Anno LVIII, 2016, Numero 2-3, Pagina 152
UNIONE FEDERALE E DIFESA EUROPEA
Non è facile sciogliere i nodi che hanno impedito e tuttora impediscono agli europei di dotarsi di una capacità e credibilità autonoma nella politica estera e della difesa. Non lo è stato dopo la seconda guerra mondiale, agli inizi del processo di integrazione europea, come testimonia il fallimento della CED. Né dopo la fine del bipolarismo, quando sembravano aprirsi degli spiragli per costruire un nuovo ordine continentale e mondiale basato su un sistema di sicurezza reciproca tra Est e Ovest. E neppure quando, agli inizi di questo secolo, l’occupazione dell’Iraq da parte delle truppe americane e britanniche aveva indotto Francia, Germania, Belgio e Lussemburgo a rilanciare la proposta di creare un quartier generale europeo più autonomo dagli USA.
Lo vediamo anche oggi, dopo che l’esito del referendum britannico a favore di Brexit, e a maggior ragione l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, hanno rilanciato il tema della difesa europea. Le proposte finora avanzate rimangono estremamente prudenti, perché i governi e la Commissione europea sono consapevoli delle forti tensioni che caratterizzano in questo momento i rapporti tra i paesi europei, e perché le preoccupazioni elettorali dei singoli governi li spingono all’immobilismo. Come ha più volte spiegato l’Alto rappresentante e Vice presidente della Commissione europea Federica Mogherini, in questo momento non è neppure in discussione la creazione in tempi rapidi di un esercito europeo. Questo obiettivo non solo non è all’ordine del giorno e non è perseguibile nell’ambito degli attuali Trattati, ma non sarebbe neppure auspicabile, in quanto “anche la NATO non ha di per sé un esercito”.[1]Cosa questa solo formalmente vera, in quanto la credibilità della NATO si basa proprio sulla forza e capacità d’azione e deterrenza di un esercito, quello americano, il cui ruolo è stato e resta fondamentale in qualsiasi operazione militare di rilievo dalla fine della seconda guerra mondiale sino ad oggi.
Non bastano dunque i timori suscitati dalla prospettiva di un disimpegno finanziario oltre che militare americano dalla difesa dell’Europa, ribadita ed accentuata da Trump (ed espressione di un malessere e di un malcontento che covano da tempo oltre Oceano[2]) per convincere gli europei della necessità di uscire dalla logica di un mero rafforzamento dell’alleanza militare tra loro e di creare una vera Unione della difesa.
Per fare il punto su che cosa c’è di concreto nel dibattito europeo, prendiamo brevemente in considerazione quanto la Commissione europea ed i governi hanno proposto in ordine cronologico.
I. La Global Strategy della Commissione europea, presentata al Consiglio europeo di fine giugno, si basava su tre linee guida, riprese poi in tutti i documenti successivi.
La prima riguarda il pieno sfruttamento dei Trattati esistenti, a partire dall’impiego dei battle groups, unità militari di 1500 soldati forniti a turno dagli Stati, che sono diventati operativi dal 2007 ma che non sono mai stati utilizzati, sotto il comando del Consiglio dell’Unione europea. Non è difficile capire perché questo strumento è rimasto inutilizzato. Il loro quartier generale ha sede itinerante in funzione della composizione del gruppo. Per quanto riguarda le risorse a loro disposizione, esse dipendono da quanto i singoli Stati facenti parte dei gruppi sono disposti a spendere. A complicare la loro struttura organizzativa ed operativa c’è il fatto che tra i paesi partecipanti a rotazione nei vari gruppi ci sono anche paesi non membri dell’UE ma che fanno parte della NATO (come la Norvegia e la Turchia); paesi che non sono membri né dell’UE né della NATO (come la Macedonia e l’Ucraina); mentre ci sono paesi che pur essendo membri dell’UE non partecipano alla formazione dei battle groups (come la Danimarca e Malta). Ma il punto più rilevante sottolineato dalla Global Strategy riguarda l’implementazione degli articoli 42.6 e 46 dei Trattati, in cui si prevede la possibilità di attivare le cooperazioni strutturate permanenti tra alcuni paesi in materia militare. Un meccanismo anch’esso finora mai attivato, in quanto pur potendo essere avviato con voto a maggioranza qualificata, per funzionare resta soggetto alla regola dell’unanimità tra gli Stati aderenti (e quindi ad un pre-accordo unanime su che cosa fare insieme). Consapevole delle difficoltà insite nell’avvio e nell’attuazione pratica di questa procedura, l’Alto rappresentante Federica Mogherini ha allora anche evocato la possibilità di implementare l’attuazione dell’art. 42.7 (che riguarda l’obbligo di aiuto e assistenza tra Stati vittime di aggressioni armate sul proprio territorio) ed il mai utilizzato art. 44 (che riguarda l’affidamento del compito di assolvere a determinati compiti militari ad un gruppo di Stati da parte del Consiglio).
La seconda linea guida della Global Strategy consiste nell’esplorare le possibilità di migliorare la pianificazione ed il coordinamento delle operazioni militari e civili congiunte nelle zone di crisi.
La terza linea guida riguarda l’identificazione delle attività industriali e tecnologiche strategiche da promuovere in comune nel campo della difesa, anche attraverso dei meccanismi di incentivazione finanziaria.
Come si vede, l’orizzonte di sviluppo della Global Strategy, su cui gli Stati membri sono stati chiamati ad avanzare ulteriori riflessioni e proposte, sul piano istituzionale segue il metodo intergovernativo codificato nei Trattati esistenti in materia di difesa e politica estera, mantenendo uno stretto controllo del Consiglio per quanto riguarda sia l’avvio di cooperazioni più strette, sia, soprattutto, la loro implementazione ed il loro finanziamento.
II. A questa proposta la Francia e la Germania avevano prontamente risposto con considerazioni e suggerimenti che, nella sostanza, restavano nel quadro tracciato dalla Commissione. Dopo la presentazione del piano della Commissione europea, Parigi e Berlino hanno inviato ben tre contributi. Il primo dei ministri degli esteri Jean-Marc Ayrault e Frank-Walter Steinmeier (27 giugno); il secondo dei Ministri degli interni Bernard Cazeneuve e Thomas de Maizière (23 agosto); ed il terzo dei ministri della difesa Jean-Yves Le Drian e Ursula von der Leyen (11 settembre). Con quest’ultimo i due ministri della difesa hanno ribadito l’importanza di tradurre in azioni concrete la Global Strategy, di utilizzare le cooperazioni strutturate permanenti e di istituire un quartier generale. Ma hanno anche precisato che ogni eventuale catena di comando dovrebbe far capo al Comitato politico e di sicurezza dell’Unione europea, costituito dagli ambasciatori degli Stati membri a Bruxelles e presieduto dai rappresentanti del Servizio europeo per l’azione esterna. E, per quanto riguarda gli aspetti finanziari, Francia e Germania, pur auspicando la creazione di nuovi strumenti finanziari dedicati, non hanno voluto specificare come reperirli e governarli.
III. La stessa indeterminatezza la ritroviamo nell’intervento dell’ottobre scorso del ministro tedesco delle finanze Wolfgang Schäuble, il quale ammetteva che l’Unione europea “avrebbe bisogno di un bilancio comune per la difesa”, e che le risorse finanziarie dei paesi dell’Unione nel settore della difesa, qualora venissero messe in comune, ammonterebbero ad una somma molto superiore alle spese militari della Russia. Ma anche il Ministro Schäuble non spiegava in quale quadro sarebbe possibile la messa in comune di queste risorse, né come questa sua proposta si possa conciliare con l’attuale politica del governo tedesco, il quale ha unilateralmente deciso un consistente aumento del bilancio della difesa nazionale per i prossimi cinque anni, dopo 25 anni di riduzioni delle spese.
IV. Da parte sua, il contributo che l’Italia ha fornito alla riflessione sulla Global Strategy, con il paper presentato dai Ministri degli esteri Gentiloni e della difesa Pinotti, pur inserendosi anch’esso nel quadro delle politiche da perseguire nel quadro esistente, e dichiarandosi quindi anch’esso favorevole all’uso dei battle groups ed all’avvio di cooperazioni strutturate permanenti, ha proposto di compiere un ulteriore passo avanti. Il paper suggerisce infatti che, parallelamente al pieno uso delle possibilità offerte dai Trattati, “gli Stati membri con un più alto livello di ambizione si preparino ad avanzare verso una Unione europea della Difesa”. Il modello di riferimento sarebbe quello di Schengen, in cui “i paesi disposti a condividere forze, comandi, controllo, manovra e capacità di intervento potrebbero creare una Forza multinazionale europea (FME) in permanenza a disposizione del Quartier generale della UE per costituire “il nucleo iniziale della futura Forza integrata europea”. Questa proposta, a differenza delle precedenti, si pone dunque il problema della natura che dovrebbe avere un esercito europeo, ma senza affrontare quello del contesto istituzionale in cui inquadrarla. Il che è piuttosto sorprendente quando si considera che il paper italiano parte proprio dalla constatazione che “quando il contesto non corrisponde più alle aspirazioni del tempo in cui viviamo, allora bisogna cambiare il contesto”.
V. Il 14 novembre 2016 i Ministri degli esteri e della difesa dei 28 paesi dell’Unione europea hanno dato il loro assenso all’Implementation Plan on Security and Defence presentato da Federica Mogherini.[3] Questo piano, che dovrà essere sottoposto ai Capi di Stato e di governo nei prossimi vertici, è stato salutato dai Ministri della difesa francese e tedesco come un passo avanti per promuovere una maggiore autonomia strategica in campo militare diminuendo nel contempo la dipendenza europea da Washington. In realtà esso non rappresenta un significativo progresso rispetto alle proposte già in campo. In due punti in particolare esso conferma tutte le difficoltà e le titubanze dei governi nel procedere davvero su questa strada, laddove si affrontano gli aspetti finanziari e quello dell’avvio delle cooperazioni strutturate nel campo della difesa. Per quanto riguarda la solidarietà finanziaria, ci si limita infatti a constatare che gli “Stati membri sono d’accordo nel considerare i finanziamenti in modo approfondito, nell’ottica di rafforzare la solidarietà, l’efficacia e la flessibilità adeguate al livello di ambizione necessario per elevare la capacità di risposta della politica di sicurezza e difesa comune” (punto 11 del documento). Sul secondo aspetto, per sfruttare appieno il potenziale del Trattato, gli Stati membri si dichiarano semplicemente “d’accordo nell’esplorare il potenziale di un’unica ed inclusiva cooperazione strutturata permanente basata sulla volontà degli Stati membri di rafforzare la politica di difesa e sicurezza comune sulla base di impegni concreti. A questo proposito, qualora richiesto, l’Alto rappresentante potrà fornire ulteriori elementi ed opzioni” (punto 12 del documento).
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La necessità di cambiare il quadro istituzionale in cui prendere le decisioni ed agire non rientra pertanto al momento tra le preoccupazioni prioritarie di chi vuole realizzare la difesa europea. Eppure si tratta del punto cruciale, come ha sottolineato tra gli altri un commento al White Paper del governo tedesco sulla difesa[4] pubblicato dalla Stiftung Wissenschaft und Politik in un significativo passaggio. “La politica di sicurezza e difesa comune europea”, scrivono gli autori di questo commento, “è fallita a causa della mancanza di volontà politica. Quando si usa il termine ‘unione’ nel contesto dell’integrazione europea, questo non può che significare una messa in comune a lungo termine delle politiche in questione, come nel caso dell’Unione monetaria. Nel caso della difesa questo significa prevedere un Commissario con l’autorità di comando sulle truppe europee ed il trasferimento di alcuni poteri dai parlamenti nazionali al Parlamento europeo. Questo salto nel processo di integrazione può essere un obiettivo della politica di sicurezza tedesca nella misura in cui chi è consapevole della necessità di compierlo è esplicito nel proporlo, mettendo in evidenza i passi da fare in quella direzione e il calendario vincolante da rispettare, proprio come avvenne per l’Unione monetaria. Nell’attuale situazione di diffusa avversione nei confronti di una maggiore integrazione, gli argomenti presentati dal White Paper (del governo tedesco, ndr) per una Unione di sicurezza e difesa possono apparire ambiziosi, ma in realtà sono incerti e timidi”.[5] Si tratta di critiche che, a ben vedere, riguardano un po’ tutto il dibattito odierno sulla difesa.
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Il fatto che i paesi dell’Unione europea si trovino nell’area di confronto geopolitico tra USA e Russia, e di confine con regioni africane e mediorientali ancora ad alta instabilità politica ed economica, li espone strutturalmente a rischi di crisi o di accordi presi sulle loro teste. Se tali rischi non saranno affrontati in modo coerente, la sicurezza dell’Europa occidentale è a rischio e diventa possibile la sua disgregazione. La posta in gioco per l’Europa non è più soltanto la conservazione del benessere raggiunto, ma la pace. Per la stretta interazione che c’è tra la politica di sicurezza e quella estera, insieme a quella commerciale e delle infrastrutture nel campo dei trasporti e delle comunicazioni, e a quella industriale ed energetica, è solo un palliativo pensare di affrontare la questione della difesa dell’Europa, nei suoi aspetti interni ed esterni, semplicemente attraverso una maggiore cooperazione settoriale in campo militare fra Stati e governi, senza neanche porsi il problema della creazione e della gestione di un esercito europeo, per quanto piccolo o grande questo possa essere; e per quanto poco o tanto la sua struttura operativa possa essere coordinata ed articolata dal livello europeo a quello nazionale. Ed è altrettanto illusorio pensare di lasciare in sospeso la questione della natura ed articolazione della capacità difensiva europea in un’era in cui la deterrenza nucleare continuerà a giocare un ruolo importante. Un’era in cui, come ha osservato il gruppo di dialogo russo-americano Club Valdaj nell’aprile scorso nel suo rapporto Che cosa rende possibile la guerra fra grandi potenze, siamo di fronte ad “una chiara tendenza ad allontanarsi dalle regole di guerra in senso stretto o dall’esistenza di qualsiasi tangibile separazione fra pace e guerra”. E in cui il terreno di confronto fra i grandi poli continentali si è esteso allo spazio, al cyberspazio, alle grandi infrastrutture elettroniche di comando e controllo, a quelle energetiche, finanziarie e di informazione. E dove qualsiasi tensione su scala regionale, e a maggior ragione qualsiasi eventuale conflitto, rischia di “distruggere parti importanti del mondo moderno da cui tutti gli Stati dipendono”.[6]
La stessa esperienza storica ci ha insegnato che i tentativi di integrazione settoriale in campo militare non riescono a decollare se non si accompagnano ad un disegno di unione politica, perché non possono prescindere né dal legame con la politica estera, né dal problema del controllo politico. Lo testimonia anche il primo tentativo fallito di creare un esercito europeo attraverso la Comunità europea di difesa (CED). Questo progetto era nato dall’idea di creare istituzioni simili a quelle della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) con competenze militari anziché economiche, senza alcun riferimento a istituzioni politiche con caratteristiche democratiche e federali. Ma ben presto nelle trattative era emersa la contraddizione di voler affrontare la questione della difesa dell’Europa occidentale di allora senza sciogliere il nodo del governo necessario per gestirla. Fu grazie ad Altiero Spinelli e ad Alcide de Gasperi che questa contraddizione venne superata, collegando la creazione dell’esercito europeo all’instaurazione di un’autorità politica sovranazionale fondata sul voto diretto degli europei. Questa scelta trovò la sua traduzione concreta nel progetto di Comunità politica europea (CPE) elaborato tra il settembre 1952 ed il marzo 1953 dall’assemblea allargata della CECA (Assemblea ad hoc). Vale la pena ricordare l’introduzione ai documenti di presentazione di quel trattato politico predisposto dal Comitato costituzionale presieduto da Von Brentano: “Firmando il trattato istitutivo della CED il 27 Maggio 1952, i Sei governi dichiararono di essere consapevoli di ‘compiere un nuovo ed essenziale passo verso la creazione di ‘un’Europa unita’. Il Trattato non si limitava infatti a dare espressione verbale alla comune determinazione dei Sei paesi di integrare le loro forze armate in un esercito europeo nell’ambito di una comunità sovranazionale; esso stabiliva anche la procedura da seguire per disegnare la struttura definitiva dell’Europa. In base all’articolo 38 del Trattato, l’Assemblea della CED veniva incaricata di esaminare entro sei mesi dal suo insediamento ‘la costituzione di un’Assemblea della Comunità europea di difesa, eletta democraticamente’ che ‘costituisse uno degli elementi di una struttura federale o confederale, basata sul principio della separazione dei poteri e dotata, in particolare, di un sistema di rappresentanza bicamerale’”. Il disegno originario di una integrazione settoriale nel campo militare, per essere promosso, aveva dunque dovuto essere inserito in un chiaro disegno di unione che, se fosse arrivato in porto, avrebbe dato, questo sì e concretamente, avvio alla costruzione di uno Stato federale europeo.[7]
Non è casuale il fatto che Guy Verhofstadt abbia richiamato il precedente storico della CPE nel suo discorso del 12 luglio 2016 di fronte alla Commissione affari costituzionali del Parlamento europeo. E che lo abbia fatto per ribadire che il punto essenziale da affrontare per districarsi dalle varie crisi e per superare l’impotenza, resta quello della realizzazione, tuttora incompiuta, di una comunità, di una unione politica. E infatti il rapporto Verhofstadt[8] pone il tema della difesa e quello della politica estera nel quadro di una riforma in senso federale delle istituzioni europee.
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Alla luce di tutto ciò, è evidente che il nodo della difesa europea non può essere sciolto, oggi come nel secolo scorso, limitandosi ad affrontare alcuni aspetti settoriali e senza aprire una prospettiva di evoluzione in senso federale dell’attuale assetto dell’UE. Limitarsi ad affrontare la questione di una maggiore integrazione in campo militare senza voler superare l’ottica puramente intergovernativa rischia di portare ad un insuccesso, proprio perché, nel campo della difesa, la capacità di agire, ancor di più rispetto alla moneta, non è solo una questione di regole, ma di potere e di sovranità.
Come avviene anche in altri settori, a partire da quello economico e finanziario, in cui sono urgenti politiche europee efficaci, le proposte attuali sulla difesa si scontrano con la paura dei governi di costruire un vero potere sovranazionale (federale) a livello europeo, con ciò pretendendo di restare nel quadro intergovernativo. Mentre, come ha osservato Wheare, solo nelle federazioni “lo strumento d’azione è un governo con il potere di decidere e di eseguire nei campi di comune interesse”.[9]
Smontare questi alibi, e collegare i temi della difesa europea al disegno dell’unione federale, deve diventare pertanto il compito prioritario per tutti coloro i quali sono consapevoli della necessità e dell’urgenza di contribuire a preservare la pace in Europa e nel mondo.
Franco Spoltore
[1] Si vedano in proposito le dichiarazioni rilasciate da Federica Mogherini in occasione dei suoi interventi il 5 ed il 27 settembre e la conferenza stampa del 14 novembre in occasione della riunione d’emergenza dei Ministri degli esteri e della difesa dei 28 per discutere dell’implementazione della Global Strategy proposta dalla Commissione: www.facebook.com/f.mogherini/?fref=ts.
[2] Una esplicita e formale richiesta agli europei di farsi maggiormente carico della loro difesa era già stata avanzata durante la presidenza Obama dall’allora Segretario alla Difesa degli USA Robert Gates, il quale aveva messo in guardia senza mezzi termini che “la pazienza e la volontà del Congresso e del mondo politico americano in generale di pagare per la difesa di Stati che non mostrano alcuna volontà di spendere quanto necessario o di fare i cambiamenti necessari per poter essere considerati dei credibili e capaci partner per garantire la propria sicurezza, stanno finendo”, The Security and Defense Agenda (Future of NATO), as delivered by Secretary of Defense Robert M. Gates, Brussels, Belgium, Friday, June 10, 2011, https://www.scribd.com/document/57526818/Secretary-Gates-Address-About-NATO-s-Future.
[3] Implementation Plan on Security and Defence, by the High Representative of the Union for Foreign Affairs and Security Policy, Vice-President of the European Commission, and Head of the European Defence Agency, 14 November 2016, http://www.consilium.europa.eu/en/press/press-releases/2016/11/pdf/implementation-plan-on-security-and-defence_pdf/.
[4] The 2016 White Paper, Federal Ministry of defence, https://www.bmvg.de/portal/a/bmvg/!ut/p/c4/04_SB8K8xLLM9MSSzPy8xBz9CP3I5EyrpHK9pNyydP1wkHxOun5kap5-QW6uIwDwHf6z/.
[5] Markus Kaim, Hilmar Linnenkamp, The New White Paper 2016 – Promoting Greater Understanding of Security Policy, Stiftung Wissenschaft und Politik (SWP) – German Institute for International and Security Affairs, Comments 2016/C 47, November 2016 - http://www.swp-berlin.org/en/publications/swp-comments-en/swp-aktuelle-details/article/the_new_white_paper_2016.html.
[6] Si veda La sindrome di Versailles, editoriale del numero di Limes su Russia-America la pace impossibile, 9/2016.
[7] Si veda in proposito Sergio Pistone in Il ruolo di Altiero Spinelli nella genesi dell’art. 38 della CED e del progetto della CEP, Contributions to the Symposium in Luxembourg, 17-19 Maggio 1989, Publications of the European Community Liaison Committee of Historians, Milano, Giuffré, 1993.
[8] Questo rapporto è in discussione al Parlamento europeo, che dovrebbe votarlo entro la fine del 2016.
[9] K. C. Wheare, The Constitutional Structure of the Commonwealth, Oxford University Press, London, 1963. Si leggano in proposito le sue considerazioni in relazione ai limiti della cooperazione alle pagg.128-129 e 135-136.