1. «A dispetto delle cadute e difficoltà economiche, gli indicatori chiave dello sviluppo umano sono avanzati in pressoché tutti i paesi in via di sviluppo. In effetti, i paesi in via di sviluppo hanno conseguito maggiori successi nello sviluppo umano piuttosto che nella crescita del reddito. Il divario Nord-Sud nella speranza di vita, fra il 1960 ed il 1993, è più che dimezzato, passando da 23 a 11 anni».[1] «[…] I paesi in via di sviluppo hanno coperto, per molti aspetti, nel corso di 30 anni, una distanza nello sviluppo umano pari a quella percorsa dal mondo industrializzato nell’arco di un secolo (corsivo nostro). Il tasso di mortalità infantile è più che dimezzato; il tasso congiunto di iscrizione alla scuola primaria e secondaria è più che raddoppiato; le persone vivono, in media, 17 anni di più. L’attenzione tutta puntata sugli indicatori economici, ci fa perdere di vista, qualche volta, le conquiste relative all’esistenza delle persone».[2] Da queste poche frasi tratte dal 7° Rapporto dell’ONU sullo sviluppo umano si ha subito la netta percezione dei profondi cambiamenti intervenuti a livello mondiale nei rapporti tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo nel breve spazio di una generazione, così come si ha una visione sintetica del contenuto del Rapporto: vale a dire un concetto di benessere che non può essere riassunto dal solo parametro del reddito pro-capite, anche se per una parte della popolazione mondiale le condizioni economiche sono peggiorate.[3] L’ONU ha messo a punto un indicatore, chiamato indice dello sviluppo umano, che non tiene conto solamente del reddito pro-capite, ma include altri due parametri: la speranza di vita alla nascita, e il grado di alfabetizzazione degli adulti, assieme alla quota congiunta di iscrizione ai livelli scolastici primari, secondari e terziari. Detto in altri termini, con questo nuovo modo di determinare il grado di benessere di un paese, l’ONU intende mettere in luce l’importanza di una adeguata politica pubblica a sostegno dello sviluppo dell’individuo, quale appunto è una politica per l’istruzione, la formazione professionale e l’assistenza sanitaria. Pertanto, secondo le Nazioni Unite, il capitale umano, ai fini dell’aumento del grado di benessere, deve assumere la stessa importanza finora ricoperta dal solo capitale fisico. Un fatto questo confermato da uno studio della Banca mondiale, secondo il quale la crescita economica di un paese è dovuta per il 16% al capitale fisico (macchinari, costruzione ed infrastrutture), per il 20% al capitale naturale (materie prime, ecc.) e per ben il 64% al capitale umano e sociale. Vale a dire che ai fini della crescita economica sono preponderanti gli investimenti in ricerca e sviluppo, istruzione, formazione professionale e sanità. Ad esempio, commentando i risultati raggiunti da molti paesi in via di sviluppo, il Rapporto rileva che un aumento del 10% nella speranza di vita innalza il tasso di crescita economica di 1,1 punti percentuali l’anno. Ma ancora più consistenti sono gli effetti degli investimenti nell’educazione scolastica e nella formazione professionale: l’incremento di un anno dell’istruzione media della forza lavoro aumenta il Pil del 9%, un aumento che si mantiene per i primi tre anni aggiuntivi di istruzione. Dopo questo periodo, il tasso di crescita del Pil, pur scendendo sensibilmente, si mantiene comunque al livello del 4% per ogni anno addizionale. Il Rapporto cita, a questo proposito, l’esperienza del Pakistan e della Corea del Sud, che nel 1960 presentavano redditi pro-capite simili, ma che avevano tassi di scolarizzazione primaria molto diversi, 30% il primo e 94%, il secondo: nel 1993 il reddito pro-capite della Corea, oggi paese ad alto sviluppo umano, è risultato tre volte superiore a quello del Pakistan, paese annoverato tra quelli a basso sviluppo umano.
Parallelamente ai miglioramenti nel livello dello sviluppo umano, a livello mondiale sono stati compiuti notevoli passi avanti anche verso la democrazia: «più di due terzi della popolazione mondiale attualmente vive sotto un regime politico formalmente pluralistico e democratico».[4] Anche se il Rapporto non approfondisce il ruolo che può svolgere un regime democratico, rispetto ad uno non democratico, nel sostenere la crescita economica, esso conferma che la crescita può favorire l’avvento della democrazia e questa, accompagnandosi ad una migliore distribuzione della ricchezza, a sua volta favorisce lo sviluppo umano nel suo complesso.
Certamente, dunque, sono stati fatti passi avanti significativi, sia verso il miglioramento del livello di sviluppo umano, sia verso istituzioni sempre più democratiche. Tuttavia, ai problemi, che comunque restano per una parte significativa della popolazione mondiale che ha visto peggiorare le proprie condizioni di vita economica e per un gran numero di paesi dove non solo non esiste la democrazia, ma in cui i più elementari diritti umani vengono quotidianamente calpestati, il Rapporto ne aggiunge uno che sempre più correntemente viene individuato come lo snodo decisivo del futuro sviluppo economico e istituzionale dell’umanità: la globalizzazione dell’economia. Quest’ultima si è sviluppata attraverso due vie: la crescita del commercio internazionale di beni e servizi e l’aumento del grado di libertà del movimento dei capitali e della sua dimensione. L’ONU ricorda che, nel giro di una generazione, il mondo ha raggiunto un grado di integrazione molto elevato: gli scambi di beni e servizi hanno ormai assunto un peso decisivo nella crescita del reddito e quindi su uno dei parametri su cui si misura il grado di sviluppo umano. Basti pensare che l’incidenza delle esportazioni e delle importazioni di beni e servizi sul prodotto interno lordo mondiale è cresciuta, tra il 1970 ed il 1990, dal 25% al 45%: ciò significa che il reddito mondiale dipende ormai per quasi la metà dagli scambi, ed ha assunto la stessa rilevanza che caratterizzava i rapporti commerciali tra i paesi europei all’inizio degli anni ‘70, allorché si avviò il primo tentativo di unificazione monetaria con il Piano Werner. La globalizzazione dell’economia, secondo il Rapporto, è alla base di almeno tre nuovi fenomeni la cui rilevanza travalica i confini degli Stati, anche di quelli di grandi dimensioni: la crescita della disuguaglianza economica, che non riguarda solo i rapporti tra paesi ricchi e paesi poveri, ma che comincia a produrre i suoi effetti anche all’interno dei paesi ricchi; la crescente liberalizzazione del movimento dei capitali a livello mondiale; la progressiva emarginazione dei paesi che non partecipano al commercio mondiale.
L’apertura dei mercati ha conosciuto un vero e proprio balzo in avanti negli anni Novanta, ed è all’origine di ampi processi di concentrazione industriale su scala mondiale. Ad esempio, nel 1990, il valore delle operazioni di acquisizione di imprese a livello mondiale è stato pari a 420 miliardi di dollari, una cifra che è cresciuta ininterrottamente fino a superare i 1000 miliardi di dollari nel 1996. L’effetto di queste iniziative, oltre a costituire una razionalizzazione dell’offerta su scala mondiale (si pensi, ad esempio, ai recenti fatti che hanno interessato il settore delle telecomunicazioni e quello aeronautico), è stato anche quello di una forte concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi paesi e di poche persone, tanto che comincia a porsi un problema di anti-trust mondiale. Inoltre, la concorrenza dei paesi emergenti, che si caratterizzano per uno Stato sociale poco sviluppato e con minori garanzie per lavoratori, disoccupati e pensionati, spinge i paesi industrializzati, sotto la spinta della competizione mondiale, a ridurre il livello della protezione sociale. Come esempio della nuova caratteristica che la disuguaglianza economica sta assumendo, l’ONU ricorda che il patrimonio delle 358 persone più ricche è pari al reddito prodotto in un anno da paesi che raccolgono il 45% della popolazione mondiale, e che nella maggiore economia, gli Stati Uniti, «l’1% più ricco della popolazione ha accresciuto la quota di proprietà sui patrimoni dal 20% al 36%» tra il 1975 ed il 1990.[5] Il fenomeno della disuguaglianza si presenta pertanto sotto un nuovo aspetto, sia per la dimensione che sta assumendo, sia perché riguarda anche la distribuzione del reddito all’interno dei paesi industrializzati. Nel quadro economico del passato, la risposta degli aiuti pubblici allo sviluppo — cioè una politica che appartiene alla sfera della cooperazione tra Stati e non a quella che può attuare un governo federale sovranazionale — poteva sembrare una risposta adeguata al superamento della disuguaglianza tra paesi ricchi e paesi poveri. Così come la politica del Welfare State poteva ritenersi adeguata al superamento delle disuguaglianze interne agli Stati nazionali. Oggi che la dimensione dello Stato non coincide più con la dimensione dell’economia e che la ricchezza — ed i redditi che questa produce — sfugge facilmente al potere di imposizione fiscale nazionale, ostacolandone la funzione redistributiva, diviene sempre più evidente la necessità di una risposta mondiale.[6]
Per quanto riguarda l’importanza che sta assumendo la crescente libertà di movimento dei capitali, il Rapporto osserva che nel periodo 1965-90 «i flussi finanziari hanno raggiunto dimensioni inimmaginabili. Più di mille miliardi di dollari vagano per il pianeta ogni ventiquattro ore, nell’incessante ricerca degli impieghi più profittevoli. Tali flussi di capitale non solo offrono opportunità di profitti (e perdite) finora sconosciuti, ma hanno aperto il mondo alle operazioni di un mercato finanziario globale che lascia anche ai paesi più forti una scarsa autonomia nella determinazione di tassi di interesse, tassi di cambio e altre politiche finanziarie».[7] L’importanza assunta dal movimento dei capitali privati, nel corso degli anni, ha prodotto a sua volta un nuovo effetto: ha notevolmente ridotto il ruolo degli aiuti pubblici sul totale dei finanziamenti che sono affluiti verso i paesi in via di sviluppo. Il flusso complessivo degli aiuti, tra il 1987 ed il 1994, è triplicato, ed il peso dei capitali privati, nello stesso arco di tempo, è passato dal 37% del totale al 76%, il che significa che il peso dei movimenti discrezionali di capitale ha superato il peso di quelli attivati da decisioni politiche ed ha ottenuto, almeno fino ad oggi, risultati indiscutibili. Questo fatto costituisce un elemento nuovo di cui occorre tener conto: esso mette in luce che una efficace politica dello sviluppo, a fronte della limitata capacità di attivazione di capitali pubblici, non può fare a meno dell’intervento dei capitali privati, ed in secondo luogo che quest’ultimo, non essendo regolato, privilegia alcune aree a discapito di altre. Infatti, rileva sempre l’ONU, la destinazione dei capitali privati si concentra in poche aree: la parte più consistente del totale degli investimenti diretti (84 miliardi di dollari), nel 1994, per il 40% si è diretto verso la Cina, per il 24% verso Hong Kong, Indonesia, Malaysia, Singapore e Thailandia, e solo per il 3,6% verso l’Africa sub-sahariana, che rappresenta il vero problema dello sviluppo oggi, in quanto non riesce ad attirare capitali privati in misura sufficiente a sostenere il suo decollo economico.
Una situazione di elevata instabilità politica, e con questo si viene al punto sul commercio internazionale, ostacola non solo la partecipazione al mercato mondiale, ma ostacola anche il commercio interregionale, scoraggia gli investitori esteri ed è all’origine di una allocazione delle risorse che penalizza lo sviluppo umano. A questo proposito, la Banca mondiale ha recentemente fatto notare che esiste una forte correlazione tra conflitti e povertà e che quindici dei venti Stati più poveri del mondo hanno avuto importanti conflitti a partire dagli anni ‘80; e qui la Banca si riferisce in particolare al continente africano che ha il minor peso sul commercio mondiale ed è anche quella parte del mondo dove il commercio interregionale — contrariamente a quanto avviene per il commercio intra-europeo, intra-americano ed intra-asiatico — è il meno sviluppato. Non solo: la situazione di permanente tensione politica e militare in Africa spiega come tra il 1960 ed il 1994 il peso delle spese in armamenti sul prodotto interno lordo è potuto aumentare dallo 0,7% al 2,9%. In altre parole, mentre a livello mondiale il rapporto tra il volume delle spese militari e quello delle spese in istruzione e sanità, tra il 1960 ed il 1991, si è ridotto dal 104% al 37%, in Africa, nello stesso periodo, è aumentato dal 27% al 43%. Ciò significa che in questo continente la distribuzione delle risorse è andata a detrimento dello sviluppo umano e non può stupire il fatto che tra i 48 paesi che l’ONU considera a basso sviluppo umano, ben 38 appartengono al continente africano.[8]
2. Il 7° Rapporto dell’ONU ha il merito di sollevare il problema delle disuguaglianze prodotte dalla globalizzazione dell’economia non solo tra paesi ricchi e paesi poveri, ma anche all’interno degli stessi paesi ricchi. Il punto debole del Rapporto è che non vengono fornite soluzioni sul piano istituzionale. Tuttavia, la coscienza della necessità di una risposta mondiale ai problemi della disuguaglianza e dello sviluppo comincia a farsi strada presso leaders politici e uomini di cultura. Pierre Mauroy, Presidente dell’Internazionale socialista, ha recentemente osservato che «bisogna rispondere alla mondializzazione dell’economia e della finanza attraverso la mondializzazione della politica e della democrazia».[9] Mauroy fa poi seguire questa frase dall’enunciazione di una serie di obiettivi (riforma del sistema monetario internazionale, allargamento del G7, lotta alla disoccupazione, ecc.) che dovrebbero costituire i contenuti di una iniziativa su scala mondiale. John Kenneth Galbraith, dal canto suo, compie un passo avanti rispetto all’esigenza di un generico impegno politico a livello mondiale e commentando la crisi del Welfare State a livello nazionale e le disuguaglianze prodotte dalla globalizzazione, individua invece l’obiettivo da perseguire in un radicale cambiamento istituzionale, affermando che «le responsabilità economiche e sociali dello Stato nazionale sono solo una fase di transizione. L’obiettivo finale è un’autorità sovranazionale a cui sia concesso potere, compreso quello di incamerare e spendere fondi».[10] Galbraith, sostanzialmente, sostiene che nell’epoca della globalizzazione la politica del Welfare State tendenzialmente deve essere mondiale. Solo in questa prospettiva, che è quella che riconduce il processo di mondializzazione dell’economia sotto un controllo democratico, è pensabile che si possano limitare le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza, interne ed internazionali, e creare le condizioni politiche perché il capitale privato possa continuare a dare il suo contributo, accanto agli aiuti pubblici, al superamento dei divari di sviluppo, senza alcuna discriminazione tra le diverse aree mondiali.
Una conferma che il punto fondamentale che sta emergendo è quello di una maggiore democrazia a livello mondiale la possiamo ricavare dall’esito della recente Conferenza mondiale sull’alimentazione, indetta dalla FAO nello scorso novembre. Le conclusioni della Conferenza hanno consentito di mettere ancora una volta in luce il fatto che la soluzione di uno dei problemi mondiali più importanti, quello della fame, non può compiere passi avanti significativi senza il rafforzamento dei poteri dell’ONU. E’ emblematico, a questo proposito, l’atteggiamento tenuto dagli USA riguardo al contenuto della dichiarazione finale. Essi si sono opposti sia all’introduzione del diritto all’alimentazione come diritto internazionalmente riconosciuto, sia alla istituzione di un’imposta sul Pil finalizzata al finanziamento di programmi di sostegni alimentari. Gli USA si sono dunque opposti al potenziamento degli strumenti destinati al sostegno dei paesi poveri e gestiti dagli organismi internazionali esistenti: la preoccupazione implicita in questo atteggiamento è quella di una delega eccessiva ad istituzioni su cui essi non hanno potere di veto. Sarebbe tuttavia sbagliato addossare tutte le responsabilità ai soli USA: l’Europa, infatti, ha le sue specifiche colpe, in quanto potrebbe dare l’esempio, in primo luogo decidendo di finanziare il Fondo europeo di sviluppo (FES), non con contributi nazionali, ma attingendo al bilancio comunitario. Occorre infatti ricordare che il FES è l’unico fondo europeo finanziato da contributi nazionali. Inoltre, approfittando della discussione in corso sulla revisione del Trattato di Maastricht, l’Europa potrebbe accelerare i tempi del passaggio ad una politica estera e di sicurezza unica, il che le consentirebbe di attuare una politica efficace di aiuti al Terzo mondo, ed in particolare all’Africa, e di sostenere il potenziamento dei poteri delle Nazioni Unite. E’ infatti oggettivamente difficile pensare che gli Stati Uniti, ma anche qualunque altra area del mondo che fosse chiamata ad intervenire significativamente a sostegno dei paesi più poveri, accettino di delegare ad istituzioni burocratiche la responsabilità di gestire il problema dello sviluppo, che comporta invece la trasformazione in senso democratico delle istituzioni delle Nazioni Unite.
Domenico Moro
[1]UNDP, Rapporto sullo sviluppo umano 7 (Il ruolo della crescita economica), Torino, Rosenberg & Sellier, 1996, p. 16.
[3]Secondo il Rapporto, le condizioni economiche sono peggiorate per il 20% della popolazione. Occorre però ricordare che questo 20% è largamente concentrato in poche aree del mondo: prevalentemente in Africa, seguita da alcuni paesi dell’America latina e dell’Asia.
[8]La prevalenza africana in termini di numero di Stati scompare se si prende in considerazione la popolazione, in quanto tra i paesi a basso sviluppo umano è compresa l’India. Per quest’ultimo paese vanno però fatte delle considerazioni a parte. Innanzitutto l’India è un continente che costituisce un unico mercato unificato, mentre il continente africano è frazionato in decine di Stati sovrani e indipendenti, e in secondo luogo l’economia indiana cresce a tassi molto elevati — oltre il 5% annuo, nel periodo 1985-93 — ed è previsto che all’inizio del 2000 diventi una delle principali potenze economiche del Sud-Est asiatico.
[9]Pierre Mauroy, «Pour une mondialisation de la politique», in Le Monde, 6 novembre 1996.
[10]John Kenneth Galbraith, La buona società, Milano, Rizzoli, 1996, p. 132.
Anno XXXIX, 1997, Numero 1, Pagina 33
NUCLEO SOLIDO E COOPERAZIONE RAFFORZATA
Fin dai primi anni ‘80 è apparso di immediata evidenza che la Comunità europea non avrebbe potuto avviarsi in tempi ragionevoli verso esiti di tipo federale fino a che, a prescindere da ogni altro ostacolo, le decisione fosse dipesa dal consenso di tutti gli Stati membri, e in particolare da quello della Gran Bretagna e della Danimarca. I governi di questi due Stati proclamavano apertamente il loro rifiuto dell’abbandono del metodo intergovernativo. Essi erano consapevoli che da questo dipendeva il mantenimento della sovranità nazionale, alla quale non intendevano in alcun modo rinunziare. Nelle opinioni pubbliche dei due paesi, del resto, l’atteggiamento favorevole all’Europa era assai meno diffuso che nel resto d’Europa, e il grado di interdipendenza tra le loro economie e quelle degli altri paesi della Comunità, pur essendo fortissimo, era di quel tanto inferiore al grado di interdipendenza delle economie di questi ultimi tra di loro, da rendere più credibili, anche se false, le dichiarazioni di coloro che ritenevano che la Gran Bretagna e la Danimarca avrebbero comunque potuto rimanere senza danni al di fuori della Comunità. In questa situazione non si trovava invece il governo francese, che pur affermava con vigore il proprio attaccamento alla sovranità nazionale, in quanto il lungo e profondo coinvolgimento della Francia nel processo di unificazione europea, oltre ad aver fatto raggiungere all’opinione pubblica francese un grado di consapevolezza assai più avanzato, costringeva il suo Presidente e il suo governo, al di là delle dichiarazioni ufficiali, ad essere tra i principali motori del processo e quindi ad operare, di fronte alle situazioni concrete, in modo da creare nei fatti le condizioni per il superamento della sovranità nazionale.
Fu appunto nel pieno del regime thatcheriano che i federalisti lanciarono la proposta, che all’inizio suonò come una provocazione, di creare un’Unione di natura federale all’interno della Comunità. Essa avrebbe consentito al nucleo più avanzato di Stati della Comunità di compiere il passo dell’abbandono della sovranità senza compromettere i diritti acquisiti di quelli che fossero stati contrari al progetto, e che avrebbero potuto continuare a rimanere legati tra di loro e con l’Unione federale sulla base dei Trattati di Roma e dell’Atto Unico. Va da sé che la realizzazione di questa proposta avrebbe comportato una trasformazione radicale della natura delle istituzioni (anche se, tra le ipotesi possibili, vi era anche quella che le istituzioni dell’Unione e quelle della Comunità potessero rimanere formalmente le stesse, pur agendo con composizioni e procedure diverse a seconda che fossero state chiamate ad operare come istituzioni dell’Unione o come istituzioni della Comunità). I federalisti non si nascondevano certo allora la difficoltà della proposta, che richiedeva, per essere adottata, un voto all’unanimità, ma confidavano che essa avrebbe potuto contribuire a far nascere, nei governi più avanzati, e nelle forze politiche dei rispettivi paesi, una più acuta consapevolezza della posta in gioco, rafforzare la loro posizione negoziale nei confronti dei paesi contrari ed eventualmente preparare le condizioni per una vera e propria rottura.
L’attualità della proposta divenne più evidente con il concretizzarsi della prospettiva dell’allargamento, dopo la caduta del muro di Berlino. Ed essa entrò prepotentemente nel dibattito politico quando, nel settembre 1992, essa divenne l’oggetto dell’ormai famoso documento Schauble-Lamers, che lanciò la formula del nucleo solido. Da quel momento l’esigenza che il ritmo del processo di unificazione europea non potesse continuare ad essere determinato dalla velocità del vagone più lento del convoglio divenne un tema ricorrente del dibattito politico europeo ed uno dei punti in discussione nell’ambito della Conferenza intergovernativa per la revisione del Trattato di Maastricht.
Ed è proprio in questa sede che i nodi stanno venendo al pettine. Dalla Conferenza intergovernativa non usciranno innovazioni decisive. La nascita di un nucleo solido non è in discussione. I paesi contrari non hanno alcuna intenzione di lasciarsi mettere ai margini di un’Europa che si articoli in un centro, per quanto aperto all’ingresso degli altri paesi membri, e in una periferia. Poiché essi non vorrebbero entrare in un nucleo solido di natura federale né ora né in futuro, essi vedono nella sua creazione un evento che li priverebbe di gran parte del loro attuale potere di condizionare l’evoluzione e le decisioni fondamentali dell’intera Unione mediante l’esercizio del loro diritto di veto. La sola alternativa che oggi sembrerebbe esistere ad una impossibile decisione all’unanimità sarebbe quindi proprio quella della rottura, cioè della creazione di un nucleo federale mediante la stipula di un nuovo Trattato tra i soli Stati che vi siano interessati. Ma questa soluzione richiederebbe una forte volontà politica. E bisogna prendere atto che oggi questa volontà politica non esiste.
D’altra parte l’esigenza rimane. E questa contraddizione ha stimolato la fantasia dei diplomatici, che hanno escogitato la formula della flessibilità o della cooperazione rafforzata. Si tratta, in breve, di prevedere la possibilità che in un certo numero di materie, e su richiesta degli Stati interessati, il Consiglio, con voto all’unanimità o a maggioranza, e previo parere della Commissione, consenta agli Stati che ne hanno fatto richiesta di stabilire tra di loro una cooperazione più stretta di quella prevista dai Trattati, purché essi si sottomettano a determinate condizioni, tra cui quella dell’unicità del quadro istituzionale dell’Unione (anche se si prevede che, nell’ambito del Parlamento europeo e del Consiglio soltanto i membri appartenenti agli Stati interessati partecipino al voto, lasciando impregiudicato il diritto di tutti di partecipare alla discussione).
In sostanza le proposte alle quali ci troviamo di fronte quando si parla di flessibilità o di cooperazione rafforzata non hanno nulla a che fare con l’idea del nucleo solido, ma sono varianti della vecchia idea di Europa a geometria variabile, o di Europa à la carte, secondo la quale diversi rapporti di collaborazione si possono stabilire tra diversi gruppi di Stati nei vari settori di competenza dell’Unione. Le caratteristiche che distinguono i due approcci sono le seguenti: a) nell’ipotesi del nucleo solido si creerebbe tra alcuni Stati un legame permanente di tipo federale, con relativa cessione di sovranità e nascita di un sistema istituzionale che, a prescindere da artifici formali tendenti a tenerlo agganciato a quello precedente, agirebbe in piena autonomia, anche se, evidentemente, nel rispetto dei Trattati preesistenti. Il nucleo federale sarebbe aperto all’adesione di chiunque sia disposto ad accettarne le regole, ma sarebbe esteso a tutte le competenze dell’Unione. Si avrebbe quindi la nascita di un vero e proprio governo europeo democratico, in grado di prendere autonomamente e rapidamente decisioni in tutte le materie che normalmente rientrano tra le competenze di un governo. Nel caso della flessibilità o cooperazione rafforzata invece ci troveremmo in presenza di raggruppamenti di Stati che potrebbero avere una composizione diversa nei diversi settori, che nascerebbero comunque al termine di una procedura lunga e laboriosa, e che prenderebbero decisioni esclusivamente nello specifico settore di loro competenza. È vero che si può pensare che, nel lungo periodo, questi raggruppamenti tenderebbero a riunire prevalentemente gli Stati più profondamente coinvolti nel processo, il che creerebbe le condizioni per la nascita di un vero e proprio nucleo federale in una fase successiva: ma la nascita effettiva di quest’ultimo sarebbe comunque rinviata alla fine di un percorso dalla durata indefinibile, il che significa che si eviterebbe ancora una volta di affrontare il problema della sovranità; b) mentre il nucleo solido creerebbe nell’ambito dell’Unione un’entità politica democratica, avente una propria legittimità, la flessibilità o cooperazione rafforzata dovrebbe essere autorizzata caso per caso dal Consiglio, con decisioni all’unanimità o a maggioranza, e quindi non comporterebbe affatto l’abbandono del metodo intergovernativo; c) mentre il nucleo solido avrebbe il potere di cambiare le proprie regole, pur nel rispetto dei Trattati esistenti, seguendo una normale procedura di riforma costituzionale, la cooperazione rafforzata non potrebbe essere estesa alla riforma dei Trattati, che continuerebbe ad essere soggetta alla procedura dell’art. 236 del Trattato CEE, e quindi a richiedere l’unanimità dei consensi dei governi nazionali e delle ratifiche dei rispettivi parlamenti.
La flessibilità o cooperazione rafforzata costituirebbe comunque un progresso nel cammino del processo di unificazione europea. Non per nulla essa è fortemente avversata da alcuni governi, e soprattutto da quello inglese, nell’ambito della Conferenza intergovernativa. Ma essa sarebbe, nella migliore delle ipotesi, un piccolo passo, e l’epoca dei piccoli passi è finita per sempre. Per governare l’economia europea dopo l’introduzione della moneta unica e per consentire all’Unione di reggere l’urto dell’allargamento non bastano più avanzamenti parziali, che abbiano la funzione di far emergere con maggior evidenza le contraddizioni del processo, perché ormai le scadenze decisive sono alle porte, e la sola risposta adeguata ai problemi che esse pongono è quella di un vero e proprio trasferimento di sovranità dalle nazioni all’Europa, cioè del salto federale. Questo salto non uscirà dal Consiglio europeo di Amsterdam. Ma esso rimane il vero nodo da sciogliere. Bisogna che i più consapevoli tra i governi dell’Unione se ne rendano conto, capiscano che il metodo intergovernativo ha fatto definitivamente il suo tempo e coinvolgano i cittadini nel processo. Soltanto in questo modo potrà nascere un grande dibattito politico che faccia emergere la vera natura del problema e costringa i governi e le forze politiche a schierarsi per o contro l’abbandono della sovranità nazionale. Se questo dibattito non sarà rapidamente avviato, la stessa nascita dell’Unione economica e monetaria sarà messa in forse e l’intero processo rischierà di bloccarsi. L’incapacità dei governi di liberarsi del mito della sovranità nazionale condannerà l’Europa al disordine, al sottosviluppo e all’uscita dalla storia.
Francesco Rossolillo
Anno XXXIX, 1997, Numero 1, Pagina 37
PACE E DISARMO
Per orientarsi nell’analisi sulla situazione dell’ordine mondiale è forse utile partire da tre domande. A che punto è oggi il superamento del bipolarismo? Che tipo di distensione è in atto? Qual è la politica che USA e Russia stanno perseguendo?
Fin dagli anni Cinquanta i federalisti hanno messo in evidenza i limiti ed i rischi dell’evoluzione in senso bipolare dell’ordine mondiale, ed hanno indicato sia l’obiettivo intermedio del multipolarismo, da perseguire attraverso la creazione della Federazione europea, sia l’obiettivo finale del governo mondiale. Questo punto di vista ha consentito di distinguere nei decenni successivi gli aspetti innovativi da quelli tradizionali della distensione e del disarmo.[1] Oggi, a distanza di oltre dieci anni dall’avvio dell’ultima fase di distensione fra USA e URSS, non si vede ancora all’orizzonte la nascita di un nuovo ordine multipolare né tantomeno di un embrione di governo mondiale parziale, e diventa ancora una volta importante riflettere su quella distinzione.
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Come è noto l’ultimo Vertice di Helsinki si è chiuso con l’impegno russo-americano di ridurre entro il 2007 di circa l’80% i rispettivi arsenali nucleari strategici. Questa decisione, che negli anni Ottanta sarebbe stata salutata come un punto di svolta nei rapporti fra le due superpotenze, ora, nonostante gli sforzi compiuti da Clinton e Eltsin per presentarla ancora come tale, è passata quasi inosservata. La ragione è presto spiegata prendendo in considerazione alcune delle dichiarazioni congiunte sottoscritte a Helsinki ed in particolare tre di queste (una quarta dichiarazione riguarda l’impegno russo-americano per la ratifica della Convenzione sulle armi chimiche ed una quinta dichiarazione riguarda la cooperazione economica). Richiamiamone brevemente i contenuti.
Dichiarazione sulla sicurezza europea. Con questa dichiarazione si riconosce l’importanza dell’OSCE, come «il solo quadro in cui garantire la sicurezza europea su un piano di parità di tutti gli Stati», ma senza precisare alcun obiettivo di rafforzamento istituzionale e sempre nel rispetto della sovranità degli Stati e del loro diritto di scegliere i mezzi per assicurarsi la sicurezza. Si ribadisce che per gli USA l’elemento chiave per garantire la sicurezza europea resta l’allargamento della NATO, mentre la Russia conferma la sua contrarietà a questa prospettiva.
Dichiarazione sulla riduzione degli armamenti nucleari. Si tratta del documento congiunto più significativo, ma anche più contraddittorio. Clinton e Eltsin hanno concordato lo slittamento di un anno dei termini di riduzione fissati dall’accordo START II. Ciò, essi sostengono, potrebbe accelerare la ratifica del Trattato da parte della Duma russa. Per contro, per loro stessa ammissione, la modifica del calendario del Trattato richiederà una nuova travagliata ratifica da parte del Congresso USA. Questo elemento non è secondario se si considera che l’accordo siglato a Helsinki prevede che solo dopo che il Congresso USA e la Duma russa avranno ratificato lo START II, potranno iniziare i negoziati per un nuovo accordo, lo START III, per ridurre il numero delle testate nucleari strategiche a 2000-2500 per parte entro il 31 dicembre 2007. Questa dichiarazione ricorda infine con soddisfazione il prolungamento del Trattato di non proliferazione nucleare e l’avvio delle ratifiche del bando degli esperimenti nucleari, ma non definisce alcuna strategia per l’eliminazione completa del rischio nucleare.
Dichiarazione sulla difesa nucleare strategica e di teatro. Con questo documento USA e Russia, nel ribadire la comune volontà di rispettare gli accordi sulla difesa anti-missile, tolgono il veto incrociato all’installazione dei cosiddetti missili nucleari di difesa di teatro, purché non vengano usati contro l’altra superpotenza: «Entrambe le parti devono avere la possibilità di schierare ed installare sistemi di difesa basati su missili di teatro». Su questo punto, nel corso della conferenza stampa svoltasi alla fine del Vertice il Presidente Clinton ha precisato che questi missili dovrebbero servire per «proteggere i nostri amici, ivi compresi quelli in Russia, la quale sa quale uso ne faremmo nel caso dovessimo proteggere in futuro delle nostre truppe».
Come si vede Clinton e Eltsin hanno proposto obiettivi di breve e medio periodo che vanno ancora nel senso delle proposte di riduzione degli armamenti degli anni Ottanta, ma hanno rinunciato a pronunciarsi sul lungo periodo.[2] Essi si sono limitati infatti a riaffermare un metodo, quello del progressivo disarmo, che complessivamente lascia a USA e Russia circa cinquemila testate nucleari strategiche, senza proporre un piano politico.
Vale la pena di ricordare che, seppure partendo da due punti di vista opposti, Reagan e Gorbaciov negli anni Ottanta avevano presentato all’opinione pubblica mondiale i rispettivi piani di disarmo parziale di breve e di medio periodo come passi verso il disarmo totale. L’obiettivo comune era quello di abolire entro la fine del secolo la minaccia nucleare. Il programma di Reagan prevedeva infatti l’abolizione delle armi nucleari potenziando la difesa spaziale, mentre quello di Gorbaciov, articolato in tre fasi di disarmo, proponeva un accordo universale sul bando della costruzione di armi nucleari entro la fine del 1999. Queste proposte avevano avuto il merito di rilanciare, per la prima volta dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’obiettivo della riforma delle istituzioni internazionali, e di porsi nell’ottica di un ordine mondiale privo dell’incubo nucleare. Il fatto che progressivamente esse abbiano perso vigore è una conferma dell’analisi fatta negli anni Ottanta dai federalisti, in cui si sottolineava come il piano di Gorbaciov avrebbe potuto essere realizzato solo in un quadro di progressivo superamento del governo bipolare del mondo e dell’ingresso dell’Europa sulla scena internazionale.
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Che significato bisogna dunque attribuire all’attuale atteggiamento di USA e Russia, che mette in primo piano gli obiettivi di riduzione degli armamenti nucleari di breve e medio periodo, ma ignora quelli di lungo periodo? Innanzitutto va sottolineato come, rinunciando ad affrontare il vero nodo da sciogliere sul terreno della sicurezza mondiale, quello dell’abolizione del rischio della guerra, USA e Russia ripropongono, in primo luogo agli Europei, le politiche del vecchio ordine bipolare.
Questa rinuncia non è solo il frutto di una scelta russo-americana. Siamo infatti di fronte ad una più generale difficoltà della politica di pensare il futuro e a precise responsabilità politiche degli Europei che, per la seconda volta negli ultimi cinquant’anni, esitano a cogliere l’opportunità di contribuire alla nascita di un nuovo ordine mondiale. Il risultato è facilmente constatabile. Da un lato la fine della guerra fredda, con il conseguente allentamento della tensione fra le superpotenze, ha reso meno imminente e apocalittico il rischio delle armi nucleari, sia agli occhi degli apparati militari e politici, sia a quelli delle opinioni pubbliche nazionali. D’altro lato, la lentezza con la quale si stanno affermando nuove unità regionali nella politica internazionale, e in primo luogo l’Unione europea, ha indotto molti a pensare — non solo Clinton e Eltsin, ma anche gli stessi attori dei processi di unificazione regionale — che il futuro della sicurezza mondiale dipenda ancora in larga misura da un surrogato dell’ordine bipolare: la leadership USA affiancata da una politica di benign neglect della potenza russa.
Alla luce di queste considerazioni i risultati del vertice di Helsinki possono dunque essere considerati come un sintomo del mutamento di percezione del rischio nucleare e della guerra, e come una conferma della sfiducia russo-americana nei confronti della nascita di un nuovo ordine multipolare. Ma vediamo di analizzare separatamente questi due aspetti.
Per quanto riguarda il mutamento di percezione dei rischi cui va incontro l’umanità, si può notare come sia ormai diffusa l’idea che la fine della corsa agli armamenti nucleari rappresenti anche la fine della minaccia nucleare. Per esempio, un recente studio sul futuro dell’arsenale nucleare USA condotto dai maggiori esperti americani ha concluso che la pace dipende ormai dalla capacità delle potenze nucleari di effettuare un’adeguata manutenzione degli arsenali nucleari senza ricorrere a nuovi esperimenti. Si tratta di un giudizio che è solo apparentemente tecnico, perché in realtà si fonda su di un punto di vista genericamente favorevole al disarmo, ma che prescinde da qualsiasi strategia politica per raggiungere quell’obiettivo.[3]
Questo studio si basa sull’ipotesi che la vera corsa agli armamenti si è sviluppata con particolare forza solo per un ventennio, negli anni Quaranta e Cinquanta. Dopodiché si è spenta lentamente in tre stadi: negli anni Sessanta si sono esauriti i presupposti scientifici alla corsa agli armamenti dopo lo sviluppo della bomba all’idrogeno; negli anni Settanta si è spenta la motivazione militare, dopo che sono stati sperimentati sistemi di lancio particolarmente insidiosi ed invulnerabili come quelli basati sui sommergibili; negli anni Ottanta sono venute meno le ragioni politiche quando si è diffusa la consapevolezza dei rischi ecologici ed economici della minaccia nucleare. Il fatto sorprendente è però costituito dal fatto che, come ammette uno degli autori di questo rapporto, nonostante non si possa ancora ritenere che la fine della corsa agli armamenti rappresenti anche la fine della guerra, ci si illude di poter mantenere la pace contando sulla buona volontà delle potenze nucleari.
A questo proposito occorre però domandarsi se è lecito sottovalutare gli aspetti contraddittori che caratterizzano ancora l’attuale fase distensiva. Sul piano scientifico e militare non si è affatto giunti alla fine della rincorsa fra tecniche di difesa e di offesa. Lo dimostra il fatto che il bando degli esperimenti nucleari attraverso l’esplosione di ordigni è ormai sostituibile, almeno da parte delle grandi potenze nucleari, con esperimenti simulati in laboratorio.[4] Sul piano politico, se è vero che la terribile forza distruttiva delle armi nucleari ha imposto una certa convergenza delle ragioni di Stato delle potenze nucleari, è altrettanto vero che nessuna di queste — l’unica eccezione è il Sudafrica, che non deve, per il momento, far fronte a nessuna minaccia regionale o globale — ha rinunciato al possesso di quelle armi e quindi alla politica di deterrenza.
Siamo quindi di fronte ad una difficile transizione da un vecchio ad un nuovo ordine, in cui il processo di disarmo è evidentemente una condizione necessaria per avviare e consolidare quel clima di fiducia e di collaborazione fra gli Stati indispensabile per creare le istituzioni della pace. Ma siamo ancora lontani dall’aver raggiunto il punto di non ritorno sulla strada della costruzione della pace.
Per quanto riguarda la crescente sfiducia nei confronti della nascita di un nuovo ordine multipolare, è invece necessario constatare che l’assenza della Federazione europea gioca ormai un ruolo sempre più negativo. L’Europa degli Stati nazionali non solo non è più in grado, da tempo, di svolgere un ruolo attivo per garantire la sicurezza internazionale, ma rischia ormai di diventare una potenziale causa di instabilità e di disordine. Si sta infatti manifestando una crescente sfiducia nei confronti della capacità degli Europei di garantire a lungo stabilità, sicurezza e democrazia sullo stesso continente europeo. Questa sfiducia è emersa anche nel corso della conferenza stampa indetta da Clinton e Eltsin al termine del loro Vertice. «Dobbiamo riconoscere che ci saranno nuove minacce alla sicurezza in Europa», ha detto Clinton, «lo abbiamo visto in Bosnia e in altre vicende traumatiche di carattere etnico, religioso o razziale che avete avuto ai vostri confini. Lo vedete persino nelle continue dispute tra gli Stati membri della Comunità europea». E così ha risposto Eltsin ad un giornalista che gli domandava che cosa ne pensava di un’eventuale adesione della Finlandia alla NATO: «La Russia rispetta la Finlandia come Stato in quanto Stato neutrale che non si allinea a nessun blocco». Ancora più brutale è stato il giudizio espresso dal Segretario di Stato Albright di fronte ad una Commissione del Senato americano quando, per spiegare le ragioni dell’allargamento della NATO, ha detto: «L’allargamento è necessario per proteggerci dalla prossima guerra in Europa» (23 aprile 1997).
La conseguenza inevitabile di questa situazione è che gli USA e la Russia non possono ancora rinunciare, nel breve e medio periodo, ad includere l’Europa nella sfera della propria sicurezza e quindi inevitabilmente nei calcoli delle rispettive politiche militari. E’ quindi comprensibile che in un simile contesto gli USA cerchino di perseguire la stabilità e la sicurezza attraverso la riaffermazione del loro ruolo di leadership globale, mentre la Russia aspiri, a causa del suo indebolimento, a gestire la propria politica europea ed asiatica con una politica di partnership con gli USA. E’ inoltre evidente che queste politiche, non ponendosi nell’ottica di un significativo rafforzamento in senso sovranazionale delle istituzioni internazionali, coltivano l’illusione di estendere nel tempo il vantaggio russo-americano in campo militare rispetto agli altri Stati. L’aspetto insidioso di questa situazione sta proprio nel fatto che, poiché tutto ciò è per il momento compatibile con la politica di riduzione degli enormi arsenali accumulati in passato, è possibile presentare il disarmo come un fine in sé, e non come un passaggio obbligato sulla strada della pace. Ora, se non si ristabilisce il nesso fra politiche di disarmo e politiche per la costruzione della pace, il rischio della restaurazione in Europa di un governo bipolare, seppure attenuato, diventa inevitabile.
Per gli Europei una simile restaurazione significherebbe l’accettazione di un nuovo periodo di subordinazione alle scelte russo-americane in campo internazionale e di un pericoloso ritardo nella transizione verso un nuovo ordine mondiale. In questo quadro i conflitti di interesse fra gli Stati rischierebbero di acuirsi. La situazione cambierebbe invece radicalmente qualora gli Europei decidessero di fondare uno Stato federale europeo. In questo caso si aprirebbero infatti nuove prospettive per una distensione stabilmente innovativa, il cui obiettivo non potrebbe più essere quello di prolungare la supremazia militare di questa o quella potenza a livello globale o regionale, ma piuttosto quello di avviare una politica di partnership mondiale fra Europa, USA, Russia, e Giappone (allargata anche alla Cina e all’India), per creare le premesse del governo mondiale.
Ma perché questo accada è urgente che gli Europei prendano coscienza del fatto che il destino della distensione e della pace dipende sempre di più dalla loro volontà di trasformare l’Unione in un vero Stato federale, e non dai vertici russo-americani.
Franco Spoltore
[1]Si veda in proposito l’editoriale «Distensione tradizionale e distensione innovativa», in Il Federalista, XXX (1988).
[2]Si veda in proposito l’editoriale «Prime riflessioni sul Piano Gorbaciov», in Il Federalista, XXVII (1985).
[3]Si veda in proposito l’articolo di Freeman Dyson, «The Race is Over», apparso su The New York Review of Books, Vol. XLIV, N. 4, March 6, 1997. Dyson fra l’altro scrive: «La stabilizzazione è un prerequisito essenziale per la sparizione di tutte le armi. Una volta che si sarà consolidato un regime di controllo degli arsenali, le armi saranno meno importanti a livello nazionale ed internazionale, ed acquisiranno le qualità che uno stabile deterrente nucleare dovrebbe avere: terrore, lontananza, silenzio. Gradualmente, nel ventunesimo secolo, queste armi diventeranno sempre meno rilevanti per l’ordine internazionale, in un mondo turbolento ed affamato. E verrà il tempo in cui le armi nucleari verranno considerate come degli inutili relitti di un’era passata, come i cavalli dei reggimenti di cavalleria, da esibire solo durante le parate. Quando le armi nucleari saranno considerate assurde ed irrilevanti, potremo anche liberarci di loro… Ma il giorno in cui questo accadrà è ancora lontano, troppo lontano per essere previsto, forse un centinaio d’anni. Fino ad allora, dobbiamo convivere con loro il più responsabilmente e tranquillamente possibile… L’abolizione della guerra è l’obiettivo finale, ma ancora più lontano dell’abolizione delle armi nucleari».
[4]Una settimana dopo aver firmato il Trattato per il bando degli esperimenti nucleari, il Presidente Clinton ha autorizzato un aumento delle spese federali (da 18 a 191 milioni di dollari) per verificare in laboratorio l’efficienza e l’affidabilità delle armi nucleari già costruite e per effettuare nuovi esperimenti sull’uso dei lasers negli esperimenti nucleari (Scientific American, dicembre 1996). Da parte sua la Russia, per sfruttare le opportunità offerte dal bando degli esperimenti nucleari, sta cercando di acquisire sul mercato internazionale sistemi di elaborazione più potenti per mantenere un’efficienza ed un’affidabilità del proprio arsenale nucleare paragonabili a quelle USA (Comitato per la sicurezza nazionale del Congresso USA, 15 aprile 1997).
Anno XXXIX, 1997, Numero 2, Pagina 67
IL PROBLEMA DELLA PACE IN HANS KELSEN
Nell’opera di Hans Kelsen è frequente la riflessione sulla necessità di istituire un Tribunale internazionale con giurisdizione vincolante nei confronti degli Stati, come primo e indispensabile passo per una riforma effettiva delle relazioni internazionali.[1] Nel corso della seconda guerra mondiale, in particolare, sotto la spinta della drammaticità degli avvenimenti in corso, Kelsen si è posto il problema della possibilità di abolire la guerra tra gli Stati, giungendo alla conclusione che sarebbe necessario dare vita ad una Società permanente per il mantenimento della pace che abbia nella creazione di un Tribunale internazionale il proprio elemento centrale. Oggi che la battaglia per l’istituzione di un Tribunale penale internazionale delle Nazioni Unite è ormai ad uno stadio avanzato e che inizia a crearsi una forte mobilitazione intorno a questo tema vale senz’altro la pena di riprendere questi scritti di Kelsen e di confrontarsi con il contributo dato da questo autore che occupa un posto centrale nel panorama culturale del nostro secolo.
Il testo cui fare principalmente riferimento è Peace through Law, edito nel 1944,[2] in cui Kelsen raccoglie le sue riflessioni su questo argomento. Nella prefazione l’autore ricorda che «la guerra è omicidio di massa, la peggiore disgrazia della nostra cultura; assicurare la pace mondiale è il nostro compito politico fondamentale, un compito molto più importante di quanto non lo sia la decisione tra democrazia e autocrazia, o tra capitalismo e socialismo, perché non può esserci nessun progresso sociale essenziale finché non si istituisce un’organizzazione grazie alla quale la guerra tra le nazioni della Terra può essere effettivamente impedita».
L’esperienza tragica della guerra aveva reso molti pensatori, molti uomini politici e molti cittadini consapevoli della necessità di abolire la guerra, ma sicuramente questa formulazione di Kelsen, che ricorda alcuni punti del Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli, è particolarmente avanzata perché fa del problema della pace la nuova priorità politica. Secondo Kelsen, all’interno di una società organizzata la pace è garantita dal fatto che la comunità detiene il monopolio dell’uso della forza. Lo Stato moderno è il modello perfetto dell’ordine sociale che stabilisce il monopolio della forza da parte della comunità, perché centralizza l’impiego della forza demandandolo ad un potere esecutivo centrale. All’interno dello Stato, quindi, la pacificazione delle relazioni tra individui, cioè la pace nazionale, è conseguita al più alto grado possibile.
Da tutto questo deriva che, quando si pone il problema di assicurare la pace internazionale, la soluzione ideale è sicuramente quella di dar vita ad uno Stato federale mondiale, composto dal maggior numero di Stati possibile. Kelsen concorda con Lionel Robbins quando questi sostiene che l’esistenza degli Stati sovrani indipendenti è la causa fondamentale della guerra e che quindi l’unico rimedio consiste nella limitazione della loro sovranità assoluta. Il problema però è quello di individuare una strategia realistica che vada in questa direzione.
Sotto questo profilo, «solo l’illusione e l’ignoranza dei fatti decisivi, egli sostiene, ci può far sottovalutare le immense difficoltà cui si va incontro nell’organizzare uno Stato federale mondiale». Uno Stato federale mondiale democratico, infatti, dovrebbe essere dotato di un parlamento in cui gli Stati membri siano rappresentati sulla base della popolazione; questo vorrebbe dire che India e Cina avrebbero circa tre volte il numero dei deputati di Stati Uniti e Gran Bretagna messe insieme. «Il governo di uno Stato sovrano è per sua natura incline a resistere ad ogni restrizione della propria indipendenza, e diventare membro di uno Stato federale significa rinunciare completamente alla propria indipendenza. La resistenza contro il suicidio dello Stato raggiunge, ovviamente, il grado più alto subito dopo una guerra vittoriosa, che inevitabilmente accresce i sentimenti nazionalistici della gente». Questo non vuol dire che la Federazione mondiale sia impossibile da raggiungere, ma solo che potrà essere realizzata dopo un lungo e lento processo di avvicinamento, soprattutto culturale, tra le diverse nazioni del mondo. Il primo passo da fare in questa direzione, secondo Kelsen, è: «inizialmente solo un’unione internazionale di Stati, non uno Stato federale».
La soluzione al problema della pace può quindi essere ricercata, secondo Kelsen, solo nel quadro del diritto internazionale: l’alto grado di centralizzazione caratteristico dello Stato non è indispensabile per garantire una pace duratura; il monopolio della forza, che è l’elemento essenziale per una comunità giuridica che voglia assicurare la pace tra i suoi membri, è possibile anche quando la comunità non ha carattere statuale. «Di conseguenza, il prossimo passo su cui dobbiamo concentrare i nostri sforzi è quello di giungere ad un trattato internazionale stipulato dal maggior numero di Stati possibile, sia vincitori che vinti, che istituisca un Tribunale internazionale che abbia giurisdizione vincolante. Questo significa che tutti gli Stati della Società istituita da questo trattato sono costretti a rinunciare alla guerra e alla rappresaglia come strumenti per dirimere i conflitti, a sottomettere tutte le loro dispute, senza eccezione, alla decisione del Tribunale, e ad applicare le sue decisioni in buona fede».
Kelsen introduce così l’idea centrale del Tribunale internazionale. Ma perché questo possa essere efficace, egli spiega, occorre che tutti i conflitti tra gli Stati siano riconducibili in ultima istanza a dispute di carattere giuridico, e cioè che sia abolita la distinzione tra conflitti legali e conflitti politici (distinzione basata esclusivamente su criteri discrezionali degli Stati stessi che invocano l’uno o l’altro principio sulla base del proprio interesse); in questo modo, qualsiasi disputa tra Stati è sottoposta alla competenza del Tribunale internazionale. Inoltre è necessario che, oltre alle responsabilità collettive di uno Stato, possano essere perseguite anche le responsabilità individuali di chi, avendo cariche di governo, commette, o ordina, o autorizza atti di guerra che violano la legge internazionale (che deriva, in sostanza, dal principio del bellum iustum).
Il punto più delicato, di cui Kelsen è ben consapevole, riguarda l’esecuzione delle decisioni del Tribunale nei confronti degli Stati. E’ evidente che il metodo più efficace per far rispettare gli ordini e i giudizi della Corte sarebbe quello di avere un potere esecutivo centralizzato, cioè una forza di polizia internazionale indipendente dagli eserciti degli Stati e direttamente a disposizione di un’agenzia amministrativa centrale incaricata di eseguire le decisioni della Corte. Ma «una forza di polizia internazionale funziona solo se si basa sull’obbligo da parte degli Stati membri di rinunciare o di limitare radicalmente il proprio armamento, così che solo alla Società sia permesso mantenere una forza armata di potenza considerevole. Una forza di polizia di questo tipo è ‘internazionale’ solo rispetto alla propria base giuridica, che è il trattato internazionale. E’, invece, ‘nazionale’ rispetto al proprio grado di centralizzazione, perché una Società con un potere esecutivo centralizzato non è più una confederazione internazionale di Stati, ma uno Stato vero e proprio». Una forza di polizia facente capo a un siffatto potere rappresenta una limitazione radicale, se non la distruzione totale, della sovranità degli Stati, e in questa fase è impensabile. La creazione di un potere esecutivo centrale è dunque il problema più difficile, dal punto di vista dell’organizzazione mondiale, e non può pertanto essere il primo passo.
La soluzione allora va ricercata ricorrendo alle forze armate degli Stati che devono fornirle direttamente al Consiglio incaricato di eseguire le decisioni del Tribunale. Secondo Kelsen questa soluzione è comunque efficace perché il fatto stesso di istituire un Tribunale internazionale è un passo decisivo verso la creazione di uno Stato federale mondiale: «Il problema dell’organizzazione mondiale è un problema di centralizzazione e l’intera evoluzione del diritto, dai suoi inizi primitivi ai livelli di oggi, è stata, da un punto di vista tecnico, un continuo processo di centralizzazione… La centralizzazione del potere esecutivo è l’ultimo passo… dalla comunità pre-statale decentrata alla comunità centralizzata che chiamiamo Stato. Abbiamo buone ragioni per credere che il diritto internazionale — vale a dire il diritto della comunità interstatale, completamene decentralizzata e dominata dal principio dell’autotutela — si sviluppi nella stessa direzione della legge primitiva della comunità prestatale. Se questo è vero, possiamo prevedere con un certo grado di probabilità la direzione in cui tentare con relativo successo di assicurare la pace internazionale, di eliminare il principio di autotutela dal diritto internazionale, enfatizzando e rafforzando la tendenza verso la centralizzazione. L’evoluzione naturale tende prima verso il potere giudiziario internazionale e non verso un governo o un potere legislativo internazionale».
Queste ampie citazioni del pensiero di Kelsen rappresentano una delle riflessioni più coerenti e argomentate sulla relazione che esiste tra l’istituzione del Tribunale internazionale e il processo verso la Federazione mondiale ed è quindi importante valutarla nella sua interezza. Colpiscono, soprattutto, come già osservato, la base su cui si sviluppa l’analisi di Kelsen, vale a dire l’idea della priorità della pace rispetto agli altri obiettivi politici, e il rapporto che egli stabilisce tra il mantenimento della pace e la creazione dello Stato; come pure è assolutamente valida l’esigenza di pensare ad una strategia e agli stadi intermedi necessari per giungere ad una Federazione mondiale. Quella che invece appare contraddittoria è proprio la formulazione della possibile soluzione, cioè la priorità data all’istituzione di un Tribunale internazionale.
A questo proposito, si possono evidenziare due ordini di problemi: innanzitutto le contraddizioni che emergono dagli argomenti a sostegno dell’efficacia del Tribunale internazionale, e in secondo luogo le contraddizioni teoriche di fondo del pensiero generale di Kelsen, che si riflettono ovviamente sulla sua tesi del primato del potere giudiziario rispetto a quello esecutivo e legislativo nella costruzione dello Stato mondiale.
Innanzitutto Kelsen ritiene impensabile che gli Stati, ed in particolare i vincitori, siano disposti, una volta finita la guerra, a cedere la propria sovranità ad un’istituzione mondiale. Ora, che cos’è un Tribunale internazionale che ha giurisdizione vincolante sugli Stati se non una drastica limitazione della sovranità di questi ultimi? Uno Stato sovrano, per definizione, è uno Stato che non riconosce nessun potere legittimo superiore al proprio, e che quindi si regola nei confronti degli altri Stati sovrani sulla base dei rapporti di forza (subisce la potenza dei più forti, cerca di aumentare la propria a scapito dei più deboli). Questa è l’essenza dei rapporti internazionali, che è appunto una situazione di anarchia perché non viene riconosciuto nessun potere superiore agli Stati, che restano pertanto sovrani. Da questo punto di vista l’istituzione di un Tribunale internazionale o è una finzione oppure è effettivamente la rinuncia da parte degli Stati alla propria sovranità. Questo secondo caso sarebbe vero se si verificasse l’ipotesi, che Kelsen esclude nell’immediato, della creazione di un vero e proprio potere di sostanziale monopolio delle forze armate a livello mondiale. Ma se questo non si realizza, resta solo la finzione. Del resto, lo stesso Kelsen è costretto ad ammettere, citando Robbins, che il problema cruciale, se si vuole la pace, è la limitazione della sovranità degli Stati. Cosa può obbligare, infatti, uno Stato sovrano ad obbedire ad una sentenza del Tribunale che va contro i propri interessi? Solo la reazione degli altri Stati danneggiati dal suo comportamento può costituire un freno, ma qui non siamo nel campo del diritto, bensì della forza. E’ davvero pensabile che gli Stati che non hanno interessi coinvolti nel conflitto si impegnino con armi e uomini per punire chi ha violato il diritto internazionale? Da questo punto di vista tutte le esperienze storiche delle leghe e delle confederazioni (basta ricordare l’esperienza americana) hanno dimostrato che solo gli Stati che hanno un interesse immediato contribuiscono al compito comune, mentre chi non è direttamente coinvolto riesce ad evitare di dare il proprio contributo senza che gli altri siano in grado di obbligarlo. Che dire poi degli Stati che invece sono favoriti dall’azione dello Stato trasgressore? La realtà è che fino a che gli Stati nella pienezza del loro potere sono gli attori della politica internazionale ciascuno agisce, e non può che agire, sulla base della propria ragion di Stato, di fronte alla quale un tribunale senza poteri non può nulla, se non essere strumentalizzato sulla base degli equilibri di potere esistenti.
Del resto Kelsen basa la sua tesi sulla sua teoria generale del diritto e dello Stato, che rappresenta un contributo universalmente riconosciuto come fondamentale nel campo della filosofia del diritto, ma che presenta profonde ambiguità. Per Kelsen il Tribunale internazionale è efficace perché è comunque un rafforzamento di un ordine giuridico, quello internazionale, che già esiste, e a cui gli Stati sono già sottoposti (per cui, di fatto, Kelsen parte dal presupposto che gli Stati non detengono la sovranità assoluta).
Innanzitutto, dal punto di vista logico, Kelsen ritiene che vi sia un primato del diritto internazionale su quello statale: uno Stato, per essere tale, deve essere riconosciuto dalla comunità internazionale. Il riconoscimento avviene sulla base della norma generale del diritto internazionale che è il principio di effettività: «un’autorità in fatto costituita è il governo legittimo, l’ordinamento coercitivo posto in essere da tale governo è l’ordinamento giuridico, e la comunità costituita da tale ordinamento è uno Stato nel senso del diritto internazionale, in quanto questo ordinamento è, nel suo complesso, efficace».[3] Il principio di effettività (vale a dire il principio per cui la condizione della validità di un ordinamento giuridico è la sua efficacia) è quindi al tempo stesso norma fondamentale dell’ordinamento giuridico di uno Stato concreto e norma positiva generale del diritto internazionale. Ciò comporta un primato del diritto internazionale sul diritto degli Stati dal punto di vista della legittimità giuridica, perché, nell’ipotesi di Kelsen «l’unica vera norma fondamentale, quella norma cioè che non è creata mediante un procedimento giuridico, ma è presupposta dal pensiero giuridico, è quindi la norma fondamentale del diritto internazionale».[4] Già in questo passaggio, in realtà, risiede una profonda ambiguità. Che significa infatti per Kelsen l’efficacia di un ordinamento giuridico? Significa che l’effettivo comportamento degli uomini si conforma ad esso.[5] La validità di un ordinamento giuridico, il fatto che esso costituisce una comunità statuale, non deriva quindi dal riconoscimento della comunità internazionale ma dal riconoscimento dato dal popolo della comunità statale in questione mediante il proprio comportamento. E’ questa, in realtà, la fonte della legittimità dello Stato, e la comunità internazionale si limita a prenderne atto, analogamente a quanto avviene in molti altri casi nel diritto internazionale, che di fatto, come ammette anche lo stesso Kelsen, sancisce le situazioni esistenti (sulla base del principio ex iniuria ius oritur, come nei casi in cui riconosce l’annessione di un territorio da parte di uno Stato che, essendosi insediato in modo permanente, ha sostituito il vecchio ordinamento giuridico con uno nuovo, di cui il diritto internazionale si limita a prendere atto).[6]
D’altra parte, Kelsen è costretto a paragonare il diritto internazionale all’ordinamento giuridico primitivo in cui la comunità ha il monopolio dell’atto coercitivo, ma ne decentra l’applicazione agli individui che sono di fatto autorizzati a vendicare i torti subiti. Si tratta, egli sostiene, di un ordinamento giuridico ancora molto insoddisfacente, fondato sul principio di autotutela, e che tuttavia può già dirsi diritto, anche se diritto allo stato nascente. Analogamente a quello primitivo, il diritto internazionale è caratterizzato dalla tecnica giuridica dell’autotutela da parte degli Stati. Tuttavia, anche rispetto al diritto primitivo, quello internazionale presenta un ulteriore problema: all’interno di una comunità primitiva esiste, per quanto rozza, un’organizzazione del potere che fa sì che l’individuo non sia sovrano, ma sia in qualche modo subordinato alle leggi della comunità; questo potere, quindi, garantisce il rispetto delle regole della convivenza (di fatto realizza il monopolio dell’atto coercitivo, come dice Kelsen). Ma nella comunità internazionale questa organizzazione del potere, per quanto embrionale, non esiste e gli Stati, contrariamente a quanto crede Kelsen, sono di fatto sovrani. In caso di controversia, pertanto, l’applicazione del diritto internazionale è ancora una volta affidata in realtà ai puri rapporti di forza. E’ difficile, sotto questo profilo, definire diritto, anche se allo stato nascente, una situazione in cui, in realtà, sono validi solo i rapporti di forza. L’istituzione di un Tribunale internazionale, per tornare al punto iniziale di questa nota, non modificherebbe la situazione: un Tribunale internazionale che voglia essere vincolante nei confronti degli Stati, senza tuttavia intaccare nei fatti la loro sovranità, non modifica in nulla la situazione di potere.
Vi è poi un ultimo punto decisivo. Kelsen riconosce che «l’essere il diritto internazionale considerato o meno come un vero diritto dipende dalla possibilità di interpretare il diritto internazionale nel senso della teoria del bellum iustum, dalla possibilità di assumere, in altre parole, che, secondo il diritto internazionale generale, la guerra è proibita in linea di principio e permessa soltanto come sanzione».[7] A sua volta questa teoria si fonda sul presupposto che esiste un ordinamento giuridico che obbliga gli Stati a comportarsi in una data maniera e che tale ordinamento è superiore allo Stato. Questa teoria, ammette quindi Kelsen, è incompatibile con l’idea della sovranità degli Stati: «Attribuire la sovranità ad uno Stato significa, infatti, che esso è in sé l’autorità suprema, al di sopra e al di là della quale non vi può essere un’autorità più elevata che ne regoli e determini la condotta».[8] Ora, la scelta tra queste due ipotesi alternative non è scientifica, ma politica. La preferenza di Kelsen è giustificata esclusivamente dal fatto «che solo tale interpretazione concepisce l’ordinamento internazionale come diritto, sia pure come diritto primitivo, che è il primo passo di un’evoluzione la quale nell’ambito della comunità statale ha portato ad un sistema di norme accettato generalmente come diritto… Soltanto se una simile evoluzione potesse venire riconosciuta come inevitabile sarebbe scientificamente giustificato dichiarare la teoria del bellum iustum l’unica interpretazione esatta del diritto internazionale. Una tale supposizione rispecchia, tuttavia, un desiderio politico, piuttosto che un pensiero scientifico».[9]
Kelsen, per sua stessa ammissione, si limita quindi ad esprimere un’esigenza ed una speranza, ma di fatto non indica ancora una soluzione, proprio perché non affronta il problema della sovranità. Ciò non toglie che le questioni che solleva siano fondamentali: la pace è ancora la priorità politica del nostro tempo e la crescente interdipendenza della comunità mondiale ha reso più urgente, e non certo meno drammatica, la necessità di trovare la via per la Federazione mondiale. Ma la sola istituzione di un Tribunale internazionale non sposta la bilancia del potere dagli Stati alla comunità mondiale, soprattutto se non è inserita in una strategia molto più ampia.
Perciò, di fronte alle iniziative a sostegno del Tribunale penale internazionale, è giusto prendere nota dei fermenti presenti nell’opinione pubblica mondiale e del fatto che ormai c’è una richiesta di giustizia che si indirizza alla comunità internazionale; così come è giusto partecipare a questo movimento per cercare di influenzarlo in senso federalista. Ma non si deve per questo cessare di ricordare che il primo grande passo verso la Federazione mondiale — unica reale possibilità di pace e di giustizia internazionale — sarà costituito da un ordine mondiale più pacifico ed equilibrato che dia l’esempio del superamento della sovranità nazionale assoluta attraverso la creazione della Federazione europea.
Luisa Trumellini
[1]Cfr. Hans Kelsen, The Legal Process and International Order, The New Commonwealth Research Bureau Relations, Series A, N. 1, Londra, 1934; Law and Peace in Intemational Relations, Oliver Wendell Holmes Lectures, Harvard University Press, 1941; «Essential Conditions of International Justice», in Proceedings of the 35th Annual Meeting of the American Society of International Law, 1941, pp. 70 segg.; «International Peace by Court or Government», in The American Journal of Sociology, 1941, Vol. 46, pp. 571 segg.; «Discussion of Post War Problems», in Proceedings of the American Academy of Arts and Sciences, 1942, Vol. 75, N. 1, pp. 11 segg.; «Revision of the Covenant of the League of Nations», World Organization, A Symposium of the Institute on World Organization, 1942, pp. 392 segg.; «Compulsory Adjudication of International Disputes», in American Journal of International Law, 1943, Vol. 37, pp. 397 segg.; «Peace through Law», in Journal of Legal and Political Sociology, 1943, Vol. 2, pp. 52 segg.; «The Strategy ofPeace», in The American Journal of Sociology, 1944, Vol. 49, pp. 381 segg.
[2]Hans Kelsen, Peace through Law, Chapel Hill, The University of North Carolina Press, 1944. La traduzione italiana delle citazioni, tratte dalle pp. 9-22, passim, è nostra.
[3]Hans Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, Edizioni di Comunità, 1952, p. 123.
L’accordo bipartisan raggiunto negli USA dai democratici e dai repubblicani per riportare in pareggio il bilancio federale entro il 2002 — balanced-budget agreement — ha un significato che va al di là dell’orizzonte politico americano. Da un lato esso si inquadra nel più ampio dibattito sugli equilibri di potere in una federazione, che affonda le radici nella Convenzione di Filadelfia e nella successiva battaglia per la ratifica della nuova Costituzione. Dall’altro lato esso non è spiegabile al di fuori di una analisi dell’evoluzione dell’ordine mondiale all’indomani della fine della guerra fredda e nella prospettiva della creazione della moneta unica europea entro il 1999.
L’accordo rispecchia la consapevolezza, ormai condivisa da entrambi i grandi partiti americani, della necessità del risanamento finanziario ed ha fatto seguito ad un acceso dibattito sull’opportunità o meno di emendare la Costituzione. A prima vista non sembrerebbe un fatto nuovo: è dal 1936 che questo tema viene sollevato in ogni legislatura e non è la prima volta che viene annunciato un accordo bipartisan sul contenimento del bilancio federale. Ma è soprattutto negli ultimi tre anni che il Congresso ed il Senato hanno ripetutamente discusso il problema. Dal 1994 si è giunti per tre volte ad un voto su altrettante proposte di emendamento costituzionale per limitare i poteri federali in campo fiscale e di bilancio. Come in passato, il vincolo costituzionale dell’approvazione di almeno i due terzi dei membri del Congresso e del Senato per avviare il complesso procedimento di revisione della costituzione ha bloccato gli emendamenti. Ma in questa circostanza l’accordo che ne è seguito ha cercato di coniugare le esigenze del risanamento con un ambizioso «Piano Marshall» interno.
Vediamo brevemente come si è giunti a questo risultato prendendo spunto dai rapporti di maggioranza e di minoranza presentati dal Committee on the Judiciary del Senato,[1] che aveva esaminato e dato un primo parere favorevole al balanced-budget constitutional amendment.
I senatori favorevoli a emendare la Costituzione, che hanno proposto di fissare a tre quinti la maggioranza necessaria per approvare annualmente il deficit di bilancio solo in caso di emergenze particolari o di guerra imminente, hanno motivato la proposta rifacendosi alle osservazioni fatte a suo tempo dai Padri fondatori della Federazione (in particolare da Hamilton, Jefferson e Madison) sui poteri e sulla responsabilità morale del Congresso. Il rapporto di maggioranza è partito dalla constatazione che la spesa federale è ormai fuori controllo e nessun accordo bipartisan è riuscito finora a cambiare la situazione. In effetti le spese federali rappresentano ormai una percentuale elevata del Pil statunitense (il 23% nel 1993 contro il 3% nel 1929) e le spese annuali per pagare gli interessi sul debito hanno raggiunto quelle militari, mentre la percentuale dei creditori esteri sta aumentando. I senatori contrari hanno ribattuto, riferendosi anch’essi agli autori del Federalist, che un simile emendamento avrebbe stravolto gli equilibri della Federazione e, in particolare, avrebbe dato un potere eccessivo alle Corti, alle quali sarebbe stato de facto attribuito il potere di stabilire annualmente la correttezza costituzionale delle proposte di bilancio, della valutazione delle situazioni di emergenza, delle spese e degli investimenti proposti. In questo modo, hanno obiettato i senatori di minoranza, sarebbe venuto meno il principio stesso per cui è stata combattuta la guerra di indipendenza, cioè quello di mantenere il potere di tassazione ancorato alla rappresentanza popolare. L’approvazione di un simile emendamento, hanno insistito i relatori di minoranza Leahy, Kennedy e Feingold, avrebbe inoltre minato l’influenza internazionale degli Stati Uniti, in quanto avrebbe indebolito l’efficacia e la credibilità della politica estera e di sicurezza statunitense. A questo proposito è stato ricordato che, se fosse stato in vigore l’emendamento proposto, il presidente Jefferson non avrebbe potuto acquistare la Louisiana agli inizi del secolo scorso, per promuovere un allargamento pacifico dell’Unione, e per prevenire la formazione di Stati potenzialmente avversari ai suoi confini occidentali. A proposito della facilità, evocata dai relatori di maggioranza per aggirare la clausola del deficit in caso di emergenza, di costituire ampie maggioranze sufficienti a mettere in grado l’Unione di rispondere tempestivamente alle sfide interne ed esterne, il rapporto di minoranza ha ricordato che questa tesi non è suffragata dall’esperienza storica. Infatti il Congresso ed il Senato avevano deciso solo a strettissima maggioranza di prorogare la ferma militare alla vigilia della seconda guerra mondiale. Con una maggioranza risicata il Congresso aveva deciso la guerra contro la Gran Bretagna nel 1812 e, dopo la guerra civile, l’imposizione di una tassa, osteggiata dagli Stati del Nord, per finanziare gli aiuti agli Stati del Sud.
Per completare il quadro del dibattito, vale la pena di ricordare un altro contributo allegato ai rapporti, quello del senatore Torricelli, il quale, pur dichiarandosi a favore dell’emendamento, soprattutto per contribuire a suscitare un più ampio dibattito nel paese, ha messo l’accento sulla necessità di affrontare il problema di definire sul piano costituzionale e legislativo i criteri che consentono di distinguere fra investimenti a lungo termine dello Stato e spesa corrente.[2]
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Come si può constatare, il dibattito in America sul problema del risanamento finanziario è diventato un dibattito sui principi costituzionali federali e sulla loro adeguatezza di fronte alle sfide poste dalla globalizzazione dell’economia e dalla transizione verso un nuovo ordine mondiale.
Queste sfide non erano ancora presenti nell’orizzonte politico e storico dei Padri fondatori della Federazione americana, i quali avevano come obiettivo primario quello di proteggere il nascente potere federale continentale dalle rivendicazioni degli Stati membri e di renderlo sufficientemente indipendente e forte. Questo tipo di preoccupazione emerge per esempio anche dalle osservazioni di Hamilton a proposito della necessità di attribuire al livello federale un potere di tassazione illimitato (The Federalist N. 30) per far fronte, in modo indipendente dagli Stati membri della Federazione, alle esigenze che nel tempo si sarebbero manifestate. E, sulla questione più generale dei limiti dell’indebitamento dello Stato si potrebbe ricordare il passo del Federalist, sempre di Hamilton, in cui si spiega come «le voci eventualmente scoperte potranno essere soddisfatte da prestiti. La possibilità di costituire dei nuovi fondi con nuovi tributi imposti di propria autorità consentirebbe al governo nazionale di ricorrere a prestiti, per qualunque somma di cui esso potesse aver bisogno… Gli stranieri, come i cittadini americani, potrebbero ragionevolmente fidarsi di questi impegni».
Le osservazioni di Hamilton e il recente dibattito svoltosi negli USA sul terreno del risanamento finanziario offrono lo spunto per riflettere brevemente su tre ordini di problemi più generali: A) i vantaggi ed i limiti della costituzione americana; B) le opportunità ed i rischi connessi alla fine della guerra fredda e alla globalizzazione; C) la risposta americana alla sfida europea.
A — Il federalismo ha consentito agli Stati Uniti d’America di reperire le risorse necessarie per affrontare con successo, e comunque più efficacemente degli Stati nazionali europei e dei grandi Stati continentali come l’URSS, le sfide poste dall’evoluzione del modo di produrre e degli equilibri mondiali nel corso degli ultimi due secoli di storia. Ma anche sul piano interno, come aveva osservato Tocqueville,[3] il federalismo ha fatto sì che l’America diventasse «il solo paese nel quale si sia potuto assistere allo svolgimento naturale e tranquillo di una società», sottraendola al potere assoluto.
Tuttavia, con il progressivo inserimento dell’America nel sistema mondiale degli Stati, è stato necessario adattare i principi federali della Costituzione alle esigenze della ragion di Stato. Si sono così progressivamente esauriti i margini di una riforma autonoma dall’interno della Costituzione degli USA, come precedentemente si erano esauriti i margini di autonomia della politica interna dei singoli Stati nazionali europei rispetto alle esigenze della politica internazionale. Si tratta pertanto di constatare, in America come in Europa, che in entrambi i continenti nessuno Stato può ragionevolmente perseguire in modo autonomo l’elaborazione e l’adozione di una Costituzione perfetta. Per avanzare su questo terreno Europei ed Americani si trovano ormai nella condizione di dover sciogliere il nodo messo in evidenza da Kant nella Tesi settima dell’Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico: «Il problema di instaurare una costituzione civile perfetta dipende dal problema di creare un rapporto esterno tra gli Stati regolato da leggi, e non si può risolvere il primo senza risolvere il secondo». Alla luce di questa difficoltà si può forse meglio cogliere la contraddizione, emersa anche nel corso del dibattito sull’emendamento costituzionale per limitare il debito, fra l’aspirazione ad introdurre dei vincoli costituzionali per rendere più virtuose le politiche dello Stato e la necessità di lasciare aperta la possibilità di abrogarle — evocando la prospettiva della guerra imminente — per consentire allo Stato di garantire la propria sopravvivenza in un mondo di Stati sovrani ed indipendenti. Il superamento di questa contraddizione va dunque al di là della buona o cattiva volontà dei legislatori americani, ma dipende innanzitutto dalla verifica dell’esistenza o meno delle condizioni storiche indispensabili per avviare una lotta politica che si ponga l’obiettivo di affermare un ordine mondiale compatibile con la condizione indicata da Kant.
B — La fine della guerra fredda e il processo di globalizzazione hanno posto le premesse per affrontare questo problema. Infatti, in un’epoca in cui la globalizzazione dell’economia e la fine dei blocchi militari costringono ciascuno Stato a competere sui mercati internazionali per attrarre verso di sé investimenti e capitali, non è più possibile conquistarsi la fiducia degli investitori, a cui faceva riferimento Hamilton, senza offrire in cambio delle garanzie sulla solidità di ciascuna economia nazionale. Inoltre, venuta meno la rete protettiva dei poteri di riferimento dell’equilibrio bipolare, gli Stati devono dimostrare di meritare individualmente la fiducia dei mercati perseguendo delle politiche di bilancio ed economiche virtuose. L’interesse degli Stati a perseguire delle sane politiche di bilancio coincide dunque sempre più con la necessità di perseguirle, pena l’emarginazione dall’economia mondiale.
Il Trattato di Maastricht in Europa, e il dibattito che si è sviluppato in America sono la conseguenza di questa situazione. Tuttavia l’Europa, trovandosi ancora senza una costituzione e senza un governo, ha finora sviluppato questo dibattito sul terreno intergovernativo e non su quello della normale dialettica fra forze politiche e sociali e governo. Da parte loro gli USA cercano di conciliare la politica di risanamento finanziario interno con il mantenimento dello status di unica superpotenza globale sopravvissuta alla fine della guerra fredda.
C — Ma perché, nonostante l’attuale superiorità americana, gli USA si stanno prefiggendo obiettivi che vanno al di là degli stessi criteri di Maastricht? E ancora, perché gli USA, con un tasso di disoccupazione al di sotto del 5% per la prima volta dopo il 1973, un rapporto dell’1% fra il disavanzo pubblico e il prodotto interno lordo, ben al di sotto quindi del parametro di Maastricht, con una previsione di aumento delle entrate fiscali per il buon andamento dell’economia, si orientano verso un ulteriore sforzo di risanamento finanziario che dovrebbe riportarli al pareggio entro il 2002? A queste domanda il Presidente Clinton ha risposto agli Americani: «Per prepararci al futuro». L’attuale vantaggio americano non è dunque considerato tale da mettere gli USA al riparo da ogni pericolo e l’incertezza sul futuro dell’ordine mondiale costringe gli USA a condurre una politica estera capace di adattarsi il più possibile ad ogni evoluzione dei rapporti internazionali.
L’accordo bipartisan che ha fatto seguito alla bocciatura da parte del Congresso e del Senato degli emendamenti sul balanced-budget e sulle tax limitations è stato possibile, come ha ammesso il gruppo di consiglieri di Clinton che ha lavorato su questo progetto, sulla base della condivisione da parte dei leaders del partito democratico e repubblicano della comune preoccupazione sul futuro della politica di sicurezza e della politica estera americana.
Il futuro dell’Europa, per la quale gli Americani hanno combattuto tre guerre in questo secolo — la guerra fredda ha infatti avuto dei costi non inferiori a quelli sostenuti nelle due precedenti guerre mondiali continua ad occupare un posto di primo piano in queste preoccupazioni. Nella prospettiva, che viene ormai considerata irreversibile dall’amministrazione USA, della nascita di un polo monetario europeo, l’economia americana non potrà infatti più contare né su di un incontrastato potere del dollaro nel commercio internazionale — la Commissione europea prevede che almeno un terzo del commercio internazionale verrà effettuato in Euro dopo il 1° gennaio 1999 —, né tantomeno sul mantenimento di un consistente afflusso di risorse finanziarie verso l’America. Gli USA si devono quindi preparare ad una maggiore competizione o cooperazione in campo finanziario a livello globale. E il grado di asprezza della competizione o di intensità nella cooperazione dipenderanno presumibilmente dall’evoluzione dagli equilibri che si affermeranno in Europa. Tutto ciò è sufficiente per spiegare la determinazione con la quale gli USA stanno conducendo una politica di unità nazionale sul terreno della politica di bilancio.
La svolta annunciata nella politica di bilancio americana è di enorme portata se si pensa che fino alla fine degli anni Ottanta la tendenza è stata quella di fare affidamento sul finanziamento in disavanzo delle spese federali per sostenere i crescenti costi della difesa e dei programmi sociali, piuttosto che su ulteriori tasse. Nella prima metà degli anni Ottanta il deficit era quadruplicato in cinque anni e il debito raddoppiato. E’ la fine della guerra fredda che ha reso possibile l’inversione di questo trend. Il fatto che tutto ciò avvenga, per il momento, senza intaccare la posizione di leadership degli USA nel mondo, offre all’Amministrazione Clinton un’opportunità unica per inaugurare una politica di unità nazionale altrimenti impossibile. Infatti, i recenti accordi russo-americani sulla riduzione degli arsenali nucleari, che non indeboliscono la supremazia russo-americana su questo terreno, e la decisione di allargare la NATO, che consente agli USA di mantenere un ruolo di leadership nell’Alleanza con la prospettiva di ripartire maggiormente gli oneri finanziari, hanno reso possibile l’accordo sul bilancio e il varo di un piano di sviluppo senza precedenti. E’ grazie a questo quadro distensivo che quasi un terzo sul totale dei tagli da effettuare entro il 2002 potrà essere effettuato sul bilancio del Pentagono, per un ammontare paragonabile agli investimenti effettuati in Europa con il Piano Marshall nei cinque anni a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta.
Ma se la fine della guerra fredda ha reso possibile il risanamento dell’economia americana, la prospettiva della nascita del polo monetario europeo ne ha accelerato il varo.
Raccogliendo la sfida europea, gli USA hanno annunciato di voler andare oltre gli impegni assunti dagli Europei con il Trattato di Maastricht. Il punto di partenza del piano americano per lo sviluppo è lo stesso del piano europeo di Delors: l’adeguamento della società alla nuova fase dello sviluppo della rivoluzione scientifica e tecnologica, a partire dall’educazione.[4] Ma il parallelo si ferma qui. Il piano presentato da Clinton è infatti un piano di governo appoggiato da un accordo politico di unità nazionale. I piani europei sono degli accordi intergovernativi sui quali continuamente si deve ricercare l’approvazione dei singoli governi nazionali.
Gli USA non possono tuttavia sottovalutare il fatto che, in questa fase, essi possono conciliare il rafforzamento delle loro politiche di Welfare (che peraltro sono al di sotto dei livelli di protezione sociale garantiti in Europa), con il pareggio del bilancio, sfruttando i peace dividends della fine della guerra fredda.
Per gli USA è quindi di vitale importanza mantenere un quadro mondiale stabile e sicuro, al di fuori del quale non sarà certamente possibile portare a compimento il piano annunciato. L’allargamento della NATO, il rilancio delle relazioni transatlantiche fra USA e Unione europea, il rafforzamento del NAFTA nel Nord-America e la proposta di un Hemisferic Free Trade Area con l’America latina testimoniano di una politica estera USA tesa a consolidare questo momento favorevole all’America estendendo la propria area di influenza economico-militare.
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Come hanno mostrato il vertice di Denver del G7, quello di New York sull’ambiente e quello di Madrid sulla NATO, la politica di rafforzamento della leadership americana non può essere a lungo tollerata e subita dagli altri Stati. Si tratta di una politica che può dunque cogliere dei successi limitati nel breve periodo, ma non nel medio e lungo periodo, quando inevitabilmente si manifesterà l’impossibilità per gli USA di garantire una pax americana mondiale. Se in quel momento non dovesse essere ancora maturata sulla scena mondiale un’alternativa alla via seguita dagli USA, il mondo rischierebbe di essere inghiottito per un tempo indefinito in una pericolosa fase di disordine ed instabilità internazionali. In una simile situazione i problemi del risanamento e del rilancio dei piani di sviluppo su entrambe le sponde dell’Atlantico cederebbero inevitabilmente il passo alle politiche del giorno per giorno tese a garantire le istituzioni essenziali per la sopravvivenza degli Stati.
Una alternativa difficilmente potrà maturare a partire dagli USA. E’ vero che per due volte in questo secolo, all’indomani della prima e della seconda guerra mondiale, i Presidenti Wilson prima e Roosevelt poi, posero le basi per la riorganizzazione dell’ordine internazionale a partire da istituzioni mondiali che si proponevano di rafforzare la cooperazione fra gli Stati, ma non è stata messa in discussione la sovranità degli Stati. Il problema di fronte al quale ci troviamo invece oggi consiste proprio nell’andare al di là della cooperazione e della sovranità nazionale. Un impulso in questa direzione altrettanto difficilmente potrà venire dalla Russia, alle prese con un difficile processo di trasformazione economica e politica che privilegia gli obiettivi interni rispetto a quelli internazionali, o dalle potenze emergenti cinese ed indiana, non ancora pienamente inserite nel processo di globalizzazione dell’economia e del commercio.
L’alternativa al disordine mondiale va dunque costruita a partire dall’Europa e dal modello di Stato internazionale che gli Europei sapranno proporre.
Quando si manifesteranno i limiti della politica americana nel tentativo di garantire la sicurezza e la stabilità in alcune regioni chiave del mondo o di affrontare con qualche probabilità di successo alcuni gravi problemi globali, a che punto sarà giunto il processo di trasformazione dell’Unione europea in uno Stato federale capace d’agire? Dalla risposta che gli Europei daranno a questa domanda dipende probabilmente non solo il futuro del dibattito sui rapporti fra federalismo, risanamento finanziario e piani di sviluppo, ma anche il futuro dell’ordine mondiale.
Franco Spoltore
[1]The Balanced-Budget Constitutional Amendment, Report from the Committee on the Judiciary, together with Additional and Minority Views, Filed under the authority of the order of the Senate of January 30, 1997, 105th Congress.
[2]Questo problema, lungi dall’essere una questione meramente tecnica, si è posto anche nel Trattato di Maastricht, che però ha rinviato ad un protocollo esplicativo — quello sui criteri di convergenza — il problema di tenere conto della differenza fra disavanzo pubblico e spesa pubblica per investimenti (art. 104C).
[3]Alexis de Tocqueville, La Démocratie en Amérique, I, parte prima, capitolo secondo, consultata nell’Antologia di scritti politici a cura di V. de Capraris e N. Matteucci, Bologna, Il Mulino, 1978, pp. 53 e 63.
[4]L’accordo bipartisan si propone di rilanciare la politica dell’educazione. Si vogliono diffondere ed elevare gli standards educativi: si tratta del maggiore investimento nell’educazione effettuato negli USA negli ultimi trent’anni. Nel complesso, fra sostegni diretti e deduzioni fiscali, i trasferimenti nel settore dell’educazione nei prossimi cinque anni saranno pari ai tagli previsti per la difesa. Sul fronte dell’assistenza sanitaria vengono previsti sia dei risparmi che una maggiore copertura assistenziale dei più bisognosi. Sul terreno della tutela ambientale vengono previsti nuovi investimenti per la bonifica di aree contaminate (500 zone entro il 2000) e per la salvaguardia della salute dei cittadini. Come si vede gli USA non rinunciano a riaffermare il ruolo dello Stato nel promuovere la crescita dei fattori primari dello sviluppo — come l’educazione — e nel garantire dei servizi di assistenza e prevenzione minimi per tutti i cittadini.