IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LVIII, 2016, Numero 2-3, Pagina 160

 

 

ALCUNE RIFLESSIONI SUGLI ACCORDI GLOBALI
DI LIBERO SCAMBIO

 

 

Dopo un lungo e travagliato parto, finalmente il 30 ottobre a Bruxelles, il Consiglio, la Commissione europea e il governo del Canada hanno firmato, sebbene in via provvisoria, il Comprehensive Economic and Trade Agreement (CETA). Le difficoltà incontrate per siglare questo accordo, concluso già nel 2014 dopo sette anni di negoziato, sono sorte a seguito della controversa scelta, compiuta dalla Commissione europea su pressione di alcuni Stati membri, di derubricare la natura dell’accordo da natura esclusiva a natura mista, contrariamente a quanto sostenuto inizialmente. Ciò ha reso possibile anche il momentaneo blocco della firma da parte del governo vallone, che ha abbandonato il veto solo grazie alle pressioni congiunte della Commissione e degli altri Stati membri, nonché del governo centrale belga e del governo regionale fiammingo, e solo dopo aver ricevuto assicurazioni specifiche riguardo ai propri settori di interesse (prevalentemente agricultura).

La mossa della Commissione di derubricare l’accordo deriva da diversi motivi: da una parte obiezioni di natura legalistica, circa il fatto che il trattato effettivamente copre molte aree di natura non esclusivamente europea (e su cui quindi le istituzioni nazionali, in base agli attuali Trattati, possono scegliere di mantenere l’ultima parola); su questa base diventa necessario il consenso di tutti gli Stati membri, attraverso la ratifica parlamentare. Dall’altra considerazioni di natura politica: subito dopo il risultato della vittoria dei Leave nel referendum britannico del 23 giugno, la Commissione europea ha cercato un modo per diminuire la pressione di euroscettici, parlamenti nazionali e governi più protezionistici. La scelta inoltre è avvenuta mentre, contemporaneamente, era in corso una causa presso la Corte di giustizia UE su un altro occordo di natura analoga, riguardante invece Singapore, il quale creerà un precedente che metterà una parola definitiva sulla natura e la relativa competenza di questi accordi.

Sulla procedura che si è deciso di utilizzare si gioca proprio una delle questioni fondamentali di come dovrà costruirsi l’assetto federale europeo, se e quando si riuscirà a realizzarlo. Occorrerà ovvero decidere se questi accordi che per loro natura sono “comprehensive” debbano essere esclusiva di un governo federale unico, oppure se si debba optare per un modello più multilivello, maggiormente sussidiario e che coinvolga maggiormente gli Stati membri sia in fase di negoziazione, sia in fase di ratifica. La sentenza della Corte di giustizia sul trattato UE-Singapore sarà da questo punto di vista fondamentale per definire in quale direzione, in caso si aprisse il processo di revisione dei Trattati, si dovrà sviluppare l’assetto istituzionale europeo in questo specifico ambito.

Sia il CETA, sia il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) che vede coinvolti gli USA e la UE, hanno una natura molto specifica. Nascono innanzitutto dalla situazione di stallo decennale che si è creata all’interno del WTO ed hanno quindi lo scopo di bypassarlo da una parte, creando una realtà parallela, e dall’altra di influenzarlo, facendo in modo che si affermino determinati standard proprio sulla base di questi grandi trattati commerciali, in modo da indirizzare le decisioni a livello di WTO. Non è quindi sorprendente l’irritazione da parte di alcuni BRICS e di altri emergenti, che in questo modo vedrebbero di fatto affermarsi degli standard commerciali diversi dai loro, sui quali non hanno potuto avere influenza e che per questo vedono in modo non favorevole. La questione è comunque molto delicata: da una parte gli accordi come il CETA e il TTIP o il TPP (Trans-Pacific Partnership) permettono di uscire da una situazione di stallo, dall’altra rischiano di minare ancora di più la stabilità del WTO, che sebbene sia disfunzionale, rimane comunque l’unica sede deputata ad accordi multilaterali di natura commerciale.

Proprio per la loro natura globale, CETA e TTIP sono spesso messi sullo stesso piano, e il primo è considerato una sorta di modello per il secondo. Quest’ultima è anche una delle ragioni delle contestazioni nate intorno a questo trattato, che in realtà recepisce tutte le condizioni poste dagli europei, ma che rischia così di naufragare nel corso delle ratifiche nazionali che dovranno suggellare il trattato, e grazie alle quali ciascun parlamento nazionale, – o addirittura in certi casi sub-nazionale – ha potere di veto. I critici tendono però a dimenticare una differenza fondamentale tra i due accordi: la controparte. Infatti il Canada, sebbene sia geograficamente uno dei paesi più vasti oltreché una delle principali economie del mondo, è un paese con una popolazione paragonabile a quella spagnola in termini numerici e ha sviluppato una forma di federalismo molto meno centralizzata rispetto a quella degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti, viceversa, hanno sviluppato una forma maggiormente centralizzata, e in più sono la principale economia del mondo oltreché, ancora, la principale potenza militare, oltre ad avere uno dei maggiori mercati in termini di appalti pubblici (procurement). Questo fa sì che il rapporto tra UE e USA, proprio per la diversa struttura, rischia di essere sbilanciato a favore di Washington, contro un’Unione poco coesa. Quando sarà insediata la nuova Amministrazione americana sotto la guida di Trump diventerà più chiaro se ci sarà un futuro, e, nel caso, quale, per il TTIP – anche se visto il destino del TPP, l’accordo siglato con i paesi del Pacifico, sembra un’ipotesi molto, molto improbabile.

Tra i punti più delicati di questi accordi, una questione estremamente controversa è quella dei cosiddetti sistemi di arbitraggio, ovvero gli Investor-State Dispute Settlement (ISDS), che sono uno degli scogli più grossi nei negoziati del TTIP. Sotto questo aspetto il CETA introduce una novità importante, il cosiddetto Investment Court System (ICS) che prevede un Tribunale permanente composto da 15 membri che saranno nominati direttamente dall’UE e dal Canada, contrariamente a quanto accade con il sistema in vigore; e un tribunale d’appello che potrà rivederne le decisioni. Si tratta pertanto di un sistema che permette di superare molti dei limiti di arbitrarietà e opacità che caratterizzano l’attuale meccanismo normalmente adottato negli accordi commerciali. e che garantisce una soluzione delle dispute molto più istituzionalizzato e in grado, pur garantendo un livello elevato di protezione degli investitori, di preservare pienamente il diritto dei governi di regolamentare e perseguire gli obiettivi di politica pubblica rivolti alla tutela della salute, degli standard di sicurezza e di sostenibilità ambientale.

Nonostante questi e altri progressi compiuti nel corso dei negoziati, e nonostante gli indiscussi vantaggi che, complessivamente, derivano da questo tipo di accordi sia in termini di crescita che di creazione di nuovi posti di lavoro, nonché di incremento della competitività e della propensione all’innovazione, il TTIP e il CETA continuano comunque ad essere oggetto di contestazioni molto forti, non solo su questo lato dell’Atlantico, ma anche dal versante americano. Donald Trump in campagna elettorale non ha esitato ad adottare una linea mercatamente protezionistica e anti-TTIP, con l’obiettivo di proteggere il lavoro americano dall’Europa, nata “per battere l’America nel fare i soldi.” Lo stesso Bernie Sanders sul versante democratico aveva una linea simile, seppur incentrata su argomentazioni piú anti-multinazionali che protezionistiche, che avevano costretto anche Hillary Clinton a una linea maggiormente cauta sul TTIP e sul libero scambio. E’ il segnale che il trend anti-libero mercato e anti-globalizzazione si sta affermando su entrambe le sponde dell’oceano, spinto da opinioni pubbliche che, come dimostrano la Brexit e l’elezione di Trump, vedono il fenomeno della globalizzazione come pericoloso perché fuori controllo. Tuttavia, cosí facendo, soprattutto ora che Trump si prepara ad insediarsi alla Casa Bianca, rischiano di far saltare questi tentativi, per quanto parziali, di governare il trend.

Francesco Violi

 

 

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