Anno LXII, 2020, Numero 3, Pagina 220
BIELORUSSIA, RUSSIA E UNIONE EUROPEA
La dissoluzione dell’Unione Sovietica venne sancita definitivamente nel 1991 quando, dalle sue ceneri, sorsero quattordici nuove Repubbliche indipendenti. Le Repubbliche che un tempo costituivano l’URSS fungevano ora, per la nuova Russia, da Stati cuscinetto sia ad Occidente, verso l’Unione europea, sia ad Oriente lungo i vasti confini asiatici. Una di queste nuove Repubbliche, che si affacciava per la prima volta sulla scena politica internazionale come Stato sovrano, è la Bielorussia.
Tutte le nuove Repubbliche agli inizi degli anni Novanta, si dettero una nuova costituzione e una forma di governo di tipo presidenziale. La Bielorussia mantenne, dopo l’approvazione del testo costituzionale del 1994, l’assetto amministrativo ed economico lasciato in eredità dall’URSS. La vita del cittadino bielorusso non mutò quindi con il passaggio dall’URSS al nuovo Stato indipendente. Lo stesso anno in cui fu scritta la Costituzione si tennero le uniche libere elezioni riconosciute dal mondo occidentale. Tra i sei candidati a vincere fu Aljaksandr Lukasenka che proveniva dalle fila del PCUS: da allora ha governato ininterrottamente il paese in qualità di Presidente. In più di una occasione Lukasenka si è vantato di aver votato contro la decisione di sciogliere l’URSS (era membro della Duma) e non a caso ha agito sin dal primo mandato per confermare un assetto istituzionale che rimandava a quello sovietico. Una posizione che ha sempre difeso, andando anche contro un aforisma spesso citato da Vladimir Putin: “Chi non rimpiange l’Unione Sovietica non ha cuore, chi vorrebbe resuscitarla non ha cervello.”
Lukasenka ha sempre sostenuto il modello statale e politico che aveva difeso in URSS anche come ufficiale dell’esercito dell’Armata Rossa tra il 1975 e il 1982 e come istruttore nella sezione affari politici. Un uomo, quindi, pienamente inserito nell’apparato statale sovietico.
La Bielorussia, come molte delle altre nuove Repubbliche,[1] mantenne da subito stretti legami politici ed economici con la nuova Russia, un legame che negli ultimi anni era divenuto meno forte sino ad incrinarne i rapporti: la crisi dell’agosto 2020 l’ha però di nuovo rinsaldata.
La Bielorussia e la Russia di Putin.
Sin dai tempi dell’organizzazione industriale dell’URSS, le più importanti raffinerie di prodotti petroliferi e minerari erano concentrate in Bielorussia. Da qui i prodotti raffinati venivano e vengono ancora oggi esportati principalmente verso la Russia e verso le altre Repubbliche che, insieme alla Bielorussia, costituiscono la UEEA, l’Unione Economica Euro-Asiatica.[2]
L’economia del paese è fortemente condizionata dalle attività industriali legate al settore minerario, ma il vincolo con la Russia è dato dalla necessità di importare petrolio e gas di cui non dispone. La Bielorussia importa il 99% del proprio fabbisogno energetico dalla Russia cui rivende i prodotti raffinati. Questo vincolo rende Bielorussia e Russia due nazioni complementari anche perché in trenta anni di indipendenza e di governo, Lukasenka non ha modificato l’assetto industriale del Paese che, per altro, ha una industria agricola povera.
Sin dagli anni Novanta del secolo scorso, questa dipendenza energetica impose alle due nazioni di mantenere stretti rapporti con un iniziale forte vantaggio da parte della Bielorussia. In Russia non esistevano grandi raffinerie per rispondere alle richieste del mercato interno: da qui una politica di dumping nella vendita alla Bielorussia delle materie prime (petrolio e gas in primis), che rivendeva i prodotti finiti a prezzi di favore al proprio primo partner commerciale.
Tuttavia, questo vincolo poneva la Bielorussia in una situazione di totale dipendenza dalla politica energetica russa con inevitabili conseguenze. Sino al 2013 con i prezzi del petrolio oscillante intorno ai 100 dollari al barile (con punte oltre i 110) e con la vendita sotto costo della materia prima da parte della Russia, l’economia bielorussa ha goduto di trend di crescita del proprio PIL intorno a 7% annuo. Questo ha consentito al paese di risultare la più ricca tra quelli sorti dopo il crollo dell’URSS, di garantire ai propri cittadini il più alto reddito pro capite, pari ad oltre i 6.500 dollari annui, il più efficiente sistema sanitario e una alfabetizzazione della popolazione vicina al 100%. Questa situazione favoriva la popolarità di Lukasenka anche se guidava il paese con il pugno di ferro e imponeva al silenzio l’opposizione, costretta all’esilio o alla persecuzione. Per anni Lukasenka è stato indicato come l’ultimo dittatore d’Europa.
È noto come la Russia utilizzi da sempre la politica energetica come uno strumento di potere e di pressione nelle proprie relazioni esterne, sia che si tratti di Paesi alleati piuttosto che di Paesi con cui intrattiene relazioni commerciali, come nel caso della vendita del gas ai Paesi dell’Unione europea. Dal 2013 ad oggi però il calo della domanda di petrolio e le sanzioni che le ha applicato l’Occidente, hanno modificato l’efficacia e i risultati dell’uso politico nella vendita delle materie prime. È così che in conseguenza della crisi in Ucraina, dal novembre 2013, la Russia ha rivisto la propria politica dei prezzi anche nei confronti dei Paesi a lei più vicini, Bielorussia inclusa.
Va ricordato che il Pil della Russia è legato per il 60% alle attività estrattive del petrolio, del gas o di altre risorse naturali.[3] È quindi evidente che un crollo o una forte oscillazione dei prezzi petroliferi[4] incide pesantemente sull’economia russa che, per ovviare al calo delle entrate, rivede al rialzo i prezzi di favore che applica ad alcune nazioni. L’anno di svolta in tal senso è stato il 2013 quando, a novembre, si aprì la crisi in Ucraina. In quel mese il governo ucraino non siglò il trattato di Associazione all’Unione Europea e come conseguenza scoppiò una crisi politica che sconvolse il Paese portandolo alla guerra civile tra i sostenitori della Associazione e i sostenitori di una maggiore integrazione con la Russia che, con Putin, proponeva l’adesione alla UEEA e garantiva immediati e sostanziosi aiuti alle disastrate finanze ucraine. L’Ucraina si spaccò quindi tra i sostenitori della Associazione alla UE con manifestazioni in molte città in cui si sventolavano bandiere della UE e quelli contrari perché favorevoli ad una maggiore integrazione con la Russia. Quella divisione portò la regione orientale della Ucraina e per altro la più ricca, il Donbass, a proclamare la propria indipendenza con il pieno appoggio, anche militare, della Russia. Da quel momento nella regione a maggioranza russofona è in corso una guerra silenziosa che ha provocato la migrazione verso la Russia e verso l’interno dell’Ucraina, di quasi 2 milioni di cittadini e ha causato migliaia di morti. I rapporti tra Ucraina e Russia precipitarono definitivamente nel 2014 quando in Crimea si tenne un referendum a sostegno del distacco dalla Ucraina per ottenere la integrazione della regione con la Russia. Il referendum, non riconosciuto dall’Occidente, portò al distacco della Crimea dalla Ucraina.[5] Dal 2018 la penisola della Crimea è unita alla Russia da un ponte di 19 km costruito in poco più di un anno, a testimonianza dell’interesse russo per la regione e della volontà di tenere sotto pressione i governanti ucraini nonostante le sanzioni degli USA e della UE.
Come conseguenza della politica aggressiva della Russia verso l’Ucraina gli Stati Uniti, seguiti dalla UE, applicarono una serie di sanzioni economiche e finanziarie che hanno indotto il governo di Putin di rivedere la propria politica dei prezzi delle materie prime nel corso del 2014. Come conseguenza dell’aumento dei prezzi da quell’anno il PIL bielorusso iniziò a scendere con un aumento dell’inflazione, che ha così ridato vigore alle opposizioni al regime. Tra il 2015 e il 2017 si sono avute in Bielorussia manifestazioni di protesta represse con la violenza. Per altro nel 2015 si tennero nuove elezioni presidenziali e per la quinta volta Lukasenka venne rieletto con maggioranze bulgare. Per sedare in parte le proteste si avviarono timide riforme di stampo liberista anche se nel Paese il 70% delle attività economiche restavano sotto stretto controllo statale.
Le proteste di quegli anni in Bielorussia, mentre era nel pieno la crisi in Ucraina, non mutarono la politica e l’atteggiamento dell’Occidente: l’obiettivo della politica estera USA, assecondata dalla UE, restava quello di indebolire la Russia. Non a caso negli anni 2014-2015 gli USA proposero a Ucraina, Moldovia e Georgia di entrare a far parte della NATO, irrigidendo ulteriormente la posizione della Russia. La Guerra fredda era finita solo simbolicamente con il crollo del muro di Berlino, ma la paura verso la Russia restava immutata da parte della politica estera USA che riuscì a convincere tutti i paesi che un tempo facevano parte del Patto di Varsavia ad entrare a far parte della Nato. Nel contempo la UE favorì l’apertura e l’adesione di quelle stesse nazioni, portando così i propri Stati membri a 28. Dinanzi a queste iniziative la Russia rispose stringendo maggiori legami militari ed economici con la Cina, mentre nel 2015 si concretizzò il progetto di Putin di avviare la Unione economica Euro Asiatica (UEEA). Insieme alla UEEA tra gli Stati membri prese vita anche il Fondo Euroasiatico per la Stabilizzazione e lo Sviluppo (EFSD)[6] al fine di garantire aiuti finanziari in caso di crisi interne o internazionali. A questo Fondo è ricorsa la Bielorussia con la richiesta di un prestito di 500 milioni di dollari per aiutare le proprie finanze: va però ricordato che di questi milioni ben 300 andranno restituiti alla Gazprom, la principale azienda russa che si occupa della vendita di gas e petrolio, per saldare vecchi debiti legati alla fornitura di gas. Questo prestito è conciso con il rifiuto da parte di Lukasenka di accettare quello proposto dal FMI che però lo vincolava ad attuare nel paese restrizioni per contenere il coronavirus. Lukasenka rientra nel novero di quei Presidenti che nega i rischi del coronavirus.[7]
La Bielorussia e la UE
I rapporti della UE con la Bielorussia evidenziano ancora una volta un problema più generale legato all’atteggiamento da tenere verso la Russia.
Lukasenka è stato rieletto per la ennesima volta Presidente scatenando imponenti manifestazioni di protesta represse con inaudita violenza. Dinanzi alla repressione la UE ha espresso la propria indignazione dando piena solidarietà ai manifestanti e agli oppositori fuggiti all’estero o imprigionati. Va sottolineato come anche in occasione di questa rielezione, la UE non abbia riconosciuto la legittimità del voto, ma se in passato, di fatto, nulla veniva fatto oltre a rilasciare una semplice dichiarazione di condanna, oggi sono state applicate sanzioni e restrizioni a uomini dell’entourage di Lukasenka, senza però colpirlo in prima persona. Una presa di posizione dovuta alle circostanze, ma che dimostra la grande e grave debolezza politica della UE.
D’altro canto, se Lukasenka può governare la Bielorussia dal 1994, se le sue rielezioni sono sempre state dichiarate illegittime e governa il Paese con il pugno di ferro, la domanda da porsi è come sia possibile accettare tutto questo ai confini della UE. In realtà la situazione che si riscontra in Bielorussia è comune ad altre e numerose ex-repubbliche dell’URSS. In Azerbaigian, Kazakistan, Turkmenistan, Tagikistan gli stessi presidenti vengono rieletti dagli anni ’90 con elezioni farsa. All’elenco dobbiamo però aggiungere la stessa Russia, dove, dal 1999, Putin governa il Paese alternando il proprio ruolo da Primo Ministro a Presidente e dove, dopo il referendum costituzionale del luglio scorso, potrà continuare a governare sino al 2030. La democrazia in senso occidentale, come dichiarato da Putin nell’estate del 2019 al quotidiano Financial Times,[8] non può adattarsi alla Russia e alle sue ex-repubbliche. Le elezioni o i referendum popolari sono così utilizzati per dare una legittimazione popolare a governi in realtà di stampo autoritario.
Attaccare politicamente e direttamente Lukasenka chiedendone le dimissioni, significherebbe dover muovere le stesse accuse a Putin che, dopo un iniziale silenzio nel commentare la sesta rielezione, si è dichiarato disposto a sostenere in ogni modo il suo alleato. Le loro relazioni negli ultimi anni si erano incrinate dopo che, a seguito delle sanzioni, la Russia aveva imposto un rialzo dei prezzi delle materie prime, provocando nel Paese un calo del PIL, la recessione, il crollo dei salari (tornati al valore di quelli del 2010) e un sempre crescente debito verso Gazprom.[9] Nel 2019 Putin aveva proposto a Lukasenka di far confluire la Bielorussia a pieno titolo nella Russia, una proposta allora rigettata con sdegno. Le proteste popolari hanno indotto Lukasenka a riavvicinarsi alla Russia accusando l’UE e gli USA di fomentare le proteste e i disordini al punto di inasprire la repressione guidata dal KGB.[10] Una prova di forza che però non ha fatto cessare le manifestazioni nel Paese. Le proteste popolari e le dichiarazioni degli oppositori fuggiti all’estero dovrebbero indurre la UE a svolgere un ruolo di mediazione e pacificazione evitando gli errori commessi in occasione della crisi ucraina di cui ancora oggi si pagano le conseguenze. Questo ruolo potrebbe a maggior ragione essere importante ora che gli USA hanno mantenuto un basso profilo sulla crisi in corso in Bielorussia. Vi sono state da parte della Amministrazione USA generiche dichiarazioni di condanna dopo le violenze della polizia e la minaccia di sanzioni, ma nulla più. La crisi bielorussa è coincisa con le elezioni presidenziali e i temi della politica estera non sono stati al centro dell’attenzione né da parte di Trump né da parte dello sfidante Biden.
Le dimostrazioni di protesta si svolgono sventolando la bandiera della Bielorussia: non si inneggia né a una rottura con la Russia né ad un avvicinamento alla UE. In Ucraina il paese si era diviso tra due opposte fazioni, con gli USA che sostenevano, con il pieno appoggio della UE, la netta rottura con la Russia arrivando a proporne l’ingresso nella NATO. In Bielorussia gli eventi ucraini sembrano aver indotto gli oppositori ad individuare una “via nazionale” per evitare di schierarsi o contrapporsi all’Occidente o alla Russia. Si tratta di un tentativo che garantirebbe al paese di svolgere un ruolo di ponte tra est ed ovest che in Ucraina è fallito.
La politica estera statunitense dal dopoguerra ha puntato sempre, con una propria coerenza, ad un indebolimento dell’URSS prima e della Russia oggi e questo a prescindere che a governare fosse un Presidente repubblicano o democratico. Questa scelta, legittima da parte di una grande potenza e assecondata dagli europei, ha indebolito l’URSS di ieri e forse la Russia di oggi, ma di certo ha posto la UE dinanzi a tutti i propri limiti e in una posizione di fragilità economica e di sudditanza politica. La UE avrebbe la possibilità di svolgere un ruolo di mediazione tra est ed ovest, ma per poterlo svolgere dovrebbe avere una propria politica estera e di difesa, dovrebbe disporre di una propria politica energetica che, nel caso di alcuni Paesi membri, non la vincolasse alle forniture di gas della Russia.[11] Non disponendo di questa capacità, la UE per segnalare al mondo di avere una propria voce non può che limitarsi a dichiarazioni di condanna e a timide sanzioni ad alcuni uomini vicini a Lukasenka. Sino a quando la UE si limiterà ad appoggiare la politica estera USA, la credibilità e l’efficacia delle proprie dichiarazioni e le timide azioni resteranno vane, come purtroppo le vicende ucraine ci ricordano. Non c’è credibilità senza un potere in grado di sostenerla ed è questo che manca alla UE.
Le proteste popolari in Bielorussia rischiano di restare senza uno sbocco democratico, anzi, di sfociare in un inasprimento della repressione per di più con il sostegno della Russia che non vuole, ai propri confini, nazioni che le siano ostili[12]. Non è possibile immaginare uno scenario in cui con la Russia vi sia un dialogo che non sfoci inevitabilmente in uno scontro aperto come in Ucraina? Per ottenere questo obiettivo sarebbe necessario una Europa capace di agire in modo autonomo e che non si limiti a rilasciare dichiarazioni formali di condanna che purtroppo non garantiscono al popolo bielorusso il diritto alla democrazia. L’aspettativa è che la prossima Conferenza sul futuro dell’Europa sappia porre al centro del dibattito la questione di come garantire credibilità alle politiche dell’Unione: la risposta non potrà che essere quella di dotarsi di un governo che risponda al Parlamento delle proprie azioni in campo di politica estera e di difesa: altrimenti, senza potere, non vi potrà essere credibilità.
Stefano Spoltore
[1] Un percorso a sé stante lo tennero le tre Repubbliche Baltiche che dopo l’indipendenza divennero nel 2004 membri della UE e della NATO.
[2] Ne fanno parte la Russia, la Bielorussia, l’Armenia, il Kazakistan e il Kirghizistan. Putin si fece promotore della costruzione di un mercato regionale nel 2011, che entrò in vigore nel 2015.
[3] Fonte: www.ispionline.it, 2 dicembre 2019.
[4] Il prezzo del Brent al barile è passato dai 108 dollari del 2013 ai 43 del 2016, ha avuto una risalita nel 2018 a 71 per scendere ai 64 nel 2019. A settembre 2020, a causa anche della pandemia, è sceso a 41 dollari.
[5] Per un approfondimento della crisi in Ucraina si veda: Stefano Spoltore, L’Ucraina tra Est ed Ovest, Il Federalista,56 n. 1-2 (2014).
[6] Il capitale sociale della banca ammonta a 7 miliardi di dollari. Gli Stati membri detengono le seguenti azioni nel capitale: Russia 65,97%, Kazakistan 32,99, Bielorussia 0,99%, Tagikistan 0,03%, Armenia 0,01% e Kirghizistan 0,01%.
[7] La medicina che Lukasenka consiglia ai malati di coronavirus è una sauna e una bottiglia di vodka. Ha definito la paura per il coronavirus solo una pericolosa psicosi, nonostante ne sia stato ammalato, Il Messaggero, 9 maggio 2020.
[8] Financial Times, 27 giugno 2019.
[9] Il debito verso Gazprom è stato saldato con il ricorso al prestito all’EFSD (finanziato per oltre il 60% dalla Russia), dove il denaro prestato è così rientrato nelle casse della Russia.
[10] A riprova del legame ideologico di Lukasenka verso la vecchia URSS, dopo l’indipendenza non mutò la sigla della vecchia polizia di Stato sovietica.
[11] Repubblica Ceca, Ungheria e Bulgaria dipendono in toto dalle forniture di gas dalla Russia. Il resto della UE intorno ad una media del 25%. Si veda Il Sole 24 ORE, 24 aprile 2015 e Insideover.com, 31 ottobre 2019.
[12] Un’altra crisi politica è in corso in Kirghizistan, una piccola repubblica ex-sovietica schiacciata tra Russia e Cina. Qui la lotta politica si svolge tra bande armate che da trenta anni si contendono con alterne vicende la presidenza. Le ultime elezioni, palesemente truccate, hanno riacceso la lotta armata, si veda Corriere della sera, 29 ottobre 2020. Altre tensioni si sono riaccese tra Armenia e Azerbaigian (sostenuta dalla Turchia) per il controllo del Nagorno.
Anno LXII, 2020, Numero 3, Pagina 227
LA CRISI PANDEMICA E L’EUROPA
Da tempo gli scienziati avevano previsto l’arrivo di un virus in grado di infettare quasi la metà della popolazione mondiale e di provocare innumerevoli vittime.[1] Il disastro che un simile evento potrebbe creare è stato paragonato alle devastanti conseguenze della Spagnola nel 1918-19, che uccise circa 50 milioni di individui in meno di due anni. Già nel 2005 il National Academy of Science’s Institute aveva ammonito che era in atto un’influenza d’origine aviaria su larga scala in grado di trasmettersi agli umani, avvisando che “l’evoluzione non funziona sulla base di un timetable prevedibile, e le varianti dell’influenza sono le più imprevedibili”. Soprattutto quando diventa trasmettibile agli esseri umani in un mondo globalizzato come quello attuale, in cui movimenti di merci ed individui è cresciuta a dismisura. è opportuno ricordare che la Spagnola fu così definita non perché fu originata in Spagna, ma perché in quel paese vi fu una particolare recrudescenza della malattia che si diffuse rapidamente a seguito degli spostamenti indotti dalla guerra. In tre mesi, nel 1918, morirono oltre quarantamila soldati americani mentre la polizia non riusciva a controllare i disordini e le rivolte causate da una diffusa isteria provocata dalla paura dell’epidemia. Allora nel mondo molte morti non vennero neppure classificate come conseguenti a quella epidemia, che si diffuse rapidamente anche in Russia ed America Latina. Si calcola che almeno il 5% della popolazione del Ghana venne uccisa da quell’influenza in meno di due mesi ed il 20% di quella delle Samoa Occidentali perì per la stessa causa. Le stime ufficiali americane ed europee indicano che almeno 40-50 milioni di morti devono essere attribuiti alle conseguenze di quell’epidemia. Almeno un terzo della popolazione umana fu infettata nell’arco del biennio 1918-1919 e circa 100 milioni di persone morirono. Nel 1917 sorsero in America e in Europa movimenti igienisti che tuttavia non servirono a limitare la diffusione dell’epidemia influenzale: solo nel 1933 venne isolato da un team britannico quel virus influenzale! Altre ondate influenzali si sarebbero verificate verso la fine degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, con decine di migliaia di decessi negli USA. Più tardi, nella metà degli anni Settanta, l’allora presidente USA Ford ordinò la produzione di una notevole quantità di vaccini antinfluenzali per vaccinare tutti gli americani, ma poiché quell’epidemia non scoppiò, nacque una sorta di movimento di contestazione di ulteriori politiche di prevenzione sanitaria promosse dal governo.
Come è noto, i virus influenzali hanno come serbatoio animali selvatici, in particolare gli uccelli, e possono successivamente passare, attraverso animali da cortile, a dei mammiferi e agli esseri umani. Per esempio in Cina si allevano decine di miliardi di galline, il 60% delle quali viene allevata in piccole fattorie familiari, che possono favorire la trasmissione dei virus influenzali. E quando un virus influenzale aviario infetta una nuova specie – per esempio i suini – può modificarsi diventando capace di attaccare l’uomo. Come nel caso di molte malattie infettive, gli individui che hanno superato l’infezione sviluppano anticorpi che li rendono immuni, per periodi più o meno lunghi, a nuove infezioni da parte dello stesso agente patogeno. Ma, soprattutto nel caso dei virus influenzali, nel corso delle generazioni virali si verificano con frequenza mutazioni nel loro materiale ereditario che modificano le caratteristiche delle particelle virali e le rendono almeno in parte irriconoscibili da parte delle difese immunitarie degli individui in precedenza infettati dallo stesso virus. Questo è il motivo per cui un vaccino antinfluenzale prodotto in un anno può risultare inefficace l’anno successivo. Ecco perché si sono potuti verificare diversi cicli di infezioni ed epidemie nel corso del tempo, come per esempio più recentemente negli anni novanta del secolo scorso e nella prima decade del XXI secolo. Finora sono state individuate almeno cento infezioni virali di natura influenzale di origine aviaria o animale. Nonostante ciò il mercato dei vaccini in generale rappresenta tuttora ancora solo il 2% del mercato farmaceutico globale! Le nuove tecnologie promettono di aumentare la capacità produttiva, ma non ci sono evidenze che le case farmaceutiche possano immettere attualmente nel mercato più di 300 milioni di dosi di vaccino all’anno! Per questo si continua a ritenere che nelle condizioni attuali dal 30 al 50% della popolazione mondiale potrebbe essere infettata in una pandemia influenzale. Il problema è che se per esempio si volessero vaccinare tutti i cittadini americani contro un virus influenzale, occorrerebbe produrre ogni anno tante dosi di vaccino quante se ne producono oggi annualmente nel mondo intero!
L’Europa è in particolare dipendente anche per quanto riguarda la produzione e fornitura di medicinali importantissimi da Cina e India. Lo Hubei per esempio, la regione cinese da cui è partita la minaccia del coronavirus, produce una quantità notevole di materie prime farmaceutiche: le esportazioni cinesi di farmaci nel resto del mondo sono quadruplicate negli ultimi anni e valgono ormai oltre 120 miliardi di dollari all’anno. L’India a sua volta si rifornisce dalla Cina per circa due terzi del suo fabbisogno interno e per sostenere le sue esportazioni di farmaci. Come ha ricordato Federico Fubini “l’India e la Cina sono diventate in questo secolo le cucine sul retro dei grandi marchi mondiali i cui nomi compaiono sulle scatole dei medicinali che compriamo quando ci sentiamo poco bene. Percepiamo come ‘tedesco’, ‘italiano’ o ‘svizzero’ un preparato del cui contenuto a volte neanche il produttore sa dove sia il punto di partenza sulla Terra. Lo sa solo il fornitore del fornitore del suo fornitore. Ma un imprevisto nel sito produttivo originario basta a destabilizzare l’intera filiera, potenzialmente fino alla farmacia sotto casa nostra”.[2] Nel caso dell’Italia, secondo l’OCSE, il valore aggiunto creato in India dei medicinali esportati dal nostro paese verso il resto del mondo è più che triplicato in sette anni a partire dal 2005. L’India e la Cina sono de facto diventate le fonti dei grandi marchi farmaceutici esportati e riesportati nel mondo. In ogni caso la maggiore sfida che devono affrontare le società di fronte alle pandemie è rappresentata proprio dalla difficoltà delle strutture sanitarie di far fronte all’afflusso improvviso ed imprevedibile di masse di pazienti negli ospedali. Per questo ogni pandemia mette a dura prova la tenuta dei sistemi sanitari dal livello globale a quello locale. E l’organizzazione mondiale della sanità (WHO), pur avendo una rete mondiale di sorveglianza sull’insorgere delle pandemie, ha un budget annuale solo di qualche centinaio di milioni di dollari (contro un bilancio annuale della città di New York che supera i 1200 miliardi di dollari!).
Inoltre non bisogna pensare che sia sufficiente una prima epidemia a garantire l’immunizzazione di una società. In passato, in assenza di rimedi, le ricorrenti epidemie in Europa di vaiolo, tifo, morbillo ed influenza venivano associate ai cattivi raccolti. Le crisi demografiche ed alimentari erano tuttavia riuscite ad immunizzare parzialmente le popolazioni europee, ma non quelle per esempio quelle delle Americhe. Fonti spagnole e indie attribuiscono per esempio la caduta della capitale azteca all’esplosione del vaiolo. Dal 1519 al 1600, si susseguirono ogni decennio nell’America del Sud epidemie di vaiolo, morbillo, tifo, peste, parotite, influenza, difterite, morbillo. In quella parte del mondo solo a partire dal XVI secolo le popolazioni nelle aree mesoamericane e andine ripresero a crescere.[3]
Oggi il Covid-19 non ha (ancora) trasformato il mondo, ma sicuramente ne ha influenzato lo sviluppo sul piano tecnologico e sociale per gli anni a venire. Il tutto in una situazione di progressivo disimpegno statunitense sulla scena mondiale e di evidente impotenza europea nell’offrire delle alternative per quanto riguarda la definizione di un nuovo assetto istituzionale sovranazionale su scala continentale e globale.[4] Ed è sempre più evidente che occorre instaurare un sistema di articolazione del governo dal livello locale a quello continentale e, in prospettiva, globale.[5]
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Oggi circa il 50% del PIL mondiale dipende dall’Asia, che sta diventando sempre più interdipendente con il resto del mondo. è quindi inevitabile che, quanto successo in passato con la proiezione del commercio e della produzione europei[6] nel mondo, tenda oggi a ripetersi con origine asiatica, raggio d’azione globale e crescente interdipendenza in tutti i campi. Il fatto è che le derive genetiche delle specie, quelle culturali e geografiche si vanno sempre più riducendo. Tutto ha avuto origine non solo con l’espansione economica, industriale e politica degli europei, ma anche con quella biologica dei fattori agricoli e… delle loro malattie.[7]
A seguito della diffusione del Covid-19 in Europa, la Commissione europea ha proposto di potenziare la preparazione e la risposta dell’Europa alle crisi.[8] Questa proposta, che è più che altro un invito ai paesi membri ad agire correttamente e a rafforzare la sorveglianza e lo scambio di informazioni, non basta.[9] Occorrerebbe infatti istituzionalizzare il coordinamento tra politiche europee, nazionali e locali attraverso una federalizzazione del sistema di governo. Un’unione europea della salute implica infatti la riforma in senso federale dell’Europa, per coordinare al meglio le azioni dei diversi livelli di governo, da quello continentale a quello locale. Un’operazione questa che però non può rifarsi né al modello centralistico dello Stato cinese,[10] che comunque non ha saputo impedire il propagarsi della pandemia, né a quello federale sì, ma largamente insufficiente, americano, né tantomeno a quello attuale europeo, ancora prigioniero dei meccanismi intergovernativi, dei veti nazionali e dei particolarismi locali. Come un effetto Bruxelles sul terreno economico e commerciale ha potuto propagarsi su scala internazionale,[11] è giunto il tempo in cui è necessario e possibile affermare l’estensione di un effetto Bruxelles nel mondo anche sul terreno istituzionale. Su questo terreno regna però grande incertezza e confusione. Non solo perché sono forti le resistenze degli avversari dell’unificazione europea e i sostenitori della difesa di una ormai anacronistica sovranità delle piccole patrie, ma anche perché, sul fronte di chi si rende conto della necessità di approfondire l’unificazione politica, regnano l’incertezza e i “timidi sostenitori”. Eppure, come anche questi ultimi ammettono, un salto è necessario. Un esempio viene da uno scritto di Alain Minc, che negli anni settanta del secolo scorso seppe, insieme a Simon Nora, in un celebre rapporto al Presidente della Repubblica francese, mettere in evidenza alla fine degli anni settanta del secolo scorso le implicazioni e le potenzialità dell’imminente rivoluzione informatica[12]. Minc riconosce le potenzialità europee, tuttavia non riconosce ancora la necessità di marciare decisamente verso la federazione europea, limitandosi a considerarla ancora “une construction sui generis”. E ciò conferma la nota frase di Machiavelli, nel Principe, che afferma che “Non c’è niente di più difficile da condurre né più dannoso da gestire dell’iniziare un nuovo ordine delle cose”. Ma il tempo di costruire un nuovo ordine delle cose e per inserire la solidarietà in uno stabile quadro istituzionale federale sovranazionale è ormai all’ordine del giorno: la sfida del Coronavirus-19 ce lo ricorda.
Franco Spoltore
[1] Si veda in proposito l’articolo di Laurie Garrett The Next Pandemic, Foreign Affairs, July-August 2005.
[2] Federico Fubini, Sul vulcano. Come riprenderci il futuro in questa globalizzazione fragile, Milano, Longanesi 2020.
[3] Marcello Carmagnani, L’altro occidente, Torino, Einaudi 2003, pp. 40-46.
[4] Olivier Zajec, L’ordre international qui vient: “Il faut espérer que des évolutions politiques démocratiques sur le continent européen viendront perturber cette « mort cérébrale » qu’illustre en ce moment la focalisation exceptionnelle sur les résultats électoraux du suzerain américain. Ce réflexe révèle moins l’importance des États-Unis dans l’ordre international que l’impuissance européenne à imaginer une autre solution stratégique effective. Malgré les leçons de l’ère Trump”, Le monde diplomatique, novembre 2020.
[5] Nel 1971 il responsabile USA della sanità pubblica aveva ammonito che “prevedere le epidemie influenzali è come prevedere le variazioni meteorologiche, perché “come per gli uragani, le pandemie possono essere individuate e se ne possono intravvedere gli sviluppi. Tuttavia le epidemie sono più imprevedibili degli uragani e la cosa migliore da farsi è fare una stima delle probabilità”, Foreign Affairs, op. cit...
[6] Alfred W. Crosby, Ecological Imperialism. The Ecological Expansion of Europe, ‘900-1900, Cambridge, Cambridge University Press, 1986: “The breakup of Pangaea was a matter of geology and the stately tempo of continental drift. Our current reconstitution of Pangaea by means of ships and aircraft is a matter of human cuture and the careening, accelerating, breakneck beat of technology. To tell that tale we have to go back not 200 million years, fortunately, by only a million or three” p. 12.
[7] Già Charles Darwin aveva osservato nella sua autobiografia che “Wherever the European had trod, death seemed to pursue the aboriginal”.
[8] Costruire un’Unione europea della salute: potenziare la preparazione e la risposta dell'Europa alle crisi, https://ec.europa.eu/italy/news/20201111_Costruire_un_Unione_europea_della_salute_per_rispondere_alle_crisi_it.
[9] Ben Hall et al., How coronavirus exposed Europe’s weaknesses, Financial Times 20/10/20, “When the pandemic struck, many countries were ill-prepared. As a second wave hits, what have they learnt from their early decisions?”, https://www.ft.com/content/efdadd97-aef5-47f1-91de-fe02c41a470a.
[10] Il governo cinese aveva colto la gravità della situazione a Wuhan, ma aveva comunicato l’allarme a livello internazionale con gran ritardo, senza interrompere il traffico aereo per settimane, come si legge in Federico Fubini, Sul vulcano. Come riprenderci il futuro in questa globalizzazione fragile, op. cit..
[11] Anu Bradford, The Brussels Effect, How the European Union Rules the World, Oxford, Oxford University Press, 2020.
[12] Una sintesi del Rapporto Nora-Minc del 1978, può essere recuperato al link https://it.wikipedia.org/wiki/Rapporto_Nora-Minc. Nel suo libro La mondialisation hereuse, Parigi, Tribune libre PLON, 1997 scrive: “L’unione europea è una costruzione sui generis. Da un punto di vista macroeconomico sarà federale: una moneta, un mercato, un diritto alla concorrenza e un quadro politico di bilancio. Strategicamente e diplomaticamente, resterà ancora per molto tempo, confederale, anche se al suo interno e senza riconoscerlo, la Francia e la Germania sviluppano ormai una relazione complementare”, p. 75.
Anno LXII, 2020, Numero 1-2, Pagina 68
L’ANTIEUROPEISMO NELLA POLITICA AMERICANA
É DESTINATO A RESTARE.
PRENDIAMONE ATTO E REAGIAMO
Il partito repubblicano è diventato sempre più il partito di Trump. La difesa a spada tratta da parte del partito repubblicano, in entrambe i rami del Parlamento, del presidente Trump nel caso Biden-Ucraina, così come nel caso del Russiagate (da parte anche di esponenti che fino alle primarie del 2016 erano dei cosiddetti Never Trumper) dimostrano che il partito repubblicano è diventato completamente succube del POTUS (acronimo di President Of The United States) in carica, come mai nella storia. Il comportamento dei policy-makers repubblicani, assieme alla popolarità di Trump tra l’elettorato repubblicano (dove registra tassi di approvazione superiori all’80%) sono indizi che il trumpismo, da fenomeno periferico nel 2016, è diventato in tutto e per tutto mainstream del GOP (acronimo di Grand Old Party, nomignolo del partito repubblicano). Trascorreranno anni, se non decenni, prima che il partito repubblicano possa tornare su posizioni più moderate, se mai dovesse tornarvi.
Infatti, allo stato attuale e dopo tre anni abbondanti dalla sua inaspettata vittoria alle primarie repubblicane e la sua vittoria altrettanto inaspettata nelle elezioni presidenziali, Donald Trump rappresenta niente altro che la punta di diamante di una componente ormai molto forte e rumorosa del partito repubblicano, una componente che fino a quattro anni fa sembrava destinata a rimanere minoritaria o comunque lontana da posizioni di responsabilità e che invece, a causa della polarizzazione politica statunitense e dell’incapacità di candidati moderati come Rubio o Kasich di contrastare non solo la candidatura, ma anche la narrativa di Trump, è diventata oramai il mainstream di quello che fu il partito di Lincoln ed Eisenhower. Trump si è distinto, nel 2016, per essere stato l’unico candidato repubblicano e presidenziale a sostenere apertamente la Brexit, e a non aver mai nascosto la sua ostilità verso l’Unione europea, (oltre che verso la NATO) in dichiarazioni e tweet. Oggi non solo una parte sempre più consistente della base repubblicana si informa su Foxnews o piattaforme complottiste e di estrema destra quali Infowars e Breitbart, ma anche organizzazioni studentesche estremiste quali Turning Point USA o la American Conservative Union, ed eventi politici quali la Conservative Political Action Conference (CPAC, evento nel quale Nigel Farage negli ultimi anni è sempre stato ospite e speaker fisso) sono diventate e diventeranno sempre più importanti, rebus sic stantibus, nella struttura del partito repubblicano, specialmente se il trumpismo dovesse dimostrarsi qualcosa di più di un fenomeno passeggero.
Dal punto di vista europeista e atlantista, l’evoluzione antieuropea del GOP, del suo elettorato e della sua élite rappresenta una pessima notizia. Come già menzionato, non solo la CPAC ha visto partecipare come ospiti arci-brexiteers come Nigel Farage, ma l’Unione europea, nelle parole sia di Trump, sia di personalità a lui legate, come Mike Pompeo (che non si è fatto scrupolo ad attaccare frontalmente diplomatici e funzionari europei durante una visita) è continuamente oggetto o di attacchi o scherno, accompagnati da episodi come il (tentato) downgrade dell’Unione europea nella rappresentanza diplomatica presso la Casa Bianca. Se precedentemente uscite tipo il “Fuck the EU” di John Kerry sembravano episodi isolati, nascosti dietro le quinte, e figli della frustrazione del momento, oggi sembrano diventati normali.
Sebbene la NATO resti un pilastro importante dell’ordine Occidentale e sia stata una degli elementi fondamentali per la pacificazione dell’Europa assieme all’integrazione europea, è opportuno considerare che l’anti-europeismo dell’attuale GOP costituisce un rischio molto grave per il futuro dell’Alleanza. Questo anti-europeismo non è solo un’opposizione tout-court al progetto europeo, ma tocca diversi settori. Tocca innanzitutto l’idea stessa di welfare e l’idea di un rapporto più bilanciato tra Stato e mondo degli affari. L’antieuropeismo della destra americana è l’espressione di un’ideologia basata sull’opposizione all’idea stessa di una qualsiasi forma di contratto sociale, che si concretizzi sia nell’intervento pubblico nell’economia (più o meno accettabile a seconda delle condizioni), sia nell’impostazione di tipo liberale con un’autorità antitrust e le sue strutture, sia nella protezione dei dati dei singoli individui, o nell’idea di progressività nel sistema fiscale, o nella lotta a difesa dell’ambiente. L’Europa e l’Unione europea, per la destra americana, la destra conservatrice in tutte le sue forme, paleo-libertaria o neo-autoritaria, sono un tutt’uno che rappresenta tutto ciò che per loro è nemico e ostacolo alla realizzazione del loro progetto ideologico. L’Unione è un ostacolo da rimuovere. La Brexit e il sostegno alle forze anti-EU sono funzionali alla realizzazione di questo progetto plutocratico, che rappresenta l’unione tra lo sviluppo più becero, egoistico e predatorio del mondo degli affari e una lettura superficiale, appiattita e monodimensionale della teoria politica ed economica liberale.
Il fatto che questo discorso sia così forte in uno dei due partiti del sistema statunitense costituisce un rischio molto grave per l’Unione, maggiore del revanscismo russo di Putin (le cui modeste performance sul lato economico limitano fortemente il successo della sua azione), e maggiore dell’emergere della Cina. Se infatti sia la Cina sia la Russia rappresentavano e rappresentano, in modi e misure diverse, dei competitors, gli Stati Uniti erano tradizionalmente i garanti dell’ordine e della stabilità europea. Lasciare, in queste condizioni, che gli Stati Uniti continuino a esercitare un ruolo egemonico nel sistema atlantico, costituisce per l’Europa una scelta molto rischiosa.
In questa situazione, è opportuno considerare diverse scelte. Come tycoons e miliardari americani e australiani non si fanno più scrupoli a finanziare forze votate a frammentare l’Europa e frustarne l’azione in termini di emergenza climatica, allo stesso modo l’Europa non deve farsi scrupolo a reagire, e a contrapporre, citando Klemens von Metternich riguardo alla politica, non tanto “potenza a potenza”, ma soprattutto “altare ad altare”. Lo scontro tra la destra americana, anti-ambientalista, anti-liberale, e nazionalista e un’Unione che scommette ancora sul multilateralismo, sulla transizione energetica e sulle politiche per l’azzeramento delle emissioni è soprattutto un conflitto ideologico. L’Unione non deve esitare a raggiungere quella società civile statunitense, l’élite sia essa democratica sia essa repubblicana, che ancora crede nella vicinanza e leale collaborazione tra Europa e Stati Uniti, ma deve anche tornare a raggiungere le menti degli americani di ogni censo e condizione, di quanti sono stati più vulnerabili al messaggio di Trump nel 2016. Allo stesso tempo, l’Europa deve finalmente diventare più autonoma dagli Stati Uniti, non avversaria ma nemmeno succube, e a diversificare le proprie amicizie e rapporti internazionali. Deve avere una politica di sicurezza e di difesa unita e coesa a sé stante, responsabile di fronte al Parlamento Europeo. Deve darsi una propria politica industriale specie in rapporto alla difesa emancipandosi dagli Stati Uniti e il bilancio europeo dovrà conseguentemente sostenere queste iniziative. Le istituzioni europee dovranno conseguentemente fare un salto costituzionale, al fine di avere un governo europeo capace di fronteggiare l’aggressività della politica repubblicana. Per quanto ciò possa non essere desiderabile dal punto di vista politico, storico e forse anche emotivo, costituirà la migliore strategia per difendersi da un discorso politico sempre più anti-europeista.
Un anti-europeista potrebbe facilmente cadere nell’illusione che l’aggressività della destra americana possa costituire l’inizio della fine per l’Unione e aprire una nuova prospettiva di libertà per i paesi europei. Ciò tuttavia costituisce un’illusione e un atto autolesionistico. La guerra ideologica della destra americana è volta soprattutto all’obiettivo di ribadire una supremazia americana in tutti i rapporti di forza, una supremazia in cui tutto si basa su una visione a somma zero dei rapporti internazionali, nella quale la convenienza per uno (gli USA) deve significare necessariamente lo svantaggio per un altro. I futuri negoziati tra il Regno Unito e gli Stati Uniti, specialmente se Trump dovesse vincere di nuovo nel 2020, saranno un banco di prova per osservare questa nuova dinamica di potere. A ciò si aggiunge il fatto che ideologicamente, l’obiettivo del nuovo GOP trumpiano è lo smantellamento di tutto ciò che costituisce un ostacolo alla realizzazione di quel modello di società iperliberista e plutocratica propagandata dai circoli conservatori americani: la cancellazione degli standard di sicurezza e degli standard ambientali; la cancellazione di qualsiasi presenza pubblica nell’erogazione di servizi pubblici quali sanità e istruzione, la non-protezione dei dati personali, ridotti a pura commodity e, come la crisi ambientale e la crisi del Covid 19 dimostrano, il completo disprezzo verso la scienza e l’esaltazione della cultura irrazionale e anti-scientifica. Per questo, per quanto a un autoproclamato sovranista l’unità europea possa non interessare come prospettiva futura, ancor di meno dovrebbe interessargli una prospettiva di sudditanza totale e l’accettazione di un modello economico e della gestione pubblica che è estranea alla cultura politica ed economica europea.
Francesco Violi
Anno LXII, 2020, Numero 1-2, Pagina 62
L’EUROPA E IL LINGUAGGIO DEL POTERE
È notevole come spesso si ricordi come “atto di nascita” del progetto europeo la firma dei Trattati di Roma il 25 marzo 1957 e non la dichiarazione Schumann o il trattato di Parigi del 1951. Tuttavia ciò è anche comprensibile principalmente per due ordini di motivi. Il primo è che la nascita de iure dell’Unione europea — l’insieme di istituzioni che rappresentano attualmente uno dei punti più avanzati del processo di integrazione europea — a Maastricht nel 1992 e tutte le tappe intermedie di tale percorso derivano sostanzialmente dalla CEE (anzi i trattati di Maastricht e di Lisbona emendano e ampliano i Trattati di Roma). Il secondo risiede nel fatto che il percorso nato dalla dichiarazione Schumann con la fondazione della CECA ebbe una formidabile battuta d’arresto a causa del fallimento della Comunità europea di difesa (CED), prologo dell’unione politica. La bocciatura della CED da parte dell’Assemblea Nazionale francese convinse le cancellerie dei Sei (Italia, Francia, Germania Ovest, Belgio, Olanda, Lussemburgo) che sarebbe stato più opportuno mettere da parte, almeno in un primo momento, l’obiettivo dell’integrazione politica per dedicarsi principalmente allo sviluppo e all’integrazione economica. Da questo punto di vista il successo della CEE nel suo primo decennio di vita fu senza dubbio folgorante poiché la progressiva unione dei mercati dei paesi membri, in un contesto di stabilità economica internazionale e di ricostruzione postbellica che si poneva nel solco del Piano Marshall e sotto l’ala protettrice americana, apriva scenari di sviluppo senza precedenti per il continente europeo.
È opportuno, soprattutto ora che l’obiettivo di creare un forte mercato comune europeo regolato direttamente da parte di istituzioni comunitarie è sostanzialmente raggiunto, ritrovare la carica ideale che guidava i primi passi dell’integrazione europea. Infatti l’aspetto rivoluzionario e nuovo del memorandum Monnet non era tanto la creazione della CECA, ma il significato che questa nuova istituzione in prospettiva avrebbe avuto. Una rilettura del memorandum e della seguente dichiarazione di Schumann (che rivestiva il ruolo di ministro degli Esteri della Francia) rende molto chiara quale fosse l’idea che guidava questo passo. Esso avrebbe dovuto rappresentare l’inizio dell’affermazione di un’Europa unita nel mondo, in qualità di terzo polo rispetto alle due superpotenze, come promotrice di una cultura della pace. Si trattava anche di conservare la coscienza di condividere uno stesso destino maturata durante la Seconda guerra mondiale da parte degli europei e di trasmetterla al resto del mondo. Come nota Monnet “la guerra fredda, il cui obiettivo essenziale è quello di far cedere l’avversario, è la prima fase della guerra vera e propria” e quindi “di fatto noi siamo in guerra”. Ora, il fatto che, nel mondo di oggi, si possa osservare l’aspetto di potere proprio della guerra fredda (la contrapposizione tra i due blocchi) frantumato in una perenne instabilità rende ancora più attuale la necessità di “dare ai popoli dei paesi ‘liberi’ un motivo di speranza anche per gli obiettivi più lontani che verranno loro affidati, (…) [così che] in essi [si crei] l’attiva determinazione di perseguirli.” Insomma è cruciale ricordare il fallimento della CED per rafforzare le nostre ambizioni come europei.
Il tema è stato recentemente ripreso da Josep Borrell, Alto Rappresentante dell’Unione europea per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, in un articolo dal titolo emblematico Questa Europa deve ricominciare a parlare il linguaggio del potere. In esso Borrell, prima di tutto, considera che bisogna riconoscere un fatto: è ancora la politica di potenza a regolare gli equilibri mondiali. Infatti, possiamo arguire, la constatazione che alcuni paesi ne facciano un uso quasi spietato e sguaiato (in particolare gli USA di Trump, la Russia e la Cina) denota il sintomo più perverso della persistenza di quella situazione di potere. Infatti la politica di potenza, basandosi sulla bilancia del potere, consente agli Stati che, per vari motivi, hanno assurto ad un ruolo di importanza a livello mondiale di approfittare della propria posizione come di un’arma per proiettare nel mondo i propri interessi geostrategici. Gli altri paesi, troppo piccoli o sottosviluppati, non hanno nemmeno le carte per partecipare a questo “grande gioco” e devono sottostare alle mosse altrui. L’anarchia internazionale è dunque figlia di una logica spietata dove non la guerra, quanto la minaccia di essa governa i rapporti tra gli Stati. Spesso le controversie internazionali trovano soluzione in funzione di quanto e di come uno Stato possa far valere le proprie prerogative e il proprio peso. I rapporti internazionali, in poche parole, equivalgono a soppesare le ipotetiche conseguenze di una potenziale guerra che coinvolgesse i paesi interessati. Ritorna qui la considerazione di Monnet che la guerra rimane al centro del pensiero politico e strategico.
Riconosciuto il primato del principio di potenza, rivolgiamo il nostro sguardo, ancora per un momento, all’articolo di Borrell per porci la fondamentale questione su quale sia il ruolo dell’UE nel mondo. L’aspetto, infatti, è piuttosto problematico poiché “a prima vista può sembrare difficile raccogliere questa sfida: dopo tutto, l’Unione è nata proprio per porre fine a politiche di potere.” La contraddizione non potrebbe sembrare più stridente: da un lato abbiamo un’istituzione che ha sempre portato avanti la causa del multilateralismo ed è nata dalle macerie di una guerra che ha avuto come punto focale l’espansionismo tedesco; dall’altro vi è “una realtà ben più dura, in cui sono molti gli attori pronti a ricorrere alla forza per raggiungere i loro obiettivi.” Questo è però un dato di fatto e va riconosciuto come tale: non possiamo immaginarci un ruolo o un intervento dell’UE che sia avulso dalla attuale situazione di potere. Naturalmente non bisogna cadere nell’errore di assolutizzare questa situazione e farla assurgere alla condizione di paradigma eterno. Questo perché, innanzitutto si avvallerebbe la visione di un mondo esclusivamente come risultato del cozzo degli interessi contrapposti e inconciliabili degli Stati in cui vi è solo spazio per la forza e il confronto muscolare. Ma la conseguenza più significativa è che questa concezione esclude qualsiasi possibilità di cambiamento. Cioè la politica diventa ancillare a una situazione di potere, ormai inadeguata per il nostro tempo, in cui la politica di potenza ha un ruolo prevalente.
Possiamo dunque superare la contraddizione poc’anzi esposta cercando di distinguere i due aspetti della questione: da un lato abbiamo una situazione globale spietata e dall’altro un Europa incapace di agire in questo contesto. Pertanto per garantire una vera affermazione dei valori per cui è nata, affermazione che non può essere parziale o ristretta a una parte del mondo poiché questi valori sono già parzialmente realizzati all’interno delle comunità nazionali, l’UE deve, riprendendo le parole dell’Alto Rappresentante, “ricominciare a parlare il linguaggio del potere”. Purtroppo qui risiede l’aspetto più problematico dovuto alla farraginosa struttura istituzionale dell’Unione, poiché le decisioni politiche dipendono in modo cruciale dalle istituzioni comunitarie che sono basate sul principio intergovernativo e quindi generalmente dall’unanimità dei governi nazionali. Questa situazione è ormai emblematica e viene sottolineata anche da Borrell: “le regole dell’unanimità rendono arduo raggiungere un consenso su questioni controverse e il rischio di paralisi è sempre in agguato.” È importante però non cadere in questo comune errore di prospettiva: la questione dell’unanimità, che consegna di fatto nelle mani degli Stati una sorta di “diritto di veto”, non è che il sintomo dell’attuale situazione di potere nell’UE. Infatti ciò è indissolubilmente legato alla questione della sovranità e a dove risieda il potere in ultima istanza. Pertanto, non considerando preventivamente che questo potere e la sovranità in generale siano appannaggio esclusivo degli Stati membri e sotto il loro assoluto controllo, si rimane sempre stupiti del fatto che gli Stati non capiscano che “il veto su determinate decisioni indeboliscono non solo l’Unione, ma anche [gli Stati] stessi.”
La prova di essere fuori bersaglio può essere più chiaramente desunta a partire da due ordini di considerazioni. La prima è che la procedura di voto all’unanimità si è estesa spesso come prassi anche negli ambiti in cui i Trattati espressamente non la prevedono ma richiedono un voto qualificato. Nei casi rilevanti in cui si è tentato di aggirare l’unanimità, anche negli ambiti in cui un voto qualificato abbia forza di legge, poiché l’implementazione della norma è comunque sempre stata lasciata alla discrezione degli Stati, sarebbe assurdo aspettarsi che un governo sacrifichi la propria sovranità attuando ciò per cui abbia dato voto contrario in Consiglio. Ha un forte significato politico il fatto che si sia sempre arrivati ad un accordo unanime in Consiglio anche a costo di annacquare le soluzioni politiche e non si sia mai giunti a forzare uno Stato: infatti ciò aprirebbe una seria frattura e mostrerebbe i limiti legati alla mancanza di una sovranità europea e di un vero governo in grado di far valere le decisioni prese secondo tutti i crismi dei trattati. La seconda considerazione è che il Consiglio europeo, in qualità di riunione dei capi di Stato e di governo, si sia in un certo senso arrogato il diritto di decidere anche in materie che non sono di sua stretta competenza. Qui notiamo sia una sorta di riedizione di quel concerto delle nazioni che resse gli equilibri europei all’inizio dell’Ottocento, sia un riconoscimento da parte degli Stati che lo scenario di miopi sovranità nazionali contrapposte è ormai limitante senza una gestione europea delle più importanti questioni. Gestione che, però, senza una ridisegno della situazione del potere in Europa, rimane esclusivamente prerogativa degli Stati e, perciò, spesso inefficiente.
Questo cortocircuito è ancora più chiaro ed emblematico se consideriamo con attenzione la situazione dell’area euro. Vi è un’istituzione a carattere federale, la Banca centrale europea, cui è demandata la politica monetaria, mentre la politica fiscale e di bilancio è sempre saldamente prerogativa esclusiva dei parlamenti e dei governi nazionali. Tuttavia l’introduzione della moneta unica, dato che i paesi che la condividevano sarebbero stati legati a doppio filo, ha reso comunque necessaria una qualche forma di coordinamento nel campo della politica fiscale che ha preso le forme di un’assemblea informale dei ministri delle finanze dell’area euro. Anche se l’Eurogruppo non prende formalmente decisioni (che sono prese autonomamente dagli Stati), possiamo usare la situazione sopra descritta come una bussola: la gestione del potere in Europa rimane confinata al rapporto tra gli Stati e, quindi, alla bilancia del potere.
Vi è in particolare un leader europeo che sembra pronto a raccogliere gli spunti sollevati da Borrell e a spingere per tradurli in risposte concrete per stabilizzare efficacemente la posizione europea nel mondo. Si tratta del presidente francese Emmanuel Macron, che ha esposto la sua visione in un discorso tenuto all’École de guerre in occasione del 60° anniversario della creazione della forza nucleare francese (nota come force de frappe) lo scorso 7 febbraio. L’azione politica di Macron in campo europeo è stata sempre caratterizzata da una riflessione critica sul tema della sovranità, in particolare sulla crisi della sovranità nazionale e la necessità di ricostruirla a livello europeo. Una sezione importante del discorso è dedicata all’analisi della situazione attuale del mondo che, secondo Macron, è attraversato da “profonde rotture”: una rottura strategica, un ritorno di fiamma della politica di potenza discusso sopra, una rottura politico-giuridica, “la crisi del multilateralismo e il regresso del diritto di fronte ai rapporti di forza” e una rottura tecnologica. L’Europa si trova già in mezzo a queste fratture, che non sembrano destinate a rimarginarsi ma, semmai, ad acuirsi sempre di più, con i pochi strumenti creati (da Maastricht nel 1992 fino a Lisbona nel 2007) nei vent’anni di egemonia americana, “l’epoca dei dividendi della Pace”. La decisione di toccare solo l’aspetto di sovranità statale della politica monetaria con l’introduzione dell’euro fu senza dubbio un passo rivoluzionario, importante anche dal punto di vista simbolico, ma negli altri campi la costruzione europea risponde a uno scenario mondiale che ormai non esiste più.
L’aspetto fondamentale della sovranità è che essa è legata ad un governo e, nel momento in cui gli Stati europei sono impotenti davanti alle sfide globali e, in definitiva, non riescono ad avere voce in capitolo neanche con un coordinamento europeo, per far fronte a questi fenomeni diventa di assoluta necessità un vero governo europeo, e, quindi, una sovranità europea. Solo in questo modo, affiancando una nuova sovranità europea alla ormai impotente sovranità nazionale, essa può essere veramente efficace. Secondo Macron queste due sovranità devono costruirsi (e ricostruirsi) di pari passo e, poiché non sembra ancora fattibile la creazione di un’istituzione europea a cui trasferire poteri e competenze in materia di difesa (“per molto tempo ancora l’Europa, in materia di difesa, potrà trarre la sua forza soltanto dagli eserciti nazionali”), dovrà essere ogni Paese a colmare il gap di mancati investimenti in ambito militare accumulatosi nel corso degli ultimi anni e contribuire a sviluppare una “cultura strategica condivisa”. Questo “perché lo sforzo [di bilancio] non è nulla se non si pone al servizio di una visione strategica.”
Nel suo discorso Macron presenta anche una risposta ideale alle questioni sollevate da Borrell, appoggiando fortemente la necessità che l’Europa “parli il linguaggio del potere”. Citiamo solo un esempio portato all’interno del discorso: “Per troppo tempo gli europei hanno pensato che bastasse dare l’esempio e che, disarmandosi, gli altri Stati ci avrebbero seguito. Non è vero! Il disarmo non può essere di per sé un obiettivo: devono prima di tutto migliorare le condizioni della sicurezza internazionale”. Le proposte del presidente francese per plasmare questa visione strategica europea (“l’insieme delle ambizioni concrete che vogliamo dare alla politica di sicurezza e di difesa dell’Europa”) si articolano in due direzioni. La prima è un ripensamento delle relazioni con l’alleato americano: la centralità della NATO non deve essere messa in discussione, ma “la nostra sicurezza passa inevitabilmente anche attraverso una maggiore capacità di azione autonoma degli europei.” La seconda riguarda la dissuasione nucleare: la Force de frappe assume un ruolo importante per la difesa della Francia e dell’Europa, sia perché non esiste una seria minaccia che colpisca un paese europeo senza interessare la Francia e viceversa, sia perché “le nostre forze nucleari rafforzano la sicurezza dell’Europa per la loro stessa presenza e, a questo proposito, hanno una dimensione autenticamente europea.”
Il punto centrale del discorso di Macron, che si inserisce nel solco della necessità di creare una vera “politica di sovranità” europea che complementi e fortifichi la sovranità nazionale, è l’apertura ufficiale ai paesi che vorranno assecondare questo percorso, della possibilità che le risorse nucleari francesi possano essere condivise a beneficio di altri paesi: “auspico che si sviluppi un dialogo strategico con i nostri partner europei che sono pronti sul ruolo della deterrenza nucleare francese nella nostra sicurezza collettiva. (…) Questo dialogo strategico e questi scambi contribuiranno naturalmente allo sviluppo di una vera e propria cultura strategica tra europei.” La portata di questa proposta è molto significativa poiché si pone nell’ottica della necessità del salto federale dei paesi per ottenere quel trasferimento di sovranità che garantirebbe un vero governo europeo della politica di difesa. Questo trasferimento di sovranità è l’unica modalità per consentire ai paesi europei, la cui difesa dipende oggi completamente dall’ombrello americano, di avere un’alternativa credibile per ripensare alla propria difesa.
Potrebbe sembrare assurdo che, al fine di diffondere i valori europei nel mondo sia necessario rafforzare le politiche di difesa degli Stati membri e creare una capacità difensiva a livello europeo (potenzialmente basato anche sulla dissuasione nucleare). Ma, come fa notare Macron, potremmo essere di fronte ad una falsa alternativa: “la scelta non [è] tra un assoluto morale disconnesso dalle realtà strategiche, da un lato, e un ritorno cinico al solo rapporto di forze senza diritto.” In realtà, in un contesto dove le azioni di paesi come la Cina e la Russia e, in particolare, la supremazia che la Cina ha raggiunto nello scacchiere mondiale stanno ponendo fortemente in primo piano un modello alternativo a quello europeo, modello che potrebbe diventare maggioritario, diventa sempre più attuale la necessità di un player europeo anche solo per difendere il proprio modello politico. L’obiettivo di una “instaurazione di un ordine internazionale diverso, con un governo del mondo efficiente in grado di stabilire e far rispettare il diritto” deve passare necessariamente attraverso la situazione attuale di potere. In fin dei conti uno Stato federale europeo dovrà comunque muoversi in un contesto di politica estera caratterizzato da un rapporto basato sulla bilancia del potere, ma la sua fondazione sarà un atto rivoluzionario che mostrerà che la politica e la gestione del potere a livello internazionale non si limita alla brutale contrapposizione muscolare tra Stati e sarà un passo significativo verso il raggiungimento di quell’obiettivo.
Paolo Milanesi
Anno LXII, 2020, Numero 1-2, Pagina 56
9 MAGGIO 1950.
JEAN MONNET:
LA RIVOLUZIONE DELLA SOVRANITA’ EUROPEA
La celebrazione del 9 maggio è legata alla figura del Ministro degli esteri francese Schuman, alla sua storica dichiarazione e alla nascita della CECA, prima tappa del cammino dell’integrazione europea, di cui ricorre il settantennio.
Dietro questa dichiarazione vi è però il grande impegno politico e ideale di chi scrisse il memorandum per Schuman, che poi lo fece proprio: Jean Monnet con i suoi collaboratori Etienne Hirsch, membro della resistenza e che diventerà successivamente presidente dell'Euratom e quindi dell’UEF, e Pierre Uri, economista che avrebbe collaborato alla preparazione del Trattato di Roma.
Tanti sono gli spunti di questo storico evento che richiamano le vicende attuali, pur in un contesto e con riferimenti diversi, legati alla costanza nel tempo del blocco del processo di unificazione da parte dei governi nazionali e all’urgenza di un salto qualitativo verso la creazione di una forma, anche limitata, di sovranità europea.
Certo dal 1950 a oggi l’Europa ha fatto tanti passi avanti: la Comunità si è trasformata in Unione europea; si è consolidato un mercato unico; è stata creata una moneta unica, l’euro, tra 19 paesi; è stata creata una Banca Centrale Europea; dal 1979 il parlamento europeo è stato eletto a suffragio universale e diretto; ma ancora manca quella sovranità che servirebbe in certi campi per dare all'Europa una voce unica e per farne una potenza mondiale.
Monnet nelle sue memorie racconta del grave problema della convivenza pacifica franco-tedesca, in un periodo (1949-1950) in cui i venti di una possibile nuova guerra incutevano paura nell’opinione pubblica sia per effetto della guerra fredda, sia perché era difficile trovare una soluzione alla “questione tedesca”. La sua intuizione, effetto di una lunga elaborazione personale e di gruppo, fu quella di trasformare una difficoltà in un’opportunità, cambiando completamente l’ottica con cui il problema franco-tedesco veniva affrontato. Non più in un quadro di contrapposizione nazionale ma nell’ottica europea.
Monnet partì da un problema concreto: quello della produzione carbonifera della Ruhr e della Sarre e dalla ricerca della soluzione dei problemi legati alla gestione dell’area, storicamente oggetto di scontro tra Francia e Germania, per arrivare a formare una sovranità europea, anche se in un campo limitato.
La sua lunga esperienza nella collaborazione e nelle alleanze tra Stati durante la prima e la seconda guerra mondiale lo avevano infatti convinto della fragilità della sola cooperazione come modello di governo dell’interdipendenza.
“Non si può immaginare fino a che punto la parola ‘alleanza’, che ha sui popoli un potere tanto rassicurante, sia vuota di contenuto sul terreno dell’azione, quando si affida ai meccanismi tradizionali della cooperazione (…). A livello di alleanza, la totalità pareva non avere significato, e aveva comunque pochissime probabilità di concretarsi. Ogni apparato civile e militare di un paese o dell’altro era pronto, più o meno bene, a fare la sua guerra. I Governi agivano separatamente e le mentalità, di fronte alla stessa minaccia di cui non si poteva ignorare l’immensità e l’approssimarsi, reagivano separatamente”.[1]
Tanti sono gli aspetti e gli ostacoli che Monnet dovette affrontare, ma era profondamente convinto della validità della sua azione e fu aiutato dal fatto di trovare persone e leaders politici come Schuman e Adenauer, che ne capirono l’importanza.
Adenauer, a questo proposito, ha scritto nelle sue memorie, riportate da Monnet: “Quel mattino non sapevo ancora che la giornata mi avrebbe portato la notizia di una svolta decisiva nell’evoluzione dell’Europa (…). Mi fu annunciato che un inviato del ministro francese degli Affari esteri aveva una comunicazione urgente da farmi. Egli recava due lettere di Schuman (…). La prima scritta a mano, era una comunicazione personale di Schuman, (…) mi diceva che lo scopo della sua proposta non era economico ma politico (…). Risposi a Schuman che approvavo la sua proposta di tutto cuore”.[2]
Nella mente di Monnet, nei febbrili giorni che portarono all’accordo per la stesura definitiva del trattato, era ben chiaro il punto fermo della sovranità europea, idea che tuttavia si scontrava con i tentativi svianti di accordi intergovernativi. Nella riunione del 22 giugno con i cinque capi delegazione: il tedesco Hallstein, il belga Suetens, l’olandese Spieremburg, il lussemburghese Wehrer, l’italiano Taviani, lavorò intensamente nella gestione della conferenza per istituire la CECA e per trattare i problemi istituzionali. L’atteggiamento dei capi delegazione seguiva la stessa linea: “che era quella della logica specifica di uomini esercitati a negoziare accordi da Stato a Stato o da produttore a produttore, accordi più o meno segreti che moderavano il gioco della libera concorrenza. Stavano male all’idea che questo ruolo regolatore potesse essere trasferito all’Alta Autorità che avrebbe agito alla luce del sole e sovranamente”.[3]
A chi chiedeva, per tutte le questioni tecniche importanti, di creare intese intergovernative prima dell’istituzione dell’Alta Autorità rispondeva che “era esattamente il contrario del progetto, per quanto riguardava sia il suo svolgimento che il suo spirito”.[4]
La questione della sovranità è ben evidenziata anche da una risposta data a Macmillan: “Le proposte Schuman o sono rivoluzionarie o non sono niente. Il loro principio fondamentale è la delega di sovranità in un campo limitato ma determinante. A mio parere un piano che non parta da questo principio non può apportare alcun contributo utile alla soluzione dei grandi problemi che ci assillano. La cooperazione tra le nazioni, per importante che sia, non risolve niente”.[5]
Monnet enumera vari ostacoli all’introduzione di un’Alta Autorità, al di sopra degli Stati, premessa di un potere federale, in contrapposizione a una logica intergovernativa: “Ricordai a Spieremburg, che le forme intergovernative di cooperazione non avevano mai dato frutti: ‘Capisco che si debbano nutrire gravi preoccupazioni di fronte al cambiamento radicale rappresentato dall’iniziativa francese. Ma tenete presente che siamo qui per creare una Comunità europea. L’autorità sovrannazionale non è soltanto l’organismo più adatto a regolare i problemi economici, esso è l’inizio di una federazione’.”[6]
L’idea del convertire una necessità in un’azione politica era distintiva in Monnet, che descriveva l’ambiente che lo circondava fertile alla sua accettazione, ma sterile nel promuoverla.
“Quando si considera questo periodo che divideva a metà il secolo, si resta colpiti da uno straordinario fervore intellettuale intorno all’idea europea. Quando si rileggono i manifesti dei partiti e dei movimenti dei militanti, le dichiarazioni dei leader politici e gli articoli dei giornali (…) si ha la sensazione che una corrente di pensiero così ricca avrebbe senz’altro determinato la realizzazione della più ampia unità europea. Ed è vero che già a quell’epoca si erano creati il vocabolario e la dialettica comunitari di oggi, ma tutto questo non aveva niente a che vedere con l’azione”.[7]
L’importanza del lavoro del suo piccolo gruppo in quei giorni concitati è descritta da Monnet all’atto dell’apertura della conferenza dei sei paesi fondatori: “Nel momento in cui iniziava la conferenza, avevo nella mia scrivania un progetto di trattato in quaranta articoli in cui si leggono, in abbozzo ma ben identificabili, le strutture di base dell’organizzazione europea. Questo testo che sviluppava la proposta del 9 maggio e la rendeva operante, era ancora opera di quello stesso piccolo gruppo di uomini. Il loro contributo non si sarebbe fermato lì, ma per quanto importante sia stato in seguito questo contributo, si può dire che essi vissero allora un momento creativo eccezionale. Un momento sempre breve nella storia delle idee, e spesso non ben distinto dalla fase dell’azione che segue e che mette in movimento molte più persone e cose”,[8] e ancora: “Nella mia relazione del 21 giugno sviluppai un nuovo aspetto dell’indipendenza e della forza dell’Alta Autorità; essa avrebbe avuto risorse proprie, grazie a un prelevamento sulla produzione di carbone e acciaio, e non sarebbe stata costretta a dipendere, per il suo funzionamento e i suoi interventi, dai sussidi dei Governi. Inoltre il suo credito morale e finanziario ne avrebbe fatto il miglior mutuatario d’Europa”.[9]
Anche oggi in un momento così drammatico come quello della pandemia e delle sue conseguenze in tutti i campi, nonostante enormi passi avanti per creare una solidarietà europea, e l’aiuto che verrà dal varo dei vari strumenti adottati, lo scontro tra gli interessi nazionali e l’interesse europeo emerge nei momenti in cui prevale la posizione nazionale e la difesa di un presunto interesse nazionale, sia che venga dall’Olanda che dalla Germania o da altri paesi.
Monnet aveva ben capito che quest’ottica, pur comprensibile e consolidata nel tempo, porta solo allo scontro. Oggi, come allora, la domanda è “Possono i singoli paesi europei sopravvivere da soli di fronte agli immensi problemi di questi tempi?” Se la risposta è no, dovrebbe conseguentemente crearsi una vera alternativa europea in nome di quella “totalità” richiamata da Monnet, certamente solo in alcuni campi fondamentali e in modo che l’Unione non si sfasci e che i vari paesi non diventino preda e vittima di questa o di quella potenza extraeuropea, che non chiede altro.
Già all’atto della Dichiarazione del 9 maggio, Schuman nel suo preambolo di fronte a più di duecento giornalisti nel salone dell’Orologio al Quai d’Orsay, affermava l’esigenza di un profondo cambiamento nella politica internazionale. “Non si tratta più di vane parole, ma di un atto ardito, di un atto costruttivo. La Francia ha agito, e le conseguenze della sua azione possono essere immense. Noi speriamo che lo siano. Essa ha agito essenzialmente per la pace. E perché la pace possa veramente esistere, bisogna che prima di tutto ci sia un’Europa”.[10]
Successivamente il 20 giugno, come riporta Monnet, Schuman, aprendo la conferenza dei sei Paesi che avevano aderito, disse loro: “mai prima gli Stati hanno affidato e nemmeno previsto di delegare comunitariamente parte della loro sovranità a un organismo sovrannazionale indipendente”.[11]
Un’impostazione completamente nuova che per fortuna fu condivisa dalla Germania e che Monnet aveva preparato anche con i colloqui con Adenauer, a cui Monnet , tra l’altro, diceva: “Vogliamo stabilire i rapporti tra la Francia e la Germania su una base interamente nuova, (…) e trasformare ciò che le divideva, e soprattutto le industrie di guerra, in un vantaggio comune che sarà anche il vantaggio dell’Europa. L’Europa ritroverà allora il ruolo eminente che aveva nel mondo e che ha perso a causa delle sue divisioni. La sua unità non nuocerà alla sua diversità, tutt’altro. Questa diversità, che è la sua ricchezza, sarà benefica per la civiltà e influirà sull’evoluzione di potenze come l’America stessa.
La proposta francese è dunque, nella sua ispirazione, essenzialmente politica”.[12]
E Adenauer a Monnet “Considero come lei questa impresa nel suo aspetto più alto: essa appartiene all’ordine della morale: è la responsabilità morale che abbiamo verso i nostri popoli, non la responsabilità tecnica che dobbiamo impegnare per realizzare una speranza così grande. L’accoglienza in Germania è stata entusiasta, pertanto non ci lasceremo intralciare da qualche dettaglio. Sono venticinque anni che aspetto questa iniziativa. Associandosi ad essa il mio Governo e il mio paese non hanno alcun secondo fine egemonico. Dal 1933 la storia ci ha insegnato quanto siano vane simili preoccupazioni. La Germania sa che la sua sorte è legata alla sorte dell’Europa occidentale (…).
Signor Monnet, considero la realizzazione della proposta francese come il compito più importante che mi attende. Se riesco a condurlo a termine, ebbene, penso di non aver sprecato la mia vita”.[13]
Dirà Adenauer il 13 giugno al Bundestag: “Tengo a dichiarare espressamente e in pieno accordo non soltanto con il Governo francese ma anche con il signor Jean Monnet, che questo progetto riveste in primissimo luogo un’importanza politica e non economica”.[14]
* * *
Oggi l’Unione europea non è uscita da una guerra ma si trova di fronte a una serie di gravi problemi che se non risolti, vanificheranno anni di integrazione. Il Coronavirus, il blocco delle attività e degli scambi del mercato unico, i riflessi sull’occupazione e lo sviluppo, l’ulteriore indebitamento degli Stati sembrano far ripiombare l’Europa in un baratro da cui è molto difficile uscire con i sistemi e le istituzioni esistenti, che contrappongono gli Stati, e fomentano l’egoismo nazionale.
Scosso dalla pandemia del Covid-19, invece che indirizzarsi verso una strada unitaria per la soluzione anche sanitaria, ogni paese ha fatto la sua scelta, spesso anche in contrasto l’uno con l’altro, mettendo in evidenza che il re è nudo e che la vera unione non c’è. Non c’è la sovranità europea, quella che Monnet ha chiamato in certi momenti la “totalità”, l’essere insieme per affrontare i problemi che contano grazie ad un organismo che rappresenta questa totalità.
I governi nazionali, le loro strutture e burocrazie, il funzionariato sono restii a cedere il proprio potere e gelosamente lo difendono contro le intrusioni di un potere emergente necessario, ma nuovo, che li spaventa. Solo il presidente francese Emanuel Macron, forse memore del ruolo della Francia del 1950, ha impostato gran parte della sua azione, già prima di diventare presidente, sull’idea di una Europa politica e sovrana.
Tra le istituzioni dell’Unione, in particolare il Parlamento Europeo dovrebbe avocare a sé questo potere sovrannazionale europeo, ma molti parlamentari sono tuttora prigionieri della routine e non sono ancora entrati in una logica veramente europea. Essi si limitano a gestire l’esistente, senza rendersi conto che ciò oggi non basterà per far sopravvivere questa istituzione.
Non c’è più tempo! E’ necessario un cambio di mentalità, passare dall’ottica solo nazionale a una visione delle cose che indichi il bene comune, le soluzioni unitarie ai problemi.
Così Jean Monnet si rivolgeva ad Altiero Spinelli nel 1952: “E’ una rivoluzione quella che vogliamo, e la dobbiamo fare con mezzi legali, con uomini di Stato privi di energia, senza alcun appello sentimentale”.[15]
Anna Costa
[1] Jean Monnet, Cittadino d’Europa, 75 anni di storia mondiale, Milano, Rusconi, 1978, p. 10.
[2] Ibid., p. 228.
[3] Ibid., p. 245.
[4] Ibid., p. 245.
[5] Ibid., p. 238.
[6] Ibid., p. 248.
[7] Ibid., pp. 210-211.
[8] Ibid., p. 243.
[9] Ibid., p. 244.
[10] Ibid., p. 229.
[11] Ibid., p. 243.
[12] Ibid., p. 233.
[13] Ibid., p. 234.
[14] Ibid., p. 241.
[15] Altiero Spinelli, Diario europeo 1948-1969, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 140.
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