Anno LXIV, 2022, Numero 1, Pagina 41
CORSI E RICORSI
NELLA POLITICA ESTERA DEGLI USA
Introduzione.
Occuparsi della politica estera americana e valutare attentamente le decisioni prese nel merito dalle amministrazioni statunitensi in carica è sempre stato visto come un aspetto fondamentale dell’analisi politica. Un’uguale rilevanza assume tuttavia oggi un’analisi che prenda in esame le motivazioni di queste decisioni e cerchi di capire qual è il ruolo che le diverse Presidenze degli Stati Uniti hanno ritenuto che il potere americano dovesse assumere.
La nascita della potenza americana.
I Padri fondatori degli Stati Uniti d’America avevano certamente chiara l’idea che uno Stato americano sarebbe diventata una potenza a livello continentale e, in prospettiva, globale. Come è noto, la svolta federale, decisa alla Convenzione di Filadelfia e poi sancita nella Costituzione del 1787, servì principalmente per evitare lo sfaldamento dell’Unione confederale e, in un cero senso, per perfezionare gli obiettivi che mossero l’indipendenza dalla madrepatria. In Democrazia in America Tocqueville identifica “due elementi perfettamente distinti, che altrove si sono spesso combattuti, ma che in America si sono incorporati uno nell’altro e combinati meravigliosamente. Voglio dire lo spirito di religione e lo spirito di libertà”.[1] Questa diffusione universale, quasi sacrale, dei valori che troviamo già negli albori del pensiero politico americano è poi esposta chiaramente per la prima volta con notevole peso politico nella Dichiarazione di Indipendenza. Una citazione di Jefferson fa comprendere molto chiaramente che l’orizzonte dei Padri fondatori non era limitato al successo degli USA ma volto al progresso dell’intera umanità: “riteniamo di agire in forza di obblighi non ristretti ai limiti della nostra società. È impossibile non essere consapevoli che stiamo agendo per tutta l’umanità; che circostanze negate ad altri, ma concesse a noi, ci hanno imposto il dovere di dimostrare qual è il grado di libertà e di autogoverno in cui una società può arrischiarsi a lasciare i suoi singoli membri”.[2] Un contributo fondamentale a questa visione era dato anche dal sistema istituzionale che permetteva in linea di principio di accogliere comunità sempre più vaste di persone e di territori in modo pacifico e con la garanzia dell’autogoverno.
Questa concezione abbastanza ingenua venne declinata in senso più strategico trent’anni dopo durante la presidenza di Monroe. La Dottrina Monroe, coniata in un momento estemporaneo e instabile di unità nazionale a seguito della Guerra del 1812 detta Era of Good Feelings, asseriva che il nuovo mondo non sarebbe più stato soggetto alla colonizzazione da parte delle potenze europee e che gli USA, pur rimanendo neutrali nella gestione delle colonie esistenti, avrebbero considerato un atto ostile e un attacco alla propria sicurezza qualsiasi ingerenza nei confronti di quelle ex-colonie che avevano dichiarato l’indipendenza. Si tratta sostanzialmente dell’intento di stabilire una sfera d’influenza americana radicalmente distinta da quella europea, in un contesto di continuità dell’isolazionismo dalle questioni europee.
Theodore Roosevelt raccolse l’eredità di un secolo di straordinario sviluppo industriale ed economico per superare la semplice opposizione al colonialismo della Dottrina Monroe e mostrare al mondo la prospettiva di potenza globale degli USA. La spinta ideale del Destino Manifesto e della “diffusione della civiltà” era sempre cruciale e forte, come dimostrano le stesse parole di Roosevelt: “L’espansione della civiltà produce la pace (…). L’espansione di tutte le grandi potenze civilizzate significa vittoria di legge, ordine e giustizia”.[3] Egli adoperò la classica politica di potenza, in modo non dissimile a quanto accadeva in Europa, con l’uso della forza militare e le minacce di pesanti ritorsioni, per garantire la stabilità interna e la difesa e l’ampliamento degli interessi esclusivi americani a scapito di quelli delle potenze europee. Dopo il conseguimento dell’egemonia continentale, le basi per diventare una superpotenza erano poste e l’obiettivo della politica di potenza americana diventò (dopo la momentanea battuta d’arresto causata dalla Grande Depressione) il mantenimento della stabilità degli equilibri mondiali.
Revival neo-Rooseveltiano nella competizione USA-Cina.
Sicuramente il confronto con la Cina è stato il tema intorno a cui ruotava l’intera presidenza Trump, e anche uno dei punti di maggiore fragilità dell’intera strategia americana. Nel fuoco incrociato di questo scontro sono finite le organizzazioni multilaterali e, più in generale, i rapporti globali che si erano consolidati dopo la caduta dell’URSS. Con la giustificazione che gran parte delle responsabilità dell’aumento delle diseguaglianze fossero da attribuire alla globalizzazione tout court, venne inaugurata in effetti una politica di progressivo svuotamento delle organizzazioni internazionali, che, unita ad una visione utilitaristica del mondo e ad una scarsa fiducia nei confronti degli alleati, portò ad un notevole sconvolgimento dell’ordine internazionale
Nadia Schadlow, che è stata Deputy National Security Advisor for Strategy nell’amministrazione Trump, sviluppa lucidamente la strategia della politica estera dell’amministrazione Trump, in un saggio intitolato significativamente La fine dell’illusione americana,[4] intorno a tre punti. Innanzitutto, il criterio d’interpretazione del mondo dopo il crollo dell’URSS seguito dai presidenti e dalla società americana risponderebbe ad una “illusione dell’ordine liberale”: ciò sarebbe motivato dal fatto che la globalizzazione avrebbe dovuto portare prosperità a tutti, mentre ha causato l’aumento delle diseguaglianze e la perdita del potere d’acquisto delle famiglie americane. La seconda critica riguarda le organizzazioni internazionali: esse avrebbero dovuto “affrontare le grandi sfide e far emergere una governance globale con il sostegno della leadership americana”, mentre, vittime della loro eccessiva burocrazia, sono diventate uno strumento cinese (la Cina fu ammessa al WTO nel 2001 con l’auspicio di favorire un percorso verso la democrazia) per stabilizzare ulteriormente il suo regime totalitario e rafforzarsi in modo unilaterale sul piano globale sfruttando l’interdipendenza economica e rafforzare il potere e il controllo del Partito; avrebbero inoltre introdotto una mentalità tendente a minimizzare l’importanza della sovranità nazionale. Il terzo punto è la constatazione della decrescita del potere militare americano, ormai sfidato in ogni campo e che fa troppo affidamento su alleati regionali, spesso non all’altezza.
La politica estera di Trump, definita da Emma Ashford “unilateralismo belligerante”,[5] non è affatto un totale disengagement, non rifiuta l’ottica unipolare, ma, anzi, la porta all’estremo dando la priorità alla primazia militare e agli interessi degli USA a scapito dell’ottica liberale e della promozione della democrazia. In altre parole, nella visione di Trump la globalizzazione, identificata come un cambiamento radicale, richiede, di concerto, un cambiamento radicale della strategia e della visione del mondo. Tuttavia, a dispetto degli obiettivi di rafforzare gli USA ed ostacolare la crescita della Cina, questa strategia, avvicinandosi ad una classica politica imperiale (già percorsa in passato dagli stessi Stati Uniti) e rifiutando l’eccezionalità del ruolo americano di demiurgo di un ordine liberale unificato, favorisce l’emergere di un diverso e ugualmente influente polo di potere globale. Questa politica aggressiva sul piano internazionale ha avuto anche conseguenze sulla politica interna: l’esecutivo ha espresso lati apertamente autoritari manifestatisi chiaramente quando il Presidente ha istigato un folto gruppo di facinorosi accorsi ad un suo comizio ad assaltare il palazzo del Congresso per impedire la certificazione dell’elezione di Joe Biden, fatto che si configura come un tentativo di condizionare con la violenza un processo democratico.
Biden e la forza dell’esempio.
Gli USA vivono un clima politico molto confuso, passato dalla fiducia nell’ineluttabilità della diffusione su scala globale di un ordine liberale guidato dagli USA (quasi un universalismo liberale), al fatalismo che il dominio americano dei primi anni 2000 sia stato un’anomalia, una parentesi chiusa sotto i colpi della Cina e della Russia e del crollo del consenso bipartisan sulla politica estera americana. A ben vedere la crescente partitizzazione e la polarizzazione di ogni questione travolgono anche la politica estera e rendono gli USA un attore globale estremamente imprevedibile. Per questo e soprattutto perché una nazione profondamente divisa deve trovare almeno un terreno comune di dialogo — per garantire sia la stabilità interna sia la credibilità internazionale — in un saggio di presentazione della sua visione programmatica di politica estera americana Biden, allora candidato alle primarie del Partito Democratico, parla di politica estera per la classe media.[6]
Secondo il neopresidente i temi che interessano maggiormente alla classe media sono la rivitalizzazione della democrazia americana e la sicurezza economica. Biden scrive che la democrazia è “non solo il fondamento della società americana, ma anche la fonte del nostro potere”,[7] collegando molto chiaramente a doppio filo la politica interna degli USA con la leadership globale e la visione del mondo. Per il Paese più potente del mondo la politica estera e la politica interna devono raggiungere un equilibrio cruciale per la stabilità del mondo, un equilibrio tuttavia che è anche fragile e sensibile, come appare chiaro dalla critica verso Trump che avrebbe minato la credibilità americana e, di conseguenza, gli equilibri mondiali e il primato della democrazia nel mondo. La sicurezza economica, invece, trova fondamento nella politica commerciale che deve essere plasmata in modo da permettere a tutti i cittadini di condividere il successo del paese per mezzo di investimenti in ricerca e sviluppo e — resistendo alla tendenza globale verso il protezionismo che danneggerebbe gravemente gli USA — ritrovare la leadership nella regolamentazione del commercio affinché “le regole dell’economia internazionale non siano manipolate contro gli Stati Uniti”.[8] Biden identifica poi i due competitor strategici, la Cina e la Russia. La Cina è un antagonista diretto, verso cui gli USA devono essere rigidi, costruendo “un fronte unito di alleati e partner”,[9] nell’affrontare le violazioni dei diritti umani e nell’impedire il dominio del mercato da parte delle aziende di Stato cinesi avvantaggiate da pratiche commerciali sleali. Al contempo è necessario cooperare con Pechino dove esistono convergenze di interessi, in particolare sul cambiamento climatico. Quanto alla Russia, una NATO forte — che deve dotarsi di un aumento delle capacità militari per affrontare anche attacchi non convenzionali come la corruzione, la disinformazione e la guerra cibernetica — è il presupposto per contenere le azioni destabilizzatrici del Cremlino.
Il tentativo di Biden è di recuperare influenza e assumersi responsabilità globali mobilitando azioni collettive. Gli strumenti richiedono sempre una dose di politica di potenza, ma rimane la necessità di fare uso di tutte le potenzialità, a partire dalla diplomazia che deve ricostruirsi a partire dalla credibilità globale. Questa visione riprende il ruolo storico degli USA, abbandonato da Trump, ma con alcuni distinguo. Biden si impegna a terminare le cosiddette forever wars, per l’altissimo costo, politico ed economico di simili interventi su larga scala; mentre considera sostenibili ed efficaci le “operazioni chirurgiche” condotte con pochi uomini e il supporto dell’intelligence. L’obiettivo è dunque una smobilitazione dai teatri in cui un intervento diretto non porterebbe a maggiori benefici rispetto alla responsabilizzazione e al coordinamento con gli alleati, per concentrare la presenza militare, stazionaria o in azione, dove è più necessario. La linea politica generale è il consolidamento delle alleanze e l’aumento della pressione su quegli attori che si sono integrati nell’ordine post Guerra Fredda con l’intento di perseguire obiettivi divergenti o contrastanti rispetto a quelli degli USA per impedire loro di creare ulteriore instabilità, ma scongiurando al contempo la creazione di sfere di influenza separate.
Strategie di autolimitazione.
Richieste di una politica estera più limitata sono sempre esistite negli USA, già a partire dalla guerra ispano-americana del 1898 e generalmente assumono più visibilità nei momenti di passaggio della storia. La differenza è che oggi c’è la percezione di trovarsi in uno snodo storico come è stato nel dopoguerra o dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ma senza che ci sia una chiara strada su cui procedere. Un chiaro segnale dell’importanza di questo tema è costituito dall’attenzione che una parte della dottrina, i cosiddetti restainer, ha riservato al tema dell’insostenibilità degli obiettivi della politica estera americana.
Si tratta in realtà di posizioni che erano già state sviluppate prima della Presidenza Biden, e in particolare da Barry Posen nel 2013.[10] Secondo Posen, gli USA godono di una posizione geografica estremamente favorevole, avendo vicini non minacciosi e con una debole forza militare a nord e sud e due oceani ad est e ad ovest. Non esisterebbero, inoltre, minacce militari dirette al proprio territorio, né Paesi nella posizione di portarne. Tuttavia, la garanzia della protezione americana e la stessa presenza di basi militari spingerebbero alcuni alleati ad approfittarne per sfidare Stati più potenti, facendo affidamento sul salvataggio americano in ultima istanza. Le stesse alleanze costituite a fini di equilibrio di potere e di garanzia di stabilizzazione regionale tenderebbero dunque a trasformarsi in cause di instabilità. Tutto questo obbliga, secondo Posen, gli USA ad essere direttamente politicamente coinvolti e ad intervenire, anche militarmente, in scenari in cui non è compromessa direttamente la loro sicurezza. In questa situazione vengono sacrificate le popolazioni locali che, sentendosi svuotate di qualsiasi peso politico, diventano platealmente ostili alla presenza americana radicalizzandosi in espressioni nazionalistiche. Secondo Posen è dunque necessario che gli USA smantellino il più possibile la presenza militare all’estero e si limitino ad interventi chirurgici e limitati quando strettamente necessario. La prima “sforbiciata” riguarda la NATO: gli USA dovrebbero ritirarsi dall’alleanza e lasciare agli Europei la gestione della sicurezza del continente trasferendo eventualmente le strutture di comando all’Unione Europea. Va ricordato che queste valutazioni sono state fatte in un periodo in cui non era immaginabile una competizione strategica mondiale con la Cina e i rischi maggiori non erano le guerre tra Stati, ma la destabilizzazione interna e l’emergere di attori sub-statali di matrice terroristica e la proliferazione delle armi atomiche.
Una versione più attuale e “moderata” di restrainment è stata espressa da Mara Karlin e Tamara Cofman Wittes,[11] due importanti consulenti del Dipartimento della Difesa. Il punto fermo è sempre porre un chiaro limite all’impegno di “poliziotto del mondo” per evitare di essere trascinati in conflitti, a fronte di pesanti costi politici sia in patria, sia in ottica di credibilità internazionale. L’analisi non rifiuta la presenza militare americana offshore ma la concepisce in una diversa prospettiva. La convinzione di fondo è che una strategia non possa basarsi sul trovare il giusto mezzo del coinvolgimento degli USA perché questo “giusto mezzo” non esiste. Prendendo ad esempio lo scenario mediorientale, una presenza militare esclusivamente operativa (cioè di coordinamento militare e informativo con gli alleati, ma non con un coinvolgimento in prima persona) ha comunque implicazioni strategiche attive sui conflitti in corso nell’area e politiche rispetto alle relazioni con gli alleati. Anche il proposito di sostituire il coinvolgimento militare solamente con la diplomazia non sarebbe un’alternativa percorribile poiché la diplomazia senza la minaccia credibile dell’uso della forza non porta risultati degni di nota. Gli USA dovrebbero, invece, intervenire direttamente solamente dove è necessario per interessi di sicurezza nazionale e in mancanza di un alleato regionale in grado di affrontare efficacemente la minaccia. A differenza di Posen, le ragioni di questo orientamento sono meglio esplicitate, e trovano fondamento nella diminuzione di importanza del petrolio del Golfo per gli americani a fronte di una crescente autonomia energetica e nella convinzione che né Russia né Cina riusciranno ad esercitare un’egemonia in Europa e in Medio Oriente. Gli USA dovrebbero comunque mantenere alcune priorità: proseguire il sostegno alla libertà di navigazione per la marina militare e il traffico commerciale, combattere il terrorismo e sostenere la stabilità e la sicurezza degli alleati, con i giusti investimenti in cooperazione militare e aiuti economici.
Conclusione. Un nuovo Trump all’orizzonte?
La presidenza Biden sembra avere accolto alcune di queste posizioni limitatamente al Medio Oriente e, infatti, il repentino ritiro dall’Afghanistan sembra rispondere a molte delle analisi proposte da Karlin e Wittes. Al contempo la grand strategy resta quella di tenere in vita una sorta di internazionalismo liberale ristretto ai paesi alleati in cui il ruolo degli USA è affrontare le minacce all’ordine globale secondo obiettivi realisticamente raggiungibili.[12] L’aspetto di instabilità notato da tutti gli osservatori riguarda tuttavia la percezione del ruolo americano da parte dell’elettorato. Gli Stati Uniti sono un Paese in cui esiste da un lato una profonda spaccatura sui valori che dovrebbero caratterizzare la politica — non limitato alle singole policy —, dall’altro una convergenza sulla necessità di limitare l’attività internazionale. La linea d’azione di Biden appare quindi come il tentativo di accogliere alcune posizioni del restrainment per creare un nuovo consenso interno su cui poi ricostruire le basi del ruolo globale degli USA, interpretato nel modo classico come garante di un ordine mondiale.
A ben vedere, però queste visioni presentano un difetto. Se riteniamo che il “momento unipolare” sia finito (come molti segnali fanno credere a noi e, ciò che più conta, a buona parte dell’elettorato americano), allora tutte queste strategie perdono di fondamento. Sostenere che non possa emergere una potenza nemmeno lontanamente influente come gli Stati Uniti significa porsi al di fuori della storia: lo abbiamo visto alcuni mesi fa, quando la Russia ha iniziato una guerra di invasione assolutamente convenzionale contro l’Ucraina. Siamo dunque di fronte al rischio di un mondo instabile in cui le organizzazioni internazionali attualmente esistenti non possono sostituire il ruolo degli USA, ma, anzi, diventano ancora più irrilevanti e in cui l’Unione europea, priva di sovranità e dipendente dai suoi Stati membri, rischia di scomparire oppure perdere di rilevanza nel mondo.
Il ritorno dei conflitti inter-statali, dopo quelli intra-statali e cibernetici che hanno dominato gli ultimi decenni, mostra chiaramente come non solo la democrazia sia molto fragile, ma anche l’ordine liberale che ha garantito la prosperità europea degli ultimi ottanta anni non sia scontato. Una presidenza che si basi sui valori e sulle politiche che hanno guidato l’azione di Donald Trump rischia dunque di tornare attuale e di inserirsi perfettamente all’interno di un mondo in cui solo l’anarchia internazionale la fa da padrona. Generalmente gli americani hanno sempre eletto presidenti al passo coi tempi: Joe Biden e anche noi europei dovremmo tenerlo sempre presente. In questo scenario è quindi necessario per gli europei intraprendere con decisione, approfittando dell’occasione aperta dalla Conferenza sul futuro dell’Europa per cambiare i trattati, il percorso per la costruzione di un’unione politica dotata almeno delle competenze in politica estera e fiscale in modo da non dipendere più dalla precarietà dell’alleato americano ma essere un attore globale forte per sostenere la stabilità e la risoluzione diplomatica dei conflitti.
Paolo Milanesi
[1] Alexis de Tocqueville, L’origine degli angloamericani e l’influenza che essa ha avuto sul loro avvenire, in La democrazia in America, trad. it. Milano, BUR, 2016, pp. 54.
[2] Paul Leicester Ford (a cura di), The writings of Thomas Jefferson, New York, G.P. Putnam’s Sons, 1892-1899, vol. VIII, pp. 158-59, cit. in Henry Kissinger, Ordine mondiale, Milano, Mondadori, 2015, p. 236.
[3] Theodore Roosevelt, Expansion and Peace, in The strenuous life, New York, P.F. Collier and Sons, 1899, p. 29.
[4] Nadia Schadlow, The End of American Illusion, Trump and the world as it is, Foreign Affairs, 99 n. 5, (September/October 2020), pp. 35-45.
[5] Emma Ashford, Strategies of restraint, remaking America’s broken foreign policy, Foreign Affairs, 100 n. 5, (September/October 2021), p. 130.
[6] Joseph R. Biden, Why America must lead again. Rescuing U.S. foreign policy after Trump, Foreign Affairs, 99 n. 2, (March/April 2020), p. 68.
[7] Ibidem, p. 65.
[8] Ibidem, p. 70.
[9] Ibidem, p. 71.
[10] Barry R. Posen, Pull Back, a case for a less activist foreign policy, Foreign Affairs, 92 n. 1, (January/February 2013), pp. 116-128.
[11] Mara Karlin e Tamara Cofman Wittes, America’s Middle East Purgatory, the case for doing less, Foreign Affairs, 98 n. 1, (January/February 2019), pp. 88-100.
[12] Mira Rapp-Hooper e Rebecca Friedman Lissner, The open world, what America can achieve after Trump, Foreign Affairs, 98 . 3, (May/June 2019), pp. 18-25.