IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LXIII, 2021, Numero 1, Pagina 23

 

 

KARLSRUHE
E LA CORSA A OSTACOLI DEL PIANO DI RECUPERO

 

 

A poco più di un anno da quando, a causa della pandemia da Covid-19, sono stati imposti i primi lock-down in tutta Europa, gli Stati Uniti hanno incanalato 4 mila miliardi di euro di fondi federali in stimoli fiscali anti-crisi, compresi pagamenti diretti alle famiglie. Si tratta di un intervento di molte volte superiore a quello dell’Unione europea, il cui Piano di recupero ha un bilancio di 750 miliardi di euro da spendere in tre anni, e non è ancora stato lanciato. Sommando diverse linee di credito (Banca Europea degli Investimenti, Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), Sostegno per mitigare i rischi di disoccupazione in caso di emergenza (SURE), ecc.), l’impegno europeo ammonterebbe a 1,3 mila miliardi di euro.

Ciò detto, non bisogna dimenticare che il governo federale spende il 31% del PIL degli Stati Uniti, mentre l’UE amministra l’1% di quello europeo. L’impegno sopra citato non include quindi le spese anticrisi degli Stati membri — sostenute in realtà dalla BCE — che svolgono la parte del leone nello sforzo europeo… almeno per ora.

In ogni caso, anche se non è l’unico fattore (gli Stati Uniti non hanno mai bloccato la loro economia come si è fatto da questa parte dell’Atlantico, scelta che ha portato a conseguenze molto più gravi per la salute pubblica), tutte le previsioni indicano che la repubblica americana crescerà più velocemente e tornerà ai livelli di PIL pre-pandemia prima del Vecchio continente.

Ma allora, che cosa sta dietro a questa enorme differenza transatlantica nella risposta fiscale, dal momento che entrambi possono contrarre prestiti nella propria valuta (dato che sia il dollaro, sia l’euro sono valute di riserva internazionale), cosa che hanno fatto durante la crisi finanziaria del 2008?

La ragione è fondamentalmente storica e istituzionale, dal momento che lo sviluppo di un’Europa federale è a uno stadio molto più arretrato di quello degli Stati Uniti, unitamente alla forte influenza dell’ideologia liberale tedesca nella “costituzione economica” europea. A partire dalla loro costituzione nel 1787, quando si sono sbarazzati delle soluzioni confederali, gli Stati Uniti si sono avviati lungo un percorso inarrestabile di rafforzamento del sistema federale: nel 1790 il consolidamento del debito degli Stati proposto da Hamilton, nel 1908 la creazione dell’FBI, nel 1913 l’introduzione definitiva dell’imposta federale sul reddito e di una banca centrale, e, successivamente, il lancio di grandi programmi federali nel quadro del New Deal di Roosevelt (per tutti gli anni Trenta e Quaranta: investimenti in grandi progetti di infrastrutture per la ripresa dalla Grande depressione, l’introduzione della sicurezza sociale, i fondi di garanzia dei depositi, ecc.), la Big Society di Johnson (negli anni Sessanta: programmi di assistenza sanitaria per i poveri e gli anziani, Medicaid e Medicare, protezione dei diritti civili in tutto il paese, ecc.). Anche la Seconda guerra mondiale e la Guerra fredda hanno contribuito al rafforzamento dei poteri del governo centrale con l’ampliamento dell’esercito federale, la formazione del complesso militare-industriale e la creazione della CIA.

Sebbene il disastro della Seconda guerra mondiale sia stato precisamente il catalizzatore del progetto federale europeo (la dichiarazione Schuman è del 1950), in realtà non solo abbiamo iniziato questo viaggio più di un secolo e mezzo dopo quello statunitense, ma il processo è stato guidato da un gruppo di nazioni con livelli di statualità, eredità storica e diversità notevolmente più alti delle 13 colonie americane del XVIII secolo. Da questo punto di vista, l’Unione europea, gradualmente e con un notevole sforzo per superare la resistenza dei suoi governi nazionali, si è dotata di diverse istituzioni federali chiave, come un parlamento eletto direttamente, con poteri legislativi, che nomina l’esecutivo (la Commissione); una corte le cui sentenze sono vincolanti; un quadro di cittadinanza europea in aggiunta a quelle nazionali; una moneta emessa dalla banca centrale, e diversi programmi di spesa condivisi (agricoltura, scambio di studenti, ricerca, infrastrutture, ecc.). La nostra Unione volontaria di Stati nazionali in corso di federalizzazione è senza dubbio un’enorme conquista storica, senza precedenti, che ha portato a più di 70 anni di pace e prosperità per gli europei, e non deve essere sottovalutata.

Tuttavia, è anche vero che l’UE non ha ancora un tesoro finanziato da tasse paneuropee che sia in grado di emettere obbligazioni federali — principalmente per affrontare crisi straordinarie come quella che stiamo vivendo ora, o programmi di welfare a livello continentale, per non parlare di agenzie al livello dell’FBI, o di forze armate europee. D’altra parte, il lancio dell’euro ha dovuto essere bilanciato dal Patto europeo di stabilità e crescita, che pone severi limiti al debito pubblico e al deficit e vieta alla BCE di finanziare gli Stati membri o l’Unione stessa. Tali vincoli non esistono nella Costituzione americana.

Per quanto riguarda la politica monetaria espansiva della BCE, essa è regolarmente criticata dagli euroscettici che influenzano l’opinione pubblica tedesca, e viene esaminata con la lente d’ingrandimento, in modo non sempre coerente con il diritto dell’Unione europea e con il suo primato, dal Bundesverfassungsgericht, la Corte costituzionale tedesca con sede a Karlsruhe. In effetti, essa ha emesso sentenze ambigue riguardo alla messa in comune della sovranità tedesca attraverso le riforme dei trattati, o semplicemente strane, per esempio nella sua posizione sul sistema elettorale del Parlamento europeo, che non ritiene “reale”.

Non c’è dubbio che la questione della mutualizzazione del debito in uno spirito di solidarietà, attraverso mezzi monetari o fiscali, sia stata un tabù dal punto di vista territoriale, ideologico e istituzionale, almeno fino a quando è arrivato il colpo della pandemia, come dimostrato dalla perniciosa distinzione tra nazioni creditrici (del Nord, serie e risparmiatrici) e paesi debitori (del Sud, frivoli e spendaccioni). I programmi di acquisto del debito pubblico degli Stati membri da parte della BCE non sono formalmente destinati a mutualizzare il debito (questo è vietato dal trattato di Lisbona), ma a trasferire più efficacemente le operazioni di politica monetaria. Diversi casi sono stati comunque già valutati a Karlsruhe con risultati più o meno soddisfacenti. Ciò detto, l’ultima sentenza della Corte costituzionale tedesca su questa materia, del 5 maggio 2020, è giunta ad ignorare la giurisprudenza della Corte di giustizia europea e ad imporre le condizioni di Karlsruhe al programma BCE. Sfortunatamente, fino ad oggi, la Commissione non ha intentato una causa contro la Germania presso la Corte di giustizia europea per aver violato il primato del diritto comunitario.

Per quanto riguarda la mutualizzazione del debito attraverso gli eurobond, questa è stata rifiutata dalla Merkel al tempo della crisi dell’euro del 2010, quando è stato raggiunto un accordo su un’alternativa sotto forma di un meccanismo di prestito per salvare gli Stati membri in difficoltà (ESM) e di un progetto per costruire un’unione bancaria, che ancor oggi, dopo dieci anni, non include un sistema comune di assicurazione dei depositi. Il debito congiunto è stato parzialmente accettato dai governi dei paesi definiti “frugali” solo dopo dure contrattazioni e a certe condizioni, al fine di finanziare il Piano di recupero europeo per affrontare le ricadute economiche e sociali della pandemia. Di conseguenza, l’accordo del 21 luglio 2020 di distribuire 750 miliardi di euro di prestiti e di permettere trasferimenti per finanziare il debito comune da ripagare con future tasse paneuropee rappresenta una pietra miliare federale senza precedenti dal lancio dell’euro nel 1992.

Tuttavia, gli ostacoli politici e istituzionali all’approvazione e all’effettiva attuazione di questo accordo sono molto considerevoli, perché il trattato di Lisbona non regolamenta esplicitamente l’emissione di debito o la sua relazione con il principio del pareggio di bilancio. Inoltre occorre l’unanimità per l’approvazione del bilancio pluriennale e per quella sulla definizione dei contributi che lo finanziano (quest’ultima richiede anche la ratifica di 27 parlamenti nazionali), dai quali dipende il Piano di recupero. I veti nazionali dovranno anche essere superati se saranno introdotte in futuro una border tax sul carbonio, una tassa sulle transazioni finanziarie o una tassa sul digitale — necessarie per rimborso del debito. Inutile dire che la federazione americana ha un grado di coesione nazionale che rende impossibile il dibattito creditore-debitore che vediamo in Europa, e per di più non richiede l’approvazione unanime dei suoi cinquanta Stati per le decisioni su prestiti e tasse. E’ sufficiente un voto a maggioranza nelle due camere, sebbene, per certe decisioni, la vecchia usanza dell’ostruzionismo in Senato abbia alzato l’asticella (fino ad ora) nel 60% delle votazioni.

Tutti questi fattori spiegano perché, a più di un anno dalla diffusione della pandemia in Europa, il Piano non sia ancora utilizzabile (tranne qualche anticipazione, tenendo conto che la scadenza per la presentazione dei piani nazionali di spesa dei fondi è il 30 aprile). C’è il rischio che il Piano non venga attuato fino al 2022 o forse mai nel peggiore dei casi, visto il nuovo ricorso presentato alla Corte costituzionale tedesca. Per la cronaca, il Piano è stato inizialmente concepito, dal punto di vista concettuale, nel marzo 2020, con l’approvazione da parte del Parlamento europeo, in aprile e maggio, di due risoluzioni chiave, significativamente influenzate dalle proposte spagnole, franco-tedesche e della Commissione. Le resistenze alla mutualizzazione del debito opposte dai governi di Austria, Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi e Svezia sono state superate a luglio in cambio di una riduzione del bilancio ordinario, di un aumento dei rimborsi dei loro contributi e di alcuni poteri di intervento sui pagamenti degli Stati membri. Il veto dell’Ungheria e della Polonia — entrambe insoddisfatte del collegamento dell’assistenza finanziaria europea al rispetto dei principi dello Stato di diritto all’interno degli Stati membri — è stato superato a dicembre in cambio di un impegno politico della Commissione a non applicare tale meccanismo fino alla sentenza della Corte di giustizia europea sulla sua conformità al trattato (di per sé, una mossa che ha tutta l’aria di essere estremamente incostituzionale). Da allora, all’inizio della primavera del 2021 e in aggiunta alle difficoltà incontrate nell’attuazione della strategia dell’UE sui vaccini, mancavano 14 ratifiche nazionali. Tra queste, quella della Germania, bloccata in via precauzionale da Karlsruhe in seguito ad una nuova causa che mette in dubbio che il Piano rispetti la Costituzione tedesca e persino i trattati europei. A brevissimo termine, questa misura precauzionale è senza conseguenze perché, purtroppo, molti altri Stati membri devono ancora ratificare i contributi al bilancio pluriennale e non è previsto che ciò avvenga prima della fine di giugno. In ogni caso, però, è molto preoccupante che la Corte costituzionale tedesca non approvi rapidamente il Piano; come è successo in casi simili del passato, ad esempio nel 2012 — come ci ha ricordato Pablo Suanzes nel suo articolo su El Mundo del 26 marzo —, quando fu creato il Meccanismo europeo di stabilità. C’è, tuttavia, un altro possibile scenario che non può essere escluso: che Karlsruhe interroghi la Corte di giustizia europea sulla costituzionalità del Piano rispetto ai trattati, continuando a bloccare la ratifica della Germania, decisione che sembra debba essere riconsiderata entro tre mesi. In quest’ultimo caso, qualora la misura precauzionale non venisse revocata mentre la domanda di pronuncia pregiudiziale viene sottoposta alla Corte di giustizia europea e la questione viene esaminata a fondo, il processo potrebbe durare anni. Questo rappresenterebbe un colpo mortale per il Piano di recupero e aprirebbe la via alla minaccia che la Corte costituzionale tedesca ignori ancora una volta la Corte di giustizia europea e concluda che il Piano viola il diritto comunitario.

Quindi, che cosa si può fare a questo proposito? Sarebbe politicamente opportuno accelerare l’approvazione delle 13 ratifiche dei contributi al bilancio pluriennale ancora in sospeso. Idealmente, la Commissione dovrebbe lanciare una prima emissione di debito per essere in grado di iniziare ad attuare il Piano entro quest’anno (2021), rafforzando la fiducia nella possibilità di ripresa. Tuttavia, il regolamento (UE) 2020/2094 del Consiglio, del 14 dicembre 2020, che fornisce la base giuridica per questa operazione, collega esplicitamente la raccolta di fondi alla previa adozione della decisione sui contributi al bilancio (nota come decisione sulle risorse proprie dell’Unione), che non è ancora in vigore a causa delle ratifiche nazionali in sospeso, tra cui, fino a chissà quando, quella della Germania. In realtà — come ho sostenuto in altri articoli (vedi Recovery Plan for Europe: how to circumvent the Hungary and Poland veto su Sistema Digital del 19 novembre 2020), dopo il veto ungherese-polacco di dicembre — non è mai stato indispensabile legare l’emissione del debito, sulla base dell’articolo 122 del Trattato sul funzionamento dell’UE (che non richiede unanimità o ratifiche nazionali), al bilancio pluriennale e ai relativi contributi, purché ci siano garanzie che si possa elaborare un piano di rimborso del debito compatibile con il tetto di spesa, qualunque esso sia. Questa opzione è messa in discussione da alcuni osservatori e, se adottata, sarebbe molto probabilmente contestata dalla Corte costituzionale tedesca o dalla Corte di giustizia europea. Tuttavia, in linea di principio, non impedirebbe l’attuazione del Piano: Karlsruhe non avrebbe a disposizione una ratifica nazionale da bloccare e la Corte di giustizia europea non è nota per abusare delle misure precauzionali. Tuttavia, se Karlsruhe non dissipa rapidamente i dubbi sulla ratifica tedesca, al fine di poter procedere con urgenza all’emissione di eurobond, necessari alla sopravvivenza del Piano, bisogna prendere in seria considerazione l’alternativa di un nuovo regolamento ad hoc basato sulla suddetta ipotesi. In tal caso, sarà necessario continuare a fare affidamento per tutto alla spesa nazionale indirettamente finanziata dalla BCE, cioè alla mutualizzazione monetaria, vista l’impossibilità di innescare la mutualizzazione del debito.

A medio termine è assolutamente necessario che il primato del diritto dell’UE — contestato dalla Corte costituzionale tedesca nella sua sentenza del maggio 2020 — sia riaffermato attraverso un’azione di infrazione portata davanti alla Corte di giustizia europea, iniziativa che può essere presa solo dalla Commissione, e che la Costituzione tedesca sia sottoposta a revisione. Inoltre, con l’inizio della Conferenza sul futuro dell’Europa, è fondamentale iniziare a lavorare sulla riforma del trattato di Lisbona per eliminare i requisiti dell’unanimità e delle ratifiche parlamentari nazionali per alcune questioni, perché non possiamo continuare ad essere sottoposti a questo tipo di andirivieni giudiziario e politico nazionale. È anche necessario introdurre certezza giuridica e coerenza nel trattato per quanto riguarda le decisioni sul debito e sul suo rimborso; rivedere le caratteristiche pro-cicliche del Patto di stabilità e crescita, includendo la possibilità che la BCE finanzi almeno l’Unione in circostanze eccezionali; e dare a questa nascente unione finanziaria e fiscale piena legittimità democratica, dato che il Parlamento europeo è escluso dalle decisioni sull’adozione dell’emissione del debito e delle corrispondenti tasse paneuropee. Accanto alle quattro libertà del mercato unico, potrebbe anche essere incluso un pilastro ambientale e sociale. Per l’Europa, questo programma costituirebbe il grande salto federale ancora da compiere.

Aprile 2021

Domènec Ruiz Devesa

 

 

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