IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XL, 1998, Numero 1, Pagina 36

 

 

GLI SVILUPPI DELL’UNIFICAZIONE EUROPEA NEL PROGETTO DELLA COMMISSIONE PER LE RIFORME COSTITUZIONALI ISTITUITA DAL PARLAMENTO ITALIANO
 
 
Premessa.
 
    Il trasferimento di quote di sovranità sempre più significative dagli Stati nazionali alle istituzioni comunitarie, che ha caratterizzato e che continua a caratterizzare il processo di unificazione europea, comporta inevitabili riflessi sull’ordinamento costituzionale di molti degli Stati membri dell’Unione europea. A partire dal dopoguerra, infatti, i vari ordinamenti hanno adottato diverse soluzioni per dare una disciplina costituzionale all’integrazione sovranazionale, pur mantenendo una forte connotazione comune, soprattutto per quanto riguarda la maggior parte dei sistemi giuridici continentali.
    Negli ultimi anni, in seguito all’approvazione del trattato di Maastricht e nella prospettiva di ulteriori trasferimenti di sovranità a livello europeo, il rapporto costituzioni nazionali-unificazione europea ha assunto una rilevanza sempre maggiore. In questo contesto, la proposta di inserire alcuni articoli relativi all’Unione europea nella Costituzione italiana assume un carattere paradigmatico, poiché investe una problematica comune a svariati ordinamenti costituzionali.
   Il più recente, ed ancora in atto, tentativo di realizzare un’ampia revisione costituzionale in Italia consiste, come noto, nella istituzione, con legge costituzionale n. 1 del 1997, di una Commissione parlamentare per le riforme costituzionali incaricata di elaborare «progetti di revisione della parte II della Costituzione, in particolare in materia di forma di Stato, forma di governo e bicameralismo, sistema delle garanzie»[1]. La legge costituzionale istitutiva prevede una procedura di approvazione, diversa da quella ordinariamente disposta dall’art. 138 della Costituzione, che si sostanzia nell’esame preliminare da parte della Commissione dei progetti ad essa presentati, nella trasmissione (avvenuta, in maniera definitiva, il 4 novembre 1997) alle Camere di un progetto elaborato dalla Commissione, nella discussione del progetto da parte delle Assemblee, infine (se si riuscirà ad arrivare fino in fondo) nell’approvazione da parte di ciascuna Camera del progetto mediante un’unica legge costituzionale, sancita successivamente da un referendum popolare.
    Il progetto di riforma costituzionale, definito dalla Commissione bicamerale il 4 novembre[2], contiene, tra l’altro, un «Titolo VI» composto da tre articoli e recante «partecipazione dell’Italia all’Unione europea»[3]. Si tratta di un articolato totalmente aggiuntivo rispetto al testo vigente della parte II della Costituzione e volto ad introdurre, per la prima volta, regole costituzionali relative all’Europa. In questa sede ci occuperemo però solo dell’art. 114, il primo dei tre articoli del Titolo in questione, denominato, nei testi che si sono susseguiti durante i lavori della Bicamerale, «partecipazione all’edificazione comunitaria e procedure per il conferimento di ulteriori poteri»[4] . E’questo, infatti, l’articolo che risulta cruciale per la definizione della posizione costituzionale dell’Italia nei confronti dello sviluppo del processo di unificazione europea.
    Dopo un’analisi sommaria dei lavori della Commissione sul punto, che riprenderemo in seguito, esamineremo gli aspetti giuridico-politici del testo in questione cercando, per quanto possibile, di scindere i profili relativi a questioni di legittimità da quelli di opportunità.
 
La formazione dell’art. 114 del progetto nei lavori della Commissione.
 
    La Commissione bicamerale ha deciso di affrontare il tema della revisione costituzionale in materia di rapporti con l’Unione europea per due motivi: uno formale, rappresentato dalla presenza di proposte di revisione in questa materia nei progetti depositati presso i due rami del Parlamento ed affidati all’esame della Commissione, l’altro sostanziale, cioè giuridico-politico, costituito dalla convinzione di gran parte della dottrina giuridica, fatta propria da molti esponenti politici, tra i quali il Ministro degli affari esteri, della necessità di provvedere, soprattutto in seguito al Trattato di Maastricht, a modifiche del testo costituzionale della Repubblica italiana in materia di integrazione europea[5], anche sull’esempio delle revisioni costituzionali adottate da altri Stati in occasione della ratifica del Trattato[6].
    Dopo le prime riunioni, la Commissione ha proseguito i suoi lavori scindendosi in 4 Comitati suddivisi per materia, affidando le questioni relative ad una costituzionalizzazione del processo di unità europea sotto il profilo delle norme relative alla cessione di quote di sovranità al Comitato competente per il Parlamento e le fonti normative[7]. Il Comitato ha, quindi, conferito l’incarico di relatore sulla tematica europea all’onorevole D’Amico (Rinnovamento Italiano), il quale, a proposito della costituzionalizzazione dell’adesione italiana all’Unione europea ha subito ribadito il dubbio (già emerso e che, non senza fondamento come vedremo, ha aleggiato su tutte le discussioni in merito) sul rapporto tra le riforme in questione e la prima parte della Costituzione - in particolare con riferimento all’art. ll, considerato fondamento dell’adesione italiana al processo di integrazione comunitaria[8] - la cui revisione è, ricordiamo, preclusa dalla legge costituzionale istitutiva di questo organo.
    Nel dibattito del Comitato (il quale, in realtà, si è occupato per lo più degli aspetti relativi alla riforma del Parlamento e delle fonti) è emersa l’idea che sia necessario «rendere esplicita la cessione di sovranità all’Unione europea», nella convinzione «dell’esigenza di recepire il principio dell’appartenenza dell’Italia all’UE, considerato che l’art. 11 della Costituzione non può formare base sufficiente»[9] . Questi contenuti sono presenti nell’art. «A» di entrambe le bozze di articolato che il relatore ha presentato durante i lavori del Comitato[10]. Tale articolo, che ha subito tra la prima e la seconda bozza mutamenti minimi, sostanzialmente prevedeva: 1)  la partecipazione dell’Italia all’UE, con la possibilità di conferirle ulteriori poteri nel rispetto dei «principi supremi dell’ordinamento costituzionale»; 2) alcuni obiettivi cui subordinare l’azione dell’Italia nell’UE; 3) il procedimento di revisione costituzionale per ogni conferimento di poteri all’Unione che comportino modifiche (o anche solo deroghe, nella seconda bozza) della Costituzione; 4) la possibilità per alcuni soggetti di richiedere un controllo della Corte costituzionale sulla legittimità dei poteri trasferiti all’UE.
    E’ da sottolineare come, al di là di una generica e non particolarmente innovativa affermazione circa la partecipazione dell’Italia all’UE ed i criteri cui tale partecipazione deve informarsi, sia stato proposto il meccanismo della revisione costituzionale per l’approvazione di trasferimenti di poteri all’Unione[11], mentre fino ad ora ciò è avvenuto con legge ordinaria.
    I lavori sono tornati, quindi, in Commissione plenaria, alla quale i relatori hanno presentato delle proposte, basate sui dibattiti avvenuti nei Comitati e destinate a diventare i testi base per le discussioni e le votazioni della Commissione[12].
   Nel suo intervento introduttivo il relatore, D’Amico, ha ribadito che il primo articolo proposto riguarda la «copertura» costituzionale della partecipazione italiana all’integrazione europea, necessaria per porre rimedio alla forzatura interpretativa dell’art. 11 con la quale sono state giustificate le ratifiche dei trattati CEE e UE con legge ordinaria[13].
    Dagli interventi successivi si rileva, da una parte, una preoccupazione rispetto alla proposta di costituzionalizzare i principi che devono guidare l’azione italiana nella costruzione europea, nel timore che questi possano entrare in qualche misura in contrasto con quelli sanciti dalla prima parte della Carta, creando una sorta di «doppio binario», preoccupazione accompagnata dalla richiesta di aggravare le procedure per le cessioni di sovranità con la previsione del procedimento di revisione costituzionale, il controllo preventivo della Corte costituzionale e la possibilità di richiedere un referendum sui Trattati europei[14]. Dall’altra l’opinione secondo la quale non è necessario inserire nella Costituzione dei principi così dettagliati, ma solo l’affermazione «che la Repubblica la propria azione nell’UE con la finalità di una sempre più ampia partecipazione democratica dei cittadini alle decisioni», nella convinzione che il perno di una costituzionalizzazione possa essere rappresentato solo dal «vincolo dell’ampliamento della partecipazione democratica nei meccanismi decisionali dell’UE»[15].
    In seguito alla discussione e alla presentazione di emendamenti, il relatore ha riformulato il testo base da lui redatto, apportando all’articolo in esame modifiche limitate, ad eccezione della eliminazione del 3° comma, quello relativo alla previsione del procedimento di revisione costituzionale[16].
    A questo testo sono stati presentati ulteriori emendamenti, discussi ed accorpati nella seduta durante la quale è stato approvato l’articolo nella formulazione consegnata alle Camere.
    Innanzitutto è stato discusso l’emendamento dei commissari Boato e Pieroni (Verdi), destinato ad essere utilizzato come testo base per la redazione finale dell’articolo. Questo testo riprendeva l’art. 11 parlando di limitazioni di sovranità piuttosto che di conferimento di poteri e competenze[17] ed invece di indicare una serie di principi a cui l’Italia avrebbe dovuto conformarsi correlava «all’alienazione di sovranità il principio dell’ampliamento della partecipazione democratica» nell’UE[18].
    A questa formulazione è stata aggiunta, su proposta dell’onorevole Salvi (Sinistra Democratica), la parte sostanziale dell’emendamento del gruppo della Sinistra Democratica che recitava: «Ulteriori limitazioni di sovranità sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera», reintroducendo così una procedura rinforzata, anche se diversa da quella costituzionale. Si trattava, in sostanza, di una soluzione intermedia tra l’eliminazione di ogni accenno alle procedure per ulteriori limitazioni alla sovranità e la richiesta di utilizzare la legge costituzionale[19]. Questa proposta intermedia è stata spiegata come tale dallo stesso Salvi il quale, ritenendo che l’art. 11 della Costituzione sia stato utilizzato oltre i limiti del suo contenuto, ha sostenuto che il processo di integrazione ed eventuali cessioni di sovranità devono essere garantiti, oltre che dal rispetto di principi, da una procedura «tale da non bloccare completamente tutto come avverrebbe con la revisione costituzionale», ma che abbia gli «strumenti di garanzia (...) che oggi non vi sono»[20]. L’anzidetta posizione intermedia andava incontro anche alle posizioni contrarie alla possibilità di rinunciare a sfere di sovranità[21] che sono culminate nell’emendamento (votato e respinto) della senatrice Salvato (Rifondazione Comunista) a favore della procedura di revisione costituzionale per ogni cessione di sovranità e nella sua insistenza (accolta) per la previsione della possibilità di richiedere referendum in proposito (ipotesi peraltro già prevista per tutti i trattati internazionali dalla riforma del vigente art. 75).
    La proposta «Salvi» ha suscitato, d’altra parte, la lucida obiezione del senatore Elia (Partito Popolare Italiano) secondo il quale con l’introduzione di una nuova fonte si modificherebbe l’art. 11 della Costituzione in base al quale finora non si è fatto ricorso a leggi costituzionali[22].
    Il 30 giugno 1997 la Commissione ha trasmesso al Parlamento una prima stesura del progetto[23]. Successivamente, a seguito della presentazione di emendamenti da parte dei parlamentari non appartenenti alla Commissione, un Comitato ristretto della Bicamerale ha apportato alcune modifiche al testo, quindi, il 4 novembre 1997, la Commissione bicamerale ha licenziato il progetto di revisione destinato all’esame ed al voto delle Camere. Per quanto riguarda l’articolo in esame le variazioni apportate al testo approvato in giugno, al di là di modifiche formali, sono state: 1) l’eliminazione del riferimento a «ulteriori» limitazioni di sovranità, che rischia di dare adito a dubbi sulla legittimità delle ratifiche antecedenti la riforma, soprattutto se ricordiamo che nel corso del dibattito il Presidente della Bicamerale ha precisato, replicando al timore espresso dal senatore Elia che l’introduzione della procedura aggravata in questione potesse inficiare le ratifiche dei trattati precedenti, che tale testo, riferendosi ad «ulteriori» limitazioni, avrebbe fatto salvo il pregresso, introducendo un meccanismo rafforzato solo per il futuro[24]; 2) l’introduzione della possibilità che sia richiesto un referendum ad hoc sulla legge di limitazione della sovranità, che rende il procedimento ancor più aggravato e somigliante a quello di revisione costituzionale.
    Da queste discussioni, rapide e al tempo stesso complesse, è nato quello che nel progetto presentato alle Camere il4 novembre 1997 è l’art. 114, che recita: «L’Italia partecipa, in condizioni di parità con gli altri Stati e nel rispetto dei principi supremi dell’ordinamento e dei diritti inviolabili della persona umana, al processo di unificazione europea: promuove e favorisce un ordinamento fondato sui principi di democrazia e di sussidiarietà. Si può consentire a limitazioni di sovranità con legge approvata dalla maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera. La legge è sottoposta a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla sua pubblicazione, ne facciano domanda un terzo dei componenti di una Camera od ottocentomila elettori o cinque Assemblee regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi».
    E’ di questo testo che ci accingiamo a parlare.
 
Profili di legittimità costituzionale della riforma proposta dalla Bicamerale.
 
    Alla luce del dibattito riassunto sopra appare evidente l’importanza dell’interpretazione dell’art. 11 della Costituzione, in particolare con riferimento alla portata delle limitazioni di sovranità ed agli atti normativi in grado di deciderle[25]. Non è questo il luogo per discuterne, ma è evidente dal dibattito descritto l’affermarsi della tendenza a sostenere, in particolare in relazione alla ratifica del Trattato di Maastricht, l’insufficienza, almeno in prospettiva, dell’art. 11 a reggere la partecipazione italiana all’unificazione europea[26].
    Ove, invece, fosse adottata l’interpretazione della Costituzione -per la quale anche chi scrive propende - che «assume come disvalore lo Stato nazionale e come valore (...) il superamento di esso con entità sovranazionali», individuando conseguentemente nel federalismo una vera e propria «direttiva costituzionale», in quanto non può aversi pace e giustizia tra uguali senza il superamento della sovranità assoluta degli Stati a favore di una federazione degli stessi, e concludendo, quindi, per la possibilità di «introdurre uno Stato sovranazionale attraverso un trattato ratificabile ed eseguibile con legge ordinaria», ovviamente nel rispetto dei valori costituzionali «democratici e liberali», alla completa affermazione dei quali il superamento dello Stato nazionale è correlato[27], l’apertura dell’Italia alla Federazione europea sarebbe indiscutibile.
    Ciò precisato, veniamo all’interpretazione della Corte costituzionale italiana relativamente agli aspetti dell’art. 11 che ci interessano: gli atti normativi con i quali provvedere a «limitazioni di sovranità» e, a grandi linee, i «controlimiti» a cui tali atti vanno incontro. In sintesi, nell’interpretazione della Corte, ormai consolidatasi per questi profili, è possibile sulla base dell’art. 11 e per le finalità dallo stesso indicate, istituire enti «sovranazionali» e disporre le conseguenti limitazioni di sovranità mediante leggi ordinarie di autorizzazione alla ratifica e di esecuzione dei trattati relativi. L’unico limite a questa procedura è costituito dal rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona umana, limite posto, peraltro, alla stessa revisione costituzionale (sentenza 1146/1988 della Corte costituzionale)[28].
    Dopo quanto abbiamo detto, è da ritenere che la riforma proposta dalla Bicamerale, introducendo, tanto nell’ipotesi di previsione dell’impiego di una legge costituzionale quanto in quella che prevede una maggioranza qualificata ad hoc, un procedimento per le limitazioni di sovranità necessarie all’unificazione europea diverso ed aggravato rispetto a quello concretamente applicato nella prassi parlamentare e conforme alla consolidata giurisprudenza costituzionale (vale a dire rispetto alla «Costituzione vivente»), pur non modificando il testo dell’art. 11 della Costituzione, andrebbe ad incidere sulla norma in esso contenuta. Tanto più se consideriamo che detto articolo ha un valore non solo sostanziale ma anche procedimentale»[29].
    «Da qui il primo dubbio di legittimità. Dalle considerazioni svolte pare infatti che il 2° comma dell’art. 114 del progetto proposto dalla Bicamerale travalichi l’ambito di competenza della Commissione, circoscritto dalla legge costituzionale istitutiva di cui abbiamo parlato in premessa alla parte II della Costituzione, intitolata «ordinamento della Repubblica» e sostanzialmente dedicata alle regole di organizzazione dello Stato[30].
    Il secondo dubbio di legittimità, più generico, ma di portata più ampia è alimentato dall’indiscussa collocazione dello stesso art. 11 e del principio di apertura sovranazionale della Repubblica italiana, ad esso collegato, tra i principi fondamentali della Costituzione[31]. Ciò comporta l’intangibilità anche con legge costituzionale di questo valore guida della Costituzione italiana, al perseguimento del quale i Costituenti hanno vincolato la Repubblica, con la conseguenza che i dubbi di legittimità, che qui si esprimono con riferimento alla proposta della Bicamerale, potrebbero essere ritenuti fondati anche ove tale proposta venisse avanzata con la forma di legge costituzionale «normale», cioè al di fuori del procedimento in parola, limitato ad una revisione complessiva della parte finale della Costituzione.
    Inoltre è da notare come, per quanto riguarda il resto dell’articolo in discussione, in particolare il 1° comma, la Bicamerale non abbia portato altrettanto incisive innovazioni, ma si sia limitata ad esplicitare il principio di apertura sovranazionale con preciso riferimento all’integrazione europea e a recepire alcune interpretazioni della giurisprudenza costituzionale, decisione opportuna vista la centralità politica e la rilevanza giuridica che l’unificazione europea ha assunto, nonché le prospettive di sviluppo della stessa. Il testo proposto contiene, innanzitutto, l’affermazione secondo la quale «l’Italia partecipa», alle condizioni previste dall’art. 11 e dalla giurisprudenza costituzionale (parità e rispetto dei principi inviolabili), «al processo di unificazione europea», affermazione che da una parte è la constatazione di quanto è accaduto e il recepimento delle interpretazioni della Corte, dall’altra l’esplicitazione di un aspetto della direttiva costituzionale contenuta nell’art. 11. In secondo luogo fornisce, anche in questo caso esplicitando principi contenuti nella prima parte della Costituzione, l’indicazione delle finalità che l’Italia dovrà perseguire nella sua partecipazione attiva all’unificazione europea: l’affermazione dei principi democratico e di sussidiarietà. Insomma il legislatore costituzionale sembra, fino a questo momento, cogliere l’occasione della riforma complessiva in corso per fare il punto dell’atteggiamento della Costituzione italiana sull’integrazione europea, in vista di una prossima concreta attuazione di queste linee guida.
    Dopo queste considerazioni, la portata dell’aggravamento procedurale contenuto nel 2° comma, del quale abbiamo già visto alcuni profili di illegittimità, appare ancora più rilevante, costituendo l’innovazione principale della riforma, quasi che tutti i problemi costituzionali dell’integrazione europea consistessero in aspetti procedurali. Appare anche, in maniera evidente, un’incongruenza tra le affermazioni del 1° comma, che recepiscono la linea interpretativa sino ad ora adottata, prescrivendo in modo esplicito al legislatore il quadro entro cui dovranno muoversi eventuali procedure di «approfondimento» dell’UE, ed il 2° comma che frappone un ostacolo (procedurale, non sostanziale) in più all’integrazione europea. Questa incongruenza può, in parte, essere dovuta alla genesi dell’articolo, risultato -come abbiamo visto - di una frettolosa fusione di proposte diverse, ma è non per questo meno grave. Tanto più se consideriamo un altro aspetto, paradossale se dovuto ad una svista, inquietante se frutto di una volontà politica. Infatti, per la sua collocazione, il procedimento aggravato per le limitazioni di sovranità sembra riferito esclusivamente alla partecipazione dell’Italia al processo di integrazione europea e non ad altre organizzazioni sovranazionali, tanto esistenti che costituite ex novo. Perciò eventuali trattati che prevedessero limitazioni di sovranità a favore di entità diverse da quelle riconducibili all’UE, rientrerebbero nella disciplina esclusiva dell’art. 11 e, quindi, potrebbero essere approvate con procedimento legislativo ordinario. Con la conseguenza che un trattato che limitasse la sovranità italiana a favore di un soggetto esistente diverso da quelli riconducibili all’integrazione europea (l’ONU, per esempio) o di un’organizzazione sovranazionale di nuova costituzione (per esempio una Comunità mediterranea con i paesi del Nord Africa), usufruirebbe di un trattamento procedurale diverso e di maggior favore, rispetto all’unificazione europea!
    Al di là dell’ipotesi, non remota alla luce degli atti della Commissione bicamerale, dell’esistenza di una volontà politica (la cui consistenza dovrà essere verificata in Aula) di frapporre ostacoli procedurali all’unificazione europea, restano dei dubbi sulla ragionevolezza, politica oltre che giuridica, di una tale normativa.
 
Revisione della Costituzione italiana e Federazione europea.
 
    Se un obiettivo della revisione costituzionale in esame fosse quello di indirizzare il processo di integrazione europea, adesso effettivamente in corso, nella direzione voluta dai valori-guida della Costituzione repubblicana, allora la questione andrebbe posta in altri termini.
    Il problema costituzionale dell’unificazione europea, considerato lo stadio avanzato cui essa è giunta, non è quello formale della fonte (legge costituzionale, ordinaria, fonte ad hoc) legittimata a limitare in parte la sovranità dell’Italia a favore di una sovranità europea, bensì quello sostanziale della conformità del processo di unificazione al principio democratico, tanto nella genesi di una nuova autorità titolare di sovranità che nel funzionamento della stessa. Non è infatti più derogabile l’esigenza di garantire nell’unificazione europea il rispetto del principio democratico come fondamento della sovranità, implicito nella lettura «federalista» dell’art. 11 e nel suo bilanciamento con l’art. 1 della Costituzione, e che si può sintetizzare nell’esigenza che venga mantenuto un rapporto di diretta proporzionalità tra le limitazioni alla sovranità nazionale e la creazione di una democrazia suprastatuale.
    La centralità della questione è stata messa in evidenza da alcune interpretazioni della nota sentenza con la quale il Tribunale federale tedesco si è pronunciato sul Trattato di Maastricht. In questa sentenza, che per altro verso pone precise ipoteche sul futuro dell’integrazione europea, è infatti da «notare che il Tribunale tedesco non esclude che domani l’Unione possa diventare uno Stato federale», anzi «anticipa le condizioni alle quali [per la Legge fondamentale tedesca] è subordinata la costituzione di un futuro Stato federale europeo, ed in particolare la condizione del rispetto, pieno e totale, del principio democratico». Questo principio «ricostruito contenutisticamente a partire dal suffragio universale... è il fondamento costituzionale di tutte le tesi che si ritrovano nella sentenza», la quale ad un certo punto recita che «... l’ampliamento dei compiti e delle funzioni delle Comunità europee incontra i limiti derivanti dal principio democratico»: da questa affermazione discende che «in tanto è ammissibile la creazione di un vero Stato federale in quanto il principio venga effettivamente introdotto in tutta la sua portata nelle istituzioni europee»[32]. Inoltre, un ulteriore ampliamento delle competenze degli organi comunitari colliderebbe con il principio democratico, «conseguentemente è posta l’alternativa tra un’UE incapace di governare il processo del proprio sviluppo e dell’integrazione dei paesi membri, continuamente sottoposta al rischio d’interventi costituzionali nazionali, e un’Unione fondata sul consenso dei popoli europei che, in virtù di un fatto costituente, sappia recidere una dipendenza dai governi nazionali, che quarant’anni di integrazione comunitaria hanno finito col rafforzare»[33].
    Alla luce di queste considerazioni, non risulta del tutto chiara l’utilità della decisione di introdurre, in occasione della ratifica del Trattato di Maastricht, nella Legge fondamentale tedesca un apposito articolo dedicato all’integrazione europea (art. 23, in part. 1° comma), al quale sembra essersi ispirata la Bicamerale italiana[34]. Ciò soprattutto se ricordiamo che sulla sola base dell’art. 24 della LF tedesca, analogo all’art. 11 della Costituzione italiana, la RFT ratificò il Trattato che avrebbe istituito la Comunità europea di difesa (e la connessa Comunità politica europea)[35], forme di unione che prevedevano rilevanti cessioni di sovranità dagli Stati nazionali alle istituzioni europee.
    Alla base delle scelte costituzionali sull’Europa c’è, comunque, un dibattito di fondo, il cui approfondimento esula dall’economia di questo scritto, ma dal quale non è possibile prescindere totalmente. Esso è rappresentato, in termini generali, dalla contrapposizione tra chi ritiene opportuno e necessario dare una costituzione all’Europa, creando uno Stato federale, e chi si oppone a questa possibilità, ritenendola priva di fondamento giuridico[36]. Da queste posizioni contrapposte derivano, schematicamente, due soluzioni diverse al problema del deficit democratico europeo e conseguentemente due diverse concezioni del ruolo delle costituzioni nazionali. In un’ottica federalista la soluzione è «costituzionalizzare l’Europa»[37], cioè dare una costituzione al futuro soggetto politico europeo, cercando, quindi, di realizzare le condizioni migliori, sotto un profilo di diritto costituzionale interno, per il conseguimento di questo obiettivo. Nell’ottica opposta è possibile, al massimo, concepire un maggior coinvolgimento dei parlamenti nazionali nelle decisioni dell’UE, introducendo nelle costituzioni nazionali regole dirette a questo scopo.
    Sotto il profilo dell’adeguamento del processo di unificazione europea al rispetto del principio democratico, la proposta, interlocutoria, di revisione costituzionale elaborata dalla Bicamerale contiene alcune precisazioni, meramente esplicative rispetto alla prima parte, laddove, al 1° comma, prevede la promozione dell’UE secondo i principi democratico e di sussidiarietà. Con tale disposizione fornisce un’indicazione sui contenuti che dovrà avere lo sviluppo della costruzione europea, cioè la prosecuzione del processo di limitazione della sovranità nazionale a favore di quella europea, di chiara ispirazione federalista[38].
    E’ possibile, a questo punto, chiedersi se sarebbe (o, piuttosto, sarebbe stato) ammissibile, nei limiti imposti alla revisione in corso, stabilire, nella medesima ottica, ulteriori criteri per gli sviluppi futuri della costruzione europea.
    Intervenendo sulla parte «organizzativa-procedimentale» della Costituzione si sarebbe potuto rendere esplicita la valenza, in ogni caso ricavabile in via interpretativa, che il principio democratico deve avere anche sotto l’aspetto procedurale. Questo principio, oltre ad ispirare l’assetto organizzativo di istituzioni europee rinnovate, deve infatti caratterizzare gli aspetti procedurali di ogni ulteriore sviluppo del processo di unificazione europea.
    Il rispetto del principio democratico comporta, dunque, l’opzione per un metodo democratico nelle procedure costitutive di qualsiasi sviluppo del processo di unificazione che voglia essere conforme fino in fondo a tale principio. L’adozione di un metodo democratico consiste, in questo caso, nel ricorso ad un meccanismo che preveda una forma di legittimazione e di partecipazione popolare[39] alla procedura costitutiva di un soggetto europeo dotato di sovranità. Trattandosi di una procedura democratica, relativa a conferimenti di sovranità ad un’istituzione a struttura democratica, siamo di fronte, sostanzialmente, ad un metodo costituente.
    Il metodo democratico deve essere inteso in senso ampio per quanto riguarda le sue concrete modalità attuative le quali, pur nel quadro di alcune regole comuni a tutti gli Stati che partecipano al processo, possono essere diverse tra loro, prevedendo, alternativamente o congiuntamente, un coinvolgimento dei parlamenti (nazionali e/o europeo), un referendum popolare, un’elezione di un’assemblea ad hoc ecc. In questo modo sarebbe possibile, al tempo stesso, rispettare le caratteristiche e utilizzare gli strumenti dei diversi sistemi costituzionali.
    Questo metodo è, in ogni caso, alternativo a quello diplomatico ed intergovernativo che ha caratterizzato fino ad ora (salvo, forse, il caso della Comunità politica europea) l’integrazione europea. La legittimazione democratica deve, infatti, essere prevista non solo per l’organo (interno) che provvede alla ratifica (di un trattato), ma anche per quello (europeo) che procede alla fase istruttoria e all’approvazione dell’atto genetico del nuovo soggetto (cioè di una costituzione), poiché quest’entità sovrana «non sarà soltanto il risultato di una volontà costituente di un soggetto nuovo, né quello della stipula di un contratto tra preesistenti, ma quello di un atto complesso che conterrà in sé l’una e l’altro e il cui risultato sarà un documento che avrà insieme le caratteristiche di una costituzione e quelle di un trattato»[40].
    Oltre al rispetto del principio democratico, di cui l’aspetto procedurale è un elemento imprescindibile, nel caso italiano concorre a favore dell’adozione di un metodo costituente nelle procedure dirette ad un approfondimento dell’UE anche il referendum di indirizzo del 1989.
    Senza volere enfatizzare il referendum in questione[41], è un dato di fatto indiscutibile che con una legge costituzionale (la n. 2 del 1989) il Parlamento ha deciso «l’indizione di un referendum di indirizzo sul conferimento di un mandato costituente al Parlamento europeo... eletto nel 1989». Al di là di problemi formali relativi allo strumento utilizzato per deliberare il referendum, l’oggetto dello stesso pare perfettamente in linea con i principi fondamentali a cui si riconduce il processo di unificazione europea, dei quali è addirittura una forma di attuazione; la relativa legge costituzionale è, pertanto, assolutamente legittima sotto un profilo sostanziale[42] e costituisce un importante precedente della possibilità di operare, anche con strumenti di rango costituzionale, per dare attuazione alla direttiva federalista contenuta nella Costituzione. Il quesito sottoposto al corpo elettorale chiedeva: «Ritenete voi che si debba procedere alla trasformazione delle Comunità europee in una effettiva Unione, dotata di un Governo responsabile di fronte al Parlamento, affidando allo stesso Parlamento europeo il mandato di redigere un progetto di Costituzione europea da sottoporre direttamente alla ratifica degli organi competenti degli Stati membri della Comunità?». Come è noto le risposte affermative superarono l’88 %.
    Prescindendo dalle questioni relative all’efficacia giuridica della consultazione nei confronti degli europarlamentari, in ogni caso ormai superate dalla scadenza della relativa legislatura europea, la rilevanza del referendum va individuata sul piano della sua portata politica e della conseguente responsabilità degli organi politici. Considerato che il quesito non è riferito ad un organo in particolare ed è stato posto dal legislatore costituzionale, tutti gli organi rappresentativi sono vincolati politicamente ad adeguarsi all’indirizzo politico loro indicato dal corpo elettorale in materia di unificazione europea. E’ ovvio che questo vincolo può essere ribaltato da una sopravvenuta volontà del corpo elettorale, che si può manifestare anche in forma diversa da quella referendaria, per esempio desumibile da nuove elezioni. In questo caso però una regola di correttezza costituzionale imporrebbe che il nuovo orientamento fosse esplicitato in Parlamento, al momento del voto sulla mozione di fiducia o con l’approvazione di un apposito atto parlamentare di indirizzo. Fino a che ciò non avviene la validità delle indicazioni politiche contenute nel quesito referendario sembra indiscutibile. Ed il quesito comprendeva, nella sua parte finale, proprio l’indicazione di un metodo costituente che abbiamo visto essere già insito nei principi costituzionali e che viene ulteriormente rafforzato dall’indicazione che il corpo elettorale ha fornito su richiesta del legislatore costituente.
    A questo punto, la scelta, politica e costituzionale, dell’Italia di favorire l’utilizzazione di un metodo costituente in ulteriori approfondimenti dell’unificazione europea, sembra dimostrata a prescindere dall’inserimento o meno di un’esplicita dizione in tal senso nel testo costituzionale.
 
Conclusioni.
 
    Solo un auspicio e alcune brevi considerazioni.
    L’auspicio, relativo alla prosecuzione del processo di revisione costituzionale in corso, è che sia eliminata la previsione di un procedimento aggravato per le ulteriori limitazioni di sovranità, disposta dal 2° comma dell’art. 114, come richiesto da alcuni emendamenti. Non ci risulta, invece, che siano stati presentati emendamenti nel senso dell’adozione del metodo costituente, ma abbiamo visto che argomenti interpretativi e politici depongono in questo senso.
    Le considerazioni riguardano l’importanza che anche le costituzioni nazionali e le loro eventuali revisioni possono avere per il processo di unificazione europea e quindi l’opportunità di dedicare loro qualche attenzione, nello specifico a quella italiana.
    «La costituzione non serve tanto a costruire la storia... quanto a frapporre ostacoli (per tutelare interessi validi) o ad eliminare ostacoli (per privare centri di poteri di strumenti di dominio)»[43]. Il compito di costruire la storia è della politica e la volontà politica popolare, quando è vincente, non conosce ostacoli formali; però agire in un quadro di legittimità costituzionale agevola (o almeno non ostacola) i sostenitori di progetti politici conformi ai valori della costituzione e, per converso, indebolisce (o almeno non rafforza) i loro oppositori.
    Secondo quanto abbiamo visto, la Costituzione italiana non ostacola (anzi, forse, favorisce) il processo di realizzazione di una Federazione europea, poiché rientra tra i suoi valori il superamento della sovranità assoluta dello Stato nazionale e la conseguente formazione di superiori entità politiche. E’ senz’altro vero che nella costruzione della Federazione europea non si può sfuggire ad un momento costituente, sia pure peculiare perché avrà per oggetto un Trattato-costituzione, ma questo non sarà, se condotto nei rispetti dei principi della Costituzione repubblicana, di per sé un fatto extra ordinem, e perciò illegittimo[44].
    Chi ha «costruito» la Costituzione italiana pensando anche alla Federazione europea ha, per usare il paragone di Calamandrei, lasciato appositamente «un’ammorzatura» (l’art. 11), cioè «una di quelle pietre sporgenti che gli architetti lasciano su certe mura nude di un edificio, in previsione di dovervi nell’avvenire aggiungere e collegare un’altra parte, forse più ricca e più bella, dello stesso palazzo, non ancora compiuto nella realtà, ma già disegnato nella fantasia»[45]. E’ questo, quindi, lo strumento con cui la Costituzione consente al nostro ordinamento di aderire ad una Federazione europea. Non è lo strumento per realizzarla, questo è compito dei federalisti.
 
Salvatore Aloisio
 

 

 


[1] Cfr. art. 1 comma 4 della legge costituzionale 24 gennaio 1997, n. 1.
[2] Il progetto della Commissione è pubblicato in Il Sole 24 ore del 5 novembre 1997.
[3] Nel progetto citato sono gli artt. 114, 115 e 116.
[4] Gli altri due articoli sono relativi alla partecipazione, rispettivamente, delle Camere e delle regioni alla definizione delle politiche comunitarie.
[5] Questo aspetto ricorre in molti interventi contenuti negli atti del Convegno dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, Le prospettive dell’Unione europea e la Costituzione (Milano, 4-5 dicembre 1992), Padova, Cedam, 1995. Peraltro anche il Trattato di Maastricht, come tutti i trattati comunitari, è stato ratificato dall’Italia con legge ordinaria (legge n. 454 del 3 novembre 1992), in base all’art. 11 della Costituzione, sulla cui portata torneremo brevemente in seguito.
[6] Per un panorama complessivo cfr. P. F. Lotito, «Integrazione comunitaria e regole costituzionali: gli esempi di Francia, Spagna e Germania», in Quaderni costituzionali, 1993, pp. 155 segg. Ivi i testi delle modifiche dei testi costituzionali di Francia e Germania, rispettivamente pp. 149 e 151.
[7] Così D’Alema, in Commissione parlamentare per le riforme costituzionali - resoconto stenografico - (d’ora in poi Commissione), seduta n. 7 del 26.2.97.
[8] D’Amico, in Comitato Parlamento e fonti normative - resoconto sommario - (d’ora in poi Comitato), seduta del 16.4.97. L’art. 11 della Costituzione per la parte che qui interessa, recita: «L’Italia (...) consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».
[9] Le frasi virgolettate sono, rispettivamente, dell’onorevole Soda (S.D.) in Comitato, seduta del 16.4.97 e del senatore Greco (F.I.) in Comitato, seduta del 30.4.97.
[10] Si tratta, nell’ordine, dell’allegato n. 18 alla seduta del 23.4.97 e dell’allegato n. 26 alla seduta del 22.5.97 del Comitato.
[11] L’irrigidimento ulteriore tra la 1a e la 2a bozza è probabilmente dovuto alle osservazioni presentate dall’onorevole Crucianelli (S.D.) (allegato n. 24 alla seduta del 30.4.97 del Comitato), che ritiene necessaria la revisione costituzionale per qualunque intervento su norme costituzionali avvenga con trattati europei.
[12] Il testo dell’art. A (partecipazione all’edificazione comunitaria e procedure per il conferimento di ulteriori poteri) presentato alla Commissione è nel complesso analogo a quelli presentati nel Comitato ed è stato utilizzato senza modifiche come testo base della Commissione (cfr. Articolato allegato a Commissione, seduta n. 30 del 29.5.97).
[13] Cfr. D’Amico, in Commissione, seduta n. 30 del 29.5.97, pp. 1137-40.
[14] Queste opinioni sono state espresse, in parte, già durante i lavori del Comitato, dai commissari Crucianelli (S.D.) e Salvato (R.C.) (cfr. Commissione, seduta n. 31 del 29.5.97, pp. 1149 e 1169).
[15] Cfr. Pieroni (Verdi), in Commissione, seduta n. 31 del 29.5.97, p. 1160. Ivi a p. 1190, D’Onofrio (CCD) ha indicato come «pilastri necessari» l’integrazione europea come bene in sé e i limiti alla cessione di sovranità già individuati nell’interpretazione della Consulta all’art. 11.
[16] Cfr. Commissione, seduta n. 39 del 18.6.97, l’allegato relativo agli emendamenti presentati dal relatore sulla partecipazione dell’Italia all’UE, III.1.15. E’ da rilevare che, al termine di questa fase di lavori della Commissione, l’onorevole D’Amico ha rassegnato le dimissioni da relatore.
[17] Sul punto soprattutto, l’onorevole Boato; in proposito pare pertinente l’osservazione svolta dal Presidente D’Alema nel corso della discussione: «Possiamo scrivere che si tratta di cedere delle competenze, ma è un’ipocrisia, perché lo Stato nazionale non cede competenze, cede sovranità, tanto più che questo concetto è già presente nell’art. 11 della Costituzione». Cfr. Commissione, seduta n. 40 del 18.6.97, rispettivamente pp. 1510 e 1514; l’emendamento Boato/Pieroni, ivi, allegato relativo agli emendamenti, n. III.01.15.1.
[18] Così l’onorevole Pieroni, Commissione, seduta n. 40 del 18.6.97, p. 1510.
[19] Nell’intervento del primo firmatario, onorevole Senese, è stata sottolineata la volontà di raccogliere in una disposizione costituzionale il corpo pretorio di norme elaborato in questi anni, sulla base dell’art. 11, dalla Corte costituzionale. A proposito della richiesta di prevedere sempre l’utilizzazione della legge costituzionale, egli ha osservato che se viene costituzionalizzato il processo di unificazione è già il 1° comma che legittima «ulteriori trasferimenti di poteri, per cui è sufficiente lo strumento normativo proposto». Cfr. Commissione, seduta n. 36 del 16.6.97 e l’allegato relativo agli emendamenti, p. 1356 ed emendamento III.1.5.
[20] Cfr. senatore Salvi, Commissione, seduta n. 40 del 18.6.97, pp. 1511 e 1515.
[21] Cfr. gli interventi dei commissari Servello (A.N.), Salvato (R.C.), Pera (F.I.), in Commissione, seduta n. 40 del 18.6.97, rispettivamente pp. 1510, 1512-13 e 1515, 1514.
[22] Commissione, seduta n. 40 del 18.6.97, p. 1511. Su questo aspetto ci intratterremo più ampiamente esaminando i profili di legittimità della riforma.
[23] Cfr. Il Sole 24 ore del 1° luglio 1997.
[24] Commissione, seduta n. 40 del 18.6.97, p. 1512.
[25] Una visione d’insieme in F. Sorrentino, Corte costituzionale e Corte di giustizia europea, Milano, Giuffrè, 1970, pp. 87 segg.; per il dibattito più recente cfr. M. Cartabia, Principi inviolabili e integrazione europea, Milano, Giuffrè, 1995, pp. 95 segg.
[26] Cfr., per esempio, M. Luciani, «La Costituzione italiana e gli ostacoli all’integrazione europea», in Politica del diritto, 1992, pp. 557 segg.; L. Paladin, «Il deficit democratico nell’ordinamento comunitario», in Le Regioni, 1996, pp. 1033 segg.; S. Bartole, «La nazione italiana e il patrimonio costituzionale europeo», in Diritto Pubblico, 1997, pp. 23 segg. Pare difficilmente condivisibile, d’altra parte, la tesi secondo la quale sarebbe il referendum del 1989 a giustificare la ratifica del Trattato di Maastricht (così G. Lauricella, «In margine alla ratifica degli accordi di Maastricht: la legge costituzionale del 1989 ed il referendum popolare sul mandato costituente al Parlamento europeo», in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1992, pp. 1226 segg.). Peraltro sarebbero opportune ulteriori riflessioni sugli effetti di tale referendum, al quale accenneremo nuovamente in seguito.
[27] Così G. Gemma, «Giurisprudenza costituzionale in materia comunitaria (1964-1976) e superamento della sovranità nazionale», in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1977, pp. 1185 segg.
[28] Questa linea interpretativa affonda le sue radici nelle sentenze n. 14 del 1964 e n. 183 del 1973, e non è contraddetta, almeno per questi aspetti di massima, dalla giurisprudenza successiva. Cfr. P. Barile, «Il cammino comunitario della Corte» (nota alla sentenza 183/1973), in Giurisprudenza costituzionale, 1973, p. 2406; per l’evoluzione giurisprudenziale della Corte costituzionale, F. Sorrentino, Profili costituzionali dell’integrazione comunitaria, Torino, Giappichelli, 1994.
[29] Sentenza 183/1973 della Corte costituzionale, punto 6 delle considerazioni in diritto.
[30] Siamo consapevoli che il problema dei limiti posti alla revisione costituzionale prevista con la legge costituzionale n. 1 del 1997 necessiti di riflessioni più ampie di quelle che consente questo scritto. Quello in esame è, peraltro, un caso limite poiché la Bicamerale, pur senza una modifica testuale dell’art. 11 (e quindi della I parte della Costituzione), interviene sulla materia disciplinata da detto articolo (le limitazioni di sovranità) modificando l’interpretazione consolidata che dell’art. 11 ha dato la Corte costituzionale e la conseguente prassi parlamentare.
[31] In questo senso cfr., per tutti, V. Onida, «Costituzione italiana», in Digesto delle discipline pubblicistiche, Torino, UTET, 1989, p. 334. Anche questo autore ritiene che la nascita di una Federazione europea troverebbe fondamento e legittimazione costituzionale già nella Carta del 1948.
[32] G. U. Rescigno, «Il Tribunale costituzionale federale tedesco e i nodi costituzionali del processo di unificazione europea», in Giurisprudenza costituzionale, 1994, pp. 3119 e 3123, nota 18. Su questo punto insiste anche L. Paladin, op. cit., pp. 1031-2. A proposito della sentenza menzionata, sottolinea l’incompatibilità della trasformazione della Comunità in Stato federale per mezzo delle procedure di cui all’art. 236 del Trattato di Roma (ora art. N del Trattato di Maastricht) F. Rossolillo, «Si può delegare la fondazione della Federazione europea?», in Il Federalista, XXXVI (1994), pp. 30 segg.
[33] F. Sorrentino, «Ai limiti dell’integrazione comunitaria: primato delle fonti o delle istituzioni comunitarie?», in Politica del diritto, 1994, p. 201.
[34] Rafforza questa tesi la circostanza che la maggioranza dei giuristi tedeschi non riteneva necessario modificare la Costituzione (lo riferisce A. Gattini, «La Corte costituzionale tedesca e il Trattato sull’Unione europea», in Rivista di diritto internazionale, 1994, p. 115).
[35] Per gli aspetti storico-politici cfr. S. Pistone, L’Italia e l’unità europea, Torino, Loescher, 1982, pp. 152-3 e , più ampiamente, D. Preda, Sulla soglia dell’Unione: la vicenda della CPE, Milano, Jaka Book, 1994; per quelli giuridici G. Gemma, op. cit., p. 1215, nota 108.
[36] Emblematico in questo senso lo scambio di opinioni tra due giuristi tedeschi, D. Grimm, «Una Costituzione per l’Europa?» e J. Habermas, «Una Costituzione perl’Europa? Osservazioni su Dieter Grimm», in Il futuro della Costituzione, (a cura di G. Zagrebelsky, P. P. Portinaro, J. Luther), Torino, Einaudi, 1996.
[37] L’espressione è di G. Zagrebelsky, «Presentazione», in Il federalismo e la democrazia europea, Roma, Nuova Italia scientifica, 1994, p. 13.
[38] Sottolinea il nesso tra principio di sussidiarietà, approdo dell’UE ad un sistema di tipo federale e superamento del «deficit democratico» P. Caretti, «Il principio di sussidiarietà e i suoi riflessi sul piano dell’ordinamento comunitario e sul piano dell’ordinamento nazionale», in Le prospettive dell’Unione europea, cit., pp. 140 segg.
[39] In un processo costituente europeo intervengono congiuntamente i popoli nazionali europei ed il popolo federale europeo (cfr. F. Rossollilo, «La sovranità popolare e il popolo federale mondiale come suo soggetto», in Il Federalista, XXXVII (1995), pp. 180 segg.); il presente scritto è invece riferito prevalentemente al popolo italiano, inserito però nel contesto citato.
[40] F. Rossolillo, ibidem, p. 181.
[41] Peraltro pesantemente sottovalutato dalla gran parte della dottrina giuridica; cfr., per tutti, B. Caravita, «Il referendum sui poteri del Parlamento europeo: posizioni critiche», in Politica del diritto, 1989, pp. 319 segg.; in senso contrario abbiamo visto G. Lauricella, op. cit.; una posizione intermedia ha J. Bartolomei, «Brevi note sul referendum di indirizzo indetto con la legge costituzionale n. 2 del 1989», in Giurisprudenza costituzionale, 1990, pp. 891 segg., il quale sottolinea la portata politica dell’atto e lo qualifica di tipo plebiscitario.
[42] Valutazioni diverse varrebbero per un referendum analogo, contrastante con un principio fondamentale; per esempio relativo alla secessione di una regione italiana quindi contrario all’art. 5 della Costituzione che non sarebbe legittimo neanche se approvato con legge costituzionale.
[43] G. Gemma, op. cit., p. 1213.
[44] Così invece M. Luciani, op. cit., p. 589.
[45] P. Calamandrei, «Stato federale e confederazione di Stati», in AA. VV., Europa federata, Milano, Comunità, 1947, pp. 34-5.

 

 

 

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