non vuole nel modo più assoluto la nascita di uno Stato curdo. In questo contesto tutte le nazioni sono d’accordo nel combattere in Siria per respingere la nascita di uno Stato islamico, ma per il resto è una guerra di tutti contro tutti ove gli Stati Uniti, sostenuti da Francia e Gran Bretagna, si battono per la caduta di Assad e contestano alla Russia il sostegno a un dittatore. Nel contempo i russi dichiarano che via Assad il paese precipiterebbe nel caos totale, come già accaduto in Libia o in Iraq. La crisi siriana ha inoltre favorito l’avvicinamento della Russia alla Turchia e all’Iran che, seppur con motivazioni e ambizioni diverse, appoggiano il governo di Assad. Ma la novità importante è che lo scorso 3 aprile la Turchia abbia acquistato un sistema missilistico proposto dalla Russia. La Turchia è Paese membro della NATO e per numero di militari è secondo solo agli USA: non è un segnale incoraggiante il fatto che acquisti un sistema missilistico dal potenziale nemico. Una frattura definitiva in seno alla NATO aprirebbe scenari allarmanti per l’intera regione e non solo. La Russia, anche in questo caso, ha giocato d’astuzia politica cercando di approfondire il solco che da tempo divide la Turchia e gli Stati Uniti sul tema siriano, nonché la Turchia e l’Unione europea sul tema della sua adesione all’Unione e sul tema dei profughi.
Le crisi in Ucraina e in Siria hanno rilanciato il ruolo internazionale della Russia di Putin che, per contrastare le sanzioni degli occidentali, non esita a finanziare anche i movimenti sovranisti che contestano l’Unione europea chiedendo un ripristino di sovranità perdute. Così mentre la Russia si rafforza nel proprio ruolo, l’Unione europea si indebolisce. L’aver accettato l’adesione dei paesi dell’Est all’indomani del crollo dei governi comunisti è stato certamente un segno di solidarietà verso queste nazioni, ma nel contempo è stato un segno di debolezza non aver anche rafforzato le proprie istituzioni dotandosi di un governo e di una propria politica estera. L’Unione europea ha preferito mantenere il suo status quo e seguire in campo internazionale le scelte degli Stati Uniti. Certamente il corso della storia sarebbe stato ben diverso se, all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, l’Unione europea avesse avviato un progetto di consolidamento delle proprie istituzioni e avesse avviato da subito un progetto di stretta collaborazione in campo economico e politico con la nuova Russia, che ne aveva un gran bisogno nella fase di totale disorientamento dopo il crollo del modello sovietico. Ma la storia non si fa né con i ma né con i se, così i ritardi dell’Unione europea gravano sul mondo intero dando ancor più spazio ad una politica estera della Russia che non teme di apparire aggressiva. Quel che è certo è che la Russia, come grande potenza, è tornata.
Stefano Spoltore
[1] Secondo la Costituzione sovietica il segretario del PCUS di diritto diventava anche Presidente dell’URSS.
[2] Armenia, Azerbajan, Bielorussia, Georgia, Kazakistan, Kirghizistan, Moldavia. Tagikistan, Ucraina, Uzbekistan e le tre Repubbliche Baltiche di Estonia, Lettonia e Lituania.
[3] Nell’est dell’Ucraina, nel Donbass, era concentrata l’intera industria aerospaziale e missilistica dell’ex-URSS.
[4] Per una analisi della crisi Ucraina si veda S. Spoltore, L’Ucraina tra Est e Ovest, Il Federalista, n. 1-2 (2014), p. 87.
[5] 20 agosto 2015.
Anno LX, 2018, Numero 1, Pagina 50
GESTIRE L’EMERGENZA CLIMATICA IN EUROPA:
NON SI TRATTA SOLO DI RIDURRE LE EMISSIONI DI CO2
E’ ormai acquisito che la principale causa dell’effetto serra e delle sue conseguenze sul clima del nostro pianeta sta nel progressivo accumulo di anidride carbonica (CO2)[1] nell’atmosfera causato dal fatto che la quantità di questo gas immessa nell’atmosfera dalle attività umane (combustione di fossili — carbone, petrolio e suoi derivati —, produzione di cemento e agricoltura) supera la capacità di assorbimento da parte dei meccanismi naturali (scioglimento del gas nelle acque degli oceani, fissazione da parte degli organismi fotosintetici).[2] L’obiettivo di limitare urgentemente le emissioni di CO2, attraverso la ricerca e la diffusione di fonti di energia alternative e rinnovabili e la delineazione di un nuovo modello di sviluppo basato sul risparmio energetico, consentendo allo stesso tempo la crescita dei paesi in via di sviluppo, si è imposto prepotentemente all’attenzione dell’opinione pubblica ed è stato l’oggetto di accordi tra i governi a livello mondiale nelle conferenze sul clima che si sono succedute negli ultimi anni sotto l’egida delle Nazioni unite.[3] Il protocollo di Kyoto,[4] pur fissando obiettivi vincolanti di riduzione nelle emissioni di gas ad effetto serra a carico dei paesi industrializzati (riduzione del 5% rispetto ai valori del 1990 entro il 2012 e del 18% entro il 2020), si sta rivelando largamente insufficiente.[5] L’accordo di Parigi del 2015,[6] adottato dalla COP21 e destinato ad entrare in vigore nel 2020, per quanto riguarda la riduzione delle emissioni di gas serra si pone come obiettivo di “mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli pre-industriali, e [di] proseguire l’azione volta a limitare l’aumento a 1,5 °C rispetto ai livelli pre-industriali” entro la fine del secolo, grazie a obiettivi di contenimento delle emissioni quantificati da ciascuno dei 195 stati partecipanti con l’impegno di rispettarli. Con lo stesso tipo di approccio gli accordi di Parigi affrontano i problemi dell’aumento della capacità di adattamento agli effetti negativi dei cambiamenti climatici e della coerenza dei flussi finanziari “con un percorso che conduca a uno sviluppo a basse emissioni gas ad effetto serra e resiliente al clima”.[7]
Inoltre, l’osservazione che gli idrofluorocarburi (HFC) — utilizzati in sostituzione dei cloroflurocarburi (CFC) nei sistemi di refrigerazione, responsabili dell’ampliamento del “buco nell’ozono” e banditi con il Protocollo di Montreal[8] — contribuiscono all’effetto serra in misura addirittura maggiore della CO2, ha portato nel 2016 a un emendamento dell’accordo di Montreal (accordo di Kigali) che vi include gli HFC e che dovrebbe portare entro 2100 ad una riduzione di 0,5 °C della temperatura del pianeta.[9]
Tuttavia diversi studi dimostrano che gli impegni previsti da questi accordi, pur permettendo un rallentamento dell’accumulo di CO2 nell’atmosfera, sono lontani dall’essere in grado di raggiungere gli obiettivi che si propongono.[10],[11] A questa intrinseca debolezza si aggiungono il crescente disordine internazionale che mina l’impegno dei governi nel rispettare gli impegni presi e la minaccia degli Stati Uniti (uno dei principali produttori di gas ad effetto serra) di recedere dagli accordi di Parigi ventilata dal Presidente Trump. L’Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite è molto esplicito: “Migliorare le istituzioni, così come aumentare il coordinamento e la cooperazione nella governance possono contribuire a superare gli ostacoli regionali per quanto riguarda la riduzione [dei livelli di gas ad effetto serra],[12] l’adattamento [ai cambiamenti climatici] e la riduzione dei rischi di disastri. Nonostante la presenza di un ventaglio di istituzioni multilaterali, nazionali ed infranazionali rivolte alla riduzione e all’adattamento, le emissioni globali di gas ad effetto serra continuano ad aumentare e le necessità di adattamento già identificate non sono adeguatamente affrontate. La realizzazione di efficaci misure di attenuazione e di adattamento richiedono nuove istituzioni e soluzioni istituzionali su diversi livelli.”[13]
La creazione, in seno alle Nazioni unite, di un’autorità dotata dei poteri di definire le misure effettivamente capaci di invertire la tendenza al riscaldamento del pianeta, di effettuare una redistribuzione della ricchezza che permetta di raggiungere questo obiettivo senza penalizzare i paesi in via di sviluppo e di imporne l’applicazione a tutti gli Stati, appare, tuttavia, irrealizzabile al momento. Il quadro internazionale attuale è infatti caratterizzato da crescenti tensioni, da una forte frammentazione e dalla mancanza di una leadership autorevole e lungimirante. E’ anche evidente che l’Europa, se si unisse, potrebbe fare molto per migliorare la situazione; ma al momento si tratta di u\na prospettiva che non si è ancora concretizzata.
Stante la situazione, dunque, anche nella migliore delle ipotesi, sembra certo che nei prossimi decenni l’umanità si troverà a dover fronteggiare le conseguenze di un peggioramento dell’effetto serra.
Le conseguenze dei cambiamenti climatici sono estremamente complesse ed interconnesse e quindi difficilmente prevedibili in dettaglio; riguardano sia l’ambiente fisico, sia la biosfera; si manifestano sia con fenomeni puntuali, sia con processi di lungo periodo, e sono destinate ad interferire pesantemente con tutti gli aspetti della vita umana: la loro gestione investe quindi sia i singoli Stati al loro interno, sia i rapporti internazionali.[14] Le caratteristiche di tali effetti, nella maggior parte dei casi, variano a seconda della zona geografica, in quanto sono influenzate non solo da variabili climatiche, ma anche dalla natura del territorio, da fattori economici e sociali, a loro volta espressione delle forti diseguaglianze di sviluppo delle varie parti del mondo che si riflettono sia sulla vulnerabilità agli eventi atmosferici, sia sulle possibilità di adottare misure che ne riducano gli effetti (che riducano la vulnerabilità alle variazioni climatiche) o che prevengano in qualche misura il manifestarsi di tali effetti o addirittura consentano di sfruttare il loro verificarsi (adattamento).[15] Inoltre, trattandosi di fenomeni non lineari, dei cui meccanismi di compensazione non si conosce il limite di rottura, possono dare origine in maniera imprevedibile a fenomeni catastrofici irreversibili.
Tutti gli studi sugli effetti del riscaldamento globale indicano come principale conseguenza dell’effetto serra le modificazioni del ciclo dell’acqua. Aumento dell’umidità atmosferica, scioglimento dei ghiacci e diminuzione della copertura nevosa, aumento della frequenza di precipitazioni di forte intensità intervallate da lunghi periodi di siccità si manifestano con diverse caratteristiche nelle diverse parti del globo.[16]
Nel caso dell’Europa, l’aumento delle temperature medie ha già cominciato a manifestare effetti sull’agricoltura: sono commercializzate banane e avocado coltivati in Italia, sono in calo le rese delle colture di orzo e luppolo in Belgio e nella Repubblica Ceca, mentre i produttori di champagne francesi ipotizzano un graduale spostamento verso nord delle coltivazioni di fronte a un aumento medio delle temperature nelle attuali zone di coltura di 1,3 °C negli ultimi 30 anni.[17] Tuttavia, stando alle proiezioni del Centro comune di Ricerca dell’UE (JCR), mentre in assenza di interventi sulle emissioni di CO2 si avrebbe entro la fine del secolo un calo della produttività agricola a livello dell’UE del 10%, se venissero raggiunti gli obiettivi degli accordi di Parigi le rese dell’agricoltura in complesso non diminuirebbero.[18]Questi effetti relativamente limitati sarebbero legati al fatto che un aumento della produttività agricola nell’Europa settentrionale (a causa dell’aumento delle temperature) compenserebbe in parte la sua diminuzione nell’Europa meridionale (legata soprattutto a prolungati periodi di siccità).
Nell’ipotesi che prosegua l’attuale trend di aumento dell’effetto serra, tuttavia, in Europa ci si attende un raddoppio dei danni causati da inondazioni soprattutto in Inghilterra, Irlanda e nei paesi dell’Europa centrosettentrionale: nel 2080 (tenendo conto della crescita economica e demografica) i danni, a seconda del modello utilizzato per la previsione, sarebbero compresi tra 70 e 100 miliardi di euro all’anno. Se da oggi al 2080 fosse adottata un’efficace politica del territorio (al costo di circa 8 miliardi di euro all’anno), i danni sarebbero ridotti di più di 50 miliardi all’anno. Nell’Europa del sud, al contrario, a causa dell’aumento dei periodi siccità, associati alla diminuzione delle riserve idriche rappresentate dalle nevi e dai ghiacciai delle montagne (sempre che continui l’attuale trend), la superficie di terreno coltivabile danneggiata aumenterebbe di sette volte.[19] In questa prospettiva, tenuto conto della struttura orografica del continente europeo, sarebbe necessario realizzare una pianificazione del territorio articolata e coordinata ai diversi livelli che sappia integrare le necessità delle varie porzioni dei bacini fluviali che travalicano i confini degli Stati, nel quadro di un governo dell’economia e del territorio a livello europeo. La Strategia di adattamento ai cambiamenti climatici dell’UE, adottata dalla Commissione europea nel 2013, è lungi dal realizzare un obiettivo di questo genere e si limita a stimolare l’azione degli Stati membri, a promuovere maggior consapevolezza nelle decisioni a proposito dell’adattamento ai cambiamenti climatici e a stimolare l’adattamento nei settori economici più sensibili (agricoltura, pesca, politiche di coesione), senza prevedere specifici finanziamenti a questo scopo e limitandosi a raccomandare di reindirizzare in questa direzione fondi già previsti nel bilancio pluriennale sotto altre voci.[20]
Accanto alle conseguenze dirette dei cambiamenti climatici sul territorio europeo, vanno anche considerate quelle indirette, legate alle ripercussioni sull’Europa dei cambiamenti che colpiscono altre parti del mondo. Queste riguardano soprattutto l’Africa e il Medio oriente, dove l’effetto serra sta causando danni alle risorse idriche ed agricole, che si sommano a quelli delle guerre, dell’inquinamento, dello sfruttamento intensivo delle risorse naturali da parte delle imprese multinazionali. Uno studio pubblicato da ricercatori dell’università del Maryland all’inizio del 2018[21] ha dimostrato che nel corso del XX secolo in Africa si è verificato un aumento delle temperature prevalentemente nelle stagioni secche soprattutto nella parte settentrionale del continente, una diminuzione delle precipitazioni sulla regione delle sorgenti del fiume Niger e sul bacino del fiume Congo, mentre se ne è verificato un aumento in corrispondenza dei grandi laghi africani (sebbene nei primi anni del XXI secolo si sia verificata nello Zimbawe una grave carestia, causata da una persistente siccità e dalla scarsezza di riserve idriche). Lo studio, soprattutto, ha messo in luce che la superficie del deserto del Sahara, nell’ultimo secolo, è aumentata del 10%, sia in direzione del Mediterraneo, sia verso sud, invadendo la savana subsahariana del Sahed, riducendo la superficie utilizzabile per l’allevamento del bestiame e per l’agricoltura. La superficie del lago Chad — principale risorsa idrica della regione subsahariana, che rifornisce Camerun, Nigeria, Niger, Chad, Repubblica Centroafricana e Libia per un totale di più di 50 milioni di abitanti, a cui si sono aggiunti quasi tre milioni di rifugiati sfuggiti alla guerra civile in Nigeria — si è ridotta a un decimo (da 25.000 a 2.500 km2) tra il 1963 e il 2013.[22]
Questa situazione ambientale, sommata alle guerre civili che insanguinano tutta la regione subsahariana, ha innescato una crisi umanitaria che ha generato, nell’intera Africa, più di 17 milioni di rifugiati, di cui solo il 3,3% ha raggiunto l’Europa[23] e, col perdurare del peggioramento climatico, è destinata ad aggravarsi. E’ quindi inevitabile un aumento del numero dei “migranti climatici” (la cui protezione, tra l’altro, non è specificamente contemplata dalla Convenzione di Ginevra sullo statuto dei migranti). Per l’Europa, si tratta di una sfida pari, se non addirittura superiore, a quella degli effetti diretti dell’effetto serra. Controllare i flussi migratori, respingere i migranti ai paesi d’origine (o collocarli in “paesi sicuri”, destinati a divenire sempre meno numerosi), o redistribuire i rifugiati tra diversi Stati membri dell’Unione per alleviare la pressione sui paesi di ingresso sono solo palliativi di breve durata. La vera sfida è avviare un piano di aiuti finanziari e tecnologici di riassetto e protezione del territorio che, spingendo gli Stati africani a collaborare fra di loro, riesca simultaneamente a realizzare politiche in grado di mitigare gli effetti delle modificazioni climatiche e a stimolare un processo di unificazione del continente. Un esempio potrebbe essere la risposta all’appello fatto, alla fine del 2017, dal Chad e dalla Nigeria all’Unione africana e alla comunità internazionale per raccogliere 50 miliardi di dollari necessari per rifornire di acqua il lago Chad sfruttando il fiume Ubangi.[24]
Ma una risposta coerente, efficace e duratura a questi problemi non può essere realizzata attraverso la sola collaborazione tra gli Stati membri dell’UE, ciascuno spinto dai propri ristretti interessi: richiede un governo europeo dotato del potere e delle risorse per impostare politiche europee di ampio respiro.
Massimo Malcovati
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[1] Oltre all’anidride carbonica contribuiscono all’effetto serra anche il metano (CH4), l’ossido nitroso (N2O) e gli idrocarburi alogenati (idrofluorocarburi, perfluorocarburi, esafluoruro di zolfo).
[2] Intergovernmental Panel on Climate Change [Core Writing Team, R.K. Pachauri and L.A. Meyer (eds.)], Climate Change 2014 – Synthesis Report, consultabile a questo indirizzo. L’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) è l’organismo delle Nazioni unite incaricato della valutazione dei dati scientifici relativi ai cambiamenti climatici, istituito nel 1988 dal Programma sull’ambiente delle Nazioni unite e dall’Organizzazione meteorologica mondiale. Ha 195 Stati membri. L’IPCC pubblica periodicamente un rapporto sullo stato della conoscenza sulle variazioni climatiche: l’ultimo è il 5° (AR5), del 2014. La pubblicazione del prossimo è prevista per il 2020.
[3] La prima è stata la Conferenza di Rio (United Nations Conference on Environment and Development) del 1992: essa produsse la Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change,UNFCCC o semplicemente FCCC, spesso indicata come “Accordi di Rio”), trattato internazionale che, pur non richiedendo in modo vincolante riduzioni nelle emissioni dei gas responsabili dell’effetto serra, prevedeva che gli Stati firmatari (le cosiddette “Parti”) convocassero conferenze annuali (Conferenze delle parti, Conferences of the Parties, COP) che avrebbero elaborato atti (“Protocolli”) per fissare obiettivi vincolanti di riduzione nelle emissioni.
[4] Il protocollo di Kyoto è stato redatto nel dicembre del 1997 dalla terza Conferenza della Parti (COP3) ed è entrato in vigore nel 2005, la scadenza iniziale del 2012 è stata prorogata al 2020 dall’emendamento di Doha. Il testo è scaricabile a questo indirizzo. E’ stato sottoscritto dagli Stati Uniti alla fine del mandato del Presidente Clinton, ma non è mai stato ratificato dal Congresso degli Stati Uniti, che quindi non sono vincolati alla sua attuazione.
[5] Intergovernmental Panel on Climate Change, Climate Change 2014 – Synthesis Report, op. cit..
[6] Il testo italiano dell’Accordo di Parigi è scaricabile da questo sito.
[7] Accordo di Parigi, op. cit., art. 2.
[8] Il Protocollo di Montreal, sottoscritto da 198 paesi ed entrato in vigore nel 1989, ha portato alla riduzione del 98% nella produzione dei gas responsabili dell’ampliamento del “buco nell’ozono” riuscendo di fatto ad arrestarlo.
[9] L’Accordo di Kigali vincola gli Stati partecipanti a ridurre progressivamente l’utilizzazione degli HFC. La riduzione dovrebbe iniziare a partire dal 2019 da parte dei paesi più industrializzati (USA, UE, Regno Unito), dal 2024 da parte di Cina, Brasile e alcuni Stati africani e dal 2028 dal resto. Cfr. ClearIAS Prelims Test Series 2018, Kigali Agreement: Simplified.
[10] United Nations Environment Programme, The Emissions Gap Report 2016, November 2016.
[11] I risultati di un team internazionale di ricercatori, pubblicati su Nature (una delle più autorevoli riviste scientifiche al mondo), indicano che in realtà il pieno rispetto degli impegni ipotizzati dall’Accordo di Parigi porterebbe la temperatura media globale nel 2100 a valori superiori di 2,5-3 °C rispetto all’era pre-industriale: J. Rogelj, et al., Paris Agreement climate proposals need a boost to keep warming well below 2C, Nature, 534 (2016), pp. 631–39, .
[12] Il termine inglese comunemente usato per indicare la riduzione dei livelli di gas ad effetto serra ottenuta sia riducendone le emissioni, sia aumentandone l’immagazzinamento, è mitigation.
[13]Intergovernmental Panel on Climate Change, Climate Change 2014, op. cit., p. 94.
[14] Gli studi a questo proposito sono numerosissimi. Tra i più recenti, accanto al Climate Change 2014, op. cit., vale la pena di ricordare Epicenters of Climate and Security: The New Geostrategic Landscape of the Anthropocene, rapporto pubblicato nel 2017 dal Center for Climate and Security (organo del Council on Strategic Risks statunitense) in collaborazione con The American Security Project, la Carnegie Mellon University, The Planetary Security Initiative, lo Skoll Global Threats Fund, e l’Oxford University School of Geography and Environment. E’ scaricabile a questo indirizzo.
[15] Intergovernmental Panel on Climate Change, Climate change 2014, op. cit., pp. 49 e 54.
[16]Intergovernmental Panel on Climate Change, Climate Change 2014, op. cit..
[17] Coldiretti, Il clima cambia agricoltura: a tavola banane e avocado made in Italy, dicembre 2015.
[18] J.C. Ciscar et al., Climate Impacts in Europe – The JRC PESETA II Project, JRC Scientific and Policy Reports, Luxembourg, Publications Office of the European Union, 2014, p. 16.
[19]J.C. Ciscar et al., Climate Impacts in Europe, op. cit., pp. 16-17.
[20] European Commission, The EU strategy on adaptation to climate change, 2013.
[21] N. Thomas and S. Nigam, Twentieth-Century Climate Change over Africa: Seasonal Hydroclimate Tends and Sahara Desert Expansion, Journal of Climate, 31, n. 9 (2018).
[22] R. Bishop, African leadership in a time of climate risk, in A. Suy (Ed.), Foresight Africa – Top Priorities for the Continent in 2017, Washington, Brookings, 2017, pp. 76-91, in particolare p. 83.
[23] P. Kingsley, The small African region with more refugees than all of Europe, The Guardian, 26 November 2016.
[24] Nigeria, Chad seek $50 billion to recharge shrinking Lake Chad, Premium Times, 29 January, 2017.
Anno LIX, 2017, Numero 3, Pagina 162
CITTA’ E PROGRESSO
NELL’ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE E DELL’UNIFICAZIONE EUROPEA
Con la globalizzazione è tornata d’attualità la grande questione, messa in luce da Lewis Mumford nel secolo scorso, del ruolo della città nel processo di crescita e avanzamento della civiltà ed è venuta la risposta alla domanda che è alla base della sua opera, e cioè se l’evoluzione urbana, partita da una città che era, simbolicamente, un mondo, si sarebbe conclusa con un mondo “diventato, per molti aspetti politici, una città”. L’analisi di Mumford costituisce non solo un approfondimento dell’intuizione di Adam Smith, secondo il quale “la causa del progresso nelle capacità produttive del lavoro, nonché della maggior parte dell’arte, destrezza e intelligenza con cui il lavoro viene svolto e diretto, sembra sia stata la divisione del lavoro”,[1] ma ha integrato e contribuito a chiarirla. Questo perché l’intuizione di Smith sui fattori che hanno influito sulla produttività spiega perché l’andamento della produttività storicamente sia stata e resti così diversa nel tempo e nello spazio e perché alcune città e regioni siano diventate più ricche e centrali di altre. Ma essa non spiega che cosa c’è alla base del processo di ascesa e di declino delle economie-mondo a dominazione urbana, né il ruolo che alcune città hanno avuto ed hanno nel promuovere lo sviluppo nell’ambito degli Stati. Sviluppo che, come avrebbe invece ben spiegato Lewis Mumford,[2] è diverso per una città-Stato del XV secolo quale Venezia per esempio, rispetto a una città del XVIII secolo come Londra, cioè “dell’enorme città che dispone(va) di tutto il mercato nazionale inglese, e quindi delle isole britanniche, fino al giorno in cui, essendo mutate le proporzioni del mondo, questo agglomerato di potenza non si è ridotto alla piccola Inghilterra” di fronte ad un sistema urbano e politico continentale come quello degli Stati Uniti.[3] La globalizzazione sta mettendo ogni individuo ed ogni istituzione di fronte ad un paradosso. Quello secondo il quale la democrazia, la sovranità nazionale e l’integrazione economica globale diventano mutualmente incompatibili, in quanto “anche combinando due tra di esse, non potremo mai più averle tutte e tre completamente”.[4] Questo paradosso rende difficile colmare il deficit democratico nel governo delle cose e non serve a contrastare il crescente indebolimento della legittimità delle istituzioni un po’ in tutti i continenti e su scala mondiale, alimentando l’inefficienza e l’instabilità sociale e politica che sono alla base delle crisi di legittimazione delle istituzioni a livello mondiale, continentale, nazionale e locale. Crisi alle quali si è finora cercato di rispondere riaffermando, anziché cercando di superare, la centralità del funzionamento dello Stato nazionale,[5] cioè dell’ultima grande innovazione istituzionale adottata dall’umanità per governare il territorio ed il destino delle comunità locali. Un paradosso che, pur riconoscendo che l’equilibrio delle forze globali sta diventando sempre più centrifugo, in un mondo in cui gli USA stanno perdendo il loro ruolo a livello mondiale, e dove l’Europa resta prigioniera delle resistenze dei suoi Stati a dotarsi di un governo continentale efficace, ripropone per molti la necessità di recuperare la sovranità su scala nazionale, o addirittura a livello inferiore, come ha fatto a suo tempo un’altra grande studiosa del fenomeno urbano, Jane Jacobs. Per rimettere le città al centro del governo dello sviluppo la Jacobs arrivò a proporre il recupero della sovranità monetaria a livello cittadino, sperando di salvare in questo modo il ruolo propulsivo delle città, recuperando nel contempo una leadership mondiale da parte di alcuni Stati per mantenere la pace e garantire il funzionamento del mercato (ma senza spiegare quali Stati e con quali strumenti farlo in un mondo sempre più frammentato istituzionalmente). Questo rimedio “casalingo”, per usare un’immagine critica usata a suo tempo dall’urbanista Lewis Mumford, appare sempre più come il tentativo di far fronte con strumenti vecchi, che hanno già mostrato storicamente tutti i loro limiti, ad una sfida del tutto nuova: quella di promuovere e conciliare lo sviluppo e la crescita materiale e civile dell’umanità coordinando lo sviluppo del territorio tra più livelli di governo. Un problema questo rimasto finora senza soluzione, nonostante i contributi forniti da Smith, Mumford, Braudel sulla centralità del ruolo delle città nello sviluppo della civiltà. Per questo resta attuale domandarsi come sta cambiando la dimensione urbana, e quali sono le caratteristiche della città che, nei loro aspetti sociali, politici ed economici, hanno determinato e continuano a determinare lo sviluppo ed il benessere delle società.
E’ un dato di fatto che ancora oggi lo stato dell’economia mondiale dipende da quello di qualche decina di città, e che lo stesso destino delle economie nazionali dipende a sua volta da pochi sistemi urbani regionali e sub-nazionali.
Le città sono tuttora diseguali in termini di politiche abitative, di politiche per la sicurezza o per la gestione dei flussi migratori, dovute a scelte urbanistiche che, più che alla pianificazione, sono tese a massimizzare i profitti o ad assecondare trend politici e sociali dai quali dipendono gli equilibri di potere sui quali si basa il governo dei territori. In termini di sicurezza e di pianificazione, le citt<à sono diventate dei luoghi sempre meno vissuti da chi vi abita. Luoghi con caratteristiche commerciali, ma senza un carattere preciso, con politiche urbane caratterizzate da contraddittori interventi nel campo dell’integrazione sociale e della promozione della competitività economica.
Detto ciò, le città sono state e restano gli incubatori dello sviluppo e della civiltà[6] a livello prima locale, poi regionale, infine nazionale e continentale. Esse sono i punti materiali di radicamento e di irraggiamento delle politiche dei grandi poli di controllo e sviluppo dell’economia mondiale. Storicamente il continente in cui questo processo è nato e resta più radicato è quello europeo, e ciò costituisce una sfida storica oltre che politica per coordinare gli strumenti di governo del territorio e dell’economia dal livello locale a quello continentale e sovranazionale: una sfida istituzionale che può essere affrontata solo adottando i principi federali.
Per questo resta attuale il problema di studiare lo sviluppo dei sistemi urbani in relazione a quello delle istituzioni su cui si è basato e si basa il governo del territorio e della società.
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L’evoluzione dei vari sistemi urbani non è e non è stata semplicemente il prodotto dell’industrializzazione e della modernizzazione, bensì è stata e resta la precondizione per lo sviluppo di questi fenomeni.[7] L’aspetto demografico ha avuto e conserva la sua importanza nella formazione delle gerarchie tra centri urbani in termini di servizi e beni prodotti. Ma storicamente, come hanno evidenziato Mumford e Braudel, le innovazioni tecnologiche e scientifiche si sono affermate e diffuse a partire da ambienti urbani preesistenti, non in zone rurali o desertiche. Questo è stato vero sia in passato ai tempi dell’invenzione della stampa a caratteri mobili, sia più recentemente per altre innovazioni come Internet e la diffusione degli smartphone. In definitiva è stato lo sviluppo di relazioni ed interazioni tra individui nelle e tra le città a produrre innovazione, progresso e benessere. E solo nella misura in cui si sono stabilite delle relazioni di convivenza pacifica e comunitaria a livello locale, estese poi ad un livello superiore regionale, nazionale o continentale, la ricchezza della vita urbana ha contribuito a generare la ricchezza delle nazioni.[8] Dove e quando ciò non è accaduto, i sistemi urbani regionali sono rimasti immaturi, come nell’Italia meridionale e in gran parte del mondo extra-europeo (basti pensare all’America latina, a gran parte dell’Asia, all’Africa) con conseguenze negative sia sullo sviluppo delle rispettive economie regionali e nazionali, sia sul progresso del livello di benessere delle popolazioni, generando squilibri territoriali e acuendo i contrasti tra regioni più ricche e più povere, tra aree urbane e zone rurali, tra regioni industrializzate ed aree sottosviluppate.
Lo storico dell’urbanistica Peter Hall ha individuato quattro distinte espressioni dell’innovazione urbana: la crescita artistica, di cui le più grandi espressioni sono state Atene, Firenze, l’Inghilterra elisabettiana e Vienna nell’800-primi ‘900, con l’interazione tra le esigenze di rappresentazioni teatrali, l’architettura, la produzione di macchine da teatro per riprodurre suoni o effetti e delle maschere; il progresso tecnologico, attraverso l’interazione tra cultura e tecnologia come avvenuto anche successivamente nel rinascimento italiano, nell’Inghilterra elisabettiana e sul continente europeo; la rivoluzione industriale come avvenuto a Manchester in Europa e a Detroit negli USA, fino all’avvento dei computer a Palo Alto; la soluzione architettonica di problemi creati dall’alta concentrazione demografica, in termini abitativi e di igiene pubblica, come si cercò di fare già a partire dalla Roma imperiale (ma in modo inadeguato a causa dell’arretratezza delle caratteristiche dei materiali, basti pensare alle gigantesche opere per portare l’acqua nei centri abitati). Dalle forze sprigionate da queste quattro componenti del progresso urbano sarebbero scaturite e continuano a scaturire le energie che hanno caratterizzato e caratterizzano tuttora la crescita urbana nelle diverse parti del mondo.[9] In particolare dall’esperienza storica si possono trarre tre esempi di sviluppo di regioni urbane: nei secoli avanti Cristo in Grecia, con Atene, come analizzato da Hall, con l’allestimento degli spettacoli teatrali ed il coinvolgimento di tutti gli abitanti della città; in Italia nel rinascimento, in particolare nella pianura padana, con l’interazione tra produzione e commercio agricoli e produzioni artigianali, come analizzato e descritto nelle lezioni presso l’Università di Pavia dallo studioso di problemi urbani Gianfranco Testa, e nella Germania meridionale, come descritto dal geografo Walter Christaller;[10] nelle Fiandre e nei Paesi Bassi dal Rinascimento in poi per rendere più vivibili e confortevoli le abitazioni in tutte le stagioni, nonostante la rigidità del clima.[11] Questi flussi di merci e di persone, e le interazioni nelle e tra città sono avvenuti nel tempo in funzione dei mezzi di trasporto e di comunicazione resi disponibili dallo sviluppo tecnologico. Per questo diventa importante capire quali sono oggi le prospettive di sviluppo del mezzo di trasporto che, più d’ogni altro, ha influito sulla configurazione urbana e sulla mobilità nelle e tra le città nell’ultimo secolo: l’automobile con il motore a combustione interna.[12] Il secondo fattore di mutamento dell’ordine urbano da tenere presente è rappresentato dall’accrescimento demografico delle città prima con l’immigrazione attraverso lo svuotamento delle campagne limitrofe e, successivamente, con le massicce migrazioni da un continente ad un altro. Questo fenomeno ha assunto connotati e significati diversi, a secondo della prospettiva culturale in cui ci si pone. Basti pensare che esse vennero considerate delle “invasioni barbariche” in epoca romana, quando in Germania erano invece considerate delle “migrazioni di popoli” (Völkerwanderung). Le città, proprio per le opportunità che offrivano ed offrono in termini di occupazione, migliori e più sicure prospettive di condizioni di vita, sono state e restano degli immensi magneti e contenitori di individui.[13] Per questo l’Europa e le sue città, soprattutto per il ruolo che hanno storicamente giocato nel diffondere nel mondo modelli urbani e di governo del territorio e nell’uso dei mezzi di trasporto, hanno una responsabilità storica per contribuire a costruire un sistema istituzionale globale in cui diversi livelli di governo possano interagire in modo coordinato e democratico, preservando un certo grado di indipendenza. Ebbene, questo sistema istituzionale esiste, ed è già stato sperimentato su scala ridotta, e altro non è che quello federale.
Questo è il campo di indagine culturale e l’ambito d’azione politica che questa rivista intende continuare a contribuire a definire e promuovere affrontando il tema urbano.
Franco Spoltore
[1] Adam Smith La ricchezza delle nazioni, Roma, Grandi Tascabili Economici Newton, 1995, p. 66.
[2] Lewis Mumford, prefazione al libro La città nella storia, Milano, Tascabili Bompiani, 1967, vol. 1. “I bisogni e gli impulsi che hanno spinto gli uomini a vivere nelle città possono ritrovare – ad un livello ancora più alto – tutto ciò che Gerusalemme, Atene, Firenze, sembravano un tempo promettere?”
[3] Fernand Braudel, Civilisation matérielle, économie et capitalisme (XV-XVIII siècle). Le temps du monde, Paris, Librairie Armand Colin, 1979 (trad. it. I tempi del mondo, Torino, Einaudi, 1982). Nell’esporre le regole tendenziali che “precisano e definiscono anche i loro rapporti con lo spazio”, Braudel scrive: “Non esiste economia-mondo senza uno spazio proprio e per più ragioni significante: esso ha dei confini, e la linea che lo contorna gli dà un senso particolare, come le coste definiscono il mare; implica un centro, a favore di una città e di un capitalismo già dominante, qualunque ne sia la forma. La moltiplicazione dei centri costituisce una testimonianza di giovinezza, o una forma di degenerazione o di mutazione. Sotto la spinta di forze esterne e interne possono in effetti delinearsi e quindi compiersi forme di decentramento: le città a vocazione internazionale, le ‘città mondo’, sono in continua competizione reciproca, e si sostituiscono a vicenda; ordinato gerarchicamente, tale spazio è una somma di economie particolari, alcune povere, altre modeste, una sola relativamente ricca nel proprio nucleo. Ne derivano diseguaglianze, differenze di quel voltaggio che assicura il funzionamento dell’insieme. Ne deriva quella ‘divisione internazionale del lavoro’ della quale Sweezy spiega come Marx non avesse previsto che si sarebbe concretizzata in un modello (spaziale) di sviluppo e di sottosviluppo tale da dividere l’umanità in due campi, gli have e gli have not, separati da un fossato ancora più profondo di quello che oppone borghesia e proletariato nei paesi capitalistici avanzati. Non si tratta comunque di una ‘nuova’ separazione, ma di una ferita antica, e probabilmente inguaribile. Una ferita che esisteva ben prima dei tempi di Marx” (p. 7).
[4] Dani Rodrik: “The balance of global forces is becoming more centrifugal: declining role of U.S. in global economy; EU likely to remain preoccupied with own matters; China and the other emerging powers place, if anything, greater emphasis on national sovereignty. The supply of global leadership will be in short supply… Democracy, national sovereignty and global econmic integration are mutually incompatible: we can combine any two of the three, but never have all three simultaneously and in full”.
[6] Norbert Elias, La civiltà delle buone maniere, Bologna, Il Mulino, 1982.
[7] Ad van der Woude, Jan de Vries, Akira Hayami, Urbanization in History, A Process of Dynamic Interactions, Oxford, Clarendon Press, 1990, p. 2.
[8] Un’analisi di questo aspetto è stata fatta da Jane Jacobs in Cities and the Wealth of Nations - Principles of Economic Life, Viking, Random House, 1984. Purtroppo la Jacobs, ignorando le potenzialità istituzionali di un ordinamento federale, ne ha tratto la conclusione che bisogna ristabilire la sovranità, innanzitutto monetaria, a livello cittadino, rimedio questo che invece ci porterebbe a rivivere un passato di conflitti tra città grandi e piccole oltretutto in un’era nucleare. Un rimedio casalingo, come cercò, senza successo, di spiegarle Mumford. Si veda in proposito di Franco Spoltore, I rimedi casalinghi di Jane Jacobs, Il Federalista, 29, n. 1 (1987), p. 57.
[9] Peter Hall, Cities in Civiliazation, New York, First Fromm International Paperback Edition, 2001.
[10] Walter Christaller, Le località centrali della Germania meridionale - Un’indagine economico-geografica sulla regolarità della distribuzione e dello sviluppo degli insediamenti con funzioni urbane, Milano, Franco Angeli editore, 1980.
[11] “We know little about the fuel sources available to the southern Netherlands’ cities after the Dutch Revolt, but when they began to grow again at the end of the eighteenth century they shifted to coal, available from Liège and Hainault, and pushed ahead with an extensive programme of road and canal improvements. Urbanization came later in the northern Netherlands than in Flanders and Brabant, but attained even higher levels: during the early sixteenth century 31% of the population lived in cities, and by 1675 45% of the Republic’s population were urban. In the province of Holland these figures were higher still; over half the population were urban throughout the seventeenth and eighteenth centuries. One derivation of the name ‘Holland’ is that it was originally ‘Holt-land’, i. e. woodland. By 1600, there was precious little evidence to support the plausibility of that explanation. The Republic was substantially deforested”. Ad van der Woude, Jan de Vries, Akira Hayami, op. cit. p. 11.
[12] Rivoluzione a quattro ruote, L’Internazionale 28/09/2017“La Francia e il Regno Unito hanno recentemente annunciato che vieteranno la vendita delle auto con motore a benzina o diesel a partire dal 2040. La camera bassa del parlamento olandese ha approvato una legge che vieta la vendita di queste auto dal 2025. E l’India sostiene che introdurrà un analogo divieto entro il 2030.
Anche la Cina, la principale produttrice mondiale di automobili (28 milioni di esemplari lo scorso anno, più di Stati Uniti, Giappone e Germania messi insieme), sta progettando d’imporre presto un divieto, anche se non ha ancora stabilito la data in cui questo entrerà in vigore. E a novembre la Commissione europea discuterà l’introduzione di una quota minima annua di veicoli elettrici per tutti i produttori automobilistici europei…Poco più della metà dei 98 milioni di barili di petrolio prodotti nel mondo ogni giorno è utilizzata direttamente per produrre benzina, destinata quasi solo ai veicoli a motore. Un altro 15% viene usato per produrre ‘olio combustibile distillato’, almeno metà del quale è combustibile diesel. Circa il 58% della produzione petrolifera mondiale odierna serve quindi ai veicoli a motore, ma fra 35 anni potrebbe essere azzerata.
È sicuramente questa l’intenzione di molti governi. Il Regno Unito, per esempio, prevede di consentire la circolazione solo ai veicoli a zero emissioni (se si escludono alcune auto d’epoca dotate di licenza speciale) entro il 2050, appena dieci anni dopo il momento in cui entrerà il vigore il divieto di vendere nuove auto con motori a combustione interna.La produzione di auto alimentate a benzina o gasolio sarà quindi già crollata entro la fine degli anni trenta del duemila”.
https://www.internazionale.it/opinione...
[13] Robert E. Dickinson, City and Region – A Geographical Interpretation, London, Routledge & Kegan Paul Ltd, 1964, p. 19: “The city is not merely an aggregate of economic functions. Throughout history it has been above all else a seat of institutions in the service of the people of the countryside. In the words of Lewis Mumford, ‘it is art, culture, and political purposes, not numbers, that define a city’. The city has the characteristics of what Mumford calls both a container and a magnet. The container is the physical and permanent assembly of physical structures in which the functions, processes, and purposes of the city are developed and transmitted through time. The idea of the magnet refers to the force of attraction (and repulsion) of people and institutions. It is a spatial force. With this must be associated, writes Mumford, ‘the existence of a field, and the possibility of action at a distance, visible in the lines of social force, which draw to the centre particles of a different nature’ (Lewis Mumford, The City in History, London, 1961, p. 125)”.
Anno LIX, 2017, Numero 3, Pagina 169
VENEZUELA E MERCOSUR:
LA DIFFICILE VIA VERSO LA DEMOCRAZIA
Nel 2012 il Venezuela diventava membro effettivo del Mercosur. Per la prima volta dalla sua nascita nel 1991, il Mercosur conosceva un allargamento, portando così a cinque gli Stati membri.[1]
Il nuovo ingresso nasceva però sotto cattivi auspici. L’adesione era stata sino ad allora osteggiata dal voto contrario del Paraguay che nutriva una profonda avversione sia verso la politica anti-statunitense sia verso la politica sociale dell’allora Presidente venezuelano Chavez. L’adesione si poté concretizzare solo perché il Paraguay, nel luglio 2012, venne momentaneamente sospeso dal Mercosur in applicazione della “clausola democratica”, poiché gli altri Paesi membri contestavano le modalità con cui il Presidente paraguayano Lugo era stato destituito dal suo incarico. Durante questa sospensione, il Mercosur votò l’allargamento definitivo al Venezuela. A distanza di cinque anni è il Venezuela a conoscere una sospensione, dal momento che gli altri Paesi membri hanno condannato come anti-democratiche le votazioni per l’elezione dell’Assemblea costituente volute dal Presidente Maduro, succeduto a Chavez nel 2013 dopo la sua morte: ne contestano la deriva autoritaria, la sospensione dei diritti civili e la carcerazione dei principali oppositori. La sospensione di un Paese dal Mercosur può avvenire in base al Protocolo de Usuhuaia sobre compromiso democrático del luglio 1998: il protocollo stabilisce che qualora un Paese membro venga meno alle regole della democrazia può essere sospeso dopo un voto unanime dei Parlamenti degli altri Stati membri. Nella premessa al Protocolo si afferma che “…il pieno vigore delle istituzioni democratiche costituisce condizione indispensabile per l’esistenza e lo sviluppo del Mercosur”.[2] E’ la terza volta dalla sua introduzione che viene applicata la “clausola democratica”. La prima fu nel 2001 contro il Paraguay: nel Paese vi era stato un colpo di stato militare che ebbe breve durata proprio per l’isolamento politico cui venne sottoposta prontamente la giunta militare. In anni passati i frequenti colpi di Stato nei paesi latino-americani potevano riuscire per l’appoggio diretto o indiretto che veniva garantito dalle nazioni confinanti, a loro volta rette da dittature militari. Ma negli anni Ottanta accadono due fatti importanti che cambiano il destino politico dei governi del Sud-America: la disastrosa guerra delle isole Malvinas-Falkland voluta dal regime argentino del generale Videla contro la Gran Bretagna e il crollo dell’Unione Sovietica. Per decenni la paura del comunismo aveva indotto gli USA a sostenere senza indugio anche i più odiosi regimi militari, arrivando a favorire colpi di Stato militare pur di evitare che al governo salissero partiti di ispirazione socialista[3]. Il timore che in America latina vi potessero essere nazioni come Cuba alleate dell’URSS induceva gli USA a dimenticarsi di essere una grande democrazia. La guerra dichiarata dall’Argentina alla Gran Bretagna poneva gli USA però dinanzi al dilemma di dover scegliere quale, tra due suoi storici alleati, sostenere: la scelta fu a favore della Gran Bretagna anche per lo sdegno crescente dell’opinione pubblica mondiale per le notizie che giungevano a proposito del dramma dei desaparecidos. La sconfitta militare dell’Argentina e la caduta della giunta nel 1982 ebbe un effetto domino sui vicini paesi. Fu così che nel giro di pochi mesi anche in Uruguay e Paraguay caddero le dittature militari e vennero indette libere elezioni che videro la nascita di governi democratici. Una nuova era si apriva per le nazioni sud-americane che nel contempo si affacciavano per la prima volta sullo scenario della politica internazionale. Il mondo iniziò a conoscere meglio queste nazioni anche per cause di forza maggiore: le bolle finanziarie degli anni Ottanta e Novanta in Messico e Argentina sconvolsero le borse da Tokio a Londra a New York. L’America latina era entrata comunque nel gioco dell’economia mondiale che ne scopriva anche le enormi ricchezze naturali, suscitando gli interessi delle economie emergenti, in primis la Cina e, a seguire, l’India e più recentemente la Russia.[4] Il lento processo di democratizzazione del sub-continente fu favorito dal riavvicinamento tra Argentina e Brasile. Fu grazie a questo riavvicinamento che prese corpo l’idea di una integrazione regionale con la nascita del Mercosur. Come visto in occasione del fallito colpo di stato in Paraguay nel 2001, il Mercosur ebbe lo straordinario effetto di sostenere gli sforzi di democratizzazione non solo della regione rio platense. Il consolidarsi di governi eletti liberamente indebolì l’ultimo regime militare dell’area, il Cile, che si avviò, seppur lentamente, verso un ritorno alla democrazia. Ma se le dittature sembravano diventare un ricordo, il Mercosur stentava e stenta tuttora a trasformarsi in un reale progetto politico unitario tra gli Stati membri.[5] In tutti i documenti del Mercosur, non solo quelli preparatori, si fa riferimento al modello da seguire: quello dell’Unione europea. Ma l’avvento della democrazia, il miglioramento in generale delle condizioni di vita della popolazione e i notevoli successi in campo economico all’inizio del nuovo secolo, hanno riproposto antiche divisioni, nonché i sospetti che il Brasile intendesse assumere un ruolo di leadership, specie dopo il suo ingresso nel gruppo dei BRIC che lega il Brasile a Russia, India e Cina.[6] Così con i sospetti di leadership prendono corpo antiche rivalità e l’integrazione politica prospettata inizialmente dal Mercosur continua a tardare. Nel contempo si è favorito un primo allargamento al Venezuela e se ne prospetta un secondo entro il 2020 con l’adesione della Bolivia e, forse, del Cile che sembra guardare però con maggiore interesse ad una integrazione con le nazioni che si affacciano sul Pacifico. Il risultato è che in questo modo il Mercosur si è indebolito: un allargamento senza il consolidamento di istituzioni a livello comunitario non può che rendere più fragile ogni disegno di integrazione politica,[7] come d’altronde ci insegna la stessa esperienza dell’Unione europea. Va poi segnalato che l’avvento della democrazia non ha evitato il persistere della corruzione a tutti i livelli, arrivando a colpire anche figure carismatiche come il Presidente Lula in Brasile; ma la stessa cosa è accaduta al suo successore Dilma Rousseff (accusata anche di aver falsificato il bilancio dello Stato) che ha conosciuto l’onta di un impeachment con il voto favorevole in Senato del suo stesso partito. La maledizione dell’accusa di corruzione ha pure colpito il successore della Rousseff, il suo vice divenuto Presidente, Michel Temer, che per pochi voti ha evitato a sua volta l’impeachment. Ma accuse di corruzione sono piovute anche sugli ex-Presidenti argentini Menem e Kirchner. Pesanti accuse di corruzione sono state mosse di recente anche al Presidente venezuelano Maduro. La crisi in atto in Venezuela ha però aperto un ferita in seno al Mercosur che si era manifestata sin dalla sua adesione.
Il Venezuela.
La crisi venezuelana è esplosa in modo evidente agli occhi del mondo con le violente manifestazioni di protesta popolare contro l’elezione di una nuova Assemblea costituente voluta dal Presidente Maduro che, nei propositi, deve riscrivere la Costituzione attribuendo poteri illimitati al Presidente. Le proteste popolari hanno però radici ben più profonde e risiedono nella crisi economica in cui è precipitato da alcuni anni il Venezuela. Il reddito pro capite nel 2008 era di 12.000 dollari e nel 2017 è sceso a 3.000 dollari.[8] Nel Paese mancano generi di prima necessità e giornalmente migliaia di venezuelani varcano i confini di Colombia e Brasile alla disperata ricerca di cibo e medicinali. La nazionalizzazione delle imprese voluta ai tempi di Chavez, un sistema fiscale del tutto inefficiente e il crollo del prezzo del petrolio e della sua produzione su cui si basano per oltre l’80% le entrate del Paese, hanno travolto l’economia nazionale. Alle proteste popolari le risposte di Maduro sono state un rafforzamento del sistema poliziesco. La scelta inoltre di privilegiare nei rapporti commerciali alcune nazioni come Cina, India, Russia, Cuba, Iran e Nicaragua ha precluso al Venezuela la possibilità di disporre di valuta pregiata per garantire l’acquisto dei beni di cui manca. La volontà di aiutare nazioni come Cuba e Nicaragua, fornendo loro petrolio in cambio di servizi sanitari e ospedalieri ha ulteriormente indebolito l’economia e le riserve valutarie del Paese che, per le sue scelte in politica estera, era stato classificato dagli USA come una delle cosiddette “nazioni canaglia”.
La riduzione delle preziose entrate garantite dal petrolio ha portato il Venezuela sull’orlo del default evitato solo grazie al prezioso aiuto ed intervento russo per tramite del colosso energetico Rosneft che ha prestato 6 miliardi di dollari al governo di Maduro. Un prestito che comunque ha un prezzo poiché impone al Venezuela, a titolo di garanzia, la cessione del 50% del capitale della società venezuelana (Citgo) che gestisce raffinerie e stazioni di servizio all’estero.[9] Nel contempo si è arrivati al paradosso che il Venezuela, uno dei principali produttori di petrolio al mondo, deve importare greggio raffinato. Quel che è peggio è che il prezzo di acquisto del greggio raffinato risulta superiore al prezzo di cessione del petrolio grezzo, aumentando così il debito del Paese.
In questo clima di profonda crisi il Venezuela è entrato a far parte del Mercosur, trasferendo così a livello regionale la propria crisi.
Il Mercosur.
Vi è un dato emblematico che meglio di ogni altro evidenzia la crisi in corso in Venezuela e nei suoi rapporti con gli altri Paesi membri del Mercosur. Dall’ingresso nel 2012 del Venezuela nel Mercosur il suo commercio verso gli Stati membri è passato dai 9.742 milioni di dollari ai 3.240 di fine 2016. L’export dal Mercosur verso il Venezuela è calato del 64%: la crisi non consente alla nazione di disporre di valuta per pagare le importazioni[10] e lo scambio tra beni in natura (petrolio per disporre di prodotti alimentari o servizi) non è sempre accettato.
La crisi della nazione che si affaccia sul Mar dei Caraibi pone il Mercosur dinanzi a delle scelte politiche ed istituzionali circa la natura che vuole o intende avere, perché vi è il rischio che anziché consolidarsi, questo mercato regionale si avvii verso un suo scioglimento. Da sempre il Mercosur si muove con oscillazioni che vanno a favore di una maggiore integrazione politica a quelle di una semplice area di libero scambio, ma anche in quest’ultimo caso Brasile e Argentina recentemente chiedono di poter aver l’opportunità di effettuare accordi bilaterali nel rispetto della propria sovranità in campo economico. In Brasile da quando negli ultimi tre anni si è aperta una profonda crisi a livello presidenziale, il dibattito politico per la prima volta pone seri dubbi sull’utilità dell’adesione del Paese al Mercosur. Il 13 di agosto del 2015, il Presidente del Senato brasiliano Calheiros e il Ministro delle Finanze Levy hanno discusso in Senato il tema di come porre fine all’unione doganale del Mercosur.[11] Il dibattito non ha portato a un voto perché si è voluto evitare una spaccatura all’interno del Partito dei Lavoratori, ma è emblematico di un orientamento politico ben diverso da quello che aveva spinto il Brasile nel 1991 a fondare il Mercosur e a proporre nel contempo la creazione di una moneta comune tra i Paesi fondatori.
Più recentemente il nuovo Ministro degli Esteri Serra ha presentato il Decalogo della politica brasiliana[12] con lo slogan Primero Brazil, riprendendo lo slogan della campagna elettorale del Presidente USA Trump. Nel suo programma di neo Ministro, propone che il Brasile agisca per accordi economici bilaterali al di fuori del Mercosur (punto 5). Il punto 7 propone di rivedere le intese con l’Argentina affinché gli impegni nel Mercosur siano solo in campo economico e vengano abbandonati disegni di tipo politico. Auspica l’adesione al Mercosur del Messico e contesta la possibile adesione della Bolivia (al momento Paese osservatore).
A queste dichiarazioni hanno risposto in modo preoccupato in particolare le due nazioni più piccole del Mercosur, Uruguay e Paraguay che ribadiscono la necessità di “…negoziare in forma unitaria accordi commerciali con Paesi terzi o integrati a livello regionale come previsto dalla Decisione n. 32/2000 del Consejo Mercado Comun (CMC)”.[13] Questo punto è considerato dal Ministro Serra una “camicia di forza” per il Brasile.
Se il Brasile sembra mostrare segni di rottura verso il Mercosur è altrettanto preoccupante la recente dichiarazione dell’ex Presidente dell’Uruguay Luis Alberto Lacalle che, dinanzi alle prese di posizione del Brasile e alle difficoltà del suo Paese a schierarsi prontamente contro il Venezuela con una dichiarazione congiunta del Mercosur, ha testualmente affermato che il Mercosur è in agonia e che “non serve più a nulla”.[14] Che vi possano essere momentanee dichiarazioni di sconforto dinanzi a profonde crisi politiche è comprensibile, quello che è allarmante è che Lacalle è stato uno dei quattro Presidenti firmatari della dichiarazione di fondazione del Mercosur nel 1991.[15] Se chi ha sostenuto il progetto iniziale nutre ora dubbi sulle prospettive future del Mercosur cosa potremmo osservare dalla lontana Europa? Quello che più sorprende è il silenzio dell’Argentina e del suo Presidente Macri. Nel corso di questi circa 25 anni di vita del Mercosur è stato il binomio argentino-brasiliano a favorirne la pur lenta e contrastata integrazione: il venir meno di una di queste nazioni non può che provocare l’implosione del Mercosur. Il rischio sarebbe il ritorno a vecchie politiche di stampo prettamente nazionalistico che metterebbero in gioco la stessa democrazia.
In questi mesi sono in corso incontri tra rappresentanti del Mercosur e dell’Unione europea alla ricerca di intese in campo economico. L’Unione europea ha saputo sostenere sino ad oggi le proprie scelte unitarie in campo economico. Sarebbe tempo che avviasse un definitivo processo di integrazione in campo politico e istituzionale, dotandosi di un bilancio dell’Unione e di un governo. Sarebbe questo l’esempio migliore verso quelle nazioni e regioni del mondo che hanno guardato e guardano all’Unione europea come ad un modello di democrazia da seguire. Sarebbe l’esempio migliore per consolidare le giovani democrazie del Mercosur e dell’intera America Latina.
Stefano Spoltore
[1] Il Tratado de Asunciòn, 1991, stabiliva la nascita del Mercosur entro il 31 dicembre 1994 tra i Paesi fondatori: Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay.
[2] Il Protocolo de Usuhuaia sobre compromiso democrático en el Mercosur del 24 luglio 1998 fu integrato il 20 dicembre 2011 con il Trattato di Usuhuaia II. Vi è stata incertezza circa l’applicazione di questa clausola contro il Venezuela, perché il governo dell’Uruguay esitava nel dare una risposta. E’ stata necessaria una pressione dei presidenti argentino e brasiliano affinché alla fine il governo di Montevideo confermasse l’applicazione della clausola contro un Paese membro. Questa decisione ha aperto però una crisi in seno al governo dell’Uruguay, che ha sempre sostenuto prima il Presidente Chavez e poi il successore designato Maduro.
[3] E’ quanto accaduto per esempio in Cile l’11 settembre 1973 quando gli USA appoggiarono il colpo di Stato di Pinochet per evitare che al governo andasse il socialista Allende che aveva vinto le elezioni. La data dell’11 settembre diverrà poi tristemente famosa negli USA e nel mondo intero per il drammatico attacco alle Torri Gemelle (2001).
[4] Il Sole 24 Ore, Milano, 9 agosto 2017.
[5] Si veda l’articolo: Brasile e Argentina al bivio nel Mercosur, Il Federalista, 54, n. 3 (2012).
[6] Aspenia, Roma, n. 64, 2014. pp. 155-162.
[7] Il Sole 24 Ore, Milano, 8 agosto 2017.
[8] Il Foglio, Milano, 30 luglio 2017 e Il Sole 24 Ore, Milano, 2 agosto 2017.
[9] Il Sole 24 Ore, Milano, 11 agosto 2017.
[10] Boletin Parlamento Mercosur, El Espectator, Montevideo, 5 settembre 2017.
[11] Ansalatina, Brasilia, 13 agosto 2015.
[12] La Nacion, Buenos Aires, 26 maggio 2016.
[13] Boletin Parlamento Mercosur, ABC, Asunciòn, 26 maggio 2016.
[14] La Nacion, Buenos Aires, 8 agosto 2017.
[15] I quattro Presidenti firmatari furono: de Mello (Brasile), Lacalle (Uruguay), Menem (Argentina) e André Rodriguez (Paraguay).
Anno LVIII, 2016, Numero 2-3, Pagina 148
SOVRANITÀ FISCALE NAZIONALE
O FISCALITÀ EUROPEA?
Con due recenti proposte di direttiva,[1] la Commissione europea ha posto nuovamente al centro dell’attenzione la questione dell’armonizzazione della base imponibile delle società, con l’obiettivo, in un primo tempo, di introdurre un criterio unico di determinazione della base imponibile individuale, e in un secondo momento di passare a una base imponibile comune. Tali regimi – obbligatori per i gruppi UE con un fatturato superiore a 750 milioni di euro e per i gruppi extra-UE che realizzino sul territorio dell’Unione tale fatturato, e facoltativo per le imprese con un fatturato inferiore – non comportano l’imposizione di un’aliquota unica in tutto il territorio dell’Unione, bensì unicamente lo stabilimento dei criteri per la determinazione dei profitti tassabili. Si tratta di un regime al quale non sarà possibile derogare attraverso accordi individuali e che dovrebbe consentire di abbassare i costi amministrativi a carico delle imprese operanti in più Stati membri; non saranno poi tassabili alcuni utili, quali gli investimenti in ricerca e sviluppo.
L’idea di una base imponibile comune per le società risale in realtà al 2011, quando la Commissione aveva presentato una proposta sulla base imponibile consolidata comune per le imprese europee,[2] che prevedeva però un regime di carattere facoltativo e che, trovando l’opposizione di alcuni Stati membri, non era mai sfociata in un atto dell’Unione.
Le ragioni del nuovo tentativo della Commissione di proporre regole armonizzate in tale materia va ricondotta ai recenti scandali fiscali, e in particolare alla vicenda di Apple Irlanda, il cui trattamento fiscale da parte delle autorità irlandesi è stato dichiarato dalla Commissione contrario alle norme dell’Unione europea relative agli aiuti di Stato,[3] con conseguente obbligo del governo irlandese di recuperare una somma pari a 13 miliardi di euro più interessi. Tale ultima vicenda ha attirato più di altre l’attenzione dei media non solo per l’entità della somma che dovrebbe essere recuperata, ma anche per l’annuncio del governo irlandese di voler presentare ricorso, insieme ad Apple, contro la decisione della Commissione, e dunque di non voler recuperare la somma in questione, dovuto al timore di perdere la sua posizione di paradiso fiscale per le multinazionali. In particolare, nei confronti di Apple Sales International e Apple Operations Europe, due società di diritto irlandese, l’Irlanda aveva emanato due rulings che consentivano loro di fatto di assegnare la maggior parte degli utili a una sede fittizia, che in realtà non era ubicata in alcun paese, né aveva dipendenti o uffici propri; utili che in tal modo non erano tassati in nessuno Stato. Per citare i dati comunicati durante le audizioni pubbliche del Senato degli Stati Uniti relative al 2011, in quell’anno Apple Sales International registrava utili per circa 16 miliardi di euro, dei quali solo 50 milioni di euro erano considerati imponibili in Irlanda: l’aliquota applicata ad Apple Sales International corrispondeva dunque allo 0,05% dei suoi utili annui complessivi.
La vicenda – così come gli altri scandali fiscali emersi negli ultimi anni – solleva la questione della sovranità fiscale degli Stati membri e dell’influenza del diritto dell’Unione europea su quest’ultima. Nonostante il potere di riscuotere imposte spetti in maniera esclusiva agli Stati membri e l’Unione europea non abbia capacità fiscale, è indubbio infatti che il diritto dell’Unione interferisca in qualche misura con tale sfera di azione degli Stati.
In particolare, la vicenda Apple Irlanda sembra essere il frutto dell’interazione tra sovranità fiscale degli Stati membri e libertà di circolazione previste dai trattati. La prima implica che ogni Stato membro possa decidere autonomamente il trattamento fiscale delle imprese operanti sul proprio territorio; la seconda comporta che le imprese possano muoversi liberamente all’interno dell’Unione. Da tale interazione discende che, in un contesto fiscale non armonizzato, le multinazionali tentano di spostare i loro utili negli Stati membri nei quali l’imposizione fiscale è minima; dall’altro lato, tra gli Stati membri si crea una vera e propria concorrenza sul piano fiscale, e cioè il tentativo di ridurre le aliquote fiscali per attrarre investimenti sul proprio territorio e proteggere la propria base imponibile.
A tali comportamenti, il diritto dell’Unione europea oppone solo limiti piuttosto deboli. In particolare, per quanto riguarda la possibilità per le società di approfittare delle libertà di circolazione previste dal trattato e dunque di trasferire gli utili nello Stato nel quale la tassazione sia più favorevole, la Corte di giustizia (sentenze Halifax[4] e Cadbury Schweppes[5]) ha sottolineato che tale comportamento, perfettamente lecito se corrispondente a effettive transazioni commerciali, diviene vietato solo nell’ipotesi in cui un’impresa dia vita a costruzioni puramente fittizie (e dunque non corrispondenti a reali attività della stessa) all’unico fine di beneficiare abusivamente dei vantaggi previsti dal diritto dell’Unione. Inoltre, il diritto dell’Unione europea non vieta agli Stati membri di applicare aliquote fiscali favorevoli alle imprese operanti sul loro territorio, mentre ad essere vietata è la concessione di un trattamento di favore ad alcune imprese, dal momento che tale comportamento lederebbe la concorrenza e violerebbe il divieto di aiuti di Stato.
La coesistenza di 28 regimi fiscali differenti rende tuttavia senza dubbio complesso per le imprese di non grandi dimensioni esercitare la propria attività sul territorio di più Stati membri, contrariamente a quanto avviene per le grandi società multinazionali, per la difficoltà di avere un quadro chiaro della normativa fiscale applicabile. L’armonizzazione della base imponibile delle società avrebbe proprio lo scopo di semplificare tale quadro. Pur non imponendo infatti un’aliquota unica, essa consentirebbe di fare chiarezza su quali siano i profitti tassabili e a quale Stato membro essi siano imputabili, e comporterebbe un notevole risparmio dei costi amministrativi, soprattutto per le medie e piccole imprese. Secondo le stime della Commissione, con l’adozione del regime della base imponibile consolidata, per queste ultime i costi per l’apertura di una filiale all’estero potrebbero infatti diminuire fino al 67% e vi sarebbe una riduzione fino al 30% degli oneri fiscali.
La vicenda Apple Irlanda, tuttavia, impone di affrontare il problema della sovranità fiscale anche da un punto di vista differente, più propriamente macroeconomico. In effetti, la volontà del governo irlandese di impugnare la decisione della Commissione relativa al recupero degli aiuti e dunque di rinunciare in ultima analisi al recupero di 13 miliardi di euro, mostra l’importanza che una politica fiscale volta ad attrarre investimenti sul territorio ha assunto per alcuni Stati della zona euro, ormai privi della possibilità di utilizzare strumenti di politica monetaria per raggiungere i propri obiettivi macroeconomici. Come sottolinea Apple in una lettera inviata alla Comunità Apple in Europa in seguito alla decisione della Commissione, quest’ultima, dunque, “would strike devasting blow to the sovereignty of EU member states over their own tax matter”.
E’ tuttavia opportuno mettere in luce che l’idea che in materia fiscale gli Stati membri siano pienamente sovrani costituisce ormai un mito. Mentre negli anni Settanta il piano Werner, nel prospettare la possibilità di una moneta unica, sottolineava come la politica monetaria non potesse essere separata dalla politica economica e fiscale, la scelta operata a Maastricht ha seguito il cammino opposto: il trasferimento della politica monetaria a livello europeo e il mantenimento delle politiche economiche e fiscali a livello nazionale, accompagnato dal coordinamento di queste a livello europeo. La crisi economica e finanziaria degli ultimi anni, tuttavia, ha evidenziato l’insostenibilità di questo modello, e ha condotto alla necessità di adottare misure sempre più stringenti di coordinamento delle politiche economiche e di bilancio degli Stati legati dalla moneta comune, portando di fatto le istituzioni europee a ingerirsi in modo sempre più profondo nei settori rimasti di competenza degli Stati membri. Se la politica fiscale costituisce tuttora uno dei capisaldi della sovranità statale, non si può dunque evitare di notare come questa realtà sia più di facciata che di sostanza: molte scelte sulla tipologia di risorse fiscali e sull’utilizzo di queste sono infatti ormai dettate dal livello europeo.
Per non affrontare il passo dell’attribuzione di competenze in materia economica e fiscale al livello sovranazionale si è giunti dunque a una situazione in cui nessun livello di governo è più in possesso di strumenti efficaci ai fini della politica economica; e in cui, soprattutto, esistono gravi implicazioni dal punto di vista della legittimazione democratica. In effetti oggi assistiamo a uno svuotamento del potere degli Stati di esercitare la loro potestà fiscale in modo autonomo (e al conseguente svuotamento del potere dei cittadini di controllarne, attraverso i parlamenti nazionali, la gestione), e all’attribuzione di poteri di controllo sempre più stringenti a un livello (quello europeo) privo di un governo legittimato democraticamente. Il potere di determinare le linee direttrici delle politiche fiscali degli Stati dell’eurozona è dunque nelle mani di organi sottratti al controllo dei cittadini. Solo il riallineamento di competenza monetaria e competenza fiscale, e dunque l’attribuzione di una capacità fiscale all’eurozona sotto il controllo del Parlamento europeo, potrebbe sanare questa contraddizione.
Giulia Rossolillo
[1] Proposal for a Council directive on a Common Corporate Tax Base COM(2016) 685 final, 25.10.2016 (685 final 2016/0337 (CNS) Proposal for a COUNCIL DIRECTIVE on a ...)e Proposal for a Council directive on a Common Consolidated Corporate Tax Base (CCCTB) COM(2016) 683 final, 25.10.2016 (proposal for a Council Directive on a Common Consolidated ...).
[2] Proposta di direttiva del Consiglio relativa a una base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società, COM(2011) 121 definitivo, 16.3.2011 (http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/
?uri=celex:52011PC0121).
[3] V. il Comunicato stampa della Commissione del 30 agosto 2016 (http://europa.eu/rapid/press-release_IP-16-2923_it.htm).
[4] Corte di giustizia, sentenza 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax.
[5] Corte di giustizia, sentenza 12 settembre 2006, causa C-196/04, Cadbury Schweppes.
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