Solo recentemente il federalismo è diventato in Italia una concezione politica largamente diffusa e condivisa. E ciò è certamente un effetto del successo dell’unificazione europea e del movimento di idee che l’ha ispirata. Ma nel corso del XIX e di gran parte del XX secolo il federalismo è rimasto sostanzialmente estraneo alla cultura italiana, che, come quella dominante nel resto del continente europeo, ha subìto l’influenza del modello politico dello Stato francese, cioè della «repubblica una e indivisibile».
Nel periodo tra la rivoluzione francese e la seconda guerra mondiale, il federalismo non divenne mai un principio di azione politica, né riuscì a incidere sul movimento storico nel continente europeo, se non in un piccolo Stato come la Svizzera, la quale adottò il modello costituzionale degli Stati Uniti d’America. Essa, grazie alla posizione marginale e al ruolo neutrale che aveva nel sistema europeo degli Stati, era rimasta al riparo dagli effetti accentratori determinati dai conflitti di potenza. In conseguenza di ciò, è riuscita a mantenere fino ad oggi una forma di organizzazione dello Stato, articolata su due livelli di governo (quello federale e quello cantonale) indipendenti e coordinati. Tuttavia, la corrente più profonda della storia favoriva l’affermazione del principio opposto: quello dello Stato unitario e accentrato.
Ma il punto di vista federalistico consentì di individuare i limiti dell’organizzazione dell’Europa in Stati nazionali. Nella cultura politica italiana il federalismo di Carlo Cattaneo è stato il punto di vista di un pensatore solitario, rimasto ai margini del moto risorgimentale. Egli aveva visto, come altri nel secolo scorso (per esempio Constantin Frantz in Germania o Pierre-Joseph Proudhon in Francia), gli aspetti negativi della formula politica dello Stato nazionale unitario. Aveva intuito il rapporto profondo che esiste tra la guerra e la sovranità assoluta degli Stati, tra l’anarchia internazionale e il prevalere all’interno degli Stati di tendenze accentratrici, militaristiche e autoritarie. Di conseguenza, aveva contestato la pretesa dello Stato unitario di presentarsi come la forma più elevata di organizzazione politica.
Durante la rivoluzione del 1848, come avvenne sempre a partire dalla rivoluzione francese ogniqualvolta l’Europa fu scossa da una grave crisi di carattere rivoluzionario o bellico, emerse l’esigenza di riorganizzare il continente su basi democratiche e da diverse parti (per esempio Considérant, Hugo, Lamartine, Ruge) fu alzata la bandiera degli Stati Uniti d’Europa. Cattaneo fu tra i primi a usare questa formula nelle Memorie sull’Insurrezione di Milano del 1848. «Avremo pace vera egli scrisse a conclusione del saggio, quando avremo gli Stati Uniti d’Europa»[1].
La conoscenza dei meccanismi istituzionali dello Stato federale offrì a Luigi Einaudi un criterio per mettere in luce i limiti della Società delle Nazioni e per indicare nella Federazione europea l’unica reale alternativa alla guerra. La prima guerra mondiale segna l’inizio di una nuova fase della storia dell’Europa nel corso della quale comincia a manifestarsi la crisi della formula politica dello Stato nazionale e la decadenza del sistema europeo degli Stati. Con Einaudi si fa strada un’idea nuova, che attribuisce alla crisi dello Stato nazionale la causa della guerra e indica un’alternativa precisa: gli Stati Uniti d’Europa.
In effetti, lo Stato nazionale aveva garantito il progresso dell’Europa finché era stato in grado di controllare lo sviluppo della produzione industriale, che tendeva a intensificare e a moltiplicare le relazioni economiche e sociali tra gl’individui e a unificarle su spazi sempre più vasti. Con l’estensione delle relazioni di produzione e di scambio al di là dei confini degli Stati, le singole società sono uscite dal loro originario isolamento e sono diventate sempre più strettamente interdipendenti. Si è formato così un sistema economico-sociale di dimensioni mondiali, il mercato mondiale, dal quale dipendono tutti gli uomini e tutti i popoli per il soddisfacimento dei loro bisogni. Di fronte a questa tendenza, la formula politica dello Stato-nazione è entrata in decadenza. Alla radice della crisi dello Stato nazionale c’è la contraddizione tra l’internazionalizzazione del processo produttivo e la dimensione nazionale del potere politico. Di conseguenza, a causa della frammentazione dell’Europa in molti piccoli Stati, che frenavano lo sviluppo delle moderne forze produttive, la potenza tendeva a emigrare verso gli sterminati spazi degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, dove la tendenza all’allargamento dei rapporti di produzione e di scambio non incontrava ostacoli.
Secondo Einaudi, la prima guerra mondiale deve essere interpretata alla luce del concetto di crisi dello Stato nazionale e dell’esigenza di unità dell’Europa. «La guerra presente», egli scrisse nel 1918, «è la condanna dell’unità europea imposta con la forza da un impero ambizioso, ma è anche lo sforzo cruento per elaborare una forma politica di ordine superiore»[2]. In altri termini, la guerra fu l’espressione negativa del bisogno di unità dell’Europa e la ricerca dello spazio vitale da parte della Germania fu il tentativo di assecondare con mezzi violenti la spinta delle forze produttive, che imponevano un’economia, una società e uno Stato di dimensioni europee.
L’alternativa democratica e razionale all’imperialismo tedesco era rappresentata, secondo Einaudi, dalla Federazione europea, che avrebbe permesso di unificare l’Europa attraverso la via del consenso, con «la spada di Dio», anziché con quella «di Satana», come disse nel memorabile discorso del 27 luglio 1947 all’Assemblea costituente[3]. Nell’epoca della crisi dello Stato nazionale, l’alternativa di fronte alla quale si trovano gli Stati non è tra l’unità o la divisione, ma tra due diverse forme di unità: l’impero o la federazione.
Nello stesso tempo, Einaudi considera la Federazione europea come un’alternativa ai limiti della Società delle Nazioni. Questa organizzazione internazionale era stata creata per garantire la pace, ma era del tutto inadeguata allo scopo, perché priva di un potere proprio, capace di limitare la sovranità degli Stati. Avendo individuato il vizio radicale dell’organizzazione, Einaudi formulò lucidamente, in due articoli pubblicati sul Corriere della sera nel 1918[4], la previsione che essa non avrebbe eliminato la divisione, i conflitti e la guerra tra gli Stati. E la seconda guerra mondiale confermerà puntualmente questa previsione.
Altri autori, come Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati in Italia, Lord Lothian in Inghilterra, Jacques Lambert in Francia, Clarence Streit negli Stati Uniti, formularono analoghe critiche alla Società delle Nazioni nel periodo tra le due guerre mondiali, basandosi sulla teoria dello Stato federale. Resta il fatto che Einaudi fu capace di individuare i limiti della Società delle Nazioni quando questa istituzione era ancora allo stadio di progetto.
Questi scritti, che Einaudi, sotto lo pseudonimo di Junius, raccolse nel 1920 nel volumetto intitolato Lettere politiche[5], pubblicato da Laterza, non ebbero alcuna influenza sul dibattito politico-culturale del primo dopoguerra e furono dimenticati dallo stesso autore.
Quando, durante la seconda guerra mondiale, le Lettere politiche di Junius caddero per caso nelle mani di due antifascisti, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, confinati nell’Isola di Ventotene, apparvero come una rivelazione. Quelle pagine (insieme con alcuni libri di Lord Lothian e di Lionel Robbins, le personalità di punta della scuola federalista, sviluppatasi in Inghilterra negli anni ’30) costituirono il punto di partenza delle riflessioni che portarono all’elaborazione del Manifesto di Ventotene.
Ciò che unisce questi due personaggi non è semplicemente l’antifascismo. E’anche l’insoddisfazione per le concezioni politiche tradizionali, che avevano rivelato la loro inadeguatezza a contrastare il fascismo. Di qui la ricerca di nuove formule politiche.
Il grande merito di Rossi è stato quello di aver fatto circolare la letteratura federalista a Ventotene. Essendo professore di economia, era stato autorizzato a corrispondere con Luigi Einaudi, il quale aveva fatto pervenire a Ventotene alcuni preziosi libri federalisti del tutto sconosciuti alla cultura politica italiana. Qui risiedono le fonti ispiratrici del Manifesto di Ventotene.
La grandezza di questi uomini sta nell’aver visto, al di là delle apparenze, la linea evolutiva profonda della storia contemporanea. Nel momento in cui Hitler dominava l’Europa, dopo aver piegato la Francia, e muoveva all’attacco dell’Unione Sovietica, questi pensatori solitari, meditando nell’isolamento del confino sull’assetto che l’Europa e il mondo avrebbero assunto dopo la tragedia della guerra, ebbero la forza intellettuale di lanciare l’idea degli Stati Uniti d’Europa.
Non è possibile fare in questa sede un esame approfondito del Manifesto di Ventotene. Mi limiterò a enucleare i concetti essenziali, che mi sembra segnino la novità del documento, che rappresenta una vera e propria svolta nella letteratura federalista: il passaggio dalla riflessione teorica al programma di azione.
Per quanto riguarda i fondamenti teorici della concezione politica del Manifesto, il concetto di crisi dello Stato nazionale occupa una posizione centrale. Scrive Colorni nella prefazione: «Si fece strada, nella mente di alcuni, l’idea centrale che la contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti che travagliano la nostra società, è l’esistenza di Stati sovrani, geograficamente, economicamente, militarmente individuati, consideranti gli altri Stati come concorrenti e potenziali nemici, viventi gli uni rispetto agli altri in una situazione di perpetuo bellum omniumcontra omnes»[6]. Questo concetto permette di rileggere in una nuova prospettiva la storia contemporanea. Su questa base, gli autori del Manifesto approfondirono l’analisi delle cause dell’imperialismo e del fascismo, i cui elementi essenziali erano già presenti nelle opere dei loro maestri. Ciò che scatenò questi fenomeni fu la fusione di Stato e nazione. Essa creò una miscela esplosiva che sviluppò tendenze autoritarie all’interno dello Stato e aggressive sul piano internazionale. La spiegazione dell’aggressività dello Stato è collocata nel contesto della teoria della ragion di Stato, la quale attribuisce, in ultima istanza, alla sovranità statale e all’anarchia internazionale la causa dell’imperialismo e della guerra. La causa più specifica dell’imperialismo dell’epoca delle guerre mondiali è individuata nella crisi del sistema europeo degli Stati. Essa è determinata dalla crescente interdipendenza delle economie nazionali, che spinse ciascuno Stato a cercare di indebolire i propri vicini con il protezionismo e ad allargare lo spazio economico sottoposto al controllo di ciascuno di loro, e scatenò la guerra per l’egemonia continentale da parte della Germania.
Per quanto riguarda il fascismo, esso è definito come il punto di arrivo dell’evoluzione storica dello Stato nazionale, l’espressione delle tendenze bellicose e autoritarie latenti nella sua struttura chiusa e accentrata e diventate virulente con l’esasperazione della lotta di potenza in Europa. Sul piano economico-sociale, il fascismo si configura come la risposta totalitaria e corporativa al ristagno economico di un mercato, le cui dimensioni sono inadeguate allo sviluppo delle moderne tecniche produttive, alla disgregazione della società, degradata a terreno dello scontro tra interessi corporativi, al bisogno di eliminare ogni divisione sociale, che indebolisce la capacità di difesa dello Stato, e all’esigenza di adattare il sistema produttivo agli imperativi di un’economia di guerra.
Ma il Manifesto di Ventotene assume un significato veramente innovatore sul terreno dell’azione. Il federalismo assume così il carattere di un criterio di conoscenza e di azione, che ispira un nuovo comportamento politico e una lotta politica autonoma.
L’autonomia della visione federalistica della politica e della storia rispetto a quella delle altre correnti politiche consentì di considerare la Federazione europea come una vera e propria alternativa politica al sistema degli Stati nazionali e come l’obiettivo prioritario di un nuovo programma politico, cui si ispira un nuovo movimento, organizzato unicamente per perseguire quell’obiettivo. Su questo terreno Spinelli si spinse più avanti lungo la nuova strada che Einaudi aveva cominciato a percorrere. L’esame del suo apporto permette di illuminare i due maggiori limiti del federalismo di Einaudi. Innanzi tutto, per quest’ultimo il federalismo restò una concezione accessoria al liberalismo, un semplice schema istituzionale capace di proteggere i valori e le istituzioni democratico-liberali dalle conseguenze dell’anarchia internazionale. Inoltre, non si trova nelle opere di Einaudi nessuna proposta politica per tradurre in realtà il disegno federalista. Sono questi anche i limiti della concezione del federalismo di Ernesto Rossi, la quale, nel complesso, era più vicina a quella di Einaudi che a quella di Spinelli. E ciò spiega perché Rossi, che pure era stato tra i promotori della fondazione del Movimento federalista europeo, abbia abbandonato l’impegno federalista dopo la caduta della Comunità europea di difesa (1954).
Spinelli ha sviluppato una teoria dell’azione democratica per unificare un insieme di Stati, intesa come un nuovo settore del pensiero federalista. Gli orientamenti fondamentali sui quali ha basato la sua azione sono: a) l’attualità della lotta per la Federazione europea, b) la priorità della Federazione europea rispetto a qualsiasi altro obiettivo politico, c) lo spostamento sul piano internazionale della linea di divisione tra forze del progresso e forze della conservazione.
a) Nel Manifesto di Ventotene c’è un atteggiamento diverso da quello di coloro che, in precedenza, avevano scelto il federalismo per definire la loro posizione verso il potere, la società e il corso della storia, ma si erano limitati a denunciare la crisi storica dello Stato nazionale, collocando la Federazione europea in un futuro indefinito, senza elaborare un preciso programma di azione. L’ispirazione politica di questo documento si basa su un’idea centrale, quella dell’attualità della Federazione europea, un obiettivo politico, che non è solo necessario ma è anche diventato possibile nel nuovo contesto storico creato dalla seconda guerra mondiale. La previsione che vi è formulata è che la guerra avrebbe fatto maturare le condizioni oggettive dell’unificazione europea, facendo evolvere la crisi storica dello Stato nazionale in crisi politica, e avrebbe aperto così la strada all’iniziativa federalista. «L’ideale di una Federazione europea, preludio di una Federazione mondiale», si legge nella prefazione, «mentre poteva apparire lontana utopia ancora qualche anno fa, si presenta oggi, alla fina di questa guerra, come una meta raggiungibile e quasi a portata di mano»[7]. La Federazione europea, intesa come tappa sulla via della Federazione mondiale, è l’obiettivo di una battaglia immediata e concreta, guidata da un movimento creato appositamente per condurre questa battaglia.
b) La seconda novità consiste nella priorità strategica della lotta per la Federazione europea rispetto alla lotta per il rinnovamento dello Stato nazionale. Ciò che accomuna i partiti, che si ispirano alle ideologie liberale, democratica, socialista e nazionale, è la priorità che essi attribuiscono al miglioramento della situazione del loro Stato e la convinzione che la pace è la conseguenza automatica dell’affermazione rispettivamente dei principi della libertà, dell’uguaglianza, della giustizia sociale e dell’indipendenza nazionale. La specificità del punto di vista federalistico consiste nel rovesciamento di quest’ordine di priorità. Nel Manifesto si legge: «Il problema che in primo luogo va risolto e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in Stati nazionali sovrani... Chi voglia proporsi il problema dell’ordinamento internazionale come quello centrale dell’attuale epoca storica, e consideri la soluzione di esso come la premessa necessaria per la soluzione di tutti i problemi istituzionali, economici, sociali che si impongono alla nostra società», deve «di necessità considerare da questo punto di vista tutte le questioni riguardanti i contrasti politici interni e l’atteggiamento di ciascun partito, anche riguardo alla tattica e alla strategia della lotta quotidiana»[8].
Il fatto è che chi si occupa solo del rinnovamento nazionale non interviene sulla causa dei conflitti internazionali, dell’imperialismo e della guerra. A causa dell’anarchia internazionale, l’indipendenza nazionale tende a convertirsi in nazionalismo, la libertà tende a essere sacrificata all’esigenza di accentrare il potere e di privilegiare la sicurezza militare, le spese militari sono un’alternativa alle spese sociali. Tutto ciò illumina la mancanza di autonomia della politica interna e l’illusione della riforma dello Stato nazionale, ormai superato da processi che lo trascendono.
Di conseguenza, «se la lotta restasse domani ristretta nel tradizionale campo nazionale, sarebbe molto difficile sfuggire alle vecchie aporie»[9]. Poiché le forze politiche tradizionali perseguono la riforma dello Stato nazionale, rimangono prigioniere di questa istituzione, ne subiscono la decadenza e si collocano quindi sul terreno della conservazione.
c) Ne deriva quindi, in terzo luogo, lo spostamento del centro della lotta politica dal piano nazionale a quello internazionale. Tende cioè ad affermarsi una nuova linea di divisione tra le forze del progresso e quelle della conservazione, come si legge nel Manifesto di Ventotene.
«La linea di divisione tra partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale — e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie, lasciando solidificare la lava incandescente delle passioni popolari nel vecchio stampo, e risorgere le vecchie assurdità — e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido Stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopreranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale»[10].
Nell’epoca della crisi dello Stato nazionale e dell’internazionalizzazione del processo produttivo, lo scontro tra le forze del progresso e quelle della conservazione non si svolge più sul terreno nazionale tra i principi della libertà e della dittatura o tra quelli del socialismo e del capitalismo. Chi sceglie di impegnarsi sul piano nazionale, anche se il suo obiettivo è di realizzare più democrazia o più socialismo, si pone sul terreno della conservazione, perché la sua azione politica consolida gli Stati nazionali. Di conseguenza, l’obiettivo da perseguire innanzi tutto da parte di chi vuole promuovere il progresso è l’impegno per superare la divisione dell’Europa e del mondo in Stati sovrani. L’epoca sovranazionale della storia fa emergere una nuova linea di divisione tra le forze politiche e sociali: quella tra nazionalismo e federalismo.
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Il contributo di Ernesto Rossi al Manifesto si limita a una parte del terzo e ultimo capitolo, intitolato «Compiti del dopoguerra. La riforma della società»[11]. Questi sono i principali contenuti: innanzi tutto c’è una severa polemica contro il comunismo, che, statizzando l’economia, crea nuovi privilegi, attraverso la concentrazione del potere nelle mani del partito unico; si sottolinea che il compito delle politiche sociali è quello di correggere le distorsioni del mercato, attraverso interventi dello Stato nell’economia; la nazionalizzazione dei più potenti gruppi economici, le cooperative, l’azionariato operaio e la riforma agraria sono indicati come i principali strumenti della lotta contro i monopoli e la grande proprietà fondiaria; si insiste sulla lotta a ogni forma di corporativismo, anche a quelle di carattere sindacale, che perpetuano i privilegi delle categorie più potenti a scapito del resto della società; si propone l’istruzione gratuita e obbligatoria per i giovani più dotati, la garanzia a tutti del minimo sociale, senza ridurre però lo stimolo al lavoro e al risparmio, l’abolizione del Concordato tra Stato e Chiesa e l’affermazione della laicità dello Stato. In queste pagine sono contenuti in nuce i temi che egli svilupperà nei suoi libri e nella sua attività politica e culturale dopo la guerra e che lo renderanno un personaggio universalmente noto in Italia.
Un altro dei temi ricorrenti negli scritti di Rossi, che è stato trasfuso nel Manifesto grazie all’intervento di quest’ultimo, anche se è sviluppato nella prima parte (che è stata scritta da Spinelli), è la critica del nazionalismo. L’apporto specifico di Rossi sta nella polemica di stampo illuministico contro il dottrinarismo e le mistificazioni del nazionalismo, che nascondono i privilegi delle classi politiche dominanti e delle caste militari e burocratiche.
Come risulta dal suo più importante lavoro sul federalismo, Gli Stati Uniti d’Europa[12], pubblicato a Lugano nel 1944 con lo pseudonimo di Storeno, Rossi concepisce la concezione federalistica della politica come una tecnica costituzionale di organizzazione del potere, che permette di eliminare i conflitti armati tra gli Stati che hanno stipulato il patto federale. Più specificamente, la Federazione, sottraendo agli Stati membri la sovranità militare, acquisisce il potere di impedire la guerra entro i propri confini. In questa prospettiva, egli illustrò con esemplare chiarezza l’incompatibilità dell’organizzazione dell’Europa in Stati nazionali con i principi della libertà, della democrazia e del socialismo. E’ da ricordare soprattutto la prima parte di questo saggio, che resta di grande attualità. Essa riguarda le conseguenze della pace armata e mette in evidenza come la divisione dell’Europa in Stati sovrani costituisca un ostacolo insormontabile alla piena realizzazione degl’ideali della libertà e dell’uguaglianza.
Inteso in questi termini limitativi, il federalismo si configura nel pensiero di Rossi come il completamento logico di un liberalismo radicale o di un liberal-socialismo e non come un criterio di azione politica autonomo. Essendo strettamente legata alla soluzione del problema della guerra, l’adesione di Rossi al federalismo ha motivazioni molto più deboli di quelle di Spinelli. La conseguenza pratica di questa posizione teorica sarà l’abbandono del Movimento federalista europeo dopo il fallimento della Comunità europea di difesa (30 agosto 1954), cioè quando, a causa dell’attenuazione del conflitto Est-Ovest, il pericolo di una terza guerra mondiale cominciò ad allontanarsi.
A partire dal 1954, quando ritenne che l’attualità della Federazione europea fosse tramontata, Rossi si impegnò per il rinnovamento dello Stato italiano, un obiettivo che il Manifesto di Ventotene aveva definito come illusorio e condannato all’insuccesso.
Per quanto riguarda la politica estera dell’Italia, ispirandosi al modello della Confederazione elvetica, egli propose la scelta neutralistica[13]. Si tratta in realtà di una scelta impossibile, in considerazione della posizione strategica che l’Italia occupa nel Mediterraneo, e rinunciataria rispetto al grande disegno federativo dell’Europa, inteso come avvio di un grande processo di pacificazione tra Stati, prima tappa dell’unificazione del mondo. Considerato retrospettivamente, il recente ingresso di tre paesi neutrali (Finlandia, Svezia e Austria) nell’Unione europea, mostra quanto fondata sia la critica alla posizione neutralistica di Ernesto Rossi. Da una parte, la dissoluzione del blocco comunista (un evento cui ha contribuito la Comunità europea) ha determinato l’esaurimento del neutralismo (cui anche la Svizzera dovrà, prima o poi, rinunciare). D’altra parte, l’adesione dei paesi neutrali all’Unione europea segna la vittoria della prospettiva dell’unità europea sul neutralismo.
In politica interna egli profuse ogni energia contro il malcostume amministrativo, i monopoli, lo strapotere della Chiesa. Egli non si rese conto che lo strapotere dei monopoli e della Chiesa era una conseguenza della crisi dello Stato nazionale, dunque dell’incapacità di quest’ultimo di far prevalere gl’interessi generali contro quelli particolari espressi da questi centri di potere. In altri termini egli non capì fino in fondo la rilevanza della Federazione europea per la soluzione dei maggiori problemi del nostro tempo, compresa la realizzazione delle riforme che più gli stavano a cuore. Per i federalisti è del tutto evidente che uno Stato come quello europeo sarebbe dotato del potere e dei mezzi per far valere una legislazione antimonopolistica e per arginare l’invadenza della Chiesa nella sfera della politica.
Una pagina del Diario europeo di Spinelli illustra questi limiti della concezione politica di Rossi. E’ il 1954, dopo la caduta della Comunità europea di difesa e della prospettiva di istituire una Comunità politica europea la sopravvivenza del Movimento federalista europeo è in pericolo. Rossi con generosità si preoccupa del futuro di Spinelli. Conosce Mattei e vuole proporgli di assumere Spinelli all’ENI. Ma Spinelli rifiuta: «Rossi... ama molto l’ENI», egli annota, «questo gran corpo nazionale del petrolio italiano. Scrive continuamente in sua difesa contro il pericolo che le ricerche petrolifere e lo sfruttamento del petrolio italiano vadano a finire in mano agli Americani. lo l’ho ringraziato, ma non ho accettato. Non credo alla bontà della nazionalizzazione del petrolio italiano. Del Viscovo, che è nell’ufficio studi dell’ENI, mi ha narrato quali porcherie si combinano in questo grande trust statale. Ed è naturale che sia così. Una grande impresa nazionalizzata può essere un elemento di moralizzazione nella vita economica di un paese, solo se si può essere sicuri che essa sarà amministrata con criteri di moralità pubblica che oggi esistono forse in Inghilterra, ma non certo in Italia. Da noi essa è una fonte di mangerie senza fine, soprattutto da parte del partito governante e dei suoi clienti... E’ strano che Rossi, federalista, non sappia fare queste pur semplici considerazioni sulla inanità di certi atti sovrani dei nostri attuali Stati europei. Ma il federalismo di Rossi è stato sempre frutto di quel modo superficiale di pensare che Hegel chiama räsonnieren. Non ha mai nemmeno sospettato che potesse essere un canone di interpretazione della politica»[14].
Quest’ultima frase sottolinea la radicale differenza tra Spinelli e Rossi. L’idea che il federalismo sia un canone di interpretazione della politica illumina l’innovazione di Spinelli, che mira a dare al federalismo piena autonomia rispetto al pensiero politico tradizionale. La grandezza di Spinelli sta in una fortissima concentrazione di pensiero, nell’indomita volontà di ricominciare sempre anche dopo le più brucianti sconfitte, di mantenere in ogni momento l’obiettivo della Federazione europea come scelta politica prioritaria. Non aver mai abbandonato, anche nei momenti più difficili, l’impegno per la Federazione europea, intesa come alternativa al regime degli Stati nazionali, gli consentì di sapere in ogni momento che cosa bisognava fare per avvicinare la morte degli Stati nazionali. Il suo obiettivo rimase sempre quello di dare alla concezione federalista della politica la stessa autonomia di giudizio che hanno le ideologie liberale o socialista.
Di solito, chi fa la scelta di impegnarsi nella politica sceglie di migliorare la situazione del proprio paese e, a questo scopo, sceglie un partito e un’ideologia come contesto della propria azione. Invece Spinelli, pur essendo italiano, non considerava l’Italia come una realtà da accettare acriticamente, né considerava le ideologie esistenti come i soli schemi entro cui limitare i propri progetti politici. Egli ha cercato continuamente di sottrarsi al condizionamento nazionale e a quello delle ideologie tradizionali. E’ un atteggiamento vicino a quello scientifico, che consiglia di scegliere i mezzi più efficaci rispetto al fine che si è deciso di perseguire. Ed è nello stesso tempo un atteggiamento, per certi aspetti, ascetico, in quanto ha comportato la rinuncia ai benefici derivanti dall’occupazione del potere. Poiché l’obiettivo era, e continua ad essere, quello internazionale, egli ha rifiutato la nazione e i partiti come ambito della propria azione politica e ha fondato un movimento sovranazionale. Ha impostato una lotta politica per un potere che non esiste, ma che deve essere creato. Di qui la straordinaria concentrazione di pensiero e di azione per compiere un cambiamento rivoluzionario: organizzare una lotta politica e un movimento per un potere che non esiste, ma che deve essere creato ex novo. E’ questa la grande innovazione di cui siamo debitori a Spinelli: avere introdotto un nuovo comportamento politico.
Spinelli non è stato un utopista, come molti continuano a sostenere. All’epoca della CED egli riuscì a convincere De Gasperi che non era possibile costituire un esercito europeo senza un governo europeo. De Gasperi, a sua volta, convinse Schuman e Adenauer. In conseguenza di ciò fu convocata l’Assemblea ad hoc, un termine anodino per definire un’assemblea costituente, che lavorò sei mesi ed elaborò un progetto di costituzione che aveva forti elementi federali: oltre a costituire un centro di potere europeo (l’esercito europeo), sottoponeva quest’ultimo al controllo di un Parlamento europeo eletto a suffragio universale. Era in definitiva una tappa fondamentale sulla via della costruzione di uno Stato europeo.
Dunque la CED era un obiettivo concretamente realizzabile. E’ ragionevole formulare l’ipotesi che, senza la morte di Stalin e la sua conseguenza, il disgelo, la CED sarebbe stata approvata. E’ l’ipotesi che con straordinaria tempestività formulò Spinelli il giorno stesso della morte di Stalin. Leggiamo che cosa annota sul suo diario il6 marzo 1953: «L’evento più importante di oggi è la morte di Stalin. Nell’interesse della costruzione dell’unità europea sarebbe stato bene che Stalin fosse vissuto ancora un anno... La morte di Stalin può significare anche la fine del tentativo attuale di unire l’Europa»[15]. E’ da ricordare comunque che quattro dei sei Stati-membri della Comunità europea l’avevano già ratificata.
Così Mitterrand il 24 maggio 1984 in un discorso al Parlamento europeo aveva espresso la propria adesione al progetto di Trattato di Unione europea che Spinelli aveva proposto e fatto approvare al Parlamento europeo. Si trattava di un progetto di riforma della Comunità che, pur contenendo elementi federali, non avrebbe istituito immediatamente uno Stato federale europeo. Analogamente la Comunità politica europea, che affiancava la CED, non era una federazione, ma rappresentava tuttavia un passo decisivo sulla via della Federazione europea. Nel 1954 fu la Francia ad affossare la CED e con essa la Comunità politica europea. Nel 1985 fu la Gran Bretagna a far fallire il progetto di Unione europea.
A conclusione di questo intervento che si propone di esaminare il contributo di Ernesto Rossi al Manifesto di Ventotene voglio ricordare quanto Spinelli dichiarò nel corso di un’intervista raccolta da Gianfranco Spadaccia, pubblicata su Astrolabio il 26 febbraio 1967 pochi giorni dopo la morte di Ernesto Rossi, circa il proprio contributo e quello di Rossi alla battaglia federalista. Mi pare si tratti di un giudizio tutto sommato molto equilibrato: «Rossi da solo non avrebbe promosso la battaglia federalista», disse Spinelli, «però senza Rossi il federalismo non avrebbe la fisionomia che ha avuto»[16].
Spinelli è stato il fondatore di un nuovo movimento politico, Rossi ha contribuito a definirne il carattere. Come Mosé, sono scomparsi entrambi prima di giungere alla terra promessa. Spetta a noi portare a conclusione il cammino che è stato intrapreso e che ci è stato indicato dai suoi iniziatori lungo la linea che essi hanno tracciato.
Lucio Levi
[1] C. Cattaneo, Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra. Memorie, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 244.
[2] L. Einaudi, «La Società delle nazioni è un ideale possibile?», in La guerra e l’unità europea, Bologna, ll Mulino, 1986, p. 27.
[4] L. Einaudi, «La Società delle nazioni è un ideale possibile?» e «Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle nazioni», in op. cit., pp. 19-36.
[12]Storeno, Gli Stati Uniti d’Europa, Lugano, Nuove Edizioni di Capolago, 1944, ripubblicato in L’Europe de demain, a cura del Centre d’action pour la Fédération européenne, Neuchâtel, Baconnière, 1945.
[13]E. Rossi, «Alleanza atlantica o neutralità?», in Il Ponte, XX, 1964, n. 4.
[14] A. Spinelli, Diario europeo. 1948-1969, Bologna, Il Mulino, 1989, vol. I, pp. 213.
[16] G. Spadaccia, «Ernesto Rossi. La battaglia federalista (a colloquio con Altiero Spinelli)», in L’Astrolabio, V, 1967, n. 8, p. 29.
Anno XL, 1998, Numero 3, Pagina 232
SOVRANI MA INTERDIPENDENTI: IL FUTURO DEL G7
Jean Monnet, nel 1974, redasse il memorandum sul «governo europeo provvisorio» per l’allora Presidente della Repubblica francese, Giscard d’Estaing: il documento, come noto, ha portato alla costituzione del Consiglio europeo dei Capi di Stato e di governo della CEE, istituzionalizzando così la prassi dei Vertici europei. Nello stesso anno, Giscard d’Estaing, in un’intervista ad un quotidiano, lanciò l’idea di incontri al vertice tra i Capi di Stato e di governo dei paesi più industrializzati dell’Occidente. La proposta venne discussa con i paesi interessati nel corso della conferenza di Helsinki del luglio 1975, quando 35 paesi si incontrarono per firmare il Trattato sulla sicurezza e la cooperazione in Europa. Nacque quindi il progetto che ha dato vita al cosiddetto G7 (ora G8, con l’ingresso della Russia) e che si è riunito, per la prima volta, nell’autunno del 1975 a Rambouillet.
Sovrani ma interdipendenti[1] è il libro che racconta le ragioni che sono all’origine di questo organismo e l’esperienza del suo primo decennio di funzionamento, dal 1975 al 1986. Richiamare, sia pure a grandi linee, lo sviluppo ed i problemi di cui è stato progressivamente investito, può fornire degli elementi per capire quale futuro può avere il G7 dopo l’introduzione dell’euro. L’istituzionalizzazione degli incontri al vertice, si sostiene nel libro, è stata incoraggiata da tre caratteristiche strutturali assunte dalle relazioni internazionali nel corso degli anni ’70.
La prima caratteristica è la crescente commistione tra politica estera e politica interna conseguente all’aumento dell’interdipendenza economica. Quest’ultima, nel corso dei trent’anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale, si è estesa e approfondita inizialmente attraverso lo sviluppo del commercio internazionale e poi con la crescita degli investimenti diretti esteri e della mobilità dei capitali. L’interdipendenza ha eroso, gradualmente ma inesorabilmente, le barriere tra economia interna ed economia internazionale e, quindi, tra politica interna e politica estera, condizionando la capacità dei singoli Stati di determinare e perseguire autonomamente i propri obiettivi macroeconomici. Di qui la necessità di concordare tra i paesi industrializzati occidentali le principali misure di politica economica, nel tentativo di controbilanciare la perdita di autonomia nazionale, provocata dalla crescente integrazione, con lo sviluppo di politiche comuni.
La seconda caratteristica che viene ricordata nel libro, è il venire meno dell’egemonia statunitense, che si è affermata dalla fine del secondo dopoguerra fino ai primi anni ’70, e che si è indebolita con la decisione dell’estate del 1971 di sospendere la convertibilità del dollaro in oro, evidenziando la crescente incapacità americana di assicurare un ordinato sviluppo delle relazioni economiche e monetarie mondiali. Il libro ricorda, a questo proposito, che le età dell’oro del libero scambio sono state contraddistinte da una qualche forma di governo dell’economia da parte di una potenza egemone che ne ha assicurato una evoluzione ordinata: questo è quanto è avvenuto con la Gran Bretagna alla fine del XIX secolo e con gli Stati Uniti a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Il testo, peraltro, fa presente come proprio l’assenza di una potenza egemone fra le due guerre mondiali, o di un governo mondiale, come suggerito da Kindleberger, sia alla base della depressione degli anni ’30[2]. Così, commentando la crisi economica dei primi anni ’70, con il collasso del sistema di Bretton Woods, il primo shock petrolifero e la conseguente più grave recessione del dopoguerra, gli autori del libro ricordano che essa poneva lo stesso problema istituzionale che si era posto negli anni ’30, in quanto la gestione degli affari economico-monetari mondiali non poteva più essere affrontata solo dagli Americani. In luogo della stabilità egemonica assicurata per un quarto di secolo dal predominio USA era maturata la necessità obiettiva di articolare un nuovo sistema — stavolta collettivo — di governo e controllo dell’economia mondiale. L’alternativa della gestione collettiva si contrapponeva ad un’altra via, più radicale, e «consistente nella creazione di nuove istituzioni sovranazionali dotate di un’autorità ed una sovranità effettive», una soluzione che, si affrettano ad aggiungere gli autori del libro, veniva scartata per la sua improponibilità politica[3].
Infine, per arrivare all’ultima caratteristica delle relazioni internazionali che ha portato alla nascita del G7, la proposta del Vertice era finalizzata a ridare alla politica il primato della gestione dei rapporti fra gli Stati, soprattutto in campo economico-monetario, ridimensionando il ruolo fino ad allora svolto esclusivamente dalle grandi burocrazie internazionali.
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Per quanto riguarda il funzionamento del G7, il libro prende in considerazione lo sviluppo delle sue «competenze». Il Vertice, nelle intenzioni originarie di Giscard d’Estaing, avrebbe dovuto occuparsi esclusivamente di questioni monetarie ed a questo tema venne dedicato il primo incontro. In quella sede si accettò come strutturale la transizione ad un sistema monetario internazionale basato sui cambi flessibili, ed in questo senso vennero di conseguenza orientati i lavori di riforma dello statuto del Fondo monetario internazionale. Ben presto divenne però evidente che gli incontri al vertice non potevano limitarsi alle discussioni sulla politica monetaria e, dato anche il momento particolare che in quel periodo attraversava l’economia mondiale, si avviò la discussione su come sostenere lo sviluppo economico. Nei primi anni di funzionamento del G7, che abbracciano la seconda metà degli anni ’70, si confermò la tesi, di ispirazione keynesiana, della cosiddetta politica delle. locomotive dell’economia mondiale, vale a dire l’idea secondo cui da tre paesi, Stati Uniti, Giappone e Germania, dipendeva la possibilità di avviare la ripresa attraverso il rilancio delle rispettive economie interne. I Vertici che si tennero in quel periodo furono perciò in buona parte dedicati a convincere i tre paesi interessati ad assumersi il compito di rilanciare la domanda interna. Il Vertice di Bonn (1978) sancì l’avvio di una serie di misure espansive in Europa, negli Stati Uniti ed in Giappone che però, secondo molti osservatori, determinarono una forte domanda di prodotti petroliferi ed un nuovo aumento dei prezzi del greggio, amplificando la portata dello shock petrolifero del 1979 e della successiva recessione indotta dalle misure di contenimento dei consumi energetici. Da questo punto di vista, il G7 di Bonn ha segnato la fine di un ciclo della politica mondiale, quello fondato su una politica di tipo keynesiano a livello mondiale, ed ha aperto la strada ad un nuovo ciclo politico mondiale, quello delle politiche liberiste di Reagan e Margareth Thatcher. L’esito di queste politiche, peraltro, come possiamo constatare oggi, è stata un’ancora più accentuata interdipendenza delle economie a livello mondiale, sia pure caratterizzata da maggiori squilibri economici.
Un commento a parte merita il contrasto fra Europei ed Americani sulla politica monetaria e di bilancio statunitense. I primi, nel corso dei Vertici che si susseguirono, sostennero posizioni altalenanti, come conseguenza della loro divisione e incapacità di concordare una comune politica economica con gli USA, finendo in definitiva con il subire l’orientamento americano. Infatti, dopo aver criticato la politica inflazionistica ed i bassi tassi di interesse ai tempi di Carter, gli Europei censurarono la politica degli alti tassi di interesse Usa e del dollaro forte (Ottawa 1981) e si aprì lo scontro (Versailles 1982) tra la linea americana del non intervento sul mercato dei cambi e quella interventista dei Francesi. Quest’ultima si spiega con il fatto che Mitterrand, appena giunto al governo, intese promuovere una politica di sviluppo dell’economia ed un vasto programma di nazionalizzazioni, senza tener conto dei vincoli che gli derivavano dalla partecipazione al Sistema monetario europeo creato qualche anno prima: il risultato fu il collasso monetario e valutario della Francia, seguito da una rapida inversione di rotta nella politica economica. I due eventi che si succedettero in quegli anni, vale a dire la seconda crisi petrolifera ed il fallimento della politica di Mitterrand, esemplificano molto bene il grado di integrazione raggiunto dai paesi più sviluppati e le implicazioni della globalizzazione dell’economia, così come la lungimiranza dell’idea di dar vita ad un organo di carattere politico che potesse governare questi fenomeni. Nello stesso tempo apparve evidente l’insufficienza di una risposta fondata sulla cooperazione intergovernativa che, al fine di raccogliere il consenso di tutti, consentiva solo l’adozione di misure minime e comunque condizionate dagli USA.
Dopo la fase keynesiana, come detto sopra, si è aperto dunque un nuovo ciclo politico mondiale ispirato alla progressiva riduzione dell’intervento pubblico nell’economia e basato su una crescente liberalizzazione degli scambi commerciali e dei capitali a livello mondiale, vale a dire, di fatto, sulla scelta di lasciare al solo mercato il compito di gestire la crescente interdipendenza economica. Quello che il libro non chiarisce è che la svolta liberista non è stata determinata dal fallimento di una politica keynesiana mondiale: quella che è fallita è stata in realtà la sommatoria di politiche keynesiane nazionali. Il risultato della svolta è stato comunque che i governi europei che si sono succeduti, di destra o di sinistra, hanno dovuto adottare provvedimenti simili e orientati ad un liberismo sempre più spinto come strumento di riequilibrio dei conti con l’estero e di difesa della competitività del proprio sistema industriale. In quel periodo Reagan, come prima misura del nuovo ciclo, inaugurò una politica degli alti tassi di interesse che sarebbe durata per tutto il suo primo mandato, in quanto la nuova amministrazione era impegnata nel finanziamento di una politica di forte riarmo degli Stati Uniti, volta a rafforzare la leadership americana sul mondo occidentale e la politica di confronto con l’Unione Sovietica. L’eredità che lascerà questo ciclo, almeno per quanto riguarda l’Europa che, in quegli anni e salvo brevi parentesi in quelli successivi, continuerà a seguire una politica più rigorosa di quella degli USA, sarà una forte disoccupazione.
Con il Vertice di Bonn (1978), per la prima volta sono entrati stabilmente nell’agenda degli incontri del G7 anche i problemi relativi alla politica commerciale. Attraverso pressioni americane sulle trattative GATT, si arriverà alla conclusione del Tokio Round e, successivamente (Williamsburg 1983, Londra 1984), all’apertura di un nuovo ciclo GATT (Uruguay Round), da cui deriverà una ulteriore liberalizzazione degli scambi commerciali e dei movimenti di capitale e la costituzione del WTO. Con l’avvio del nuovo ciclo GATT, si delinearono due posizioni contrapposte: quella che mirava alla liberalizzazione degli scambi di beni e servizi su scala mondiale, sostenuta da Reagan, e quella che metteva l’accento sulla stabilità monetaria attraverso la riforma del sistema monetario internazionale, difesa dalla Francia. Ovviamente, la posizione americana rifletteva l’interesse degli Stati Uniti a far valere la forza della dimensione continentale del proprio apparato industriale e del proprio mercato dei capitali, entrambi agevolati dal fatto di poter contare su una moneta utilizzata come strumento di riserva. La posizione francese era dettata invece dalla preoccupazione di mettere sotto controllo il dollaro americano, le cui oscillazioni potevano annullare (a solo favore degli Americani) qualunque positivo risultato sulla via della liberalizzazione degli scambi. L’esito del confronto portò ad un maggior controllo sulle oscillazioni dei tassi di cambio, ma non all’obiettivo sperato dai Francesi, anche se nel frattempo l’Europa, con l’entrata in vigore dello SME, tentò di difendere il proprio mercato dalle fluttuazioni del dollaro.
Gli altri due importanti argomenti di rilevanza mondiale che sono entrati stabilmente nell’agenda del G7 sono quelli della politica estera e di sicurezza (Ottawa 1981 e Versailles 1982) e dei rapporti Nord-Sud. A Ottawa e Versailles, Reagan sostenne la necessità di una politica di irrigidimento nei rapporti commerciali con l’Unione Sovietica, scontrandosi con la linea moderata europea, sostenuta in particolare dalla Germania. Se nel corso del successivo Vertice di Williamsburg del 1983 si riuscì ad elaborare una dichiarazione politica congiunta favorevole all’installazione degli euro-missili, in seguito, sempre sul tema della politica di sicurezza, i rapporti tra Stati Uniti ed Europa si fecero più difficili, soprattutto a partire da quando Reagan lanciò il progetto SDI (Bonn 1985). Infatti, Germania e Gran Bretagna si dichiararono disponibili a partecipare al progetto, ma la Francia si dissociò apertamente. Con riferimento, invece, ai rapporti tra Nord industrializzato e Sud sottosviluppato, gli Americani assunsero un atteggiamento più prudente, fino a introdurre un cambiamento nella loro politica monetaria, in direzione di bassi tassi di interesse, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ’80. Questo mutamento nella politica economica venne determinato non solo dalla preoccupazione che, con una rivalutazione del dollaro favorita dagli alti tassi di interesse, si mettessero in moto tendenze protezionistiche da parte dell’industria americana, ma anche dal fatto che gli alti tassi di interesse stavano mettendo in difficoltà i paesi in via di sviluppo più indebitati, ed in particolare i paesi dell’America latina (Williamsburg 1983 e Londra 1984). Politica economica, politica commerciale, politica estera e di sicurezza, ovviamente, non esauriscono l’elenco dei problemi di cui, con il passare degli anni, è stato investito il G7. Col tempo, altri se ne sono aggiunti e riguardano la politica energetica, il terrorismo internazionale, l’inquinamento, la disoccupazione, ecc. Su questi specifici argomenti si tengono riunioni dei Consigli dei Ministri di volta in volta interessati, quasi a conferma del fatto che il G7 è una sorta di Consiglio mondiale dei Capi di Stato e di governo dei paesi più industrializzati, da cui promanano riunioni dei Consigli dei Ministri sul modello di quelle dell’Unione europea.
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A commento conclusivo del contenuto del libro si possono fare alcune osservazioni sul ruolo dell’Europa nelle riunioni del Vertice ed alcune considerazioni sulle prospettive che si possono ipotizzare circa il futuro di questo organismo, tenuto conto che il testo prevede un G7 che resta tale nella composizione e che dovrebbe continuare a configurarsi come una istituzione informale.
Il primo incontro cui ha partecipato la Commissione europea è stato quello tenutosi a Londra nel 1977, ma non ancora a pieno titolo, in quanto la presenza della Comunità europea si formalizzò solo con il Vertice del 1981, senza che a ciò abbia poi mai corrisposto il riconoscimento effettivo di un suo ruolo autonomo[4]. Inoltre, diversamente da quanto sostenuto dagli autori del libro, alla data della nascita del G7 la «stabilità egemonica» assicurata dagli Americani si era sì indebolita, ma non poteva ancora dirsi una condizione superata. Tant’è che, a partire dagli anni ’70, il ruolo del dollaro come moneta di riserva, ancorché inconvertibile, paradossalmente si è rafforzato in quanto sostenuto appunto dall’egemonia degli Stati Uniti sulla parte occidentale del mondo. Ed il persistere di questo ruolo americano, agevolato dalla caduta del Muro di Berlino e dal crollo dell’Unione Sovietica, ha contribuito ad oscurare per circa due decenni il fatto che l’inconvertibilità del dollaro in oro poneva, per la prima volta nella storia delle relazioni monetarie, un problema nuovo: quello di un sistema monetario internazionale fondato su una valuta fiduciaria. La portata di questa innovazione, per il futuro del sistema monetario internazionale, si apprezzerà solo a partire dall’utilizzo dell’euro, che verosimilmente sarà un’ulteriore moneta di riserva fiduciaria, fatto che richiederà necessariamente la definizione di accordi che stabilizzino i rapporti di cambio tra euro e dollaro sul modello dello SME. Il G7 è dunque di fronte ad una svolta, in quanto con la nascita dell’euro non viene messa in discussione solo la presenza dei singoli paesi europei, ma anche il futuro di questo organismo, il quale o diventa veramente un’istanza per la gestione dell’economia mondiale, oppure è fatalmente destinato ad un inesorabile declino. Il problema è quello di vedere, dal punto di vista dei federalisti, quale potrebbe essere uno sviluppo del G7 che consenta di farlo evolvere verso una forma istituzionale più efficace, tendenzialmente più stabile e, soprattutto, più democratica.
Gli sviluppi prevedibili, e tra loro complementari, sembrano essere tre. Innanzitutto, come ha recentemente fatto notare il ministro francese dell’economia e delle finanze, Dominique Strauss-Kahn, è necessario che all’interno del G7 venga rappresentata l’Unione europea in quanto tale e non i suoi singoli membri[5]. Ovviamente una presenza europea che abbia senso, e cioè abbia una influenza effettiva sul funzionamento del G7, presuppone l’esistenza di un’Europa capace di decidere e di agire e pertanto l’attribuzione di poteri di governo all’attuale Commissione europea. Il G7 dovrebbe quindi diventare G4 (una volta che la Gran Bretagna fosse entrata a far parte della moneta unica). Poiché il G7 è nato per discutere delle relazioni monetarie tra Stati Uniti, Europa e Giappone, il tema dei rapporti tra euro, dollaro e yen è sicuramente destinato a dominare le future riunioni del Vertice, e su questo punto si dovrà esprimere l’Unione europea in quanto tale, soprattutto quando si parlerà di tassi di cambio. Ma anche quando si parlerà di tassi di interesse, una competenza che il Trattato di Maastricht riserva al Sistema europeo di Banche centrali, tenuto conto dell’integrazione del mercato dei capitali, per assecondare la crescente integrazione del mercato mondiale si dovrà promuovere una accentuata armonia degli indirizzi di politica monetaria da parte delle due sponde dell’Atlantico. L’altro punto su cui l’Europa dovrà esprimersi con una sola voce sarà la politica di bilancio, normalmente utilizzata come leva per il rilancio della domanda e che ha un effetto di traino anche dell’economia mondiale. Occorre infatti notare che le principali aree presenti nel G7, vale a dire gli Stati Uniti e l’Unione europea, sono impegnate in una severa politica di bilancio: l’Unione europea per rispettare i parametri di Maastricht anche dopo il varo dell’euro e gli Stati Uniti per rispettare una legge approvata dal Congresso[6]. Se questa situazione persiste, avrebbe come esito un irrigidimento nell’utilizzo delle politiche di bilancio come volano dell’economia mondiale e il conseguente rischio di una stagnazione della domanda a livello mondiale, soprattutto se altri paesi decidessero di seguire la stessa strada. Il compito di promuovere lo sviluppo delle economie più arretrate sarebbe così affidato all’esclusivo gioco delle forze del mercato, come è avvenuto nel corso dell’ultimo decennio, ma con le conseguenze negative che, come dimostra la crisi delle economie del Sud-Est asiatico, sono sotto gli occhi di tutti e con crescenti squilibri nella distribuzione dei redditi, anche all’interno degli stessi paesi industrializzati. Questi sono pericoli che ogni anno vengono denunciati dall’ONU con il suo Rapporto sullo sviluppo umano e che richiedono un maggior governo dell’economia mondiale e non un minor intervento dei poteri pubblici. In ogni caso, se oggi il G7 volesse ricorrere a manovre di bilancio per sostenere l’economia mondiale, così come si è fatto in passato, non è ormai più pensabile che la sola Germania se ne assuma l’onere: la decisione dovrà essere presa dall’Unione europea.
Il secondo sviluppo prevedibile è l’allargamento di questo organismo. Già l’estensione alla Russia ha rappresentato il superamento del limite di un Vertice in cui erano presenti solo le potenze occidentali e che ne faceva un’altra istituzione contrapposta al blocco sovietico. Nel prossimo futuro occorrerà allargarlo ulteriormente ad altre realtà economico-industriali, anche in rappresentanza delle istanze dei paesi meno sviluppati. In questo senso si sono già espressi il presidente francese Chirac e Zbigniew Brzezinski[7], che recentemente hanno proposto di estenderlo alla Cina popolare.
L’ultimo sviluppo ipotizzabile è legato ai precedenti, cioè alle implicazioni che comporta la presenza dell’Unione europea in quanto tale ed eventualmente di altre aree del mondo. Infatti, quello che è certo è che il G7, fino ad oggi, è sopravvissuto perché, nel bene o nel male, all’interno di questo organismo gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo egemone e ciò gli ha consentito di assumere orientamenti comuni — ancorché fondati su obiettivi minimi — sulla maggior parte dei problemi di cui si è occupato. La presenza dell’Unione europea che, con l’euro, avrebbe un peso pari a quello degli USA, dovrebbe rafforzarne il ruolo, ma potrebbe anche portare a forti tensioni all’interno di questa istituzione, che potrebbero condurla alla paralisi. Lo sviluppo che consoliderebbe questo organismo potrebbe essere individuato nella proposta avanzata qualche tempo fa da Jacques Delors. L’ex-Presidente della Commissione europea, in risposta alla dimensione planetaria assunta dai problemi dell’economia, della popolazione, della finanza, dell’ambiente, ecc., ha infatti avanzato l’idea di affiancare all’attuale Consiglio di sicurezza dell’ONU un Consiglio di sicurezza economica[8]. Questo nuovo Consiglio in realtà esiste già ed è appunto il G7, che potrebbe pertanto essere trasformato nell’organismo proposto da Delors e inserito nel quadro delle istituzioni dell’ONU. Questa soluzione, rispetto ai problemi che il G7 deve affrontare, non è evidentemente soddisfacente, in quanto non supera i limiti di funzionamento di questa istituzione legati al fatto che essa si fonda sulla cooperazione intergovernativa e non mette quindi in discussione la sovranità esclusiva dei paesi partecipanti. Tuttavia, questa svolta sarebbe comunque un passo avanti in quanto rafforzerebbe il G7, dandogli una veste istituzionale definita. Valga per tutti l’esempio degli aspetti positivi di quella che in Europa è stata la «comunitarizzazione» dei Vertici europei dei Capi di Stato e di governo, trasformatisi nell’attuale Consiglio europeo, un organo dal quale sono state assunte iniziative che hanno progressivamente consolidato la Comunità europea e che hanno fornito ai federalisti un quadro d’azione sempre più avanzato.
In conclusione, questi sviluppi avrebbero il vantaggio di rendere ben visibile all’opinione pubblica mondiale, molto più di quanto non lo sia attualmente, che la globalizzazione ha provocato la nascita di una sorta di governo mondiale dell’economia il cui limite, che potrà però essere superato dall’iniziativa federalista, è quello dell’assenza di qualunque legittimità democratica.
Domenico Moro
[1]R. D. Putnam, N. Bayne, Sovrani ma interdipendenti (I Vertici dei sette principali paesi industrializzati), Bologna, Il Mulino, 1987.
[2]C. P. Kindleberger, The World in Depression. 1929-1939, Londra, Allen Lane The Penguin Press, 1973, p. 308 (trad. it. La grande depressione nel mondo. 1929-1939, Milano, Etas Libri, 1982).
[4] Reagan, ad esempio, ha sempre fortemente contestato la presenza della Commissione europea, in quanto non era un vero governo.
[5] D. Vernet, «Europe-États-Unis, nouvelle donne?», in Le Monde, 5-6 luglio 1998.
[6] F. Spoltore, «Federalismo, deficit e nuovo ordine mondiale», in Il Federalista, XXXIX (1997), pp. 75 e segg.
[7] Z. Brzezinski, La grande scacchiera, Milano, 1998, p. 273.
[8]J. Delors, L’unité d’un homme, Parigi, Editions Odile Jacobs, 1994. Nel libro, Delors, a proposito del Consiglio di sicurezza economica, sostiene quanto segue: «Questo Consiglio di sicurezza economica comprenderà cinque membri permanenti (Stati Uniti, Russia, Unione europea, Cina, Giappone) e un rappresentante di ciascuna grande area geografica (America centrale e del Sud, Africa, Asia, Medio-Oriente... ). Il Consiglio si riunirà una volta all’anno a livello dei Capi di Stati e di governo e a livello dei ministri responsabili nell’intervallo. Esso cercherà, a poco a poco, di delineare una visione globale dei grandi parametri dell’evoluzione del mondo (economia, moneta, finanze, problemi sociali, ambiente, popolazione, ecc.). A partire da ciò, gradualmente si formerà una coscienza reale dei rapporti fra questi problemi. Questa istituzione avrà inoltre il merito di abbracciare il mondo intero e dunque non apparirà come un chiuso club di ricchi. Certo potrebbero sorgere problemi di suscettibilità, ma la cosa importante è la creazione di un forum che diventi l’embrione, non tanto di un governo mondiale, ma di una istituzione capace di avere una visione più acuta ed esauriente dei problemi mondiali. Alle sue riunioni dovranno partecipare anche i rappresentanti delle grandi organizzazioni internazionali, quali il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, la nuova Organizzazione mondiale per il commercio, l’Ufficio internazionale del lavoro, l’UNESCO, ecc.» (p. 185).
Anno XL, 1998, Numero 3, Pagina 241
IL WELFARE E IL FUTURO DELL’EUROPA
Da alcuni anni l’economia degli Stati Uniti e quella della Gran Bretagna si stanno dimostrando più dinamiche di quelle del continente europeo. Esse fanno registrare tassi di crescita maggiori e tassi di disoccupazione minori, anche se la maggior disoccupazione dei paesi del continente europeo è compensata, in una misura non facile da quantificare, dalle più ampie disparità tra i redditi di lavoro nei paesi anglosassoni, dalla maggior diffusione, in questi ultimi, di lavori precari, insicuri e sottopagati e in generale da una maggiore presenza di situazioni talvolta impressionanti di violenza e di degrado sociale.
La maggior parte dei commentatori tende a dimenticare questo secondo aspetto della crescita economica dei paesi anglosassoni e ne considera soltanto gli aspetti positivi. L’opinione dominante va nel senso che lo sviluppo delle economie del continente europeo sia frenato dall’esistenza di un numero eccessivo di vincoli, legati ad uno sviluppo ipertrofico dello Stato sociale. Oggi è quindi usuale mettere in discussione il cosiddetto modello renano, cioè il sistema di sicurezza sociale che è in vigore, in diverse varianti, nei paesi europei (con la parziale eccezione della Gran Bretagna), e che destina ai pagamenti per pensioni di anzianità e di invalidità, all’assistenza sanitaria e ai sussidi di disoccupazione una parte del prodotto interno lordo assai superiore a quella destinata agli stessi scopi negli Stati Uniti (e in Gran Bretagna) ed assicura ai lavoratori una serie di diritti e di garanzie dei quali gli stessi possono godere in misura sensibilmente inferiore nei paesi anglosassoni. Questa filosofia caricherebbe le economie dei paesi che la adottano di pesi che le renderebbero inadatte a sostenere la concorrenza internazionale dando agli Stati Uniti (e alla Gran Bretagna) un vantaggio competitivo che rischia di diventare incolmabile.
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Sarebbe ingiustificato mettere in dubbio il fatto che in Europa, e in particolare in quelli tra gli Stati europei nei quali le strutture della vita democratica sono meno radicate e la coscienza civile è meno diffusa e più fragile, lo Stato sociale è spesso degenerato nell’assistenzialismo e quest’ultimo è stato un fertile terreno di coltura per il clientelismo e la corruzione, e quindi per lo spreco dissennato di risorse. Questi aspetti hanno indubbiamente costituito un grave freno allo sviluppo dei paesi in cui essi si sono manifestati: e la strada che in questi deve percorrere la lotta contro la disoccupazione passa necessariamente attraverso la razionalizzazione dei loro sistemi di sicurezza sociale e la riforma della pubblica amministrazione.
Allo stesso modo sembra impossibile sottrarsi all’evidenza del fatto che il tendenziale invecchiamento (e il forte miglioramento dello stato di salute medio) della popolazione impone alcuni aggiustamenti dell’età minima pensionabile (e/o dell’ammontare delle pensioni percepibili da chi decide di ritirarsi dal lavoro prima del raggiungimento dell’età minima). Così come sembra equo stabilire un tetto ragionevole alle pensioni dei percettori di redditi medio-alti sulla base del presupposto che costoro dispongono della possibilità di integrare la propria pensione con assicurazioni private. E’ certo che lo Stato sociale non deve servire a stornare risorse a favore dei ricchi sottraendole ai poveri. Al di là di ciò, non è questa la sede nella quale è possibile discutere problemi che hanno un preponderante risvolto tecnico, quali sono quelli della natura dei miglioramenti e degli aggiustamenti marginali che si dovrebbero apportare agli attuali sistemi europei di sicurezza sociale.
Quella che si deve invece discutere è la filosofia stessa dello Stato sociale, cioè il fatto che i cittadini di uno Stato moderno e civile debbano o meno destinare una parte considerevole del loro reddito e sottostare a vincoli di varia natura per consentire il perseguimento di fini di pubblica solidarietà.
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I problemi che si pongono a questo riguardo sono di due ordini diversi. Il primo è filosofico in senso stretto, e riguarda l’equilibrio che la politica deve proporsi di stabilire in un dato sistema tra quantità di libertà di impresa e quantità di solidarietà. Non è evidentemente in discussione il fatto che l’esigenza della solidarietà si pone, nel mondo industrializzato di oggi, in un contesto nel quale i fondamentali diritti di libertà dei cittadini sono largamente garantiti. E tra questi vi è anche la libertà di impresa, senza la quale la libertà politica viene inevitabilmente sacrificata, come ha dimostrato l’esperienza del cosiddetto socialismo reale. Il problema si pone quindi nel quadro dello Stato liberal-democratico, del quale i paesi del continente europeo e quelli anglosassoni costituiscono due varianti. Ora, in questo quadro sarebbe difficile sostenere che, in astratto, l’ideale di società tendenzialmente fondato sul darwinismo sociale che ispira il modello anglosassone sia preferibile a quello fondato sulla solidarietà che ispira il modello renano. Del resto la solidarietà è l’opposto della guerra di tutti contro tutti di cui lo Stato costituisce il superamento. E, se è vero che la prima funzione dello Stato è quella eminentemente liberale di consentire la soluzione pacifica dei conflitti tra i cittadini definendo chiaramente i confini tra le rispettive sfere di libertà e imponendone il rispetto, è anche vero che il naturale completamento di questa funzione consiste nel prevenire l’insorgenza stessa dei conflitti consentendo a tutti i cittadini di partecipare alla gestione del potere e garantendo loro, attraverso un’equa redistribuzione delle risorse, condizioni di vita sicure e decorose.
Sotto questo profilo appare oltraggioso, di fronte agli importanti fenomeni di miseria e di emarginazione che ancora esistono anche nei più ricchi tra i paesi europei (e lasciando da parte il problema, infinitamente più drammatico, della giustizia internazionale) sostenere che oggi in questi sistemi politici la quantità di risorse impiegate per rendere più vivibile la vita degli strati meno fortunati della popolazione è in assoluto eccessiva. E’ anzi chiaro che nei paesi che si ispirano al modello renano le risorse destinate a questo scopo sono ancora largamente insufficienti, e che la coscienza civile deve fare ancora molta strada perché un grado accettabile di giustizia sociale si possa realizzare.
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A questo punto si deve però scendere al concreto e rispondere all’obiezione — e qui si entra nel secondo ordine di problemi — secondo la quale di fatto il modello renano di sicurezza sociale costituisce un freno all’aumento della ricchezza complessiva dei paesi che lo applicano (e il fenomeno della disoccupazione nei paesi dell’Europa continentale lo dimostrerebbe) e quindi di fatto provoca disuguaglianze sociali più profonde di quelle alle quali dà luogo un sistema nel quale le forze produttive si possono espandere senza i vincoli che l’esigenza di tutelare adeguatamente le categorie più deboli e disagiate produce. Di fatto la filosofia del darwinismo sociale sarebbe il mezzo attraverso il quale la mano invisibile crea la condizioni per l’arricchimento di tutti, e quindi per la realizzazione del massimo grado raggiungibile di giustizia sociale.
La prima osservazione che va fatta a questo proposito è che la ricchezza dei paesi dell’Europa continentale, pur avendo avuto negli ultimi anni un ritmo di crescita meno sostenuto di quello dei paesi anglosassoni, non ha mai cessato di aumentare, e in altri tempi ha tenuto un ritmo di crescita superiore a quello degli Stati Uniti. Bisogna quindi fare molta attenzione a non confondere un’analisi seria della realtà con gli argomenti della propaganda politica e delle rivendicazioni corporative. I paesi del continente europeo hanno economie che, con tutte le loro insufficienze, sono solide ed equilibrate, e consentono agli Europei di godere di una qualità di vita che tende a migliorare di anno in anno. Sarebbe assai poco saggio lasciarsi andare a questo proposito a estrapolazioni superficiali come quelle che hanno portato nel recente passato tanti commentatori a vedere prima nel Giappone e poi nelle cosiddette «tigri» del Sud-Est asiatico i modelli ai quali tutti i paesi industrializzati si sarebbero dovuti ispirare.
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Ciò che rimane vero è che il fenomeno della disoccupazione in Europa è grave, e che le politiche macroeconomiche che i governi hanno portato avanti nel recente passato non hanno fatto nulla per risolverlo o per alleviarlo. Ma sembra fondato sostenere che esso non ha avuto nulla a che fare con il modello renano di sicurezza sociale. La sua causa va piuttosto individuata nella politica restrittiva dei governi europei che è stata la conseguenza della tutela esercitata su di essi dai mercati finanziari. Questa si è manifestata in molteplici forme: nell’incertezza causata dalla volatilità dei tassi di cambio tra le monete europee, che ha reso azzardata ogni previsione, perturbato i flussi commerciali e scoraggiato gli investimenti; nel livello elevato dei tassi di interesse provocato, da un lato, dalla necessità di difendere ogni singola moneta nazionale contro i pericoli della speculazione, incoraggiata dalla loro fragilità, e, dall’altro, dalla necessità della Germania, lasciata sola dai partners europei nella gigantesca opera di ricostruzione dell’economia dei nuovi Länder, di attrarre i capitali necessari dagli altri mercati mediante elevate retribuzioni; nella necessità nella quale si sono trovati i governi europei, nello sforzo di realizzare la convergenza necessaria per adeguarsi ai parametri di Maastricht, di destinare la quasi totalità delle risorse rese disponibili dall’aumento della produttività alla diminuzione dei loro deficit di bilancio, compensando così gli effetti degli alti tassi di interesse; nell’aumento del costo del lavoro determinato dall’incapacità dei governi europei di armonizzare i loro sistemi fiscali in una situazione di completa libertà di movimento dei capitali, che ha consentito a questi ultimi di sottrarsi alla tassazione lasciando il lavoro come principale risorsa tassabile.
E’ chiaro che tutti questi fattori sono da imputare ad un’unica causa: la divisione monetaria e politica dell’Europa. Questa causa è stata in parte rimossa con il varo della moneta unica europea. I paesi dell’UEM costituiranno un’unica grande area economica e monetaria, nella quale l’incidenza del commercio estero sul prodotto interno lordo sarà debole e nella quale quindi l’andamento generale dell’economia sarà largamente indipendente dai tassi di cambio dell’euro, così come l’andamento dell’economia americana è largamente indipendente dai tassi di cambio del dollaro. Scomparirà il pericolo della speculazione sulle monete nazionali, che non esisteranno più. La Banca centrale europea avrà un largo margine di libertà nella determinazione dei tassi di interesse. In Europa stanno quindi nascendo le premesse di un recupero da parte della politica del suo primato sui mercati finanziari e quindi della capacità dei governi, liberati da buona parte dei vincoli che ne hanno condizionato l’azione nel dopo-Maastricht, di dare al welfare le forme e la struttura che riterranno più opportune.
Ma perché questo accada l’esistenza di una grande area monetaria unificata è necessaria ma non sufficiente. L’Unione monetaria in quanto tale è fragile e non può certo dissipare il clima di sospetto e di competizione tra gli Stati membri che ha sempre accompagnato il cammino della Comunità prima e dell’Unione poi. Non esistono quindi ancora le condizioni per la realizzazione di una coraggiosa politica di investimenti, sia a livello europeo che a livello nazionale. Ne è una testimonianza il Patto di stabilità che i governi europei hanno siglato ad Amsterdam, e il cui scopo è quello di perpetuare le stesse politiche restrittive che hanno preparato la nascita della moneta europea. Nello stesso modo l’Unione monetaria non è sufficiente a garantire la realizzazione di un serio progetto di armonizzazione fiscale e quindi di tassazione dei capitali e di detassazione del lavoro. Perché la politica possa riprendere effettivamente il primato sui mercati finanziari, è necessario che nasca un potere europeo sostenuto dal consenso democratico dei cittadini, che si faccia carico dell’interesse dell’Unione nel suo insieme e che, grazie ad adeguate competenze fiscali e di bilancio, abbia la capacità di fare una vera politica economica europea e di ristabilire gli equilibri finanziari tra gli Stati membri ogniqualvolta essi siano turbati da divergenze nelle rispettive congiunture.
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E’ soltanto in questo modo che l’Europa si potrà sottrarre ai vincoli che nell’ultimo decennio ne hanno rallentato lo sviluppo e conseguentemente hanno provocato la messa in questione dello Stato sociale. Si noti peraltro che tutto ciò non deve significare che un futuro governo federale europeo dovrà occuparsi direttamente della politica del welfare, se non in qualche suo aspetto marginale. Esso dovrà soltanto assicurare le condizioni politiche e finanziarie generali perché gli Stati membri la possano condurre in un clima di fiducia nell’interesse dei cittadini, e in particolare dei ceti più svantaggiati, senza per questo perdere di vista l’esigenza primaria di una gestione equilibrata dei propri bilanci. C’è di più. Il welfare sarà un importante banco di prova per il nuovo federalismo del quale l’Europa è destinata a costituire il primo esempio: un federalismo che si articolerà in molteplici livelli di governo, fino alla regione e alla comunità locale, e non soltanto nei due livelli tradizionali dell’Unione e degli Stati, e che consentirà di inquadrare in una prospettiva evolutiva, perfezionandone il disegno istituzionale, sia il federalismo che già esiste in Germania, in Belgio e in qualche modo in Spagna, sia le pulsioni federaliste che si manifestano in paesi come l’Italia e la Gran Bretagna: modelli e tendenze che, con la temporanea eccezione del collaudato federalismo tedesco, sono destinati, al di fuori di un solido contesto politico europeo, a degenerare nel secessionismo e, per quanto riguarda l’Italia, in forme primitive di tribalismo. La solidarietà è tanto più efficace e tanto meno prona a degenerare nell’assistenzialismo clientelare quanto più essa viene esercitata, nel rispetto di un’equa distribuzione territoriale delle risorse, a livelli di governo il più possibile vicini ai bisogni dei cittadini, e quindi il più capaci possibile di fare un inventario corretto dei bisogni concreti e di eliminare gli sprechi e gli abusi, dando ad ogni cittadino-contribuente la possibilità di partecipare direttamente al processo decisionale con il quale viene determinato l’impiego delle risorse che ciascuno mette a disposizione della comunità e di controllare la corretta applicazione delle decisioni prese. Ma, una volta di più, ciò richiede, per non dar luogo al caos istituzionale e a fenomeni di disintegrazione della compagine stessa dello Stato, l’esistenza di un potere centrale politicamente forte in quanto fondato sul consenso democratico dei cittadini.
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Perché in realtà è dal grado di consenso che dipende l’ammontare delle risorse che si possono destinare a fini di solidarietà, cioè l’intensità dei sacrifici che si possono chiedere ai cittadini per alleviare i disagi dei più svantaggiati tra di essi. Se in Europa le condizioni del consenso saranno create, si deve ritenere che nel futuro del continente il livello della solidarietà sociale tenderà ad aumentare, e non certo a diminuire, anche se non mancherà di qualificarsi in funzione delle mutate esigenze di una società in rapida evoluzione.
La qualità della vita è una funzione di molti fattori, ed essenzialmente del livello dei redditi privati e della qualità del lavoro, della quantità di tempo libero e del grado di tutela dell’ambiente, della qualità e fruibilità dei beni e dei servizi pubblici e del welfare. In ogni caso essa può progredire esclusivamente nella misura in cui aumentano le risorse rese disponibili dall’aumento della produttività del lavoro. Del resto la rivoluzione industriale, nelle sue varie fasi, anche se in modi diversi e seguendo percorsi non sempre rettilinei, ha trasformato la vita degli uomini rendendo possibili insieme l’aumento dei redditi reali, il miglioramento delle condizioni di lavoro e dell’ambiente, la riduzione dell’orario di lavoro e lo sviluppo dello Stato sociale. Oggi la rivoluzione informatica sta aprendo nuovi, ampi orizzonti all’aumento della produttività. L’Europa dispone delle risorse umane, delle strutture scolastiche, delle tradizioni culturali e delle infrastrutture materiali necessarie per assumere un ruolo di primissimo piano in questo processo. Essa lo potrà giocare se saprà unirsi. Spetterà alla politica e alle forze sociali stabilire la proporzione nella quale le maggiori risorse prodotte dal progresso tecnologico saranno ripartite tra i diversi impieghi possibili, e in particolare in quale misura esse saranno destinate all’arricchimento dei più intraprendenti e dei più fortunati e in quale al perseguimento di fini pubblici e di solidarietà sociale. In un quadro politico come quello della Federazione europea, liberato dalla tutela dei mercati finanziari alla quale i suoi Stati-membri sono attualmente condannati dalla loro divisione, esse lo potranno decidere in piena autonomia. Ed è difficile pensare che la classe politica europea rinunzierà ai valori e alle tradizioni cui si è finora ispirata per perseguire la realizzazione di un modello di società nel quale i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
Francesco Rossolillo
Anno XLI, 1999, Numero 1, Pagina 26
LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA E INTERNET
La rivoluzione scientifica e tecnologica sta producendo delle straordinarie trasformazioni nel modo di produrre e nella vita di ogni individuo. Tra le innumerevoli vie attraverso le quali questo fenomeno si sta manifestando in tutti i campi dell’attività umana, un aspetto in particolare, quello del successo di Internet (la rete delle reti), è diventato il simbolo della società globale. Le problematiche e le potenzialità connesse a questo sviluppo delle tecnologie dell’informazione sono entrate nel dibattito corrente attraverso due immagini simboliche, quella delle autostrade elettroniche (o informatiche) e quella della creazione di un servizio universale. Queste immagini hanno avuto il merito di mettere in evidenza la vera natura della sfida di fronte alla quale è posta l’umanità nella nuova fase della rivoluzione tecnologica aperta da Internet: la possibilità di realizzare finalmente il disegno, solo abbozzato dagli enciclopedisti nell’epoca dell’Illuminismo, di offrire ad ogni individuo l’opportunità e la possibilità di conoscere in qualsiasi momento e in qualunque luogo che cosa l’umanità sa e che cosa è in grado di fare. Le origini di Internet (fine anni Cinquanta) sono state accompagnate da un’elaborazione teorica che si poneva l’obiettivo di creare una galactic network, grazie alla quale sarebbe stato possibile condividere in tempo reale qualsiasi tipo di informazione su scala planetaria.
Non è questa la sede per approfondire le considerazioni sulle analogie fra le aspirazioni dell’epoca dei lumi e quelle dell’era della comunicazione globale. E’ però opportuno sottolineare che queste aspirazioni sono nate e cresciute, si sono propagate e concretizzate, in epoche contraddistinte dall’emergere del ruolo dello Stato — in particolare di quello francese su scala nazionale tra il XVIII ed il XIX secolo e di quello americano su scala continentale soprattutto dalla seconda metà del XX secolo — nelle politiche di promozione della scienza e della tecnica. Questo ruolo è ben testimoniato nei rapporti sullo stato della scienza e della tecnica commissionati da Napoleone all’inizio dell’Ottocento e dai discorsi sullo stato dell’Unione dei Presidenti USA dalla fine della seconda guerra mondiale, dai quali emerge non solo l’orgoglio nazionale di giocare un ruolo guida nello sviluppo del progresso, ma anche la consapevolezza di poter accrescere il benessere degli uomini.
Oggi c’è un accordo generale sul fatto che l’innovazione può essere il frutto, oltre che dell’azione spontanea e casuale degli individui, anche delle politiche degli Stati. Ma nel caso di Internet si tende a sottovalutare questa interazione fra potere ed innovazione e a mettere l’accento soprattutto sulla sua natura spontanea piuttosto che sugli aspetti del suo governo. Resta comunque il dato, sul quale soprattutto gli Europei (ma non solo, anche i Russi per esempio) dovrebbero riflettere, che la storia del successo di Internet è inscindibile dal ruolo giocato dal governo USA, e segna un grave insuccesso di quegli Stati che, a causa della loro dimensione puramente nazionale — i paesi dell’Unione europea — o del ritardo tecnologico accumulato —l’ex-URSS ed i suoi satelliti —, pur avendo investito enormi risorse nello sviluppo della società dell’informazione e/o nelle tecnologie della comunicazione, si sono dovuti arrendere alla rete delle reti.
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Prima di approfondire questo aspetto è però opportuno chiarire: 1) in che senso Internet è parte della rivoluzione scientifica e 2) chi governa Internet.
Per quanto riguarda il primo punto, in base alla definizione data da Radovan Richta alla fine degli anni Sessanta, la rete di rivoluzioni di fronte alla quale si trovava l’umanità era «un processo universale e costante di trasformazione delle forze produttive della vita umana, della loro struttura e della loro dinamica, nel quale la scienza diventa il fondamento dell’intera produzione, schiude la via alla complessa tecnicizzazione della base produttiva ed elimina l’impiego della forza-lavoro umana dalla produzione diretta, disimpegnando così le forze dell’uomo per le fasi che precedono la produzione; essa crea le condizioni nelle quali è soprattutto lo sviluppo generale dell’uomo, delle sue capacità e delle sue forze che diventa elemento decisivo del processo della civiltà».[1] Ciò che emerge dall’analisi condotta da Richta si può brevemente così riassumere. L’avanzare della rivoluzione scientifica e tecnologica avrebbe consentito: a) di estendere ed approfondire l’interdipendenza fra gli uomini; b) di liberare le attitudini creative dell’uomo; c) di far convergere i processi produttivi e quelli relativi al trasferimento dell’informazione con quelli educativi; d) di creare le premesse materiali per avviare una non ancora ben definita rivoluzione in campo politico e sociale.
La rivoluzione delle tecnologie dell’informazione, e di Internet in particolare, rappresenta il fronte più avanzato e dinamico della rete di rivoluzioni descritta da Richta. Un fronte che si è sviluppato seguendo una logica qualitativamente diversa rispetto a quella della rivoluzione industriale.[2] Le innovazioni della rivoluzione industriale avevano avuto un’importanza decisiva nel promuovere lo sviluppo di nuovi mezzi di comunicazione sul territorio (strade ferrate, linee telegrafiche) e nell’etere (radiodiffusione), di meccanizzazione e automazione della produzione, cioè nel promuovere la nascita e la crescita di reti distinte e specializzate. La rivoluzione delle tecnologie dell’informazione ha reso invece possibile qualche cosa di assolutamente nuovo: la interoperabilità delle reti, cioè la tendenza ad eliminare la specializzazione delle funzioni delle diverse infrastrutture delle comunicazioni. Internet è l’espressione più matura di questa tendenza, grazie alla quale si sono sviluppate energie tali da incominciare a modificare radicalmente, almeno in alcune parti del mondo, il modo in cui gli individui riproducono gli strumenti materiali del proprio benessere e della conservazione e trasmissione della conoscenza, e a mettere a disposizione di un numero crescente di individui risorse ed informazioni che solo fino a meno di dieci anni fa erano di esclusivo dominio di ristrette cerchie di scienziati, ricercatori e apparati statali.
Per quanto riguarda il secondo punto, bisogna osservare che, nonostante questo successo, Internet rappresenta tuttora solo l’embrione di una vera rete delle reti globale. Infatti una rete globale, per essere davvero al servizio di tutta l’umanità, dovrebbe dipendere dalla politica di un governo democratico mondiale. Invece per il momento, e per un tempo che è difficile prevedere, il suo sviluppo ed il suo governo dipenderanno dall’evoluzione degli equilibri di potere fra gli Stati, e in particolare fra USA, Europa ed Asia.
Quanto sta avvenendo in Asia meriterebbe un’analisi più ampia di quella possibile in questa nota. In quel continente il fenomeno Internet ha già innescato delle politiche di competizione tecnologica con il resto del mondo, soprattutto da parte dell’India, per guadagnare delle posizioni di leadership e quindi di controllo dei servizi che potranno essere immessi in Internet. Un discorso a parte meriterebbe anche la Cina, che da sola incomincia a costituire un problema nella gestione del registro regionale degli indirizzi Internet.
Il fatto è che il cuore dello sviluppo di Internet non si trova in questo momento né in Europa né in Asia. Per comprendere quali percorsi stia seguendo l’interazione fra potere e innovazione in questo campo, è quindi opportuno cercare di ricordare brevemente come è nata Internet.
Dopo il successo spaziale sovietico del lancio dello Sputnik, il governo americano incominciò a finanziare dei progetti di ricerca nel tentativo di recuperare il gap tecnologico con l’URSS, che allora appariva drammatico. Venne così istituita una fondazione autonoma nell’ambito del Dipartimento della difesa incaricata di studiare tutti gli aspetti dello sviluppo delle comunicazioni. Questo lavoro produsse negli anni Sessanta i primi nodi della rete continentale nordamericana, che collegò i principali centri di ricerca militare e dei laboratori universitari specializzati situati sulle coste occidentale ed orientale degli USA. Negli anni Settanta, il governo federale americano, al pari degli altri governi dei paesi industrializzati, incominciò a finanziare le ricerche per lo sviluppo di tecnologie avanzate nelle comunicazioni digitali, puntando sul potenziamento di ARPANET, la rete dell’agenzia del Dipartimento della difesa per progetti di ricerca avanzati. Fu in quegli anni che nacque ed incominciò a svilupparsi, nel tentativo di realizzare quella galactic network sognata dai pionieri di Internet, una primordiale network of network, governata dalle relative procedure (i protocolli Internet) per rendere possibile la connessione fra più reti.
Questa innovazione veniva incontro a due bisogni che si stavano affermando nella società americana. I successi delle politiche di promozione e controllo delle comunicazioni su scala continentale varate negli anni Trenta dal Congresso (Communications Act, 1934) da un lato avevano posto, a partire dagli anni Sessanta, il problema di automatizzare le operazioni di controllo e gestione del traffico telefonico — da qui l’esigenza di creare reti intelligenti in grado di ridurre al minimo gli interventi manuali, pena l’impossibilità di trovare un numero adeguato di operatori per far funzionare la rete — e, dall’altro, avevano stimolato la nascita di reti autonome di utenti — come Usenet e Bitnet — che cercavano di coniugare la capacità di elaborazione e di archiviazione del computer con la capillarità della rete telefonica, in modo da ampliare e potenziare le possibilità di condividere e scambiare informazioni. Di questa situazione si avvantaggiarono anche le agenzie federali, non solo nel campo della difesa, ma anche dell’energia, della salute, dell’ambiente, che poterono estendere e migliorare la loro azione di coordinamento continentale. Innovazione e bisogni della società incominciarono così ad interagire negli USA e a diffondersi in altri paesi — ma solo a partire dagli anni Ottanta, come in Olanda, una delle prime teste di ponte di Internet in Europa — al seguito delle attività delle multinazionali.
Non può dunque meravigliare che il funzionamento della rete delle reti fosse, e resti, de facto, nelle mani degli USA. Esso infatti è tuttora possibile solo grazie al sistema di assegnazione centralizzato degli indirizzi dei siti (i familiari — almeno per chi utilizza Internet — Domain Name System o DNS), che costituisce la vera core technology di Internet. Secondo i pionieri di Internet il segreto della rete risiedeva proprio in questi numeri: chi custodisce questo segreto controlla Internet. Il sistema di assegnazione svolge infatti la funzione di un elenco telefonico mondiale che combina i nomi Internet (per esempio www.euraction.org) con i codici numerici assegnati dai protocolli Internet (per esempio 194.202.158.47) per il riconoscimento univoco degli indirizzi sulla rete mondiale. Questo controllo è stato finora svolto da agenzie, come per esempio la IANA (Internet Assigned Number Authority) e, dal 1992, da società come la Network Solutions, sotto il diretto controllo del governo federale statunitense. Ma come spiegare la rapida diffusione su scala mondiale di Internet?
Con la fine della guerra fredda vennero meno molte delle ragioni che avevano spinto il Congresso e l’Amministrazione USA ad esercitare una politica restrittiva nel trasferimento delle tecnologie dell’informazione. Così, grazie ad una legge del 1992, il Congresso USA, autorizzò le agenzie federali a mettere a disposizione del commercio internazionale le proprie infrastrutture di rete, aprendo la strada allo sfruttamento commerciale e privato di Internet. Questa decisione contribuì ad attrarre nuove applicazioni, inventate al di fuori degli USA, sulla rete. La prima conseguenza fu un ulteriore avanzamento nell’uso di nuovi protocolli di comunicazione fra computer, ivi compreso quello inventato al CERN in Europa (ormai noto come http), che non aveva alcuna possibilità di affermarsi sulle reti informatiche nazionali europee.
Questo nuovo sviluppo aprì le porte al trasferimento, a basso costo e con semplici operazioni, di immagini, suoni, informazioni fra decine e decine di milioni di possessori di personal computer, ponendo fine al sogno europeo di competere con gli USA sul terreno delle tecnologie dell’informazione.
Gli Europei avevano spiegato per primi al mondo come convivere con il calcolatore,[3] ma senza preoccuparsi di sviluppare un’industria degna di questo nome nel settore dei personal computer. Gli Europei avevano finanziato ambiziosi programmi nazionali per l’informatizzazione delle rispettive società, ma più nell’ottica di rafforzare i rispettivi monopoli e le burocrazie nazionali che non in quella di estendere le possibilità di informazione dei cittadini su scala europea. Queste scelte si rivelarono sbagliate. Il simbolo della sconfitta europea è ben riassunto dal discorso con il quale il Primo Ministro francese Jospin, dopo la sua investitura, dichiarava sostanzialmente finito l’esperimento Minitel. Un esperimento che nell’arco di venti anni aveva collegato in rete gran parte degli utenti telefonici francesi!
Le cifre del successo di Internet sono ormai note a tutti: in meno di cinque anni il volume di traffico su Internet ha eguagliato quello raggiunto dalla rete telefonica in cent’anni.
Nel giro di pochi anni Internet è diventata un importante fattore di aumento delle comunicazioni e del commercio interno ed internazionale per gli Stati, trasformandosi in un’importante leva per governare il mondo: ancora oggi è possibile, con soli tredici computer, direttamente o indirettamente controllati dal governo USA, gestire l’archivio del sistema mondiale di indirizzamento dei domini principali, cioè dei registri regionali e nazionali degli indirizzi geografici (America, Europa, Asia, .us, .uk, .de, ecc.) e di quelli per attività (.gov, .org, .com, ecc.) che vengono attribuiti agli utenti che desiderano essere presenti nella rete.
Lo stesso governo americano riconosce che questo sistema di governo di Internet è ormai inadeguato per almeno due motivi: non è sufficientemente stabile, in quanto è giunto il momento di estendere — ma di quanto? — le possibilità di richiesta di nuovi indirizzi; non è sufficientemente sicuro per il trasferimento di informazioni riservate in campo commerciale, amministrativo e militare. D’altra parte i governi e gli utenti, in primo luogo quelli europei e le società commerciali, premono per una maggiore liberalizzazione del sistema di attribuzione degli indirizzi per accrescere il proprio peso. Il governo americano a parole si è dichiarato favorevole ad una privatizzazione della gestione dei registri mondiali degli indirizzi, ma ha ribadito la necessità di mantenere un sistema centralizzato di controllo con sede negli USA.[4]
La crescita dell’uso commerciale e amministrativo di Internet pone inoltre il problema di una legislazione valida universalmente per impedire che uno Stato tragga dei vantaggi commerciali e nel campo della sicurezza militare rispetto a tutti gli altri paesi. Ma né gli Europei, né gli Asiatici sono in questo momento ancora in grado di affiancarsi efficacemente agli USA nel governo di Internet e non esistono ancora le condizioni per creare un’autorità federale mondiale di controllo. La riforma del sistema di governo di Internet resta quindi affidata ai rapporti di forza fra i vari Stati negli organismi internazionali di coordinamento delle comunicazioni.
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In questo quadro diventa chiara la ragione per cui gli USA non vogliono rinunciare alla posizione di forza che tuttora detengono, così come le ragioni per cui USA ed Europa stanno rispondendo in modo diverso alle sfide della rivoluzione delle tecnologie dell’informazione.
Il governo americano, ben determinato nel difendere la propria leadership mondiale, ha deciso da un lato di accelerare i tempi della riforma degli organismi di controllo della rete delle reti e, dall’altro, di lanciare la sfida per realizzare la Next Generation Internet.
A partire dal 1996 sono state avanzate delle proposte per ristrutturare il controllo di Internet, che prevedevano la creazione di una nuova corporation, «con sede negli USA in modo da promuovere la stabilità e da favorire il mantenimento della fiducia nell’esperienza tecnica maturata negli USA in questo settore», effettivamente avvenuta nell’ottobre 1998. Compito di questa corporation è ora quello di produrre, sotto l’egida del governo federale, una riforma generale entro il settembre dell’anno 2000.
Nel frattempo il progetto Next Generation Internet dovrebbe accrescere ulteriormente il ruolo degli USA in questo settore, trasferendo la core technology della «vecchia» Internet su una rete USA capace di trasmettere entro il 2002 le informazioni ad una velocità da 100 a 1000 volte superiore all’attuale.
Questo impegno americano sul fronte di Internet si inquadra nel pluridecennale impegno del governo federale nel promuovere le politiche a sostegno dell’innovazione: è da almeno quarant’anni che negli USA il 45% delle risorse per la ricerca e lo sviluppo viene fornito dal livello federale. Questo impegno ha avuto essenzialmente uno scopo: coordinare gli sforzi su scala continentale per favorire l’osmosi fra innovazione per scopi civili ed innovazione per scopi militari. Durante la guerra fredda l’accento era posto sul primato dell’innovazione militare, oggi sul primato di quella civile, ma l’orientamento di fondo è inalterato: spetta al governo federale garantire il dual use di qualsiasi innovazione per conservare ed accrescere la leadership mondiale americana.
Niente di tutto ciò è avvenuto né può ancora avvenire in Europa. Il Piano Delors (1992) e il Rapporto Bangemann (1995-96) sono un pallido riflesso di quanto succede sull’altra sponda dell’Atlantico. Il Piano Delors, che pure aveva posto il problema degli investimenti infrastrutturali europei nel campo delle tecnologie dell’informazione, è superato sia per quanto riguarda il metodo — l’approfondimento della cooperazione fra gli Stati membri —, che per quanto riguarda i contenuti — siamo infatti già di fronte ad una nuova svolta nello sviluppo di Internet. Il Rapporto Bangemann, sebbene più recente e più specifico del Piano Delors, mette l’accento più sulla sussidiarietà come metodo di lavoro che sul ruolo centrale delle istituzioni europee, e non offre alcuno spunto per rilanciare la politica europea nel campo del sostegno all’innovazione.
Così, mentre negli USA il rapporto dialettico fra innovazione e nuovi bisogni continua a trovare nel potere federale un decisivo fattore di coordinamento delle forze produttive e di aggregazione del consenso della società sulla politica federale, in Europa l’innovazione, che pure continua a manifestarsi in vari campi, non può tradursi in potere mondiale né in applicazioni capaci di modificare i comportamenti sociali senza l’intermediazione americana. Gli Europei sembrano cioè aver imboccato una strada simile a quella percorsa secoli addietro dalla civiltà cinese, capace sì di produrre prima degli altri popoli innovazioni quali la polvere da sparo, ma inadeguata per sfruttarne tutte le implicazioni.
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In conclusione l’avvio della riforma del sistema di governo di Internet pone ancora una volta gli Europei di fronte alla scelta fra sottomettersi alle scelte americane e dotarsi degli strumenti per contribuire efficacemente e responsabilmente al controllo di uno strumento cruciale per l’ordine mondiale. E questa scelta coincide sempre di più con quella fra mantenere gli Stati nazionali sovrani e creare lo Stato federale europeo.
Franco Spoltore
[1]Radovan Richta, «La rivoluzione tecnologico-scientifica e le alternative della civiltà moderna», in Progresso tecnico e società industriale, Milano, Jaca Book, 1977, p. 72.
[2]Si veda in proposito Arati Prabhakar in Trade and Technology, Seminar Series at the University of Maryland, March 7, 1995 e in The National Information Infrastructure: A Revolution for the Millennium, Mayo Clinic, Rochester, MN, October 4, 1995.
[3]«Per migliorare la posizione della Francia in un rapporto di forza con dei concorrenti che sfuggono alla loro sovranità, i poteri pubblici devono valersi senza scrupoli delle loro prerogative ‘regali’: ordinare» («Rapporto sull’informatica al Presidente della Repubblica francese», in S. Nora e A. Minc, Convivere con il calcolatore, Milano, Bompiani, 1978, p. 26).
[4]Statement of policy concerning the management of the Internet Domain Name System - United States Department of Commerce, Management of Internet Names and Addresses (White Paper, lune 1998).
Anno XLI, 1999, Numero 1, Pagina 34
RIFLESSIONI SUL TOTALITARISMO
Che cosa sia il totalitarismo, quali siano le sue radici, come mai abbia contrassegnato con la sua brutalità proprio il XX secolo, se sia un’esperienza finita o se possa ripetersi, sono tutte domande drammatiche, che continuano ad occupare un posto cruciale nella riflessione politica dei nostri giorni.
Il crollo del blocco sovietico e la fine del confronto Est-Ovest hanno portato a ritenere definitivamente sconfitta, e quindi completamente conclusa, l’esperienza dei regimi comunisti e del loro totalitarismo. Anche se rimangono ancora forze politiche e, soprattutto, paesi che si rifanno ancora all’ideologia comunista, si tratta, nel primo caso, di forze che hanno accettato il regime democratico in cui sono inserite come partiti, oppure, nel secondo caso, di paesi generalmente autocratici che però hanno iniziato un processo di integrazione nel mercato mondiale e stanno cercando gradualmente di adeguarsi ai modelli dell’economia occidentale. In ogni caso, sia gli uni che gli altri, hanno ripudiato come degenerazioni le parentesi totalitarie. Ma se il confronto con il totalitarismo di stampo comunista è più facile, quello con il fenomeno del nazismo è ancora molto controverso. Nei dibattiti che continuano a ripresentarsi su questo tema, soprattutto in Europa, si oscilla tra il desiderio di dimenticare questa esperienza, considerandola una parentesi di follia, in quanto tale irripetibile, e la paura che la storia possa invece ripresentare la stessa tragica dinamica. Questa paura è alimentata anche dal fatto che in quasi tutto il mondo, anche se con dimensioni diverse, sono attive formazioni politiche che si richiamano al pensiero e all’esperienza fascista e nazista, anche nei suoi aspetti più bestiali come il razzismo. Anche se si tratta di formazioni minoritarie, esse hanno comunque dimostrato di essere in grado di raccogliere un certo consenso tra gli strati della popolazione più colpiti dalle situazioni di crisi, e soprattutto di essere un grave pericolo potenziale per la democrazia.
Continuare, quindi, a cercare le risposte alle domande che ricordavamo inizialmente è importante non solo per capire il nostro passato, ma anche per valutare i potenziali rischi del futuro.
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Due studiosi che, tra gli altri, si sono posti questi problemi e hanno tentato di analizzarli con particolare profondità, e con cui quindi è estremamente utile confrontarsi, sono Hannah Arendt, soprattutto ne Le origini del totalitarismo, e Norbert Elias nei saggi raccolti in The Germans.[1] Entrambi ebrei tedeschi sfuggiti con l’esilio al nazismo, si sono confrontati a lungo con questa tragedia, che è stata anche personale, per cercare di capirne le radici. Come ricorda Elias nell’introduzione al libro, «molte delle considerazioni che seguono hanno origine dal tentativo di rendere comprensibile, a me stesso e a chiunque abbia voglia di ascoltare, come sia avvenuta l’ascesa del nazionalsocialismo, e quindi anche la guerra, i campi di concentramento e la divisione della Germania in due Stati».[2] E la Arendt scrive nella prefazione alla prima edizione del suo libro: «Questo libro… è stato scritto nella convinzione che sia possibile scoprire il segreto meccanismo in virtù del quale tutti gli elementi tradizionali del nostro mondo spirituale e politico si sono dissolti in un conglomerato, in cui ogni cosa sembra aver perso il suo valore specifico ed è diventata irriconoscibile per la comprensione umana, inutilizzabile per fini umani… Comprendere non significa negare l’atroce, dedurre il fatto inaudito da precedenti, o spiegare i fenomeni con analogie e affermazioni generali con cui non si avverte più l’urto della realtà e dell’esperienza. Significa piuttosto esaminare e portare coscientemente il fardello che il nostro secolo ci ha posto sulle spalle, non negarne l’esistenza, non sottomettersi supinamente al suo peso. Comprendere significa insomma affrontare spregiudicatamente, attentamente la realtà, qualunque essa sia».[3]
Entrambi, quindi, partono dal tentativo di comprendere la tragedia nazista, ma l’ottica in base alla quale sviluppano la loro riflessione è differente: la Arendt cerca di analizzare il totalitarismo in quanto tale, prendendo in considerazione anche l’esperienza staliniana e arrivando ad elaborare una sorta di tipo-ideale di questa «forma interamente nuova di governo che, in quanto a potenzialità e costante pericolo, ci resterà probabilmente alle costole per l’avvenire, al pari di altre forme che, apparse in momenti storici diversi e basate su diverse esperienze di fondo, hanno accompagnato dopo d’allora l’umanità a prescindere dalle temporanee sconfitte: monarchie e repubbliche, tirannidi, dittature e dispotismo».[4] La sua opera pone quindi con estrema efficacia il problema della radicale novità del totalitarismo e dell’impossibilità di assimilarlo ad altre forme storiche di dominio già sperimentate. Elias invece si concentra sul caso tedesco e cerca di spiegare le ragioni per cui in Germania è potuto maturare il consenso al nazismo partendo dal processo di formazione dello Stato tedesco ed esaminandone sia le peculiarità interne (il ritardo nello sviluppo dello Stato moderno, i rapporti sociali, ecc.), sia i condizionamenti esterni dovuti alla posizione geografica e al rapporto con gli altri Stati.
I due autori sono quindi, per certi versi, complementari. Vorrei innanzitutto cercare di richiamare i tratti principali della loro analisi, incominciando con Le origini del totalitarismo, per poi isolarne gli aspetti più utili e anche gli eventuali limiti.
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La prima distinzione che fa la Arendt per capire il totalitarismo è quella tra la semplice dittatura e il dominio totalitario. Ciò significa, tra l’altro, separare nettamente l’esperienza e l’ideologia nazista da quella fascista (il giudizio della Arendt sul fascismo in Italia, ad esempio, è che si trattava di «una comune dittatura nazionalistica, nata dalle difficoltà di una democrazia multipartitica»). La differenza fondamentale sta nel fatto che, benché i sistemi dittatoriali monopartitici si propongano sia di impadronirsi dell’amministrazione pubblica che di ottenere una completa fusione tra Stato e partito coprendo tutte le cariche con i propri aderenti, e benché non tollerino altri partiti, o forme di opposizione, o libertà di opinione, essi lasciano tuttavia intatto il rapporto originario di potere tra Stato e partito. Il governo e l’esercito possiedono la stessa autorità di prima e il partito basa il suo potere su un monopolio garantito dallo Stato, senza più possedere un proprio centro di potere autonomo rispetto alle istituzioni.
La rivoluzione dei movimenti totalitari, una volta conquistato il potere, è invece ben più radicale. Tutto il potere viene mantenuto dalle istituzioni del movimento, al di fuori dell’apparato statale o militare; ciò viene ottenuto impadronendosi dell’amministrazione pubblica, ma senza fondersi con essa: l’ascesa nella gerarchia statale è limitata ai membri di secondaria importanza e tutti gli uffici statali vengono duplicati creando istituzioni omologhe che sono diretta emanazione del movimento e che svuotano quelli statali delle loro effettive prerogative. Il centro d’azione del paese resta quindi il movimento, al cui interno vengono prese tutte le decisioni. Lo Stato funge solo da facciata, rappresentando il paese nel mondo esterno; la polizia segreta, e non più l’esercito, diventa il centro del potere del paese, al di sopra dello Stato e dietro le facciate del potere apparente.
Il motore di tutto è il capo, dalla cui volontà e dai cui ordini dipende tutta la vita del movimento. Egli vive separato dai membri, anche da quelli delle gerarchie più elevate, circondato solo da una cerchia di iniziati che egli stesso si preoccupa di mantenere in una situazione di sospetto reciproco. La sua ascesa al potere è infatti dovuta in buona parte alla sua capacità di destreggiarsi nelle lotte intestine; ma una volta conquistato il predominio il suo potere è al sicuro perché si crea una totale dipendenza di tutta l’organizzazione dalla sua persona e una totale identificazione di ogni membro con la sua figura. Tutto infatti è fittizio nel regime totalitario; non contano i fatti, ma l’infallibilità del capo, che plasma la realtà. Egli detiene il monopolio assoluto del potere e la regola inderogabile è quella della fedeltà totale, indipendente da ogni contenuto concreto. Non esistono gerarchie nel sistema, eventuali secondi destinati alla successione; tutto ciò funziona dove c’è l’autorità, non dove si instaura il dominio totale, che non vuole limitarsi a ridurre la libertà, ma vuole bensì abolirla, distruggerla. Questo spiega il fanatismo dei militanti, che si sacrificano in nome di un ideale collettivo supremo, che non ha risvolti utilitaristici nel breve periodo, ma che assicura la grandezza della vittoria totale finale.
La grande innovazione dei regimi totalitari è quindi l’organizzazione, cioè l’arte di accumulare il potere. Gli slogans e i contenuti ideologici non sono generalmente nuovi; ma nuova è la capacità di basare su di essi, parafrasando un’espressione di Hitler,[5] «un’organizzazione d’urto» e di trasformarli in un sistema che faccia coincidere la realtà con l’ideologia. L’essenza di questo sistema è il terrore, che cresce man mano che il potere del movimento si consolida, in modo inversamente proporzionale rispetto all’esistenza di un’opposizione. Esso viene usato su una popolazione completamente soggiogata, indirizzato non tanto verso i nemici reali, che sono già stati eliminati, quanto contro i «nemici oggettivi», cioè coloro che appartengono alle razze e ai gruppi «oggettivamente» da eliminare. La categoria della colpevolezza perde così ogni senso e l’obiettivo non è la realizzazione di una qualche forma, per quanto distorta, di giustizia (del resto scompare l’oggettività di tutte le leggi[6]) ma il dominio totale permanente su ogni singolo individuo in ogni aspetto della sua vita.
I campi di concentramento sono i laboratori per la verifica di questa pretesa di dominio assoluto sull’uomo. Essi infatti servono innanzitutto per sperimentare la riduzione dell’uomo ad oggetto, privandolo della possibilità di ogni diritto, uccidendo la sua personalità morale (cosa che si ottiene togliendo ogni senso anche alla morte, cioè creando le condizioni per impedire il martirio), annullando la sua coscienza (le uniche alternative che ogni individuo ha di fronte sono quelle tra assassinio e assassinio, e vittime e carnefici sono ridotti allo stesso livello di abiezione) e infine uccidendo la sua individualità, cioè distruggendo la sua spontaneità, la sua capacità di reagire (il che spiega come mai siano stati praticamente nulli i tentativi di resistenza). I campi di sterminio sono essenziali per i regimi totalitari, perché «senza di essi, senza l’indefinita paura che ispirano e il ben definito addestramento al dominio totale, che in nessun altro luogo può essere collaudato nelle sue possibilità più radicali, uno Stato totalitario non può infondere il fanatismo nelle sue truppe scelte, né mantenere un intero popolo nella più completa apatia».[7]
I campi di sterminio, dice la Arendt, sono «la comparsa del male radicale, precedentemente sconosciuto, che pone fine alle evoluzioni e al trasformarsi di qualità. Qui non ci sono criteri politici, storici o semplicemente morali, ma tutt’al più la constatazione che nella politica moderna è in gioco qualcosa che non dovrebbe mai rientrare nella politica, come noi usiamo intenderla, che essa è al bivio tra tutto e niente: tutto, un’indeterminata infinità di forme di convivenza umana, o niente, la distruzione dell’uomo in seguito alla vittoria del sistema dei campi di concentramento, una distruzione altrettanto inesorabile di quella che l’impiego della bomba all’idrogeno riserverebbe alla razza umana».[8]
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Ciò che colpisce in questa analisi della Arendt che ho cercato di richiamare è la sua capacità di sviscerare con grande efficacia il baratro aperto dal nazismo, che effettivamente è nuovo nella storia e si distingue dalle altre esperienze assolutistiche o dittatoriali, costringendo a confrontarsi con la comparsa del «male radicale». Il male radicale è la capacità da parte dell’uomo di annientare tutto ciò che lo distingue in quanto tale, cioè ogni traccia della ragione. Se sia corretto arrivare a definirlo in questi termini assoluti, resta a mio parere problematico. Anche Eric Weil, nella Logique de la philosophie, scrive che Hitler può essere capito dalla ragione, ma che se ne pone al di fuori, che è altro da essa (e che quindi, nella sostanza, è pura violenza). Da un punto di vista logico, e quindi della comprensione, queste affermazioni creano delle contraddizioni (la ragione in realtà non può comprendere ciò che è altro da sé, perché non ha le categorie per farlo; quindi, come ammette la stessa Arendt, non si può comprendere il male radicale;[9] al tempo stesso, se ciò fosse vero non se ne potrebbe neanche parlare); resta tuttavia il fatto che esse hanno un riscontro empirico e che quindi, dal punto di vista morale, non possono essere eluse tanto facilmente. I dubbi che insinuano dimostrano infatti che la comprensione del nazismo presenta ancora lati oscuri.
Rimane poi ancora la domanda cruciale di come abbia potuto affacciarsi alla storia un’alternativa così drammatica. Qui, la Arendt non riesce a fornire risposte convincenti. Il fatto che un fenomeno del genere non sia comparso prima le sembra per certi aspetti casuale, addirittura dovuto semplicemente al fatto che mai prima un dittatore era stato così pazzo da dar vita ad un simile regime. Sulla cause, identifica come elementi determinanti l’imperialismo e il ruolo delle ideologie.
Sull’imperialismo il suo punto di partenza è corretto, e risale alla crisi degli Stati nazionali europei, iniziata nell’ultimo trentennio del XIX secolo e dovuta al fatto che in questa fase essi dimostrano di non essere più adeguati rispetto al processo di espansione economica. Tuttavia, invece di proseguire in questa direzione e cogliere le crescenti tensioni e le conseguenti degenerazioni dell’equilibrio tra gli Stati come una conseguenza di questa profonda contraddizione, la Arendt si sposta sul piano della dinamica interna agli Stati e attribuisce alla borghesia, che deteneva il primato economico, ma che fino a quel momento non aveva mai voluto il dominio politico, la responsabilità di aver imposto la soluzione imperialista al fine di tutelare i propri interessi. Poiché, sempre secondo la Arendt, l’imperialismo contiene i germi della degenerazione dello Stato nazionale (dato che comporta la sete di accumulazione continua del potere, che è il corrispettivo della sete di espansione capitalistica della borghesia, e si fonda sull’uso della forza), la conseguenza inevitabile non poteva essere che uno scontro mortale tra le nazioni e la fine della «spontanea solidarietà e della tacita intesa»[10] che caratterizzava il concerto delle nazioni europee, cui si sostituisce invece la contrapposizione tra «giganteschi complessi economici, che orgogliosamente si fregiavano del titolo di ‘impero’ ed erano armati fino ai denti».[11]
Un altro elemento che la Arendt sottolinea è che, fino alla fase dell’imperialismo, lo Stato nazionale era stato al di sopra delle classi e, quindi, fondato sul principio dell’autorità della legge. Nel corso della fase dell’imperialismo, invece, lo Stato nazionale cade nelle mani della borghesia e tende a degenerare, anche perché non può integrare le nuove popolazioni, dato che non ha gli strumenti per farlo, e quindi cerca di assimilarle o, dove non ci riesce, di opprimerle, venendo così meno ai principi fondamentali dello Stato di diritto. Lo stesso nazionalismo degenera in nazionalismo tribale, trasformandosi da sentimento di lealtà nei confronti del proprio Stato (che, secondo la Arendt, serve semplicemente a giustificare l’accentramento, un’esigenza che si manifesta immediatamente con la nascita dello Stato nazionale a causa dell’atomizzazione della società) in giustificazione della prevaricazione e della barbarie. Su questo terreno si prepara la degenerazione della politica e il successo dei movimenti antidemocratici, che iniziano a manifestarsi proprio in questa fase (sono i movimenti imperialisti e soprattutto quelli pan-germanisti, nei paesi di lingua tedesca, e quelli pan-slavisti in Russia, che presentano ideologie che saranno fonte di ispirazione per i movimenti totalitari del patriottismo).[12]
In queste frasi sono chiari i limiti di questa parte di analisi della Arendt che non riesce a cogliere il nesso tra avvento del nazismo e crisi del sistema europeo degli Stati. Nella sua preoccupazione di distinguere le forme dittatoriali comuni dal totalitarismo in quanto tale, e quindi più tesa a vedere i punti in comune tra nazismo e stalinismo che non a riconoscere le diverse radici dei due fenomeni, la Arendt ignora innanzitutto che il nazismo si inserisce in un contesto europeo di profonda crisi generale della democrazia e di affermazione di regimi dittatoriali in quasi tutti i paesi. Ciò significa che, alla base, vi è una contraddizione obiettiva di fronte alla quale gli Stati europei sembravano non aver altra via d’uscita se non quella indicata dal fascismo, e che quindi anche il nazismo ha questa stessa radice.[13] La contraddizione è la stessa indicata dalla Arendt, ma poi da lei non approfondita, tra il ritmo di sviluppo del processo produttivo e la struttura dello Stato nazionale. I mercati nazionali, infatti, non erano più sufficienti a soddisfare le esigenze della produzione (come dimostrava l’esempio degli Stati Uniti che, grazie al mercato continentale, erano ormai più forti economicamente degli Stati europei), ma la natura dell’equilibrio europeo degli Stati impediva all’economia europea di acquisire la necessaria dimensione continentale. Infatti, il «concerto delle nazioni europee», per riprendere la citazione della Arendt, non è mai stato caratterizzato dalla «spontanea solidarietà e dalla tacita intesa» tra i suoi membri; al contrario è sempre stato un sistema carico di tensioni che ha alternato fasi di equilibrio, e quindi di relativa quiete, a fasi di forte tensione, nel momento in cui si profilava qualche tentativo egemonico. Il colonialismo, e l’imperialismo come suo corrispettivo politico, furono quindi un tentativo di aggirare il problema con la ricerca di nuovi sbocchi economici che permettessero allo Stato nazionale di sopravvivere senza scalfire la contraddizione profonda causata dai radicali mutamenti in corso a livello delle forze produttive.
In questa situazione di impasse, il nuovo pericolo egemonico proveniente dalla Germania acquisiva una drammaticità senza precedenti: questa volta era in gioco l’esistenza stessa degli Stati del continente e per fronteggiare la minaccia era necessaria una mobilitazione di tutte le risorse dei vari paesi. Il continuo crescendo di tensioni dovuto a questa situazione, che esasperava le caratteristiche strutturali deteriori degli Stati nazionali, non poteva non portare allo scontro. La prima guerra mondiale ne fu il primo risultato, e a sua volta accelerò drammaticamente il processo. Essa fu la conseguenza inevitabile del disperato tentativo della Germania di liberarsi dalle pastoie dell’equilibrio europeo e di diventare il polo di un nuovo equilibrio mondiale. Poiché lasciò immutata la contraddizione di fondo del sistema europeo degli Stati, preparò, con il contributo dell’inevitabile crisi economica e sociale che ne seguì, il terreno di coltura del fascismo. L’incapacità delle istituzioni strutturalmente autoritarie degli Stati accentrati europei di assorbire le tensioni sociali ridusse al minimo il consenso alle istituzioni democratiche e aprì la strada a quei regimi che garantivano, anche se con la violenza, un minimo di ordine sociale. E soprattutto, il fascismo, stante il permanere della crisi del sistema europeo degli Stati, era l’unica via per tentare di assicurare la sopravvivenza dello Stato nazionale, perché era l’unico regime che permetteva di mobilitare in modo totale tutte le risorse dello Stato e di prepararlo perciò alla guerra. L’autarchia, l’imperialismo, la xenofobia e, naturalmente, il dispotismo, non furono degenerazioni del nazionalismo, imputabili a politiche soggettive, ma semplicemente esasperazioni di suoi tratti caratteristici, apparsi sin dalla rivoluzione francese — anche se inizialmente offuscati dagli elementi di progresso e di emancipazione dalle pastoie e dalle ingiustizie dell’ancien régime — ed ora portati alla luce dalle contraddizioni oggettive che la struttura stessa dello Stato nazionale aveva generato.
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Il nazismo, pertanto, condivide le stesse radici del fascismo che, nato in Italia, divenne un modello per tutta l’Europa. La Arendt, al contrario, insiste molto sul fatto che il nazismo (come del resto lo stalinismo) non avesse nulla a che fare con il nazionalismo, proprio perché aveva una vocazione di dominio globale. In questo modo non coglie a fondo la contraddizione tragica insita nel principio nazionale, che rimanendo ancorato al concetto della sovranità esclusiva può concepire l’allargamento solo in termini di dominio imperiale. E’ vero che lei stessa sottolinea l’incongruenza dello Stato nazionale che afferma valori universali validi solo al proprio interno, ed è ancora lei a scrivere che l’evoluzione dello Stato nazionale verso il totalitarismo è un pericolo inerente alla struttura dello Stato nazionale sin dall’inizio.[14] Tuttavia, su questo punto resta contraddittoria, tanto che arriva ad affermare che «la piena sovranità nazionale era possibile solo finché sussisteva il concerto delle nazioni europee; era infatti questo spirito di spontanea solidarietà e tacita intesa che vietava ad ogni governo il pieno esercizio del suo potere sovrano»,[15] che è come dire che la sovranità è una libera scelta degli Stati e che funziona solo se non la si esercita nella sua pienezza.
In realtà, per cogliere la contraddizione insita nel principio della sovranità assoluta bisogna avere in mente che essa sia superabile: se la si ritiene immutabile, la comprensione diventa impossibile. La Arendt invece, nonostante per un breve periodo dopo la guerra abbia creduto nell’idea dell’unificazione europea, e nonostante nella prefazione della prima edizione scriva che occorre trovare «una nuova garanzia, un nuovo principio politico, una nuova legge sulla Terra, destinata a valere per l’intera umanità, pur essendo il suo potere strettamente limitato e controllato da entità territoriali nuovamente definite»,[16] abbandona presto queste idee come utopistiche e torna a pensare che la politica autentica sia «l’intreccio di diversi popoli operanti nella pienezza della loro potenza».[17] Così non coglie che proprio la necessità «della pienezza della potenza», in un mondo sempre più interdipendente, è alla radice della follia totalitaria. La degenerazione totalitaria dell’ideologia comunista che si proponeva di favorire il processo di emancipazione umana, trova le sue radici (oltre che nelle tradizioni del dispotismo di stampo asiatico che erano fortissime in Russia e in Asia in generale), nella pressione esercitata dalla necessità di recuperare in una generazione lo sviluppo industriale che nel resto d’Europa era stato portato avanti in più di un secolo; e questa pressione era dovuta proprio alla necessità di raggiungere al più presto, in un’Europa che marciava a grandi passi verso una nuova guerra, «la pienezza della propria potenza» (spiegazione che vale anche per la Cina, che doveva emergere come potenza regionale e, in prospettiva, mondiale, e per la Cambogia, dove l’elemento nazionalista è stato determinante nel perseguimento del folle progetto di Pol-Pot). Certo non si trattava di sviluppi inevitabili; tuttavia erano sviluppi impliciti nella necessità di una politica di potenza coerente, imposta dagli equilibri di potere tra gli Stati.
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Oltre all’imperialismo e alla degenerazione del nazionalismo, l’altro elemento che la Arendt ritiene essere alle origini del totalitarismo è quello delle ideologie. I movimenti totalitari, e poi i regimi che riescono ad instaurare, si basano su una radicale falsificazione della realtà. Meglio ancora: essi disprezzano i fatti e addirittura prescindono dalla realtà, che ritengono di poter forgiare ex-novo in base a quelle leggi della natura o della storia di cui si sentono depositari, arrivando fino alla pretesa di trasformare la natura umana. Secondo la Arendt, addirittura, «l’aggressività del totalitarismo non deriva da sete di potenza; e se esso cerca febbrilmente di espandersi non è né per smania di espansione, né per profitto, ma solo per ragioni ideologiche: per dimostrare su scala mondiale che la propria idea aveva ragione, per edificare un mondo fittizio coerente non più disturbato dalla fattualità».[18]
Dato, come già si diceva, che la Arendt non vede la connessione tra spinta all’espansione imperialista e crisi del sistema europeo degli Stati, questo la porta a ritenere che, sotto questo profilo, le ideologie abbiano una fortissima responsabilità. «Un’ideologia è letteralmente quello che il suo nome sta ad indicare: è la logica di un’idea. La sua materia è la storia, cui la ‘idea’ è applicata… Le ideologie non si interessano mai del miracolo dell’essere. Sono storiche, si occupano del divenire e del perire, dell’ascesa e del declino delle civiltà, anche se cercano di spiegare la storia con qualche ‘legge di natura’… La storia non appare alla luce di un’idea (quindi sub specie di eternità ideale al di là del movimento storico) ma come qualcosa che può essere calcolato per mezzo di essa… Si suppone che il movimento della storia e il processo logico del concetto corrispondano l’uno all’altro, di modo che quanto avviene, avviene secondo la logica dell’idea».[19] E ancora: «Le ideologie sono opinioni innocue, acritiche e arbitrarie solo finché nessuno vi crede sul serio. Una volta presa alla lettera la loro pretesa di validità totale, esse diventano il nucleo di sistemi logici in cui, come nei sistemi dei paranoici, ogni cosa deriva comprensibilmente e necessariamente, perché una prima premessa viene accettata in modo assiomatico. La follia di tali sistemi non consiste tanto nella prima premessa, quanto nella logicità con cui sono costruiti. La curiosa logicità di tutti gli ismi, la loro fede ingenua nell’efficacia redentrice della devozione caparbia, senza alcun riguardo per i vari fattori specifici, racchiude già in sé i germi del disprezzo totalitario per la realtà e la fattualità».[20]
L’accettazione del totalitarismo sarebbe quindi stata preparata dalle ideologie che si erano sviluppate nel XVIII e nel XIX secolo, e il loro apparato «logico» avrebbe fornito strumenti importanti nella definizione della dottrina totalitaria. Ora, senza togliere nulla al fatto che i movimenti e i regimi totalitari si basano su una fortissima automistificazione, su un fortissimo disprezzo per la realtà (che contiene anche i germi dell’autodistruzione, perché impedisce di valutare correttamente le condizioni reali di successo) e su una dottrina costruita in modo rigido e assiomatico (cosa che serviva per motivare fortemente le masse e mobilitarle nello sforzo collettivo), tuttavia è innegabile che le ideologie siano state qualcosa di più rispetto al semplice tentativo di piegare la realtà alla propria logica da parte di gruppi e movimenti. Innanzitutto bisogna distinguerle in base ai valori cui si ispirano, cioè se si tratta di valori universali o di valori volti a creare differenze e divisioni tra gli uomini (sotto questo profilo invece la Arendt non fa nessuna distinzione tra l’ideologia razzista e quella comunista, ritenendole entrambe tragicamente dannose); inoltre, come ogni strumento concettuale, possono essere utilizzate in modo più o meno adeguato. Di per sé le ideologie sono teorie che non si propongono di descrivere la realtà, ma semplicemente di fornire le categorie per descriverla. La descrizione deve avvenire poi sul terreno concreto delle analisi storiche e sociologiche.[21] Per valutare il grado di obiettività o di falsificazione delle ideologie occorre perciò analizzare se pretendono di far coincidere la realtà con i propri progetti (che è quanto avviene nell’utilizzo che ne fanno i movimenti e i regimi totalitari) o se forniscono semplicemente dei criteri di conoscenza e azione, come è stato in molti casi per l’ideologia liberale, per quella democratica e anche per quella socialista e comunista. Storicamente, queste tre correnti di pensiero sono stati vettori importanti del processo di emancipazione delle classi escluse dal potere all’interno dello Stato; esse hanno fornito gli strumenti concettuali per comprendere la situazione storica e per individuare gli obiettivi politici da raggiungere. Gli elementi di automistificazione che contenevano erano dovuti soprattutto alla contraddizione tra i valori universali cui si appellavano e la parzialità della loro affermazione che di fatto perseguivano, sempre a vantaggio di una parte rispetto alla totalità dei cittadini. Ma in un’epoca in cui per la prima volta la stragrande maggioranza della popolazione, da sempre ai margini della vita dello Stato, veniva coinvolta nel processo politico, esse sono stati potenti strumenti di mobilitazione delle diverse classi e fattori di grande progresso.
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In conclusione, quindi, la Arendt ha l’indubbio merito di essere riuscita ad elaborare la categoria del totalitarismo enucleandone le peculiarità da due esperienze così diverse come quelle del nazismo e dello stalinismo, cosa che le ha permesso di isolare i tratti comuni e caratteristici e di individuare il totalitarismo come tipo-ideale, distinguendolo dalle altre forme dittatoriali ed evidenziandone il salto qualitativo rispetto alle forme di dominio già conosciute. Questo trova una dimostrazione nel fatto che, con le categorie da lei tratteggiate, è possibile riconoscere i regimi totalitari che si sono affermati successivamente (come la Cina della rivoluzione culturale e la Cambogia di Pol-Pot), distinguendoli dalle numerose dittature che hanno imperversato in tutto il mondo; dittature rese spesso più spietate dalla conoscenza dei precedenti totalitari, ma non per questo assimilabili ad essi.
L’aver invece voluto continuare ad utilizzare il criterio dell’analisi comune anche nella ricerca delle origini (oltrepassando quindi il confine della pura elaborazione della categoria tipico-ideale) ha portato la Arendt non solo a quegli errori di comprensione delle origini del nazismo che si è già cercato di delineare, ma anche a trascurare le profonde differenze che c’erano tra le due esperienze, soprattutto per quanto riguarda i valori cui si sono ispirate e le diverse condizioni da cui sono scaturite e che ne hanno determinato l’evoluzione e l’esito. Sul piano del giudizio storico, infatti, non è possibile valutare nello stesso modo il tentativo di assoggettare l’Europa ad una nuova razza di padroni e quello di realizzare il valore della giustizia economica. Per quanto quest’ultimo obiettivo sia stato perseguito nel modo sbagliato, per quanto si sia presto mescolato alle esigenze nazionalistiche, per quanto utilizzasse presupposti teorici che si sono rivelati sbagliati, per quanto abbia dato vita ad un sistema totalitario, resta il fatto che il significato storico oggettivo della rivoluzione russa è anche quello di aver affermato storicamente, anche se in modo solo parziale, il valore della giustizia economica, e che l’ideologia socialista e comunista sono state, laddove lo Stato ha offerto spazi di lotta democratica, uno strumento di emancipazione delle classi lavoratrici. Anche il fatto che la parentesi del nazismo si sia conclusa con l’autodistruzione in una guerra mondiale, mentre lo stalinismo sia evoluto «detotalizzandosi», è significativo non della diversa natura dei due regimi, quanto del loro diverso significato storico.
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Per quanto riguarda l’analisi del legame tra la crisi del sistema europeo degli Stati e le cause che hanno spinto la Germania ad instaurare un regime totalitario (e non una semplice dittatura) e a far assumere al sogno di restaurazione del Grande Reich caratteri così bestiali e tragici, è invece utilissima l’analisi di Elias, che spiega anche le ragioni per cui il totalitarismo ha fatto la sua comparsa proprio nel nostro secolo, e non prima.
Elias nota infatti come, accanto ad alcuni tratti peculiari solo del nazismo, ce ne siano altri che sono in realtà comuni a tutta la nostra società: «Proprio come le guerre di massa condotte scientificamente, così lo sterminio altamente organizzato e pianificato scientificamente di interi gruppi della popolazione, sia che avvenga in campi di sterminio appositamente costruiti o in ghetti sigillati, sia che sia provocato per fame, con il gas o mediante fucilazione, non sembra essere interamente fuori posto in società di massa altamente tecnicizzate».[22] Il processo iniziato a partire dall’industrializzazione ha provocato, dunque, profondi mutamenti, che presentano grandi potenzialità per il progresso degli uomini, ma anche grandi pericoli: l’aumento vertiginoso delle capacità tecnologiche va anche nel senso di un aumento delle capacità distruttive; il coinvolgimento di tutti gli strati della popolazione nella vita dello Stato, che è condizione essenziale per la democrazia, comporta la necessità di un pensiero comune «forte» per fondare il consenso alle istituzioni, ma i valori verso cui questo pensiero è orientato non sono necessariamente valori di tipo universale, anche perché se la società di massa è la nuova società democratizzata dal punto di vista sociale, essa non lo è necessariamente da quello politico. Il rafforzamento del monopolio statale della violenza, che può essere garanzia di rispetto della legge e di giustizia, può accompagnarsi anche alla possibilità di rafforzare l’apparato burocratico e il controllo dispotico sui cittadini. Il progresso, insieme alle opportunità, ha quindi anche creato le condizioni e gli strumenti potenziali per il dominio totale. Si tratta di una possibilità che può diventare concreta solo quando le istituzioni politiche esistenti non sono in grado di gestire le profonde contraddizioni che si vengono a creare e quando non si riescono a intravedere vie d’uscita razionali; in questi casi però la fuga dalla realtà può prendere le forme di questo progetto folle, e più i livelli di civiltà sono elevati, più assoluta deve essere la negazione dei suoi valori.
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Quali siano state le contraddizioni peculiari del caso tedesco, secondo Elias, si può comprendere sia dalla situazione tedesca del periodo tra le due guerre, sia dalle caratteristiche del processo di formazione dello Stato in Germania. Quest’ultimo è stato pesantemente condizionato dalla fragilità del Sacro Romano Impero, che era soggetto a forti spinte centrifughe a causa della eccessiva vastità del territorio. Di conseguenza, mentre in altri paesi europei si iniziava a sperimentare una crescente centralizzazione, nel Sacro Romano Impero la bilancia del potere tendeva a spostarsi a favore dei principi regionali e contro l’imperatore. Questa scarsa integrazione si dimostrò un elemento di grande debolezza e uno stimolo alle invasioni da parte dei vicini. L’Impero sperimentò un lungo periodo di guerre e invasioni, che impoverirono, non solo materialmente, ma anche culturalmente gli Stati tedeschi e svilupparono una forte propensione e addirittura idealizzazione della cultura e della pratica militare. A questo fatto si deve aggiungere che la Germania rimase sempre legata ad un modello di governo rigidamente autocratico e autoritario, che non prevedeva la capacità di mediare i conflitti, e anzi, tendeva a viverli come insubordinazione rispetto al potere costituito.
Le modalità di unificazione dello Stato tedesco non modificarono queste caratteristiche. Infatti, fallito il tentativo del ‘48, che incarnava le aspirazioni borghesi ad una democratizzazione della vita politica, l’unificazione avvenne su base militare, cosa che ebbe, sotto questo profilo, numerose conseguenze. Innanzitutto il nuovo Stato nacque sulla base di una tradizione dispotica del potere e il nazionalismo tedesco che si sviluppò di conseguenza non aveva nessun collegamento con gli ideali e gli eroi della rivoluzione democratica («l’auto-immagine della nazione, nel senso del ‘noi’, ha assorbito l’associazione con un potere centrale autocratico invece di sbarazzarsene, come è avvenuto in molti altri casi»[23]). In secondo luogo la borghesia, che non aveva avuto nessuna possibilità di accesso al potere fino al momento dell’unificazione, a causa dell’arretratezza degli staterelli tedeschi, iniziò il suo processo di inserimento nella vita politica quando ormai stavano maturando le condizioni anche per la nascita di un forte movimento operaio. La borghesia fu così schiacciata tra questi due fronti e, date le caratteristiche autocratiche del nuovo Stato tedesco, si trovò costretta ad integrarsi con l’aristocrazia (cosa che avvenne solo per gli strati più alti, mentre quelli più bassi continuarono a restare esclusi) e a farne proprio l’habitus e il rapporto con il potere, contro il nascente «quarto stato». La mentalità militaresca della nobiltà tedesca, sia nel senso del culto della forza che in quello della rigida disciplina e dell’obbedienza assoluta, e l’identificazione dello Stato con la classe dirigente, fortemente chiusa e incapace di integrare le nuove forze che si sviluppavano, furono quindi assorbite dall’alta borghesia, l’unica classe integrata nel governo del paese, che le fece proprie in modo ancora più rigido e fanatico rispetto all’aristocrazia. La parte di borghesia che rimase legata agli ideali liberali e democratici fu di fatto completamente isolata e rimase del tutto impotente in un sistema politico privo di ogni flessibilità.
Tutto ciò era in profonda contraddizione con il parallelo processo di industrializzazione, che era iniziato proprio grazie all’unificazione, e che faceva emergere nuove forze economiche che, essendo la base materiale del potere del paese, non potevano essere relegate indefinitamente ai margini della vita politica senza che questo creasse gravi contraddizioni. Ed era anche in contrasto con l’esigenza di coinvolgimento e mobilitazione di tutti gli strati della popolazione, che era comune a tutti gli Stati nazionali europei che avevano dato vita ad eserciti di massa a coscrizione obbligatoria, e che non poteva non portare ad un risveglio politico di ampie fasce di cittadini.
A questo proposito Elias sottolinea come l’ideologia nazionalistica, che era necessaria ai fini della mobilitazione di massa, e che in tutta Europa diventò un fortissimo elemento dell’identità di ogni singolo cittadino (abituandolo all’idea che è necessario subordinarsi come individuo alle necessità del proprio paese, la cui sopravvivenza è il valore supremo perché da essa dipende il senso della vita di ciascuno dei suoi membri), in Germania assunse toni particolarmente esasperati, nel senso della richiesta di una forte disciplina e di un assoluto attaccamento ai principi e agli ideali nazionali, indipendentemente dal loro riscontro con la realtà. Questo dipese proprio da quelle peculiarità nella storia della formazione dello Stato tedesco, in base alle quali si era forgiata la mentalità collettiva, che indicavamo prima. Lo stesso nome scelto per il nuovo Stato lo dimostra: Secondo Reich, ad indicare il sogno di far rivivere un grande impero germanico nel cuore dell’Europa, in «continuità» con il grande Impero germanico medioevale. L’unico momento glorioso del passato viene resuscitato e ripreso a modello, in un contesto europeo così diverso per cui non poteva avere nessuna possibilità reale di successo; eppure, ciononostante, viene perseguito con una determinazione e un vigore esasperati dal fatto che si tratta di un progetto irrealistico e con un grado di automistificazione elevatissimo. Un fatto comune a tutti gli Stati europei, quello dell’automistificazione ideologica nazionalistica, assume quindi in Germania dei tratti particolarmente negativi per la mancanza nella sua pratica politica di ogni esperienza democratica, per lo scollamento degli ideali rispetto alla realtà, per il riferimento esclusivamente nazionale e addirittura razziale dei suoi obiettivi, che non hanno nessun grado di universalità.
Questo retaggio permette di capire anche la fragilità della Repubblica di Weimar e come sia stato preparato il terreno per l’ascesa di Hitler. Non c’erano in Germania né la cultura né la pratica politica per affrontare la vita parlamentare, fatta di mediazione dei conflitti e di flessibilità. C’erano le fortissime tensioni che derivavano dalla incapacità di accettare la sconfitta militare e i cambiamenti politici interni, avvertiti come imposizioni dei vincitori; c’era il terrore suscitato dalla possibilità che anche in Germania avvenisse una rivoluzione di tipo bolscevico; infine c’era il caos della crisi economica. In questo clima Hitler era il capo che offriva un grande disegno di riscatto per la potenza tedesca umiliata e incarnava l’auto-immagine, completamente automistificata, della nazione: «Quando una nazione come la Germania, con un’inclinazione tradizionale ad un modello autocratico di coscienza e di ‘noi’ ideale, che aveva sottoposto il futuro ad una visione immaginaria di un grande passato, cadde, durante una crisi nazionale, in una spirale in cui, dapprima le élites al potere e in seguito ampie fasce sociali si spinsero a vicenda, attraverso un processo di mutuo rafforzamento, verso una radicalizzazione del comportamento e delle opinioni e verso una progressiva incapacità di percepire la realtà, allora nacque il fortissimo rischio che i tradizionali tratti autocratici si intensificassero fino ad assumere i contorni della durezza tipici della tirannia e che il sogno di dominio, benché inizialmente moderato, crescesse sempre più forte».[24]
Il nazionalsocialismo è quindi la versione «moderna» del grande sogno imperiale tedesco, in una società di massa «democratizzata», in cui un’ideologia forte, con un grado elevatissimo di scollamento rispetto alla realtà, è necessaria per offrire a ciascun cittadino una ragione e una motivazione cogente[25] per ubbidire fedelmente al capo della nazione, e in un contesto europeo in cui ogni progetto di egemonia continentale è assolutamente irrealistico e perciò può essere perseguito solo sulla base della disperata determinazione e ferocia di chi non ha più nulla da perdere.[26]
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Elias ricorda così che il totalitarismo non è stato una conseguenza necessaria, né del processo di sviluppo dello Stato tedesco, né delle condizioni createsi dopo la sconfitta della prima guerra mondiale, ma solo una conseguenza possibile. Tuttavia, il fatto che la possibilità si sia realizzata deve farci riflettere profondamente sulla fragilità del processo di civilizzazione e sulla necessità di non abbassare mai la guardia nel difenderla. Quando si arriva a situazioni di crisi grave, in cui le istituzioni politiche si dimostrano impotenti di fronte ai problemi, le alternative che si offrono in un mondo sempre più interdipendente e in cui la tecnologia e lo sviluppo continuano ad accrescere gli strumenti della potenza, si fanno sempre più nette. O si trovano le soluzioni che permettono di allargare l’orbita della democrazia e di accrescere il controllo razionale degli uomini sulla tecnologia, cioè: o ci si incammina lungo il processo che dovrà alla fine sboccare in forme di governo comune di tutta l’umanità, oppure si spalancano gli abissi della disgregazione, del dominio, della possibilità della barbarie. Come ricorda Hannah Arendt, una volta che una nuova forma di governo si è affermata, essa può sempre tornare, al di là delle temporanee sconfitte storiche. Ciò dovrebbe essere di monito particolarmente per l’Europa, che ha tratto proprio dalla tragedia nazista la spinta per iniziare il suo processo di unificazione, e che sta smarrendo lungo la via la consapevolezza della sua responsabilità storica di affermare nel mondo il principio rivoluzionario del superamento della sovranità assoluta.
Luisa Trumellini
[1]Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Milano, Edizioni di Comunità, 1996. La traduzione italiana si basa sull’edizione americana del 1966, anche se il traduttore, con l’accordo dell’autrice, ha tenuto presente anche l’edizione tedesca del 1962. Norbert Elias, The Germans, New York, Columbia University Press, 1996. Si tratta della traduzione inglese della raccolta di saggi Studien über die Deutschen, pubblicata in Germania da Suhrkamp Verlag nel 1989. Poiché l’opera non è stata tradotta in italiano la traduzione delle citazioni è mia.
[6]Secondo la Arendt, la noncuranza del regime totalitario per il diritto positivo, persino per quello di propria emanazione, è il frutto della pretesa di essere una forma superiore di legittimità che può fare a meno della meschina legalità. La sua pretesa è quella di obbedire fedelmente alla legge della storia o della natura (che è il vero diritto) e di applicarla direttamente all’umanità senza il bisogno di tradurla in principi di giusto e ingiusto. Alla fine la legge, se correttamente eseguita, produrrà un’umanità che sarà l’incarnazione stessa del diritto.
Il terrore totale è lo strumento con cui il regime traduce in realtà la legge di movimento della storia o della natura (che è una legge di eterno movimento, che non può avere una fine, neanche una volta raggiunto il dominio totale, perché altrimenti perderebbe ogni senso), e i suoi compiti sono di impedire che l’azione umana spontanea ostacoli il processo e di creare una nuova umanità in cui gli individui siano eliminati a beneficio della specie. Inizialmente il terrore totale può essere scambiato per un sintomo di governo tirannico perché all’inizio il regime totalitario deve comportarsi come una tirannide per radere al suolo i limiti posti dalle leggi umane. Ma il suo vero obiettivo è quello di creare tra i singoli un vincolo di ferro che li tenga uniti così strettamente da far sparire la loro pluralità in un unico uomo di dimensioni gigantesche.
Queste riflessioni della Arendt sulla rottura che il regime totalitario opera del consensus iuris ritenendolo superfluo, sono una dimostrazione della subordinazione di ogni forma del diritto positivo al potere politico. La legge è l’emanazione dello Stato, che possiede il monopolio della violenza, e la legge è tale nella misura in cui le istituzioni dello Stato sono in grado di garantire che essa possa venire applicata e rispettata. Il contenuto della legge dipende dal regime interno di un paese e dai vincoli che a questo paese vengono imposti dal sistema di Stati in cui è inserito (basta pensare all’obbligo, presente in tutte le costituzioni nazionali, di morire e uccidere per la patria). Laddove il regime interno di uno Stato e l’equilibrio internazionale portano a dar vita ad un sistema di leggi che nega ogni dignità umana, la lotta contro questo regime non può mai essere portata avanti utilizzando gli strumenti del diritto, perché essi non hanno nessuna validità se non sono incarnati nello Stato. La lotta è perciò una lotta politica, per creare le condizioni per un diverso equilibrio internazionale e per rovesciare il regime. Ciò significa anche che i criteri di valutazione del regime non sono giuridici, ma politici. La politica è l’arte di rapportarsi al potere e gestirlo, con l’obiettivo di portare avanti il lento e faticoso processo di emancipazione umana; tra gli strumenti della politica vi è, importantissimo, il diritto. Ma la condanna del regime di Hitler non deriva da considerazioni di diritto, bensì dalla consapevolezza che il suo progetto era in assoluta, totale opposizione con il processo di emancipazione dell’umanità, che va nel senso della pacificazione e della realizzazione dell’uguaglianza e della libertà di tutti; la negazione del diritto era solo uno degli indici, anche se molto significativo, della barbarie del nazismo, che in un mondo di Stati sovrani può solo essere sconfitta con la guerra (cioè ancora con un mezzo che nega il diritto), e in nessun altro modo.
Parallelamente il diritto universale potrà affermarsi globalmente solo quando la necessità di imporlo con la forza verrà a cessare, quando, nella Federazione mondiale, politica (e quindi potere) e diritto finalmente coincideranno. Fino ad allora, continuerà ad esistere il primato della politica nella valutazione degli avvenimenti e delle responsabilità.
[12]E’ in questo contesto di affermazione e poi degenerazione dello Stato nazionale che si delinea anche la questione dell’antisemitismo, su cui la Arendt si sofferma a lungo chiedendosi come mai «una questione apparentemente così insignificante abbia avuto il dubbio merito di mettere in moto l’intera macchina infernale di un apparato di potere totalitario» (p. 3). Proprio il rafforzarsi degli Stati nazionali e del loro sistema in Europa cambia profondamente le condizioni degli ebrei. Non c’è più spazio per il loro essere comunità separata (e infatti vengono equiparati dal punto di vista legislativo al resto della popolazione — il che significa garanzia di eguaglianza di diritti, ma anche assimilazione nella società), non c’è più spazio per il loro ruolo di finanziatori del sovrano (ora che il sistema finanziario e tributario garantiscono allo Stato le entrate) e per i conseguenti privilegi; anche dal punto di vista politico il loro ruolo di intermediari internazionali della diplomazia viene a cessare, perché si chiudono gli spazi per la diplomazia. Gli ebrei vengono colpiti nel momento in cui sono ormai una comunità inutile e impotente, senza più un ruolo specifico, eppure ancora «diversi» rispetto alla popolazione normale, ancora identificabili per la loro ebraicità, una categoria senza più connotazioni politiche e religiose ma solo valutabile in base ai criteri del vizio e della virtù. Loro, gli apolidi per eccellenza nella storia del mondo, torneranno ad essere tali in un contesto, quello del primo dopoguerra, in cui il problema dei profughi torna a sfidare drammaticamente i limiti dello Stato nazionale che non sa restituire a queste masse senza patria la dignità di cittadini. L’odio contro gli ebrei sarà un facile elemento catalizzatore degli umori di una massa a-politica privata di ogni guida politica (proprio perché la politica normale è entrata in una crisi irreversibile), una massa frustrata e umiliata dalla crisi economica e bisognosa di trovare una nuova identità. Gli ebrei saranno un eccellente strumento di definizione in negativo per la nuova razza da forgiare in vista del riscatto: come diceva Hitler, l’ariano è l’antitesi dell’ebreo.
[13]Queste osservazioni sono sviluppate nel saggio: Francesco Rossolillo, «Il fascismo come ultima linea di difesa dello Stato nazionale», in Il Federalista, XIX (1977), n. 2.
[25]Elias ricorda in più passi come il senso dell’autorità ereditato dal regime dispotico e quello nazionalista della subordinazione al bene supremo del proprio paese fossero stati fortemente interiorizzati in Germania, rendendo difficile per i singoli individui la disobbedienza a quella che si presentava come l’unica dottrina e l’unica possibilità politica di salvezza. Analogamente, rientrava in questa logica anche l’idolatria per il capo.
[26]Anche la questione ebraica, per Elias, si inserisce in questo quadro: non c’era nessuna ragione obiettiva, o utilitaristica, per perseguire il loro sterminio. Tutte le ipotesi «razionali» che sono state tentate non reggono nel modo più assoluto, inclusa quella della necessità di un capro espiatorio, di creare «un nemico». Benché fosse facile per i Tedeschi, come tutti i popoli abituati ad essere oppressi, prendersela con qualcuno più debole per rifarsi della propria frustrazione, questa spiegazione da sola è largamente insufficiente. In realtà non c’è nessuna spiegazione; si è trattato solo di coerenza con il proprio pensiero ideologico, che sin dall’inizio aveva indicato negli ebrei uno dei nemici principali della razza ariana. Il fatto che lo sterminio abbia avuto inizio solo dal 1939, con lo scoppio della guerra, si spiega facilmente: solo a partire da quel momento la Germania è stata libera di portare avanti fino in fondo i propri obiettivi, perché non doveva più mascherare i suoi disegni, come era necessario finché la guerra era in preparazione, e anche perché solo allora il suo apparato è stato pronto per mettere in moto la macchina colossale che deportazione e sterminio di massa comportano. Perché proprio gli ebrei siano stati fatti oggetto di questo odio ideologico da parte del nazionalsocialismo non viene invece affrontato da Elias. Su questo punto, invece, si è segnalata già nella nota (3) l’analisi della Arendt.