Anno LXIII, 2021, Numero 2-3, Pagina 111
L’EUROPA E L’AFRICA DI FRONTE AL CAMBIAMENTO
La struttura profonda del mondo, relativa alla distribuzione del potere politico e agli equilibri internazionali, si sta trasformando repentinamente. Essa è intaccata da un radicale processo di mutamento e ridefinizione.
In particolare, possiamo riconoscere tre grandi classi di fenomeni che innescano il mutamento, o che lo caratterizzano: fatti sociali e demografici; fatti economici; fatti politici e istituzionali. Beninteso, la suddivisione dei processi di cambiamento in queste tre classi ha valenza puramente analitica, serve ai fini della comprensione di ciò che analizziamo. Nella realtà queste classi di fatti non solo sono strettamente interdipendenti, ma sono embricate l’una nell’altra.
Il World Population Prospects del 2019, una ricerca condotta dalla Divisione per la Popolazione del Dipartimento degli Affari Economici e Sociali del Segretariato delle Nazioni Unite, contiene stime e proiezioni utili per riflettere sulle tendenze che caratterizzeranno l’evoluzione del mondo in termini sociali e demografici nei prossimi decenni. Il prospetto rileva alcune dinamiche precipue di cui è necessario tenere conto per contestualizzare responsabilmente la progettualità politica in un quadro ampio e comprensivo.[1]
Nel report si asserisce che alcune tendenze generali caratterizzano l’andamento della popolazione globale. In primo luogo, essa continua a crescere, sebbene a un ritmo più lento; in secondo luogo, si assiste al suo progressivo invecchiamento, dovuto anche all’aumento della longevità. Queste tendenze generali producono esiti e sfide cruciali che differiscono in base al contesto considerato. In alcuni paesi, la dimensione della popolazione sta diminuendo a causa della bassa fertilità o dell’emigrazione sostenuta. In altri contesti, invece, il calo della fertilità sta creando condizioni demografiche favorevoli per una crescita economica accelerata. Infine, il divario tra paesi ricchi e poveri è confermato assieme alle disparità significative nella sopravvivenza che persistono tra paesi e regioni.
Intendo riflettere su alcuni dei dati contenuti nel report, considerando tre indici significativi, due termini temporali (il 2020 e il 2050) e due macroregioni il cui destino è connotato da un rapporto di stretta interdipendenza: l’Europa e l’Africa. Cosa cambierà nei prossimi trent’anni? Quali processi è necessario identificare, comprendere e quindi governare?
Il primo indice da valutare è quello del tasso di fecondità totale, ovvero il numero medio di nascite per donna.
Nell’arco temporale compreso tra il 2020 e il 2025, il numero medio di nascite per donna in Europa è pari a 1.62. In Africa, invece, si ha la media di 4.16 nascite per donna. Tra il 2045 e il 2050 la situazione europea rimane sostanzialmente invariata (1.72), mentre nell’area africana si assiste a una notevole riduzione (3.07).
Il secondo indice da prendere in considerazione è il potenziale rapporto di sostegno; esso riguarda la proporzione che intercorre tra il numero di persone di età compresa tra i 25 e i 64 anni per ogni persona di età pari o superiore a 65 anni; ovvero, il numero di persone in età lavorativa a sostegno di ogni persona in età non più produttiva e dipendente. In Europa, nel 2020 si osserva un rapporto di 2,9 a 1, mentre in Africa un rapporto di 10,5 persone in età lavorativa per ogni persona over 65. Spostandosi nella prospettiva temporale del 2050, il dato europeo è in calo (1,7 a 1); quello africano è in calo ma rimane comunque notevole: si parla di una media di 7,6 persone in età lavorativa per ogni persona di età pari o superiore a 65 anni. L’ultimo indice significativo che concorre a dare un’idea delle prospettive di cambiamento sociale e demografico dei due continenti riguarda la percentuale di popolazione di età pari a o superiore a 65 anni. In Europa, nel 2020, questa fascia di popolazione corrisponde al 19.1% del totale, mentre nel 2050 il prospetto indica una percentuale media del 28.1%. In Africa subsahariana, nel 2020 la percentuale media è del 3.5%, mentre si prevede un aumento al 5.7% nel 2050.
Quale prospettiva emerge dalla considerazione dei dati offerti da questi indici e dalla comparazione delle due regioni secondo una prospettiva diacronica?
Per quanto riguarda l’Europa: nei prossimi trent’anni, stando ai dati, aumenterà la popolazione anziana, non produttiva e dipendente dal punto di vista economico. Diminuirà il potenziale rapporto di sostegno, quindi la proporzione tra la fascia di popolazione in età lavorativa e la popolazione in età pensionabile; invece, rimarranno stabili i tassi di nascita. In sintesi: la popolazione dipendente è in aumento, mentre la popolazione produttiva in decrescita.
In Africa si assiste ad una situazione radicalmente diversa: in particolare rispetto ai tassi di fecondità, oggi molto alti, destinati però a decrescere. Questo prospetto implica una situazione per la quale la società africana, in particolare la componente dell’area subsahariana, sarà connotata da un’ampia fascia di popolazione in età produttiva e una fascia di popolazione in età infantile ristretta. Per citare il documento: “nella maggior parte dell’Africa subsahariana, le recenti riduzioni della fertilità significano che la popolazione in età lavorativa (da 25 a 64 anni) sta crescendo più rapidamente che in altre fasce di età. Queste condizioni possono offrire un’opportunità per una crescita economica accelerata, nota come ʻdividendo demograficoʼ.” Questa espressione fa riferimento alla crescita economica potenziale che può derivare dai cambiamenti nella struttura della popolazione di un paese: quando i tassi di fertilità diminuiscono, la popolazione in età lavorativa di un paese aumenta rispetto alla popolazione giovane e ancora dipendente. Con più persone nella forza lavoro e meno individui in età infantile dipendenti, una comunità politica ha una finestra di opportunità per stimolare e, eventualmente, realizzare una rapida crescita economica.[2]
La prima considerazione che ricaviamo è che a fronte di alcune tendenze generali (invecchiamento globale, rallentamento della crescita della popolazione mondiale, diminuzione dei tassi di fertilità) si verificano risultati regionali diversi.
Una seconda considerazione riguarda l’interdipendenza tra i processi di cambiamento che abbiamo postulato nell’introduzione di questo testo. Nel caso del contesto africano, più precisamente dell’area subsahariana, il dividendo demografico contiene in sé le possibilità dello sviluppo economico. Ciò dimostra come processi di cambiamento sociale e demografico possano stimolare processi di mutamento economico. Tuttavia, il legame tra questi processi non è certo, né definitivo. Il rapporto di consequenzialità regge se e solo se le tendenze di cambiamento sociale sono governate, ovvero se vengono effettuati i giusti investimenti e implementate politiche sociali ed economiche strategiche. Qui giungiamo ai fatti e ai processi di cambiamento della terza classe, ovvero i fatti istituzionali e politici.
Considerando questa potenzialità sociale ed economica, infatti, dobbiamo tenere a mente un aspetto politico: gli Stati africani sono spesso strutture fragili, regimi a bassa capacità di governo, talvolta affiancati da strutture di potere non istituzionali, rilevanti in termini economici, sociali e organizzativi. Esiste un problema nel rapporto tra la società africana e lo Stato, che necessita passaggi senza i quali risulterà complicato, se non impossibile, investire sulle potenzialità economiche e produttive del continente.
Questa è una precondizione per risolvere un problema di second’ordine: il continente africano è un continente frammentato. Al momento, la convergenza politica degli Stati in termini di sviluppo sociale ed economico è molto limitata, e la stessa struttura dei diversi regimi politici appare spesso diversificata. Come può un continente frammentato politicamente e fragile in termini di strutture statali governare e esprimere positivamente le potenzialità di sviluppo contenute nel dividendo demografico?
Queste considerazioni generali vogliono suggerire un’idea: Per gestire le potenzialità del continente sono necessari due salti politici: un salto di qualità della struttura degli Stati e, successivamente, un salto politico sovranazionale. Difatti, la scarsa interdipendenza dei paesi africani lascia spazio all’ingerenza di paesi terzi, che sfruttano le divergenze del continente a proprio vantaggio.
Credo che siano chiare le ragioni per le quali si debba ritenere che il destino dell’Europa e il destino dell’Africa siano destini intrecciati: da un lato, l’Europa è un continente stabile in termini politici e auspicabilmente sempre più integrato, ma vecchio in termini demografici e privo di potenziale economico interno inespresso. Dall’altro, l’Africa è un continente giovane, con un grande potenziale economico inespresso; tuttavia, è privo di una struttura politica forte e di un tessuto sociale omogeneo e resistente.
In questo senso, ritengo che il destino dell’Africa e il destino dell’Europa, considerata la complementarità dei loro punti di forza e delle loro fragilità, nonché la prossimità geografica, si intreccino di fronte a tre sfide. Una sfida sociale, che oggi, innanzitutto, assume la forma della sfida migratoria. Una sfida economica, che consiste nel saper valorizzare il potenziale economico dell’Africa e supportare il continente nella gestione consapevole delle sue risorse. Infine, una sfida politica: l’Unione africana – organizzazione internazionale che da poco ha ottenuto un importante risultato, ovvero l’adozione dell’AfCFTA, il trattato di libero commercio continentale africano, quindi l’istituzione della più grande area di libero scambio al mondo che coinvolge 54 dei 55 stati africani – è ispirata all’UE; ne segue il cammino e ricalca la sua struttura istituzionale. L’Unione europea è il tentativo più avanzato di un processo profondo di trasformazione della struttura politica del mondo, che risponde all’incapacità della forma statale nazionale di resistere alle sfide dell’interdipendenza globale. È l’espressione massima di un processo di integrazione che si verifica anche altrove: basti pensare alla già citata Unione africana, al Mercosur, all’ASEAN. Verosimilmente, se l’integrazione politica dell’UE fosse dirottata e limitata all’ambito angusto dell’integrazione economica, probabilmente l’Africa seguirebbe la medesima direzione.
La capacità dell’Africa di governare questi processi di cambiamento e di esprimere il proprio potenziale economico e sociale, dunque, passa anche dalla capacità dell’Europa di essere un partner stimolante, che sappia indicare la via per costituire un’unione politica federale. Una via il cui tracciato non può deviare dal nodo cruciale della creazione di una capacità fiscale, ovvero del potere di raccogliere risorse e di spenderle nell’interesse generale della comunità politica. Solo attraverso questo passaggio, infatti, si può costituire un primo embrione di sovranità condivisa a livello europeo, la cui realizzazione renderà necessario un forte controllo democratico esercitato dall’istituzione rappresentativa dei cittadini d’Europa: il Parlamento federale. Per concretizzare questi auspici, l’Unione europea dovrà sforzarsi di superare l’impasse che talvolta sembra costringere i processi di integrazione regionale ad una dimensione puramente economica e mai pienamente politica; un palliativo utile solo finché le interdipendenze tra i cambiamenti sociali, le trasformazioni economiche e i fatti politici producono criticità non più risolvibili.
Andrea Apollonio
[1] Department of Economic and Social Affairs of the United Nations, 2019 Revision of World Population Prospects, https://population.un.org/wpp/.
[2] Per approfondire il tema del “dividendo demografico”, consulta il sito web dell’United Nations Population Fund: UNFPA, Demografic Dividend, https://www.unfpa.org/demographic-dividend.
Anno LXIII, 2021, Numero 1, Pagina 23
KARLSRUHE
E LA CORSA A OSTACOLI DEL PIANO DI RECUPERO
A poco più di un anno da quando, a causa della pandemia da Covid-19, sono stati imposti i primi lock-down in tutta Europa, gli Stati Uniti hanno incanalato 4 mila miliardi di euro di fondi federali in stimoli fiscali anti-crisi, compresi pagamenti diretti alle famiglie. Si tratta di un intervento di molte volte superiore a quello dell’Unione europea, il cui Piano di recupero ha un bilancio di 750 miliardi di euro da spendere in tre anni, e non è ancora stato lanciato. Sommando diverse linee di credito (Banca Europea degli Investimenti, Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), Sostegno per mitigare i rischi di disoccupazione in caso di emergenza (SURE), ecc.), l’impegno europeo ammonterebbe a 1,3 mila miliardi di euro.
Ciò detto, non bisogna dimenticare che il governo federale spende il 31% del PIL degli Stati Uniti, mentre l’UE amministra l’1% di quello europeo. L’impegno sopra citato non include quindi le spese anticrisi degli Stati membri — sostenute in realtà dalla BCE — che svolgono la parte del leone nello sforzo europeo… almeno per ora.
In ogni caso, anche se non è l’unico fattore (gli Stati Uniti non hanno mai bloccato la loro economia come si è fatto da questa parte dell’Atlantico, scelta che ha portato a conseguenze molto più gravi per la salute pubblica), tutte le previsioni indicano che la repubblica americana crescerà più velocemente e tornerà ai livelli di PIL pre-pandemia prima del Vecchio continente.
Ma allora, che cosa sta dietro a questa enorme differenza transatlantica nella risposta fiscale, dal momento che entrambi possono contrarre prestiti nella propria valuta (dato che sia il dollaro, sia l’euro sono valute di riserva internazionale), cosa che hanno fatto durante la crisi finanziaria del 2008?
La ragione è fondamentalmente storica e istituzionale, dal momento che lo sviluppo di un’Europa federale è a uno stadio molto più arretrato di quello degli Stati Uniti, unitamente alla forte influenza dell’ideologia liberale tedesca nella “costituzione economica” europea. A partire dalla loro costituzione nel 1787, quando si sono sbarazzati delle soluzioni confederali, gli Stati Uniti si sono avviati lungo un percorso inarrestabile di rafforzamento del sistema federale: nel 1790 il consolidamento del debito degli Stati proposto da Hamilton, nel 1908 la creazione dell’FBI, nel 1913 l’introduzione definitiva dell’imposta federale sul reddito e di una banca centrale, e, successivamente, il lancio di grandi programmi federali nel quadro del New Deal di Roosevelt (per tutti gli anni Trenta e Quaranta: investimenti in grandi progetti di infrastrutture per la ripresa dalla Grande depressione, l’introduzione della sicurezza sociale, i fondi di garanzia dei depositi, ecc.), la Big Society di Johnson (negli anni Sessanta: programmi di assistenza sanitaria per i poveri e gli anziani, Medicaid e Medicare, protezione dei diritti civili in tutto il paese, ecc.). Anche la Seconda guerra mondiale e la Guerra fredda hanno contribuito al rafforzamento dei poteri del governo centrale con l’ampliamento dell’esercito federale, la formazione del complesso militare-industriale e la creazione della CIA.
Sebbene il disastro della Seconda guerra mondiale sia stato precisamente il catalizzatore del progetto federale europeo (la dichiarazione Schuman è del 1950), in realtà non solo abbiamo iniziato questo viaggio più di un secolo e mezzo dopo quello statunitense, ma il processo è stato guidato da un gruppo di nazioni con livelli di statualità, eredità storica e diversità notevolmente più alti delle 13 colonie americane del XVIII secolo. Da questo punto di vista, l’Unione europea, gradualmente e con un notevole sforzo per superare la resistenza dei suoi governi nazionali, si è dotata di diverse istituzioni federali chiave, come un parlamento eletto direttamente, con poteri legislativi, che nomina l’esecutivo (la Commissione); una corte le cui sentenze sono vincolanti; un quadro di cittadinanza europea in aggiunta a quelle nazionali; una moneta emessa dalla banca centrale, e diversi programmi di spesa condivisi (agricoltura, scambio di studenti, ricerca, infrastrutture, ecc.). La nostra Unione volontaria di Stati nazionali in corso di federalizzazione è senza dubbio un’enorme conquista storica, senza precedenti, che ha portato a più di 70 anni di pace e prosperità per gli europei, e non deve essere sottovalutata.
Tuttavia, è anche vero che l’UE non ha ancora un tesoro finanziato da tasse paneuropee che sia in grado di emettere obbligazioni federali — principalmente per affrontare crisi straordinarie come quella che stiamo vivendo ora, o programmi di welfare a livello continentale, per non parlare di agenzie al livello dell’FBI, o di forze armate europee. D’altra parte, il lancio dell’euro ha dovuto essere bilanciato dal Patto europeo di stabilità e crescita, che pone severi limiti al debito pubblico e al deficit e vieta alla BCE di finanziare gli Stati membri o l’Unione stessa. Tali vincoli non esistono nella Costituzione americana.
Per quanto riguarda la politica monetaria espansiva della BCE, essa è regolarmente criticata dagli euroscettici che influenzano l’opinione pubblica tedesca, e viene esaminata con la lente d’ingrandimento, in modo non sempre coerente con il diritto dell’Unione europea e con il suo primato, dal Bundesverfassungsgericht, la Corte costituzionale tedesca con sede a Karlsruhe. In effetti, essa ha emesso sentenze ambigue riguardo alla messa in comune della sovranità tedesca attraverso le riforme dei trattati, o semplicemente strane, per esempio nella sua posizione sul sistema elettorale del Parlamento europeo, che non ritiene “reale”.
Non c’è dubbio che la questione della mutualizzazione del debito in uno spirito di solidarietà, attraverso mezzi monetari o fiscali, sia stata un tabù dal punto di vista territoriale, ideologico e istituzionale, almeno fino a quando è arrivato il colpo della pandemia, come dimostrato dalla perniciosa distinzione tra nazioni creditrici (del Nord, serie e risparmiatrici) e paesi debitori (del Sud, frivoli e spendaccioni). I programmi di acquisto del debito pubblico degli Stati membri da parte della BCE non sono formalmente destinati a mutualizzare il debito (questo è vietato dal trattato di Lisbona), ma a trasferire più efficacemente le operazioni di politica monetaria. Diversi casi sono stati comunque già valutati a Karlsruhe con risultati più o meno soddisfacenti. Ciò detto, l’ultima sentenza della Corte costituzionale tedesca su questa materia, del 5 maggio 2020, è giunta ad ignorare la giurisprudenza della Corte di giustizia europea e ad imporre le condizioni di Karlsruhe al programma BCE. Sfortunatamente, fino ad oggi, la Commissione non ha intentato una causa contro la Germania presso la Corte di giustizia europea per aver violato il primato del diritto comunitario.
Per quanto riguarda la mutualizzazione del debito attraverso gli eurobond, questa è stata rifiutata dalla Merkel al tempo della crisi dell’euro del 2010, quando è stato raggiunto un accordo su un’alternativa sotto forma di un meccanismo di prestito per salvare gli Stati membri in difficoltà (ESM) e di un progetto per costruire un’unione bancaria, che ancor oggi, dopo dieci anni, non include un sistema comune di assicurazione dei depositi. Il debito congiunto è stato parzialmente accettato dai governi dei paesi definiti “frugali” solo dopo dure contrattazioni e a certe condizioni, al fine di finanziare il Piano di recupero europeo per affrontare le ricadute economiche e sociali della pandemia. Di conseguenza, l’accordo del 21 luglio 2020 di distribuire 750 miliardi di euro di prestiti e di permettere trasferimenti per finanziare il debito comune da ripagare con future tasse paneuropee rappresenta una pietra miliare federale senza precedenti dal lancio dell’euro nel 1992.
Tuttavia, gli ostacoli politici e istituzionali all’approvazione e all’effettiva attuazione di questo accordo sono molto considerevoli, perché il trattato di Lisbona non regolamenta esplicitamente l’emissione di debito o la sua relazione con il principio del pareggio di bilancio. Inoltre occorre l’unanimità per l’approvazione del bilancio pluriennale e per quella sulla definizione dei contributi che lo finanziano (quest’ultima richiede anche la ratifica di 27 parlamenti nazionali), dai quali dipende il Piano di recupero. I veti nazionali dovranno anche essere superati se saranno introdotte in futuro una border tax sul carbonio, una tassa sulle transazioni finanziarie o una tassa sul digitale — necessarie per rimborso del debito. Inutile dire che la federazione americana ha un grado di coesione nazionale che rende impossibile il dibattito creditore-debitore che vediamo in Europa, e per di più non richiede l’approvazione unanime dei suoi cinquanta Stati per le decisioni su prestiti e tasse. E’ sufficiente un voto a maggioranza nelle due camere, sebbene, per certe decisioni, la vecchia usanza dell’ostruzionismo in Senato abbia alzato l’asticella (fino ad ora) nel 60% delle votazioni.
Tutti questi fattori spiegano perché, a più di un anno dalla diffusione della pandemia in Europa, il Piano non sia ancora utilizzabile (tranne qualche anticipazione, tenendo conto che la scadenza per la presentazione dei piani nazionali di spesa dei fondi è il 30 aprile). C’è il rischio che il Piano non venga attuato fino al 2022 o forse mai nel peggiore dei casi, visto il nuovo ricorso presentato alla Corte costituzionale tedesca. Per la cronaca, il Piano è stato inizialmente concepito, dal punto di vista concettuale, nel marzo 2020, con l’approvazione da parte del Parlamento europeo, in aprile e maggio, di due risoluzioni chiave, significativamente influenzate dalle proposte spagnole, franco-tedesche e della Commissione. Le resistenze alla mutualizzazione del debito opposte dai governi di Austria, Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi e Svezia sono state superate a luglio in cambio di una riduzione del bilancio ordinario, di un aumento dei rimborsi dei loro contributi e di alcuni poteri di intervento sui pagamenti degli Stati membri. Il veto dell’Ungheria e della Polonia — entrambe insoddisfatte del collegamento dell’assistenza finanziaria europea al rispetto dei principi dello Stato di diritto all’interno degli Stati membri — è stato superato a dicembre in cambio di un impegno politico della Commissione a non applicare tale meccanismo fino alla sentenza della Corte di giustizia europea sulla sua conformità al trattato (di per sé, una mossa che ha tutta l’aria di essere estremamente incostituzionale). Da allora, all’inizio della primavera del 2021 e in aggiunta alle difficoltà incontrate nell’attuazione della strategia dell’UE sui vaccini, mancavano 14 ratifiche nazionali. Tra queste, quella della Germania, bloccata in via precauzionale da Karlsruhe in seguito ad una nuova causa che mette in dubbio che il Piano rispetti la Costituzione tedesca e persino i trattati europei. A brevissimo termine, questa misura precauzionale è senza conseguenze perché, purtroppo, molti altri Stati membri devono ancora ratificare i contributi al bilancio pluriennale e non è previsto che ciò avvenga prima della fine di giugno. In ogni caso, però, è molto preoccupante che la Corte costituzionale tedesca non approvi rapidamente il Piano; come è successo in casi simili del passato, ad esempio nel 2012 — come ci ha ricordato Pablo Suanzes nel suo articolo su El Mundo del 26 marzo —, quando fu creato il Meccanismo europeo di stabilità. C’è, tuttavia, un altro possibile scenario che non può essere escluso: che Karlsruhe interroghi la Corte di giustizia europea sulla costituzionalità del Piano rispetto ai trattati, continuando a bloccare la ratifica della Germania, decisione che sembra debba essere riconsiderata entro tre mesi. In quest’ultimo caso, qualora la misura precauzionale non venisse revocata mentre la domanda di pronuncia pregiudiziale viene sottoposta alla Corte di giustizia europea e la questione viene esaminata a fondo, il processo potrebbe durare anni. Questo rappresenterebbe un colpo mortale per il Piano di recupero e aprirebbe la via alla minaccia che la Corte costituzionale tedesca ignori ancora una volta la Corte di giustizia europea e concluda che il Piano viola il diritto comunitario.
Quindi, che cosa si può fare a questo proposito? Sarebbe politicamente opportuno accelerare l’approvazione delle 13 ratifiche dei contributi al bilancio pluriennale ancora in sospeso. Idealmente, la Commissione dovrebbe lanciare una prima emissione di debito per essere in grado di iniziare ad attuare il Piano entro quest’anno (2021), rafforzando la fiducia nella possibilità di ripresa. Tuttavia, il regolamento (UE) 2020/2094 del Consiglio, del 14 dicembre 2020, che fornisce la base giuridica per questa operazione, collega esplicitamente la raccolta di fondi alla previa adozione della decisione sui contributi al bilancio (nota come decisione sulle risorse proprie dell’Unione), che non è ancora in vigore a causa delle ratifiche nazionali in sospeso, tra cui, fino a chissà quando, quella della Germania. In realtà — come ho sostenuto in altri articoli (vedi Recovery Plan for Europe: how to circumvent the Hungary and Poland veto su Sistema Digital del 19 novembre 2020), dopo il veto ungherese-polacco di dicembre — non è mai stato indispensabile legare l’emissione del debito, sulla base dell’articolo 122 del Trattato sul funzionamento dell’UE (che non richiede unanimità o ratifiche nazionali), al bilancio pluriennale e ai relativi contributi, purché ci siano garanzie che si possa elaborare un piano di rimborso del debito compatibile con il tetto di spesa, qualunque esso sia. Questa opzione è messa in discussione da alcuni osservatori e, se adottata, sarebbe molto probabilmente contestata dalla Corte costituzionale tedesca o dalla Corte di giustizia europea. Tuttavia, in linea di principio, non impedirebbe l’attuazione del Piano: Karlsruhe non avrebbe a disposizione una ratifica nazionale da bloccare e la Corte di giustizia europea non è nota per abusare delle misure precauzionali. Tuttavia, se Karlsruhe non dissipa rapidamente i dubbi sulla ratifica tedesca, al fine di poter procedere con urgenza all’emissione di eurobond, necessari alla sopravvivenza del Piano, bisogna prendere in seria considerazione l’alternativa di un nuovo regolamento ad hoc basato sulla suddetta ipotesi. In tal caso, sarà necessario continuare a fare affidamento per tutto alla spesa nazionale indirettamente finanziata dalla BCE, cioè alla mutualizzazione monetaria, vista l’impossibilità di innescare la mutualizzazione del debito.
A medio termine è assolutamente necessario che il primato del diritto dell’UE — contestato dalla Corte costituzionale tedesca nella sua sentenza del maggio 2020 — sia riaffermato attraverso un’azione di infrazione portata davanti alla Corte di giustizia europea, iniziativa che può essere presa solo dalla Commissione, e che la Costituzione tedesca sia sottoposta a revisione. Inoltre, con l’inizio della Conferenza sul futuro dell’Europa, è fondamentale iniziare a lavorare sulla riforma del trattato di Lisbona per eliminare i requisiti dell’unanimità e delle ratifiche parlamentari nazionali per alcune questioni, perché non possiamo continuare ad essere sottoposti a questo tipo di andirivieni giudiziario e politico nazionale. È anche necessario introdurre certezza giuridica e coerenza nel trattato per quanto riguarda le decisioni sul debito e sul suo rimborso; rivedere le caratteristiche pro-cicliche del Patto di stabilità e crescita, includendo la possibilità che la BCE finanzi almeno l’Unione in circostanze eccezionali; e dare a questa nascente unione finanziaria e fiscale piena legittimità democratica, dato che il Parlamento europeo è escluso dalle decisioni sull’adozione dell’emissione del debito e delle corrispondenti tasse paneuropee. Accanto alle quattro libertà del mercato unico, potrebbe anche essere incluso un pilastro ambientale e sociale. Per l’Europa, questo programma costituirebbe il grande salto federale ancora da compiere.
Aprile 2021
Domènec Ruiz Devesa
Anno LXIII, 2021, Numero 1, Pagina 14
POLITICHE DI VICINATO
La politica estera dell’Unione europea dopo il Trattato di Lisbona.
Nonostante il trattato di Lisbona abbia introdotto alcune novità in tema di politica estera e di sicurezza dell’Unione, il funzionamento di tale settore risulta ancora legato indissolubilmente alla volontà degli Stati membri. Infatti, sebbene il Trattato di Lisbona reciti “Gli Stati membri sostengono attivamente e senza riserve la politica estera e di sicurezza comune dell’Unione in uno spirito di lealtà e di solidarietà reciproca”,[1] la portata di tale affermazione viene limitata da due dichiarazioni allegate all’Atto finale del Trattato, in particolare dalla n. 13, secondo cui “le disposizioni del trattato sull’UE riguardanti la politica estera e di sicurezza comune, (…), lasciano impregiudicate sia le competenze degli Stati membri (…) per la formulazione e la conduzione della loro politica estera, sia la loro rappresentanza nazionale nei paesi terzi e nelle organizzazioni internazionali”, e dalla n. 14, secondo cui “le disposizioni riguardanti la politica estera e di sicurezza comune, (…) non incidono sulla base giuridica, sulle responsabilità e sui poteri esistenti di ciascuno Stato membro per quanto riguarda la formulazione e la conduzione della sua politica estera, il suo servizio diplomatico nazionale, le relazioni con i paesi terzi e la partecipazione alle organizzazioni internazionali compresa l’appartenenza di uno Stato membro al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”. L’importanza degli Stati è poi confermata da tutte le norme del Trattato sull’UE relative alla PESC, che attribuiscono un ruolo assolutamente centrale al Consiglio e al Consiglio europeo, che in tale settore decidono all’unanimità.
Per quanto riguarda il Parlamento europeo, il Trattato di Lisbona non ne modifica sostanzialmente il ruolo in materia di politica estera e di sicurezza comune, che, pur rafforzato, resta limitato all’informazione o alla consultazione da parte del Consiglio o dell’Alto rappresentante.
L’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza ha un ruolo chiave nella nuova struttura istituzionale preposta alla politica estera introdotta a Lisbona: gli sono attribuiti tre ruoli: è a capo della PESC/PSDC, concorre alla stesura di programmi e progetti in questo ambito[2] e partecipa ai lavori del Consiglio europeo;[3] è Presidente della formazione “Affari esteri” del Consiglio; è vice-Presidente della Commissione, quindi vigila sull’azione esterna di questo organo e garantisce il collegamento tra i vari settori della politica estera.[4]
La possibilità di partecipare attivamente ai lavori del Consiglio europeo, del Consiglio dell’UE e della Commissione, ne fa una figura di collegamento tra i due principali poli della politica estera dell’UE: la PESC e l’insieme delle politiche esterne.
Un’ulteriore importante innovazione del Trattato di Lisbona è l’istituzione di un Servizio europeo per l’azione esterna, con cui si crea de facto un corpo diplomatico europeo. Esso si presenta come un organo sui generis, con il compito di supporto sia all’Alto Rappresentante, sia alla Commissione, al suo Presidente, e al Presidente del Consiglio europeo. La creazione di tale organo non è stata esente da difficoltà. A livello organizzativo, il fatto che sia costituito unicamente da diplomatici provenienti dagli Stati membri, con culture burocratiche e metodologie di azione diverse, non ha permesso un ottimale coordinamento tra le diverse componenti. Ne consegue che le strutture preposte alla PSDC risultano caratterizzate da lentezza e inefficienza nei processi decisionali e da una coordinazione interna ancora da migliorare per molti aspetti. Inoltre, la poca chiarezza nella divisione delle responsabilità negli ambiti la cui conduzione è condivisa con la Commissione (come, ad esempio, la gestione di alcuni programmi di cooperazione esterna) ha creato problemi di coordinamento tra queste due istituzioni, quando non veri e propri scontri.
La collaborazione tra le delegazioni dell’UE e le reti diplomatiche nazionali mostra ancora ampi margini di miglioramento, sia nell’ambito della condivisione di informazioni (non ancora reciproca ai sensi della Decisione 23), sia nel coordinamento presso le sedi istituzionali multilaterali.
La gestione delle politiche migratorie a livello europeo.
Nell’UE la politica migratoria è regolata dal cosiddetto sistema di Dublino, introdotto con lo scopo di conciliare e uniformare le politiche degli Stati membri dell’UE in materia di asilo e inizialmente formalizzato nella Convenzione di Dublino, firmata nel 1990 dai dodici paesi che in quell’anno facevano parte dell’Unione. Esso identifica i paesi cui compete l’esame delle richieste di asilo e dovrebbe garantire ad ogni richiedente che la sua domanda sia presa in considerazione nel rispetto della convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951. Il principio fondante di questo sistema è quello del primo paese d’arrivo, secondo cui lo Stato deputato alla valutazione della richiesta è quello d’ingresso nell’Unione.
Con l’entrata in vigore del trattato di Amsterdam, nel 1999, e la conseguente “comunitarizzazione” del terzo Pilastro, il diritto d’asilo è diventato di competenza comunitaria e nel 2003 il regolamento Dublino II è subentrato alla Convenzione. Il nuovo regolamento era applicato in tutti gli Stati dell’Unione — tranne la Danimarca — e in quattro paesi non facenti parte dell’Unione: Svizzera, Liechtenstein, Norvegia e Islanda. Esso confermava il principio del primo paese d’arrivo.
Il 1° gennaio 2014 è stato introdotto il regolamento di Dublino III, che ribadisce i princìpi basilari dei precedenti accordi, in particolare il principio del primo paese di arrivo, e conferma l’impossibilità di presentazione di domanda di asilo in più di uno Stato. Questa misura è supportata dal database Eurodac (European Dactyloscopie), archivio informatico delle impronte digitali dei richiedenti asilo e delle persone fermate mentre tentavano di entrare illegalmente nei territori dell’Unione, che consente di verificare se un richiedente asilo abbia già fatto una richiesta in un altro Stato. Tra le novità più significative si segnalano l’allargamento dei termini per il ricongiungimento familiare, la possibilità di fare ricorso contro un ordine di trasferimento e un incremento nelle tutele per i minori.
Il sistema di Dublino è stato criticato in diverse occasioni e da numerosi organi, in particolare dal Consiglio europeo per i rifugiati e dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Anzitutto si ritiene che il sistema non assicuri una protezione idonea ai richiedenti asilo, spesso obbligati ad aspettare molto tempo, a volte anche anni, prima dell’esame delle loro domande. Inoltre, esso viene tacciato di non tenere in sufficiente conto i ricongiungimenti familiari, e soprattutto viene messo sotto accusa per principio del primo paese d’arrivo, poiché causa una pressione eccessiva sui paesi posti alle frontiere meridionali dell’Unione, che costituiscono oggi il portone d’ingresso per la maggior parte dei migranti e dei profughi. Tutti questi problemi sono in gran parte legati al fatto che questo sistema era stato pensato originariamente per gestire le richieste di asilo dai paesi ex-comunisti provenienti dall’Europa dell’est dopo il 1989.
Dopo la cosiddetta crisi dei rifugiati del 2015, la sproporzione tra i paesi europei nell’accoglienza dei profughi ha reso palese l’esigenza di una nuova legislazione europea in materia di asilo. Una bozza di riforma era stata presentata dalla Commissione europea. Essa, tuttavia, non modificava le regole alla base del regolamento di Dublino. Successivamente nel novembre del 2017 il Parlamento europeo ha dato la sua approvazione ad una proposta di riforma di più ampio respiro, che però non è stata adottata dal Consiglio. Tale proposta includeva un superamento degli standard di Dublino ed eliminava il principio del primo paese d’arrivo sostituendolo con un apparato organizzativo permanente e automatico di ricollocamento delle persone che presentassero richiesta di asilo, basato su un sistema di quote, in cui sarebbero stati coinvolti tutti gli Stati membri. I principali oppositori alla riforma proposta dal Parlamento sono stati i governi del cosiddetto gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia), l’Olanda, la Francia e l’Italia.
L’esternalizzazione.
Per tamponare la crisi migratoria del 2015, d’altra parte, l’UE ha fatto ampiamente ricorso all’esternalizzazione. Per esternalizzazione del controllo delle frontiere e del diritto dei rifugiati si intende “l’insieme delle azioni economiche, giuridiche, militari, culturali, prevalentemente extraterritoriali, poste in essere da soggetti statali e sovrastatali, con il supporto indispensabile di ulteriori attori pubblici e privati, volte ad impedire o ad ostacolare che i migranti (e, tra essi, i richiedenti asilo) possano entrare nel territorio di uno Stato al fine di usufruire delle garanzie, anche giurisdizionali, previste in tale Stato, o comunque volte a rendere legalmente e sostanzialmente inammissibili il loro ingresso o una loro domanda di protezione sociale e/o giuridica”.[5]
Quali sono i principali problemi legati a questo tipo di gestione della politica estera e migratoria adottata dall’UE? Innanzitutto, una significativa maggioranza dei 35 paesi con cui l’UE ha concluso accordi di esternalizzazione hanno regimi autoritari, se non dittatoriali. Spesso l’esternalizzazione comporta un aumento della militarizzazione per il controllo sui flussi migratori, per cui i governi di tali paesi approfittano di questi accordi per aumentare il proprio arsenale militare, investendo denaro che potrebbe essere utilizzato per migliorare le condizioni di vita della loro popolazione.
In altre parole, esternalizzare significa subappaltare per rendere invisibili, per tenere lontano dagli occhi degli elettori europei le conseguenze delle proprie politiche, per impedire la visione delle sofferenze e delle disparità che questo tipo di accordi genera.
Per comprendere meglio questo fenomeno vengono esposti di seguito due paradigmatici esempi di accordi di questo tipo firmati dall’UE: il primo stipulato con la Libia e il secondo con la Turchia.
La situazione libica.
Nel 2015 è iniziato il cosiddetto Processo di Khartoum, con l’obiettivo di ridurre fino ad interrompere completamente i flussi migratori che giungevano dal Sud della Libia. Nell’ambito di questo progetto l’UE ha tentato di includere in maniera sempre più significativa il Niger in una possibile operazione anti-trafficanti, con l’intento di bloccare la via nigerina di Agadez, una delle più importanti arterie migratorie dall’Africa subsahariana.
Questa operazione tuttavia è stata condotta senza tenere sufficientemente in conto la condizione socio-economico-politica del Niger, paese privo di reali fonti di reddito: per la sua economia i guadagni derivanti dai traffici di migranti costituiscono una delle pochissime entrate sicure nel tempo, soprattutto da quando è scomparso il mercato libico, che costituiva lo sbocco privilegiato per molti nigerini in cerca di lavoro, con la conseguenza che il traffico di esseri umani costituisce per una parte significativa della popolazione sub-sahariana l’unica possibilità di avere un reddito.
L’accordo, firmato tra Italia, Germania, Francia, Spagna, Niger, Ciad e Libia, prevedeva aiuti economici, versati dai paesi europei, da impiegare per la collaborazione nel controllo dei flussi e la costruzione di nuovi centri di accoglienza per i migranti di passaggio, in cambio di un maggior impegno da parte dei governi africani nella lotta al traffico di migranti.
A questo accordo si collega il Memorandum d’intesa sottoscritto tra Italia e Libia il 2 febbraio 2017, il quale ha avuto l’approvazione dei membri del Consiglio UE attraverso la Dichiarazione di Malta sull’immigrazione del 3 febbraio 2017. Basandosi su questa dichiarazione, l’UE ha stanziato trentuno miliardi di euro, da erogare negli anni successivi, come fondi per il progresso e lo sviluppo africano, dando priorità alle iniziative dedicate ai flussi migratori relativi alla Libia.
Tutte queste misure sono state fortemente criticate: secondo molti osservatori l’Europa è stata disposta ancora una volta a ignorare le violazioni dei diritti umani perpetrate direttamente o indirettamente dai governi locali, spesso corrotti e più interessati a lucrare sugli aiuti europei che a migliorare le condizioni di vita dei loro cittadini e dei migranti.
Quindi, se non si interviene sulle ragioni che spingono le persone a migrare, per lo più strettamente legate alla povertà, finché quindi ci sarà domanda, il traffico (anche se illecito) si protrarrà, magari spostandosi su altre rotte più pericolose.
Le denunce di questi crimini e i tentativi di reprimerli sono doverosi e importanti, ma non saranno mai in grado da soli di eradicare un fenomeno che scaturisce da ragioni economico-sociali, che andrebbero affrontate dai governi europei con un impegno non solo finanziario e militare.
Turchia.
Il 18 marzo 2016 i governi europei hanno stipulato con la Turchia un accordo riguardo alla gestione dell’arrivo dei migranti in Grecia, i cui principali punti sono:
Questo accordo nasconde numerose criticità. Innanzitutto, la Turchia non può essere considerata un paese sicuro e rispettoso dei diritti umani. Inoltre, riguardo al ritorno forzato in Turchia per chi, giunto in Grecia, non ha presentato richiesta di asilo o per chi ha fatto domanda ma è stata rifiutata, esso può celare il concreto pericolo di una violazione del principio di non refoulement secondo cui è espressamente vietato espellere o respingere “in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche ”,[6] soprattutto perché la Turchia ha ratificato solo la Convenzione di Ginevra per i Rifugiati, ma non ha mai sottoscritto il successivo “Protocollo relativo allo status di rifugiato” del 1967, che elimina ogni limitazione geografica e temporale. Di fatto, dunque, la Turchia non ha nessun obbligo verso cittadini non europei che giungono nel suo territorio per presentare domanda di asilo.
La dimostrazione concreta che questo tipo di accordi non è risolutivo è costituita dagli eventi verificatisi nelle isole greche. In questi territori la situazione è precipitata il 27 febbraio 2019 quando il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha annunciato la decisone di aprire le frontiere verso l’Europa. La situazione è ulteriormente peggiorata quando, il 1° marzo, il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis ha sospeso l’esame delle richieste di protezione dei migranti in arrivo dalla Turchia invocando il comma 3 dell’articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell’UE secondo cui “qualora uno o più Stati membri debbano affrontare una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi, l’Unione può adottare speciali misure temporanee”. L’apertura delle frontiere ha provocato un’emorragia umana verso la Grecia di migliaia di persone che ora si trovano bloccate in campi profughi fatiscenti, sovraffollati, privi di qualsiasi norma igienico-sanitaria, situazione particolarmente grave anche in considerazione della pandemia di Covid-19 in corso. Ci sono già stati scontri con la popolazione locale e con la polizia; inoltre un incendio causato da un focolare non controllato ha distrutto il più grande centro profughi d’Europa sull’isola di Moira, causando ulteriori disagi e ricollocamenti.
È quindi davanti agli occhi tutti l’insufficienza e l’inadeguatezza dell’esternalizzazione nella gestione dei flussi migratori.
Il nuovo Patto sulla migrazione e sull’asilo.
Il 23 settembre 2020 la Commissione europea ha presentato il nuovo patto sulla migrazione e asilo, e la relativa tabella di marcia.[7]
Alla base di questo patto vi è l’obiettivo di ridurre i flussi attraverso rigidi controlli pre-frontiera, idea già avanzata nella proposta di riforma del 2017 e alla quale la Commissione assegna un ruolo centrale per evitare che persone prive dei requisiti per la richiesta della protezione internazionale entrino in Europa.
Infatti è prevista l’istituzione di un preciso meccanismo da mettere in opera prima dell’ingresso del migrante: tutte le persone che raggiungono il territorio europeo o sono intercettate all’interno dell’UE in situazione non regolare devono essere trattenute alla frontiera per un periodo di tempo massimo di dieci giorni, durante i quali verranno identificate e instradate nel binario di coloro che richiedono la protezione internazionale o di chi si trova in situazione di irregolarità, quindi privo di diritto di attraversare la frontiera. Questo procedimento è già attivo in Italia in applicazione del criterio hot-spot dettato dalla Commissione europea stessa in occasione dell’attuazione delle risoluzioni sulla ricollocazione. Questo approccio viene esteso ora a tutta l’Unione ed anche ai migranti irregolari fermati in qualsiasi momento dopo l’ingresso. Viene quindi incrementata la propensione ad anticipare sempre di più la valutazione dell’esistenza di un diritto ad accedere al territorio europeo.
Viene anche proposto un modulo unico per tutti gli Stati membri che dovrà essere compilato dopo aver eseguito la valutazione preliminare, ma non sono ancora stati definiti con precisione i criteri che le autorità dovranno applicare per stabilire chi è richiedente asilo e chi non lo è.
Nella medesima logica si inserisce anche l’ampliamento dell’applicazione della procedura accelerata di frontiera, già presente nel sistema europeo di asilo in vigore. Esso prevede che tra gli autentici richiedenti protezione, vengano distinti ulteriormente coloro che hanno diritto ad una procedura ordinaria da quanti vanno sottoposti ad una procedura accelerata da concludersi alla frontiera. Anche in questo caso non sono stati ancora definiti criteri precisi per operare la distinzione.
La maggiore novità di questo patto è l’impegno da parte della Commissione europea a redigere un documento di previsione annuale, che fornisca una stima del numero di persone che giungeranno dalle coste meridionali dell’Europa nel corso dell’anno. Gli Stati membri verranno interpellati sulla loro disponibilità ad accogliere una parte delle persone previste. Il sistema della ricollocazione si baserebbe dunque su un gruppo di Stati volenterosi, ricalcando a grandi linee quello che era già stato approvato nell’accordo di Malta di settembre 2019. L’innovazione sta nell’offrire agli Stati non disponibili ad accogliere richiedenti protezione internazionale la possibilità di dare il loro contributo diventando sponsor dei rimpatri. Tale contributo può assumere le forme più diverse, non soltanto quella finanziaria, ma anche quella di assumere il ruolo di interlocutore privilegiato con le autorità dei paesi terzi dove le persone devono essere rimpatriate, sfruttando così le diverse aree di influenza e gli specifici accordi di riammissione bilaterali che gli Stati membri hanno concluso. In attesa del rimpatrio la persona permane nello Stato dove è sbarcato, ma, se dopo otto mesi il rimpatrio non è avvenuto, allora verrà traferito nello Stato con funzione di sponsor per il rimpatrio.
Vi sono alcuni aspetti positivi da sottolineare. Innanzitutto, la valorizzazione dei legami familiari, anche di quelli che si sono instaurati lungo il viaggio. Questo può essere potenzialmente molto importante, ma lo sarà unicamente se verrà accompagnato dalla semplificazione della prova dell’esistenza dei legami familiari. Su questo punto la proposta introduce solo qualche indicazione.
Un’altra nota positiva riguarda il possibile allargamento della libertà di circolazione dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lunga data, inclusi coloro che beneficiano della protezione internazionale. Tuttavia, nessuna proposta concreta è stata ancora presentata. Per questo occorrerà aspettare, secondo quanto indicato dalla tabella di marcia, il quarto trimestre 2021, sempre salvo ritardi e rinvii.
Non mancano gli aspetti negativi, prima di tutto il fatto che il nuovo patto non riempie la profonda lacuna nell’ambito della regolamentazione della migrazione economica. Il massimo che si è riusciti a stabilire, finora, è la proposta di effettuare una consultazione pubblica per riflettere su possibili proposte. L’assenza di una legislazione in materia di migrazione economica, unita alla quasi totale cancellazione di qualsiasi possibilità di entrare con il fine di trovare lavoro negli Stati membri, è tra le principali motivazioni che spingono alla migrazione irregolare.
Inoltre, è importante chiedersi se il nuovo patto costituisca o meno un superamento del sistema di Dublino. Questo viene infatti eliminato formalmente, ma la sua eco rimane nella pratica. In effetti, le regole sulla determinazione dello Stato preposto alla valutazione della domanda di protezione internazionale verranno conservate. In sostanza la Commissione conferma il principio del primo paese di arrivo, che, come detto in precedenza, è uno, se non il più, criticato punto del sistema di Dublino.
Risulta dunque chiaro che il successo del sistema risiede nei piccoli numeri: la riduzione del numero dei richiedenti protezione internazionale, ottenuta tramite il contenimento dei flussi, la limitazione dell’accesso al territorio e le procedure accelerate di frontiera, dovrebbero rendere meno difficoltosa la collaborazione degli Stati.
In generale l’auspicio della Commissione è che con un incremento nella programmazione e all’innovativo strumento della sponsorship sul rimpatrio, vengano temperate le tensioni tipiche sistema di Dublino. È però altamente improbabile che ciò avvenga, poiché le tensioni tra gli Stati si potranno ridurre solo se vi sarà nel futuro prossimo una diminuzione drastica degli sbarchi e quindi maggiore semplicità nell’accordarsi per l’accoglienza e il trasferimento. Ma se le misure pensate per ottenere la riduzione dei flussi non saranno efficaci, l’intero progetto non potrà ottenere i risultati auspicati.
Questo è anche conseguenza del fatto che gli strumenti individuati sono solo minimamente innovativi. In effetti, la cooperazione con i Paesi di origine per moderare il numero delle partenze ed effettuare i rimpatri, il consolidamento dell’organizzazione delle frontiere esterne, il rafforzamento dei rimpatri, il divieto dei movimenti secondari sono i fondamenti della politica europea di immigrazione e asilo di ieri, oggi e probabilmente anche di domani. Le misure pensate per incrementare il sistema europeo di asilo sono quasi sempre rivolte a potenziare l’efficienza, l’efficacia delle procedure e ad aumentare l’uniformità di applicazione delle norme tra gli Stati membri. Molto raramente vengono ideate misure con il fine di innalzare il livello di tutela del diritto alla protezione internazionale nell’UE.
In conclusione, il nuovo patto sulla migrazione sull’asilo è un importante segno che l’UE si sta interrogando sulla modifica della propria gestione della politica estera e migratoria, ma deve essere visto come un punto di partenza, non come un punto di arrivo. Ci sono sicuramente segnali positivi, ma il ragionamento che guida questo patto è ancora troppo legato alla mentalità precedente e non affronta punti cruciali per la risoluzione dei problemi. La politica migratoria ed estera non potrà mai essere efficiente e garantire il rispetto dei diritti umani, di cui l’Europa si vanta di essere garante, se non sarà gestita a livello centrale e se continuerà a basarsi sulla volontà di cooperare dei singoli Stati.
Anna Comelli
[1] Articolo 24, comma 3 TUE.
[2] Articolo 18.2 TUE.
[3] Articolo 15.2 TUE.
[4] Articolo 18.4 TUE.
[5] Definizione dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI).
[6] Art 33 della convenzione di Ginevra sui rifugiati.
[7] https://ec.europa.eu/info/publications/migration-and-asylum-package-new-pact-migration-and-asylum-documents-adopted-23-september-2020_en.
Anno LXII, 2020, Numero 1-2, Pagina 72
L’INCERTO FUTURO DEL MERCOSUR
Nell’agosto del 2017, l’ex-Presidente dell’Uruguay Luis Alberto Lacalle in una intervista al quotidiano argentino La Nación dichiarò che “…il Mercosur è in agonia e non serve più a nulla”.[1] Lacalle, nel 1991, in qualità di Presidente dell’Uruguay, aveva firmato il Trattato di Asunción insieme ai presidenti di Argentina, Brasile e Paraguay dando così vita al Mercosur. Negli intenti si trattava di un progetto di integrazione economica e politica che voleva seguire il modello dell’Unione Europea, come più volte sottolineato nei documenti preparatori. A quasi trenta anni dalla sua nascita, il Mercosur sta vivendo una profonda crisi rispetto al progetto ispiratore, sino a far temere per una sua deriva dopo gli avvenimenti degli ultimi anni. Per comprendere cosa è accaduto e cosa sta accadendo in questa area del Sud America è necessario cercare di analizzare alcune questioni, senza dimenticare, in primis, che solo dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso la democrazia si è affacciata nella regione. La nascita del Mercosur ha consolidato lo sviluppo economico e politico delle giovani democrazie, ma in questi ultimi anni rigurgiti nazionalistici, populismi e nostalgie di stampo militare stanno minando il progetto di integrazione.
Il Parlasur.
Il Consiglio del Mercato Comune del Mercosur, nel dicembre 2005, aveva stabilito le tappe per arrivare alla elezione diretta del proprio Parlamento denominato Parlasur. Nella prima fase alle riunioni del Parlasur avrebbero partecipato parlamentari eletti nelle fila dei rispettivi parlamenti nazionali. La prima riunione si tenne, come stabilito, nel 2006. In una seconda fase, nel corso del 2014, si sarebbero dovute svolgere le elezioni a suffragio universale per l’elezione diretta dei parlamentari.[2] Nel 2011 il Consiglio dei Capi di Stato del Mercosur rinnovò questa proposta, ma nell’aprile del 2019 con una dichiarazione congiunta dei Presidenti di Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay si è deciso di sospendere il progetto della elezione diretta. Si annunciava così la volontà di abolire l’idea di un Parlamento eletto direttamente dai popoli della regione rinviandolo sine die.[3]
Ogni Stato membro aveva ed ha un pari numero di membri (18) che si riuniscono una volta al mese nella sede del Parlasur a Montevideo. Con la decisione del Consiglio del 2005, si voleva procedere ad una elezione diretta a suffragio universale: proponendo il modello del Parlamento europeo che dal 1979 viene eletto direttamente. Ma sin da subito si frapposero degli ostacoli: innanzitutto il numero di rappresentanti spettanti ad ogni Stato membro. Un metodo puramente proporzionale per numero di abitanti avrebbe posto il Brasile in una posizione di maggioranza assoluta in occasione di una qualsiasi votazione. Con i suoi oltre 200 milioni di abitanti supera di gran lunga le popolazioni di Argentina (45 milioni), Paraguay (7 milioni), Uruguay (4 milioni) e Venezuela (33 milioni). Si poneva quindi l’esigenza di individuare un criterio di rappresentanza che impedisse da parte di un singolo paese di disporre della maggioranza precostituita. Mentre gli esperti di sistemi elettorali studiavano le varie opzioni, la politica iniziava a rinviare le elezioni di anno in anno. Quando fu trovata l’intesa sul numero di parlamentari spettanti a ciascun paese (43 all’Argentina, 75 al Brasile, 18 sia a Paraguay che a Uruguay, 32 al Venezuela per un totale di 186 rappresentanti), si pose il problema di scrivere una legge elettorale ad hoc in ogni Stato membro, disegnando i nuovi collegi elettorali. Il risultato è stato che solo il Paraguay ha scritto la propria legge elettorale ed eletto i propri 18 rappresentanti nel corso del 2018. Ma con la decisione di abolire l’elezione diretta dei parlamentari, si è deciso di mantenere l’attuale assetto del Parlamento con rappresentanti con il doppio mandato.
La questione di fondo è che le competenze del Parlasur sono rimaste puramente formali. Nel corso degli anni non gli sono stati assegnati compiti legislativi o di controllo del Consiglio, con il risultato che anche i parlamentari eletti direttamente, come quelli del Paraguay, hanno ammesso di sentirsi inutili e che è necessario “…dotare il Parlamento di competenze legislative e di controllo, caratteristiche principali di un organo legislativo, ma queste competenze sono oggi assegnate al Consiglio dei Capi di Stato, pertanto il nostro ruolo è totalmente inutile”.[4] D’altronde lo stesso Protocolo Costitutivo assegnava compiti puramente formali e consultivi al Parlasur.[5] Va però aggiunto che in seno al Parlasur non si è mai levata una voce da parte di un gruppo di parlamentari per condurre una battaglia che assegnasse loro reali competenze. A ben rappresentare la situazione che si è venuta a creare, il Ministro degli Esteri del Paraguay, Castiglioni, ha dichiarato che la sospensione delle elezioni era necessaria per studiare un miglior funzionamento delle attività del Parlasur “…anche se non esiste alcun progetto a tal proposito”.[6]
Ma se nel corso di questi anni si è arrivati addirittura alla drastica decisione di abolire l’elezione diretta del Parlasur è anche perché in seno ai Paesi membri si sono aperte profonde divisioni circa le prospettive future del Mercosur. L’allargamento ad altre nazioni ha inoltre creato gravi dissidi in seno al Consiglio. In ogni caso si è voluto riconfermare che la sovranità resta in capo ai singoli Stati membri, come i fatti del 2019 confermano.
L’adesione del Venezuela al Mercosur.
Il Mercosur prevede la possibilità di nuove adesioni, esattamente come è previsto dall’Unione Europea. La prima nazione a chiedere di aderire al Mercosur è stato il Venezuela nel 2007, dopo che nel 2006 aveva deciso di uscire dall’accordo economico regionale della Can.[7] L’adesione prevede un periodo di transizione nel corso del quale la nuova nazione partecipa in qualità di osservatore ai lavori sia del Consiglio che del Parlasur. Il Venezuela, ha aderito formalmente al Mercosur nel luglio del 2012 aprendo però una polemica ancora oggi non superata tra gli Stati fondatori. A contestare prima la richiesta di adesione e poi l’adesione formale del Venezuela è stato il Paraguay che riteneva la politica anti-statunitense, la politica economica e la politica sociale del Presidente venezuelano Chavez contraria ai principi fondativi del Mercosur. L’adesione attiva di una nuova nazione al Mercosur prevede che vi sia il voto favorevole e unanime dei Parlamenti dei Paesi membri. Con l’obiezione del Paraguay l’adesione del Venezuela non era possibile. Nel 2012 però accadde il fatto dirompente. Il Paraguay era stato momentaneamente sospeso dagli accordi del Mercosur in base al Protocolo democratico che consente agli Stati membri, con voto unanime dei rispettivi parlamenti, di sospendere temporaneamente uno Stato se accusato di violare i principi democratici. Il Paraguay venne sospeso dalle attività del Mercosur a seguito di una crisi politica interna che aveva visto l’allontanamento forzato del Presidente Lugo dopo che la sua rielezione era stata contestata con gravi disordini nel Paese.[8] Durante questo periodo di sospensione, venne presa la decisione di votare l’adesione definitiva del Venezuela, cosa che avvenne con la contrarietà del Paraguay impossibilitato però ad esprimere il proprio voto. Quando a fine 2012 rientrò a pieno titolo nel Mercosur non era più nelle condizioni di contrastare la partecipazione del Venezuela. La presenza del Venezuela nel Mercosur ha creato da subito forti contrasti anche per la figura ingombrante del Presidente Chavez che con la sua politica di rottura con gli USA e con le sue continue dichiarazioni pubbliche alimentava posizioni di politica estera non allineate a quella degli altri Stati membri, con l’eccezione dell’Uruguay. Dopo la morte di Chavez nel 2013 e la crisi apertasi in Venezuela nel 2017, con il Paese alle soglie di una guerra civile, venne votata la decisione di sospendere dal Mercosur la nazione caraibica, ricorrendo al Protocolo democratico.[9] Ma così, come ai tempi l’adesione del Venezuela era avvenuta tra contrasti, anche la sua sospensione richiese un intervento congiunto dei Presidenti di Argentina e Brasile per convincere l’Uruguay a votare a favore della sospensione. L’Uruguay resistette alcuni mesi prima di accettare il pressante invito delle due potenze regionali, nella convinzione che contro Maduro (il nuovo Presidente del Venezuela) fosse in atto una congiura internazionale capeggiata dagli USA.
Il tema dell’allargamento è ancora al centro del dibattito politico tra gli Stati membri e più in generale pone il tema della politica estera della regione, specie ora che si profila l’ingresso della Bolivia e del Cile che, da Paesi osservatori, si apprestano nei prossimi due anni ad entrare a pieno titolo nel Mercosur, salvo nuovi imprevisti e ritardi.
I prossimi candidati all’ingresso nel Mercosur: Bolivia e Cile.
L’anno 2019 per le due nazioni andine è stato drammatico. Scontri nelle piazze, interventi della polizia con cariche sui manifestanti, fuga all’estero del Presidente boliviano Morales per cercare di sedare la rabbia della folla che assediava il palazzo presidenziale, il coprifuoco in Cile con il ricorso ai militari dopo i tentativi di aggressione al Presidente Piñera.
Un quadro desolante e di paura per due nazioni che hanno conosciuto nel loro passato storie di colpi di stato a ripetizione (in Bolivia se ne contano 150 in poco meno di duecento anni) e di una feroce dittatura (il Cile del generale Pinochet). Nelle vicende tragiche di queste due nazioni, generate da questioni completamente differenti, si può tuttavia cogliere un elemento importante di novità: il diverso ruolo delle forze armate.
Le manifestazioni di protesta in Bolivia erano per contrastare la possibilità che il Presidente Morales si ricandidasse per un quarto mandato, in contrasto con la Costituzione. Pur di ottenere la possibilità di una nuova candidatura Morales aveva chiesto di indire un referendum per riformare a proprio favore la Costituzione. Perse il referendum, ma ciò nonostante chiese l’intervento del Tribunale Supremo (la Corte Costituzionale della Bolivia) che, contraddicendo l’esito referendario, dichiarò che Morales si poteva candidare in quanto negare una sua nuova candidatura sarebbe stato in contrasto con il diritto e la libertà dell’individuo. Il Tribunale Supremo era composto in maggioranza da giudici vicini al partito di Morales. Da quel momento le piazze dell’intero paese si riempirono di manifestanti per chiedere le dimissioni immediate di Morales, inneggiando alla difesa della Costituzione. Il fatto importante da sottolineare è che Morales, negli anni della sua Presidenza, aveva goduto di un ampio appoggio popolare grazie ai successi in campo economico che avevano portato al miglioramento generale delle condizioni di vita nell’intero Paese. La sua pretesa di mantenere la presidenza del Paese ha però scatenato la rabbia della popolazione che questa volta, contrariamente al passato, ha trovato nell’esercito il proprio sostenitore al punto che proprio il capo dell’esercito ha insistito con Morales perché abbandonasse il Paese prima di nuovi scontri di piazza. Era un fatto nuovo non solo per la Bolivia che l’esercito si facesse paladino della Costituzione democratica. In seno al Mercosur l’Uruguay prese posizione a favore di Morales, rimanendo però isolato.[10]
Anche in Cile l’esercito ha svolto un ruolo importante nel corso delle manifestazioni di protesta popolare che chiedevano una riforma della Costituzione a favore del ritorno al settore pubblico del sistema pensionistico, della sanità e della scuola. Negli anni della dittatura il Cile era diventato uno Stato iper-liberista che aveva portato alla privatizzazione, sul modello statunitense, del sistema pensionistico, della scuola e della sanità. Un modello che negli anni ha impoverito gran parte della popolazione rendendo inaccessibile ai più una pensione minima accettabile; un accesso alle Università anche ai meno abbienti e un accesso al sistema sanitario aperto a chiunque. Alle manifestazioni di piazza il governo rispose con la richiesta di aiuto non solo della polizia, ma anche dell’esercito, imponendo il coprifuoco. Nuove violenze che ai più hanno ricordato gli inizi della dittatura. Il richiamo dell’intera comunità internazionale al rispetto delle regole democratiche impose al governo di far rientrare nelle caserme l’esercito e di scendere a patti con i manifestanti. Memori degli avvenimenti che avevano portato al colpo di Stato in Cile nel 1973, questa volta la comunità internazionale reagì prontamente alle prime violenze dell’esercito imponendo un passo indietro. Ma qualche simpatia per l’intervento dei militari venne dal Brasile del nuovo Presidente Bolsonaro, un ex-capitano dell’esercito.
Bolsonaro Presidente del Brasil Primero.
Lava Jato, le Mani Pulite del Brasile ha sconvolto profondamente il Paese coinvolgendo nello scandalo politico tre Presidenti e favorito una protesta popolare che ha sostenuto una nuova leadership che vedeva nel Presidente Trump il proprio modello. Così l’elezione nel 2019 di Bolsonaro alla Presidenza del Brasile è stata all’insegna del Brasil Primero ribadita anche in occasione del suo intervento all’ONU quando, durante l’intervento alla Conferenza sul Clima, dichiarò che “l’Amazzonia è del Brasile che ne può fare ciò che vuole”: proprio nei giorni in cui infuriavano gli incendi che la stavano devastando. Le sue dichiarazioni pubbliche lasciano spesso sconcertati per il tono provocatorio e spesso arrogante,[11] così come i suoi frequenti cambi di opinione a proposito del ruolo del Brasile nel Mercosur. Nel corso della sua campagna elettorale aveva più volte ricordato la necessità per il Brasile di poter attivare accordi commerciali bilaterali al di fuori dei vincoli posti dal Mercosur. Alcuni osservatori avevano anche prospettato addirittura una uscita del Brasile dagli accordi del Mercosur, viste le continue critiche di Bolsonaro.[12] Ma proprio mentre le sue critiche alimentavano il dibattito politico tra gli altri Stati membri, ecco che nel giugno del 2019, in occasione di un incontro bilaterale con l’allora Presidente argentino Macri, Bolsonaro formulò la proposta di creare una moneta unica del Mercosur: il peso-real. Una proposta neppure anticipata al Presidente argentino che comunque manifestò il proprio interesse. In una dichiarazione pubblica, però, il Banco Central do Brasil dichiarò che non era in corso alcuno studio per sostenere un tale progetto.[13] Ai più è quindi sembrata una delle tante uscite estemporanee di Bolsonaro.
E’ però noto che nel 1997 il Banco Nazionale per lo Sviluppo Economico del Brasile aveva formulato un progetto di moneta comune per le nazioni dell’area da realizzarsi entro il 2012, volendo anche in questo caso seguire il progetto in corso in Europa che, nel 2001, ha portato alla nascita dell’Euro.[14] In quegli anni però vi fu una netta opposizione dell’Argentina, guidata allora da Menem, che preferì procedere alla dollarizzazione per stabilizzare le finanze disastrate del proprio Paese.[15]La proposta di Bolsonaro ha avviato comunque un dibattito circa l’opportunità di creare una moneta comune in seno al Mercosur. In generale non vi è stata alcuna preclusione, ma molta prudenza da parte di tutte le istituzioni dell’area. Nel dibattito tra gli economisti e i rappresentanti delle Banche Centrali, si sottolinea che in ogni caso si tratterebbe di un progetto che richiede tempo e tappe di avvicinamento come insegna l’esperienza europea. Lo ha ricordato per esempio Alberto Graña, Presidente del Banco Central de Uruguay (BCU) quando ha dichiarato “… abbiamo visto le difficoltà che hanno portato alla nascita dell’euro e alle difficoltà che hanno, avendo politiche fiscali differenti… Obiettivamente pensare a una moneta comune implica, tra l’altro, allineamento delle politiche macroeconomiche, monetarie e fiscali… è necessario tempo per analizzare il percorso da intraprendere per sostenere questo progetto”.[16]
Ma il dibattito, così come era stato lanciato improvvisamente, altrettanto rapidamente è stato posto nel dimenticatoio dallo stesso Bolsonaro, preoccupato dalla campagna elettorale presidenziale in Argentina nel cui dibattito si è inserito con pesanti dichiarazioni. Arrivò a dichiarare che in caso di mancata conferma di Macri (il Presidente uscente), il Brasile sarebbe uscito dal Mercosur non potendo accettare di lavorare a fianco di un presidente comunista, qual era, a suo dire, il candidato peronista Fernandez. Fernandez è stato poi eletto nuovo Presidente dell’Argentina a fine 2019. E come già in altre circostanze dopo le prime dichiarazioni infuocate contro il neo Presidente, ecco che Bolsonaro è tornato a riaffermare una stretta collaborazione con l’Argentina anche perché Brasile e Argentina sono l’uno il principale partner economico dell’altro,[17] come qualche stretto collaboratore ha ricordato a Bolsonaro.
L’accordo commerciale UE-Mercosur.
Nell’estate del 2019 il Presidente uscente della Commissione Europea Junker annunciava con grande enfasi la sigla dell’accordo commerciale con il Mercosur. L’accordo sarebbe effettivamente storico dopo quasi 20 anni di lunghe trattative. Il condizionale è però d’obbligo perché in realtà l’accordo raggiunto è solo una bozza che deve essere discusso ed approvato da tutti i Paesi membri dei due blocchi. Un iter che richiede pertanto tempi lunghi e che ha messo subito in moto le lobbies contrapposte su entrambe le sponde dell’oceano. In particolare, in Europa, la lobby del mondo agricolo e in Sud America la lobby del settore metalmeccanico. La bozza di accordo prevede l’eliminazione del 91% dei dazi fissati dal Mercosur sulle merci provenienti dalla UE e il contemporaneo abbattimento da parte della UE del 92% dei dazi fissati sulle merci in ingresso dal Mercosur. Nel caso delle merci importate dal Mercosur si tratterebbe principalmente di prodotti del settore agroalimentare, mentre l’export europeo andrebbe principalmente a favorire il settore metalmeccanico, in particolare quello dell’industria automobilistica. Proprio nel settore dell’auto in Argentina e Brasile si sono levate voci di protesta, perché l’abbattimento dei dazi andrebbe a colpire le industrie locali, anche se, una volta entrato in vigore l’accordo, i dazi sulle auto calerebbero nell’arco di sette anni. L’accordo favorirebbe l’importazione di auto di lusso in particolare da Germania e Italia che nell’area del Mercosur hanno proprie industrie, ma che oggi producono solo modelli commerciali o di auto di medio livello. L’abbattimento dei dazi andrebbe inoltre a colpire il settore metalmeccanico che produce macchinari agricoli o ricambi d’auto. Ma i contrasti più forti contro la bozza di accordo vengono dall’Europa dove l’Austria ha già dichiarato di non voler siglare alcun accordo, motivando questa decisione a seguito della polemica con il Presidente Bolsonaro per il suo rifiuto di ammettere la drammatica situazione della deforestazione in Amazzonia per garantire nuovi pascoli agli allevatori[18]. Contro l’abbattimento dei dazi nel settore agroalimentare si sono anche utilizzate argomentazioni di carattere sanitario: nel Mercosur gli standard e i controlli in particolare veterinari non corrispondono a quelli richiesti agli allevatori europei. A questo si aggiunga che molte coltivazioni in Argentina, Brasile ed Uruguay sono trattate con prodotti geneticamente modificati ed utilizzati sia per l’alimentazione umana che per quello dell’alimentazione animale: un uso proibito nell’Unione Europea.[19] Quale sarà il futuro di questo accordo resta ancora un punto di domanda tenuto conto che tutti gli Stati di entrambi i blocchi hanno sospeso al momento la discussione a seguito della pandemia. Va comunque aggiunto che l’entrata in vigore dell’accordo prevede l’unanimità di tutte i paesi per cui si dovrà anche prevedere una azione sul governo austriaco dove il Parlamento ha già votato contro l’intesa e i governi di Francia e Irlanda si sono espressi con toni fortemente negativi.
Una ulteriore nube si addensa comunque sugli accordi commerciali che il Mercosur sta intraprendendo. Mentre è in corso il dibattito sui contenuti dell’accordo UE-Mercosur, il governo argentino ha intenzione di porre il veto a possibili accordi commerciali con singole nazioni. Sono infatti in corso di definizione intese commerciali tra il Mercosur e il Canada, la Corea del Sud e l’India. L’accordo con la Corea del Sud in particolare vede la ferma opposizione dell’Argentina che reputa rischioso un accordo che metterebbe a rischio l’industria dell’auto e favorirebbe le importazioni di marchi coreani. Gli accordi commerciali, per poter entrare in vigore, prevedono il voto unanime di tutti gli Stati membri. A queste prese di posizione, che hanno fatto pensare che stavolta fosse l’Argentina a voler uscire dal Mercosur, hanno fatto seguito dichiarazioni del governo di Buenos Aires per smentire ogni ipotesi di rottura. E’ stato poi il vice premier brasiliano, il generale Mourao, a dichiarare che è indispensabile mantenere vivo il confronto interno al Mercosur per garantire e tutelare gli interessi dei singoli Stati membri, porgendo in questo modo un ramo d’ulivo all’Argentina.[20]
Un futuro incerto.
I temi al centro del dibattito nell’area del Mercosur sono gli stessi che gli europei e i federalisti hanno conosciuto e fatto propri per condurre le battaglie verso una maggiore integrazione dell’Unione Europea. I temi dell’allargamento, del ruolo del Parlamento regionale, di una moneta comune sarebbero temi per una forte iniziativa in senso federalista anche nella regione del Rio de La Plata. Sappiamo che il processo di integrazione europeo ha conosciuto momenti di stallo, di tensione tra gli Stati membri,[21] ma anche momenti di grande slancio e di importanti iniziative come l’elezione diretta del Parlamento Europeo o la nascita della moneta unica. In tutte queste vicende un ruolo chiave è sempre stato giocato da Francia e Germania, lo stesso ruolo chiave che nel Mercosur svolgono Argentina e Brasile. Ma cosa accadrebbe in Europa se un Presidente francese o un Cancelliere tedesco usassero toni sprezzanti l’uno contro l’altro come è accaduto nel caso del Presidente Bolsonaro verso il neo Presidente argentino? Nel caso europeo l’Unione rischierebbe di andare in frantumi. Nel Mercosur questo non sta per ora accadendo, ma sono profondi i sintomi di un generale malessere: la crisi in Venezuela (Paese membro, ma al momento sospeso); la crisi in Bolivia (il cui ingresso nel Mercosur è a rischio a seguito della crisi interna che si riflette nelle relazioni con gli altri Stati membri); l’abolizione delle elezioni dirette del Parlasur; il tentativo del Brasile di primeggiare all’insegna del Brasil primero con la richiesta di poter stringere accordi bilaterali al di fuori del Mercosur. Inoltre, in questa sede, non si è affrontato il ruolo che uomini dell’esercito stanno svolgendo all’interno della Amministrazione brasiliana. Si è detto del fatto che Bolsonaro è un ex-capitano dell’esercito in pensione che in più occasioni ha elogiato il ruolo della dittatura nella storia del Brasile, ma sono numerosi i militari con compiti ministeriali nel governo: Vice-presidente è l’ex-generale Mourao, Ministro della Sicurezza è l’ex-generale Heleno, Ministro della Difesa il generale Azevedo, Ministro delle Scienze e Tecnologie l’ex-pilota di caccia Pontes, Ministro della Istruzione l’ex-comandante in capo dello Stato Maggiore dell’Esercito, infine Segretario del Governo l’ex-generale dos Santos Cruz. La democrazia in Brasile come nel resto del sub-continente ha una storia recente, ma vediamo come anche nell’Unione Europea governano leaders che inneggiano alla democrazia illiberale (in Ungheria) o modificano la Costituzione a proprio vantaggio (in Polonia) con restrizioni alla libertà di espressione. Sono questi segnali che possono mettere a rischio le istituzioni democratiche e con esse anche il proseguo dei processi di integrazione? Il mito della sovranità nazionale risulta più forte del desiderio di integrazione dei popoli? Si tratta di questioni profonde che vanno al di là di questa nota, ma c’è un aspetto che va sottolineato. La nascita del Mercosur si è resa possibile grazie a quanto è stato fatto in Europa dai Trattati di Roma in poi: l’Unione Europea è stato il modello di riferimento. E allora spetta di nuovo all’Europa dare un segnala forte e chiaro, riformando le proprie istituzioni in senso federale dotandosi di un governo. Ma questo sarà possibile solo se in seno all’Unione Europea un nucleo di Paesi saprà rompere il tabù della sovranità nazionale. Sarebbe un segnale importante non solo per l’Europa ma anche per quell’area del mondo, in Sud America, che ha guardato e guarda all’Unione Europea. Sarebbe anche una straordinaria risposta a tutti quei combattenti della resistenza cilena che nelle loro battaglie per le strade intonavano l’Inno alla gioia di Schiller, che è l’inno della Unione Europea, con la sua profezia di un giorno “in cui tutti gli uomini finalmente saranno nuovamente fratelli”.[22]
Stefano Spoltore
[1] Boletin Parlamento Mercosur (BPM), La Nación, Buenos Aires, 8 agosto 2017.
[2] Si veda: Consejo del Mercado Común, Protocolo Constitutivo del Parlamento del Mercosur, 8 dicembre 2005.
[3] BPM, Ultimahora.com, Asunción e La Nación, Buenos Aires, 21 aprile 2019.
[4] BPM, ABC, Asunción, 24 novembre 2019.
[5] Art. 4 del Protocolo, op. cit..
[6] BPM, Ultimahora.com, Asunción, 21 e 23 aprile 2019.
[7] Comunità Andina delle Nazioni, composta da Colombia, Ecuador, Perù, Cile e Venezuela sino alla sua uscita.
[8] A proposito del Protocolo democratico e alla crisi in Paraguay si veda anche: S. Spoltore, Brasile e Argentina al bivio nel Mercosur, Il Federalista, 54 n. 2 (2012), p. 160.
[9] S. Spoltore, Venezuela e Mercosur: la difficile via verso la democrazia, Il Federalista, 59 n.2 (2017), p. 169.
[10] Il Parlasur, con una nota dell’11 novembre 2019 condannava la persecuzione verso il Presidente Morales, costretto all’esilio e l’intervento dei militari sia in Bolivia che in Cile. Una presa di posizione comunque ignorata dai governi.
[11] Come quando dichiarò che gli indios sono quasi esseri umani, che la dittatura era stato un bene per il Brasile, che i cambiamenti climatici sono una invenzione, che il coronavirus è poco più di una influenza e che in Italia muoiono in tanti perché è un Paese di vecchietti, senza dimenticare le sue dichiarazioni contro i gay.
[12] BPM,Perfil.com, El brexit de Latinoamérica: la posible retirada del Brasil del Mercosur, Buenos Aires, 14 settembre 2019.
[13] , BPM, M24digital, Moneda común del Mercosur no es estrategia, es una irresponsabilidad, Buenos Aires, 18 giugno 2019.
[14] L’Espresso, 29 maggio 1997.
[15] Si veda: S. Spoltore, Il Processo di dollarizzazione in America Latina e la crisi del Mercosur, Il Federalista, 43 n.2 (2001), p. 130.
[16] Dello stesso tono l’intervento del Presidente della Banca Centrale del Paraguay José Cantero. BPM, El Observador, Montevideo, 7 agosto 2019.
[17] A. Mori, Argentina: debito e crisi sociale, due azzardi per Fernández, Ispionline.it, 2 dicembre 2019, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/argentina-debito-e-crisi-sociale-due-azzardi-fernandez-24542. Si veda anche: M. Rapoport, E. Madrid, Argentina Brasil de rivales a aliados, Capital Intelectual, Buenos Aires, 2011.
[18] Commercio, dopo Francia e Irlanda anche l'Austria boccia l'intesa Ue-Mercosur,Agrisole, Milano, 23 settembre 2019.
[19] Si veda: UE Mercosur: l'Accordo della discordia, Agronotizie, 27 agosto 2019. La protesta da parte del mondo agricolo europeo è praticamente unanime tra tutti i 27 Stati membri.
[20] BPM, Clarin, Buenos Aires, 14 maggio 2020.
[21] Si pensi alle recenti vicende legate agli aiuti da riconoscere agli Stati in difficoltà a seguito del coronavirus.
[22] A. Dorfman, L’Autunno del generale, Ediz.Corriere della Sera, Milano, 2019, pag.11. Titolo originale dell’opera Exorcising Pinochet, 2002. Erano 70.000 i presenti allo stadio nazionale di Santiago il 12 marzo 1990 ad ascoltare l’Inno alla gioia e ad unirsi al coro dell’Orchestra sinfonica del Cile per celebrare il ritorno alla democrazia.
Anno LXII, 2020, Numero 3, Pagina 214
LA CONVENZIONE EUROPEA DEL 2002/2003:
LUCI E OMBRE
Diciassette anni dopo lo svolgimento della Convenzione europea presieduta da Valéry Giscard d’Estaing e alla vigilia della Conferenza europea sul futuro dell’Europa proposta dal Presidente Macron (che dovrebbe iniziare i suoi lavori nei primi mesi del 2021 sotto Presidenza portoghese), sembra utile riflettere in modo più oggettivo sul valore del metodo utilizzato e sul risultato globale dei suoi lavori. Tale riflessione potrebbe contribuire ad orientare in modo positivo i lavori della futura Conferenza e ad evitare al tempo stesso di ripetere gli errori di procedura che hanno condizionato i risultati della Convenzione del 2002/2003 sulla struttura istituzionale dell’Unione europea.
Occorre innanzitutto evitare che questa valutazione sia condizionata da un’aspettativa che non poteva realizzarsi: quella che la Convenzione europea potesse produrre il miracolo del precedente storico più conosciuto, vale a dire la Convenzione di Filadelfia che diede origine alla Costituzione federale degli Stati Uniti d’America. Il “miracolo” di Filadelfia non fu solo quello di aver prodotto un sistema costituzionale esemplare e ancora valido al giorno d’oggi, ma anche di essere andata al di là del suo mandato ufficiale e di aver partorito una Costituzione federale che sarebbe potuta entrare in vigore — come in realtà è stato — con la ratifica di una maggioranza di tre quarti degli Stati partecipanti (nove su tredici). Filadelfia realizzò in tal modo quella che si potrebbe chiamare oggi la “rottura costituzionale” tra il mandato ricevuto — che esigeva l’accordo unanime di tutti gli Stati — ed il risultato finale che diede vita ad una nuova entità politica autonoma (lo Stato federale americano), la cui legittimità sarebbe risultata dall’adesione maggioritaria degli Stati confederati.
La Convenzione europea è andata anch’essa al di là del mandato ricevuto in quanto ha prodotto un testo completo di “Trattato che istituisce una Costituzione europea” e non solo un rapporto contenente le risposte al mandato ricevuto dal Consiglio europeo di Laeken. Tuttavia, la Convenzione non ha prodotto — e non poteva produrre — un testo costituzionale di natura federale equiparabile alla Costituzione americana. Questa impossibilità deriva non solo da una differente situazione storica (le ex-colonie inglesi in America avevano radici culturali e linguistiche comuni di cui non dispongono gli Stati nazionali europei) ma anche da una composizione ben diversa delle due Convenzioni: a Filadelfia i partecipanti si dividevano tra difensori della sovranità degli Stati confederati e fautori di un nuovo — e forte — potere federale; a Bruxelles, ben pochi convenzionali potevano considerarsi come fautori di uno Stato federale in Europa, come del resto altrettanto pochi appartenevano alla categoria degli “euroscettici” difensori di una restituzione di competenze dell’Unione europea agli Stati nazionali (la dichiarazione di minoranza redatta dal parlamentare danese Bonde — contraria ai risultati della Convenzione — ha raccolto solo una decina di adesioni dei convenzionali). La Convenzione europea doveva piuttosto scegliere tra due modelli di integrazione già presenti in cinquant’anni di storia delle Comunità europee: da un lato, il modello comunitario caratterizzato dall’esercizio in comune di competenze statali delegate alle istituzioni comunitarie ed esercitate da quest’ultime sulla base di principi inventati da Jean Monnet oppure introdotti progressivamente nei Trattati comunitari (il potere di iniziativa legislativa della Commissione europea, il voto a maggioranza in seno al Consiglio ed il potere di codecisione del Parlamento europeo). Dall’altro, il modello intergovernativo introdotto dal Trattato di Maastricht per la politica estera e di sicurezza comune e, in parte, per gli affari giudiziari. In altre parole, la Convenzione doveva scegliere tra l’estensione del metodo comunitario agli altri settori di attività dell’Unione (posizione difesa, per l’essenziale, dalla Commissione europea, dal Parlamento europeo e dagli Stati più “integrazionisti”) ed il mantenimento di una doppia struttura istituzionale che limitasse il metodo comunitario alle politiche interne dell’Unione e consacrasse il metodo intergovernativo per i settori più sensibili, quali la politica estera e di sicurezza, la difesa ed alcuni aspetti della cooperazione giudiziaria. Era quindi esclusa a priori la prospettiva di creare uno Stato o un’unione federale in Europa (“il Regno Unito non sarà mai il Baden-Wurttenberg d’Europa” secondo l’espressione di un rappresentante britannico).
Tuttavia, molti Convenzionali avevano l’ambizione di “rivisitare” il funzionamento istituzionale dell’Unione al fine di introdurre miglioramenti e semplificazioni importanti dell’attuale modello comunitario. Il Vice-Presidente Amato aveva indicato fin dal suo primo discorso l’ambizione di riesaminare in profondità i meccanismi di decisione dell’Unione ispirandosi ai principi costituzionali della separazione dei poteri (“Montesquieu non ha mai visitato Bruxelles”).
La Convenzione europea ha ottenuto i suoi migliori risultati quando ha utilizzato i dibattiti intercorsi in sei gruppi di lavoro, diventati poi undici, sulle principali questioni politiche affrontate nel corso dei suoi lavori. Il metodo dei gruppi di lavoro ha permesso ai Convenzionali di proporre nuove soluzioni e di arrivare a larghe intese dopo aver esaminato le esperienze già fatte dall’Unione europea e verificato con gli esperti dei vari settori la fattibilità giuridica e politica delle soluzioni proposte.
I principali successi della Convenzione (l’inserimento nei Trattati della Carta dei Diritti fondamentali; la semplificazione degli strumenti e delle procedure di decisione; la nuova figura istituzionale del Ministro degli Affari esteri, con una doppia legittimità nei riguardi della Commissione e del Consiglio; i nuovi meccanismi di cooperazione in materia di difesa europea; il nuovo sistema di controllo dell’applicazione del principio di sussidiarietà; l’estensione delle competenze dell’Unione in materia di cooperazione giudiziaria; la personalità giuridica unica dell’Unione, ecc.) sono stati conseguiti grazie alla spinta propositiva dei gruppi di lavoro ed al vasto dibattito intercorso tra questi ultimi, il Presidium e la seduta plenaria.
Invece, non si può dire la stessa cosa per le soluzioni apportate dalla Convenzione al ruolo delle istituzioni. Ad esempio, nessun gruppo di lavoro ha esaminato il funzionamento pratico della Commissione europea o il problema della rotazione semestrale del Consiglio. E’ difficile evitare l’impressione che il Presidente Giscard d’Estaing avesse già in mente proprie soluzioni ai principali problemi istituzionali oppure che intendesse discuterne con i capi di governo (in particolare di alcuni Stati membri) piuttosto che “prendere la temperatura” della Convenzione secondo il metodo seguito per i problemi affidati ai gruppi di lavoro. Una conferma di questo orientamento si trova nelle numerose interviste e dichiarazioni fatte dal Presidente Giscard d’Estaing sulla creazione di un “Congresso” di parlamentari europei e nazionali, sull’impossibilità di mantenere la rotazione semestrale della Presidenza del Consiglio o la composizione larga della Commissione europea. Questo atteggiamento del Presidente Giscard d’Estaing ha coinciso con una fase negoziale dei lavori della Convenzione molto più simile a quella di una Conferenza intergovernativa che al metodo di lavoro di una Convenzione (documenti pubblicati dai vari governi, partecipazione ai lavori dei Ministri degli Esteri dei grandi paesi).
Una conferma di tale evoluzione fu il dibattito in seduta plenaria del 20/21 Gennaio 2003. In questa occasione, come sottolineò puntigliosamente una delegata olandese (Sig.ra Maij-Weggen), i tre quarti dei Convenzionali si pronunciarono contro la proposta franco-tedesca di creare un Presidente più stabile del Consiglio europeo (designato per due anni e mezzo e con mandato rinnovabile fino a cinque anni). Questo risultato non fu considerato rappresentativo dal Presidente della Convenzione, partendo dal principio che non si poteva contare aritmeticamente il numero dei delegati favorevoli o contrari, ma che occorreva tenere conto del loro “peso specifico ponderato”. Questo orientamento, sia pure giustificato dalla disparità di rappresentanza in seno alla Convenzione (dove il Lussemburgo disponeva, a livello di rappresentanti nazionali, dello stesso numero di Convenzionali della Germania), confermava tuttavia l’intenzione del Presidente della Convenzione di tenere conto maggiormente di alcune opinioni rispetto ad altre, indipendentemente dai risultati dei dibattiti in seduta plenaria. Tale orientamento pregiudiziale di Giscard d’Estaing in favore delle posizioni difese da alcuni “grandi” Stati membri sui problemi istituzionali provocò la formazione di un fronte comune dei “piccoli” e “medi” Stati membri (“the Smalls’ Revolt”), che sfociò nella posizione comune di questi ultimi durante la riunione dei Capi di Governo ad Atene il 16 Aprile 2003. L’insistenza dei “piccoli” paesi sul principio dell’uguaglianza degli Stati nella nuova architettura istituzionale (principio che postulava il mantenimento di un Commissario per ogni Stato membro e/o della rotazione ugualitaria degli Stati nella Presidenza del Consiglio) confermò il Presidente della Convenzione nella sua convinzione che occorresse introdurre nella Costituzione il principio opposto dell’uguaglianza dei cittadini in seno alle Istituzioni dell’Unione.
Va ricordato però che negli Stati a struttura federale (per esempio negli Stati Uniti o in Germania) il principio dell’uguaglianza dei cittadini non può prevalere su quello dell’uguaglianza degli Stati. Sta di fatto che dopo la riunione di Atene il Presidente della Convenzione propose un progetto di articoli sul ruolo delle Istituzioni che si allineava, per l’essenziale, sulla posizione dei “grandi” Stati membri (creazione di un Presidente stabile del Consiglio europeo, abbandono della Presidenza semestrale del Consiglio, riduzione a 15 del numero dei Commissari europei). Con questa proposta, modificata solo in parte dal Presidium, il Presidente della Convenzione spostava il centro di gravità del negoziato a favore del tandem franco-tedesco e consacrava il passaggio definitivo dal metodo convenzionale al metodo negoziale classico di una Conferenza intergovernativa.
Questo spiega perché il compromesso raggiunto in seguito dalla Convenzione sui problemi istituzionali è stato un compromesso classico di una Conferenza intergovernativa: la concessione fatta dai “piccoli” paesi accettando il Presidente stabile del Consiglio europeo è stata “compensata” con la proposta di una Commissione europea composta di 15 membri titolari del diritto di voto, alla quale però tutti gli Stati membri avrebbero avuto un uguale accesso in condizioni di parità (rotazione ugualitaria). Sarebbe difficile affermare che tale soluzione “transazionale” tra piccoli e grandi Stati sia stata fondata su un esame oggettivo del funzionamento della Commissione (da cui risulta, per esempio, che la Commissione decide con una procedura di voto maggioritario solo in rarissimi casi, stimati tra l’1% e il 2% delle decisioni prese in procedura orale). Non per nulla tale soluzione non è stata ripresa nel Trattato di Lisbona.
Una conferma supplementare dello slittamento progressivo della Convenzione versi i metodi negoziali delle Conferenze intergovernative è rappresentata dal risultato finale della Convenzione sul voto a maggioranza. Nelle due ultime sessioni plenarie del luglio 2003, una larga maggioranza di Convenzionali aveva richiesto l’estensione del voto a maggioranza nei settori della fiscalità, della politica estera, delle misure contro le discriminazioni, della politica sociale ed anche per la revisione futura di alcune disposizioni della Costituzione. Malgrado l’esistenza di tale maggioranza, le sole modifiche apportate dal Presidium e avallate dalla plenaria sono state il ripristino dell’unanimità per la conclusione di accordi commerciali in materia di diversità culturale e quello della competenza nazionale per determinare le quote d’immigrati che ogni Stato membro decide di ammettere sul proprio territorio. Queste due decisioni — richieste, per l’essenziale, dalla Francia e dalla Germania — miravano a “blindare” le future decisioni della Conferenza intergovernativa sul voto a maggioranza, dando soddisfazione anticipata alle richieste dei due “grandi” Stati membri. Un ragionamento analogo vale per il mancato passaggio alla regola maggioritaria per la fiscalità e la politica estera, che si sarebbe urtato durante la Conferenza intergovernativa al veto del Regno Unito.
Un altro risultato insoddisfacente della Convenzione europea è stata la procedura seguita per la consultazione della società civile e delle sue organizzazioni più rappresentative sulle politiche comunitarie. In realtà, la Convenzione non ha voluto discutere sul merito il contenuto delle politiche iscritte nei Trattati, ragion per cui la consultazione delle organizzazioni della società civile in questa materia non ha avuto senso. Inoltre, i rappresentanti delle ONG consultati dalla Convenzione erano nella maggior parte dei casi dei “funzionari” residenti a Bruxelles e non i veri rappresentanti delle ONG che operano sul terreno nei diversi Stati membri. Per questa ragione, la giornata di consultazione delle organizzazioni della società civile, moderata dal Vice-Presidente Dehaene a Bruxelles, è passata alla storia sotto la denominazione di “Brussels speaks to Brussels”. Occorre sperare che la prossima Conferenza sul futuro dell’Europa possa innovare in modo sostanziale la consultazione delle organizzazioni della società civile associando queste ultime ai lavori della Conferenza e favorendo l’organizzazione di veri e propri dibattiti “transnazionali” tra le ONG veramente rappresentative dei cittadini europei.
Infine, i governi nazionali non dovrebbero dimenticare che l’adozione di un Trattato costituzionale rigido, in assenza di meccanismi di revisione maggioritari, farà sempre pesare sulle future modifiche dei Trattati la “spada di Damocle” dell’accordo unanime di almeno 27 Stati membri (aggravato dalla necessità di referendum costituzionali in alcuni paesi). L’esito negativo dei referendum popolari sul Trattato costituzionale in Francia e in Olanda nel 2005 dovrebbe esigere ormai l’adozione di nuove procedure di revisione dei Trattati, quali ad esempio l’adozione da parte del Parlamento europeo — legittimato a tal fine dal suo ruolo di rappresentante privilegiato dei cittadini europei — di un progetto di Costituzione europea che sarebbe sottoposto direttamente per ratifica definitiva ai Parlamenti nazionali oppure ad un referendum paneuropeo (con la clausola che la Costituzione entrerebbe in vigore nei soli paesi che avrebbero ricevuto il voto favorevole dei loro Parlamenti nazionali oppure dei loro cittadini nel referendum paneuropeo).
Paolo Ponzano*
* (Rappresentante supplente della Commissione europea nella Convenzione del 2002/2003).
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