Anno LXII, 2020, Numero 3, Pagina 227
LA CRISI PANDEMICA E L’EUROPA
Da tempo gli scienziati avevano previsto l’arrivo di un virus in grado di infettare quasi la metà della popolazione mondiale e di provocare innumerevoli vittime.[1] Il disastro che un simile evento potrebbe creare è stato paragonato alle devastanti conseguenze della Spagnola nel 1918-19, che uccise circa 50 milioni di individui in meno di due anni. Già nel 2005 il National Academy of Science’s Institute aveva ammonito che era in atto un’influenza d’origine aviaria su larga scala in grado di trasmettersi agli umani, avvisando che “l’evoluzione non funziona sulla base di un timetable prevedibile, e le varianti dell’influenza sono le più imprevedibili”. Soprattutto quando diventa trasmettibile agli esseri umani in un mondo globalizzato come quello attuale, in cui movimenti di merci ed individui è cresciuta a dismisura. è opportuno ricordare che la Spagnola fu così definita non perché fu originata in Spagna, ma perché in quel paese vi fu una particolare recrudescenza della malattia che si diffuse rapidamente a seguito degli spostamenti indotti dalla guerra. In tre mesi, nel 1918, morirono oltre quarantamila soldati americani mentre la polizia non riusciva a controllare i disordini e le rivolte causate da una diffusa isteria provocata dalla paura dell’epidemia. Allora nel mondo molte morti non vennero neppure classificate come conseguenti a quella epidemia, che si diffuse rapidamente anche in Russia ed America Latina. Si calcola che almeno il 5% della popolazione del Ghana venne uccisa da quell’influenza in meno di due mesi ed il 20% di quella delle Samoa Occidentali perì per la stessa causa. Le stime ufficiali americane ed europee indicano che almeno 40-50 milioni di morti devono essere attribuiti alle conseguenze di quell’epidemia. Almeno un terzo della popolazione umana fu infettata nell’arco del biennio 1918-1919 e circa 100 milioni di persone morirono. Nel 1917 sorsero in America e in Europa movimenti igienisti che tuttavia non servirono a limitare la diffusione dell’epidemia influenzale: solo nel 1933 venne isolato da un team britannico quel virus influenzale! Altre ondate influenzali si sarebbero verificate verso la fine degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, con decine di migliaia di decessi negli USA. Più tardi, nella metà degli anni Settanta, l’allora presidente USA Ford ordinò la produzione di una notevole quantità di vaccini antinfluenzali per vaccinare tutti gli americani, ma poiché quell’epidemia non scoppiò, nacque una sorta di movimento di contestazione di ulteriori politiche di prevenzione sanitaria promosse dal governo.
Come è noto, i virus influenzali hanno come serbatoio animali selvatici, in particolare gli uccelli, e possono successivamente passare, attraverso animali da cortile, a dei mammiferi e agli esseri umani. Per esempio in Cina si allevano decine di miliardi di galline, il 60% delle quali viene allevata in piccole fattorie familiari, che possono favorire la trasmissione dei virus influenzali. E quando un virus influenzale aviario infetta una nuova specie – per esempio i suini – può modificarsi diventando capace di attaccare l’uomo. Come nel caso di molte malattie infettive, gli individui che hanno superato l’infezione sviluppano anticorpi che li rendono immuni, per periodi più o meno lunghi, a nuove infezioni da parte dello stesso agente patogeno. Ma, soprattutto nel caso dei virus influenzali, nel corso delle generazioni virali si verificano con frequenza mutazioni nel loro materiale ereditario che modificano le caratteristiche delle particelle virali e le rendono almeno in parte irriconoscibili da parte delle difese immunitarie degli individui in precedenza infettati dallo stesso virus. Questo è il motivo per cui un vaccino antinfluenzale prodotto in un anno può risultare inefficace l’anno successivo. Ecco perché si sono potuti verificare diversi cicli di infezioni ed epidemie nel corso del tempo, come per esempio più recentemente negli anni novanta del secolo scorso e nella prima decade del XXI secolo. Finora sono state individuate almeno cento infezioni virali di natura influenzale di origine aviaria o animale. Nonostante ciò il mercato dei vaccini in generale rappresenta tuttora ancora solo il 2% del mercato farmaceutico globale! Le nuove tecnologie promettono di aumentare la capacità produttiva, ma non ci sono evidenze che le case farmaceutiche possano immettere attualmente nel mercato più di 300 milioni di dosi di vaccino all’anno! Per questo si continua a ritenere che nelle condizioni attuali dal 30 al 50% della popolazione mondiale potrebbe essere infettata in una pandemia influenzale. Il problema è che se per esempio si volessero vaccinare tutti i cittadini americani contro un virus influenzale, occorrerebbe produrre ogni anno tante dosi di vaccino quante se ne producono oggi annualmente nel mondo intero!
L’Europa è in particolare dipendente anche per quanto riguarda la produzione e fornitura di medicinali importantissimi da Cina e India. Lo Hubei per esempio, la regione cinese da cui è partita la minaccia del coronavirus, produce una quantità notevole di materie prime farmaceutiche: le esportazioni cinesi di farmaci nel resto del mondo sono quadruplicate negli ultimi anni e valgono ormai oltre 120 miliardi di dollari all’anno. L’India a sua volta si rifornisce dalla Cina per circa due terzi del suo fabbisogno interno e per sostenere le sue esportazioni di farmaci. Come ha ricordato Federico Fubini “l’India e la Cina sono diventate in questo secolo le cucine sul retro dei grandi marchi mondiali i cui nomi compaiono sulle scatole dei medicinali che compriamo quando ci sentiamo poco bene. Percepiamo come ‘tedesco’, ‘italiano’ o ‘svizzero’ un preparato del cui contenuto a volte neanche il produttore sa dove sia il punto di partenza sulla Terra. Lo sa solo il fornitore del fornitore del suo fornitore. Ma un imprevisto nel sito produttivo originario basta a destabilizzare l’intera filiera, potenzialmente fino alla farmacia sotto casa nostra”.[2] Nel caso dell’Italia, secondo l’OCSE, il valore aggiunto creato in India dei medicinali esportati dal nostro paese verso il resto del mondo è più che triplicato in sette anni a partire dal 2005. L’India e la Cina sono de facto diventate le fonti dei grandi marchi farmaceutici esportati e riesportati nel mondo. In ogni caso la maggiore sfida che devono affrontare le società di fronte alle pandemie è rappresentata proprio dalla difficoltà delle strutture sanitarie di far fronte all’afflusso improvviso ed imprevedibile di masse di pazienti negli ospedali. Per questo ogni pandemia mette a dura prova la tenuta dei sistemi sanitari dal livello globale a quello locale. E l’organizzazione mondiale della sanità (WHO), pur avendo una rete mondiale di sorveglianza sull’insorgere delle pandemie, ha un budget annuale solo di qualche centinaio di milioni di dollari (contro un bilancio annuale della città di New York che supera i 1200 miliardi di dollari!).
Inoltre non bisogna pensare che sia sufficiente una prima epidemia a garantire l’immunizzazione di una società. In passato, in assenza di rimedi, le ricorrenti epidemie in Europa di vaiolo, tifo, morbillo ed influenza venivano associate ai cattivi raccolti. Le crisi demografiche ed alimentari erano tuttavia riuscite ad immunizzare parzialmente le popolazioni europee, ma non quelle per esempio quelle delle Americhe. Fonti spagnole e indie attribuiscono per esempio la caduta della capitale azteca all’esplosione del vaiolo. Dal 1519 al 1600, si susseguirono ogni decennio nell’America del Sud epidemie di vaiolo, morbillo, tifo, peste, parotite, influenza, difterite, morbillo. In quella parte del mondo solo a partire dal XVI secolo le popolazioni nelle aree mesoamericane e andine ripresero a crescere.[3]
Oggi il Covid-19 non ha (ancora) trasformato il mondo, ma sicuramente ne ha influenzato lo sviluppo sul piano tecnologico e sociale per gli anni a venire. Il tutto in una situazione di progressivo disimpegno statunitense sulla scena mondiale e di evidente impotenza europea nell’offrire delle alternative per quanto riguarda la definizione di un nuovo assetto istituzionale sovranazionale su scala continentale e globale.[4] Ed è sempre più evidente che occorre instaurare un sistema di articolazione del governo dal livello locale a quello continentale e, in prospettiva, globale.[5]
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Oggi circa il 50% del PIL mondiale dipende dall’Asia, che sta diventando sempre più interdipendente con il resto del mondo. è quindi inevitabile che, quanto successo in passato con la proiezione del commercio e della produzione europei[6] nel mondo, tenda oggi a ripetersi con origine asiatica, raggio d’azione globale e crescente interdipendenza in tutti i campi. Il fatto è che le derive genetiche delle specie, quelle culturali e geografiche si vanno sempre più riducendo. Tutto ha avuto origine non solo con l’espansione economica, industriale e politica degli europei, ma anche con quella biologica dei fattori agricoli e… delle loro malattie.[7]
A seguito della diffusione del Covid-19 in Europa, la Commissione europea ha proposto di potenziare la preparazione e la risposta dell’Europa alle crisi.[8] Questa proposta, che è più che altro un invito ai paesi membri ad agire correttamente e a rafforzare la sorveglianza e lo scambio di informazioni, non basta.[9] Occorrerebbe infatti istituzionalizzare il coordinamento tra politiche europee, nazionali e locali attraverso una federalizzazione del sistema di governo. Un’unione europea della salute implica infatti la riforma in senso federale dell’Europa, per coordinare al meglio le azioni dei diversi livelli di governo, da quello continentale a quello locale. Un’operazione questa che però non può rifarsi né al modello centralistico dello Stato cinese,[10] che comunque non ha saputo impedire il propagarsi della pandemia, né a quello federale sì, ma largamente insufficiente, americano, né tantomeno a quello attuale europeo, ancora prigioniero dei meccanismi intergovernativi, dei veti nazionali e dei particolarismi locali. Come un effetto Bruxelles sul terreno economico e commerciale ha potuto propagarsi su scala internazionale,[11] è giunto il tempo in cui è necessario e possibile affermare l’estensione di un effetto Bruxelles nel mondo anche sul terreno istituzionale. Su questo terreno regna però grande incertezza e confusione. Non solo perché sono forti le resistenze degli avversari dell’unificazione europea e i sostenitori della difesa di una ormai anacronistica sovranità delle piccole patrie, ma anche perché, sul fronte di chi si rende conto della necessità di approfondire l’unificazione politica, regnano l’incertezza e i “timidi sostenitori”. Eppure, come anche questi ultimi ammettono, un salto è necessario. Un esempio viene da uno scritto di Alain Minc, che negli anni settanta del secolo scorso seppe, insieme a Simon Nora, in un celebre rapporto al Presidente della Repubblica francese, mettere in evidenza alla fine degli anni settanta del secolo scorso le implicazioni e le potenzialità dell’imminente rivoluzione informatica[12]. Minc riconosce le potenzialità europee, tuttavia non riconosce ancora la necessità di marciare decisamente verso la federazione europea, limitandosi a considerarla ancora “une construction sui generis”. E ciò conferma la nota frase di Machiavelli, nel Principe, che afferma che “Non c’è niente di più difficile da condurre né più dannoso da gestire dell’iniziare un nuovo ordine delle cose”. Ma il tempo di costruire un nuovo ordine delle cose e per inserire la solidarietà in uno stabile quadro istituzionale federale sovranazionale è ormai all’ordine del giorno: la sfida del Coronavirus-19 ce lo ricorda.
Franco Spoltore
[1] Si veda in proposito l’articolo di Laurie Garrett The Next Pandemic, Foreign Affairs, July-August 2005.
[2] Federico Fubini, Sul vulcano. Come riprenderci il futuro in questa globalizzazione fragile, Milano, Longanesi 2020.
[3] Marcello Carmagnani, L’altro occidente, Torino, Einaudi 2003, pp. 40-46.
[4] Olivier Zajec, L’ordre international qui vient: “Il faut espérer que des évolutions politiques démocratiques sur le continent européen viendront perturber cette « mort cérébrale » qu’illustre en ce moment la focalisation exceptionnelle sur les résultats électoraux du suzerain américain. Ce réflexe révèle moins l’importance des États-Unis dans l’ordre international que l’impuissance européenne à imaginer une autre solution stratégique effective. Malgré les leçons de l’ère Trump”, Le monde diplomatique, novembre 2020.
[5] Nel 1971 il responsabile USA della sanità pubblica aveva ammonito che “prevedere le epidemie influenzali è come prevedere le variazioni meteorologiche, perché “come per gli uragani, le pandemie possono essere individuate e se ne possono intravvedere gli sviluppi. Tuttavia le epidemie sono più imprevedibili degli uragani e la cosa migliore da farsi è fare una stima delle probabilità”, Foreign Affairs, op. cit...
[6] Alfred W. Crosby, Ecological Imperialism. The Ecological Expansion of Europe, ‘900-1900, Cambridge, Cambridge University Press, 1986: “The breakup of Pangaea was a matter of geology and the stately tempo of continental drift. Our current reconstitution of Pangaea by means of ships and aircraft is a matter of human cuture and the careening, accelerating, breakneck beat of technology. To tell that tale we have to go back not 200 million years, fortunately, by only a million or three” p. 12.
[7] Già Charles Darwin aveva osservato nella sua autobiografia che “Wherever the European had trod, death seemed to pursue the aboriginal”.
[8] Costruire un’Unione europea della salute: potenziare la preparazione e la risposta dell'Europa alle crisi, https://ec.europa.eu/italy/news/20201111_Costruire_un_Unione_europea_della_salute_per_rispondere_alle_crisi_it.
[9] Ben Hall et al., How coronavirus exposed Europe’s weaknesses, Financial Times 20/10/20, “When the pandemic struck, many countries were ill-prepared. As a second wave hits, what have they learnt from their early decisions?”, https://www.ft.com/content/efdadd97-aef5-47f1-91de-fe02c41a470a.
[10] Il governo cinese aveva colto la gravità della situazione a Wuhan, ma aveva comunicato l’allarme a livello internazionale con gran ritardo, senza interrompere il traffico aereo per settimane, come si legge in Federico Fubini, Sul vulcano. Come riprenderci il futuro in questa globalizzazione fragile, op. cit..
[11] Anu Bradford, The Brussels Effect, How the European Union Rules the World, Oxford, Oxford University Press, 2020.
[12] Una sintesi del Rapporto Nora-Minc del 1978, può essere recuperato al link https://it.wikipedia.org/wiki/Rapporto_Nora-Minc. Nel suo libro La mondialisation hereuse, Parigi, Tribune libre PLON, 1997 scrive: “L’unione europea è una costruzione sui generis. Da un punto di vista macroeconomico sarà federale: una moneta, un mercato, un diritto alla concorrenza e un quadro politico di bilancio. Strategicamente e diplomaticamente, resterà ancora per molto tempo, confederale, anche se al suo interno e senza riconoscerlo, la Francia e la Germania sviluppano ormai una relazione complementare”, p. 75.