Nella prima metà degli anni Sessanta del secolo scorso la Francia e la Cina entrarono a far parte, a distanza di pochi anni una dall’altra, del ristretto numero di paesi dotati di un arsenale nucleare. Ma questo fatto non significava che quei due paesi avessero lo stesso peso a livello mondiale. La Cina stava infatti dimostrando di avere la dimensione e le risorse per affermarsi come potenza regionale e in prospettiva mondiale, mentre la Francia cercava di difendere la propria sovranità nazionale dall’influenza delle superpotenze sul continente europeo. Dopo quarant’anni, nel 2003, la Cina è diventata il terzo paese, dopo USA e Russia, ad essere in grado di inviare autonomamente equipaggi di astronauti nello spazio, e l’Unione europea ha lanciato la sfida agli USA nel campo dei sistemi satellitari.[1] Ancora una volta i due fatti sono solo apparentemente paragonabili. Il primo viaggio spaziale cinese ha confermato che la Cina è ormai in grado di competere con la superpotenza americana sul terreno delle nuove tecnologie e dell’influenza geopolitica; il progetto satellitare europeo Galileo rappresenta, per i motivi che esporremo più avanti, solo una scommessa commerciale.
Dopo la caduta dell’URSS la Cina ha accelerato le tappe della sua transizione da paese in via di sviluppo a potenza emergente. Il peso della Cina a livello internazionale si è fatto sempre più sentire nella gestione dei rapporti bilaterali e multilaterali in occasione dei vertici dell’ASEAN e dell’APEC, nella gestione della crisi USA-Corea del Nord, nelle trattative internazionali sulla limitazione della proliferazione delle armi di distruzione di massa.[2] All’indomani dell’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 a New York la Cina ha rivendicato un ruolo in Asia centrale, presentandosi come il solo garante credibile della stabilità nella regione. Lo testimonia il fatto che in breve tempo ha risolto tutti i principali contenziosi territoriali con i paesi vicini, tra cui Kazakhstan, Kyrgyzstan, Laos, Russia, Tajikistan e Vietnam. La sua politica estera non ha trascurato l’Unione europea, con la quale ha promosso l’avvio dei vertici semestrali euro-asiatici, e alla quale ha offerto il suo aiuto finanziario per lo sviluppo del progetto spaziale europeo Galileo: si tratta di un rapporto di collaborazione nel medio periodo favorevole alla Cina, in quanto, sulla base del confronto degli attuali trend di sviluppo delle rispettive politiche spaziali, entro il 2010 sarà la Cina a sorpassare l’Europa, e non quest’ultima a distanziare la prima, nella capacità di lanci annuali di satelliti nello spazio.[3] Certo i problemi che la Cina deve ancora affrontare e risolvere, per portare quasi un miliardo e mezzo di cinesi a vivere in condizioni analoghe a quelle dei cittadini dei paesi sviluppati, sono enormi. Ma la sua costante crescita produttiva, non solo nei settori industriali tipici dei paesi in via di sviluppo, ma anche in settori più avanzati come quello elettronico, è una realtà.[4] In campo economico si prevede che la Cina diventerà il terzo partner commerciale degli USA entro l’anno ed il secondo mercato mondiale in assoluto entro il 2020. La domanda che tutti si pongono ormai non è più se la Cina raggiungerà gli USA, ma quando.[5] Nel tentativo di rallentarne la marcia, gli esponenti più conservatori dell’Amministrazione Bush non nascondono la tentazione di trascinare la Cina in una competizione tecnologico-militare simile a quella ingaggiata, e vinta, con l’URSS.
Tutti questi segnali non fanno che confermare che siamo di fronte ad una divaricazione dei processi di sviluppo cinese ed europeo. Un nuovo polo sta emergendo a livello mondiale, e questo polo non è l’Europa, ma è la Cina, che si appresta a imboccare il cammino già percorso nel secolo scorso dagli USA e dalla Russia. I motivi politici che stanno dietro la decisione del governo cinese di investire considerevoli risorse nella corsa spaziale sono evidenti, e vanno al di là degli aspetti puramente tecnici e scientifici.
***
Tra i settori tecnologici d’avanguardia, quello spaziale riveste una importanza strategica particolare, non tanto per quanto riguarda i lanciatori, cioè la costruzione dei vettori necessari per la messa in orbita di satelliti, navicelle e stazioni, ormai alla portata di molti Stati anche in via di sviluppo, ma soprattutto per quanto riguarda l’integrazione dei servizi satellitari nei sistemi produttivi, organizzativi e militari dei singoli Stati. Orbene, negli anni Novanta c’è stata una vera e propria rivoluzione in questo campo. Fino ad allora infatti lo sfruttamento dello spazio era confinato a due applicazioni che operavano distintamente e sostanzialmente per un numero ristretto di utenti privilegiati: il remote sensing per scopi militari e/o scientifici e le telecomunicazioni. La progressiva integrazione di Internet nel sistema di comunicazione satellitare e la possibilità di archiviare sempre più dati in memorie sempre più capaci e accessibili ovunque a costi sempre più bassi, hanno fatto cadere quei vincoli e quelle distinzioni, favorendo la nascita e la diffusione di servizi globali di informazione alla portata di qualsiasi utente di Internet o della telefonia mobile.[6] Negli anni Novanta gli USA hanno assunto il monopolio del controllo di questo sistema, e il Pentagono può decidere in qualsiasi momento — come in effetti ha fatto in occasione di crisi quali la guerra nei Balcani e quella in Iraq — di sospendere o disturbare i servizi commerciali offerti dagli USA via satellite.[7] Consapevole dei rischi di lasciare agli USA la leadership in questo campo, la Cina, pur avendo deciso, come già ricordato, di sostenere finanziariamente il progetto satellitare europeo Galileo, non ha rinunciato a sviluppare un proprio sistema satellitare autonomo. Anche la Francia e la Germania si sono rese conto dell’enorme vantaggio acquisito dagli USA, e hanno fortemente sostenuto, nell’ambito dell’Unione europea, la necessità di varare un programma autonomo europeo, da cui è nato appunto il progetto Galileo. Come è ben noto, gli USA, facendo leva sulle divisioni fra gli europei all’interno dell’ESA, sono riusciti a ritardare al 2008 l’avvio del servizio europeo, e quindi a sfruttare il tempo così guadagnato per rinnovare la propria costellazione satellitare GPS e predisporne una di nuova generazione, già concorrenziale rispetto al sistema europeo.[8] Ma c’è di più.
Il progetto Galileo, figlio della politica confederale degli Stati europei, ha visto la luce grazie all’accettazione da parte di tutti i partner dell’impresa del vincolo, imposto dalla Gran Bretagna, di rimanere un servizio per soli scopi civili sottratto a qualsiasi controllo europeo e sottoposto a quello dei governi nazionali. A chi giova in definitiva una simile scelta? Supponiamo che il sistema Galileo fosse stato già attivo nel momento in cui l’Amministrazione Bush decise l’intervento in Bosnia, e poi in Afghanistan e quindi in Iraq: di fronte alla prevedibile richiesta americana di sospendere o limitare gli accessi alle informazioni satellitari fomite da Galileo ad eventuali nemici degli USA, quale ente, agenzia, organo europeo avrebbe preso la decisione di obbedire oppure resistere (e in questo caso con quali strumenti e gestiti da chi) alla richiesta americana? La risposta è ovvia: non esiste in Europa alcun potere in grado di imporre la propria volontà su questioni di questa natura. Nei documenti ufficiali della Commissione europea, nei comunicati dei Consigli europei, nei dibattiti al Parlamento europeo, non c’è risposta a questo genere di preoccupazioni, come non c’è alcun riferimento al problema del quadro di potere che sarebbe necessario creare a livello europeo per gestire in modo credibile una politica spaziale. In quei documenti ci si limita al massimo a presentare degli asettici scenari che suggeriscono l’idea che tutto dipenda dalla volontà o meno degli Stati di investire di più in questo campo. Un recente documento della Commissione europea giunge a concludere che, con le attuali risorse, l’Europa «non può garantirsi un accesso autonomo allo spazio», ma che un salto in avanti sarebbe possibile «con un incremento [nelle spese per le tecnologie spaziali, N. d. a.] che deve essere superiore al tasso di crescita dell’economia dell’Unione europea».[9] E’ risaputo che la Cina ha speso finora infinitamente meno degli europei per i suoi programmi spaziali, tuttavia nessuno può mettere in dubbio la sua capacità di mantenere l’accesso autonomo a queste tecnologie.
Il fatto è che i nodi politici che gli europei si sono finora rifiutati di sciogliere stanno rapidamente venendo al pettine: gli europei non possono più permettersi di compiere passi falsi. Come ha mostrato anche il dibattito sulla «Costituzione» europea prima in seno alla Convenzione e poi alla Conferenza intergovernativa, anziché risolvere il nodo cruciale della sua divisione politica, l’Europa ha riproposto progetti di cooperazione più o meno rafforzata in vari campi, ivi compreso quello della difesa e della politica estera.
Se nell’immediato futuro gli europei rinunceranno a creare lo Stato federale europeo, qualunque progetto o programma adotteranno in campo spaziale essi continueranno semplicemente a dissipare risorse, senza riuscire in alcun modo a controllare il proprio futuro o a influenzare le decisioni di quei vecchi e nuovi poli continentali attorno ai quali si sta organizzando il mondo.
Franco Spoltore
[1]Nell’ottobre 2003 la Cina ha inviato nello spazio e con successo degli astronauti a bordo della navicella Shenzou. L’Unione europea ha confermato di voler far entrare in servizio entro il 2008 il sistema satellitare Galileo.
[2]Nell’articolo di Evan S. Medeiros e Taylor Fravel, «China’s New Diplomacy», in Foreign Affairs, novembre-dicembre 2003, vengono elencati i numerosi successi diplomatici conseguiti dalla Cina nell’ultimo decennio.
[3]Già nel 2001 l’ex-direttore dell’ESA Roger-Maurice Bonnet, commentando il prevedibile salto in avanti della Cina in campo spaziale, arrivava a domandarsi se avesse ancora senso per gli europei mantenere in vita l’ESA («China: the Next Space Superpower», in Scientific American, ottobre 2003).
[4]Si vedano in proposito i dati presentati da David Hale e da Lyric Hughes Hale in «China Takes Off», Foreign Affairs, novembre-dicembre 2003.
[5]Il commento di Martin Wolf, «The Long March to Prosperity», apparso sul Financial Times, 8 dicembre 2003, documenta con dovizia di dati lo sforzo economico che sta compiendo la Cina.
[6]Bruce T. Robinson, nel suo articolo «How the U.S. Army’s New Satellite Tracking System Helped Avert Friendly Fire and Lift the Fog of Waf», apparso in IEEE Spectrum, ottobre 2003, riprende parte delle testimonianze rese al Congresso USA dai responsabili del Pentagono dopo la presa di Baghdad. Queste testimonianze erano state richieste dal Congresso proprio per verificare se le spese effettuate per potenziare i collegamenti satellitari americani erano state efficaci oppure no.
[7]Le implicazioni militari di questa tecnologia hanno profondamente influenzato sin dalle origini, negli anni Ottanta, lo sviluppo sia del sistema satellitare americano GPS, che quello sovietico-russo GLONASS.
[8]L’articolo «Galileo», apparso sulla Rivista Italiana Difesa nel novembre 2003, descrive esaurientemente gli aspetti tecnici della contesa tra europei ed americani su questo terreno.
[9]Commissione europea, White Paper - Space: a New European Frontier for an Expanding Union. An Action Plan for Implementing the European Space Policy, novembre 2003.
Anno XLV, 2003, Numero 3, Pagina 180
L’ISLAM E L’IDEA DI NAZIONE
L’Islam, sin dal suo apparire nel corso del VII secolo, ha sempre rappresentato per il mondo occidentale una realtà difficile da comprendere. La rapidità con cui esso si diffuse in un vastissimo territorio, suscitò in Europa una immediata contrapposizione armata di cui le crociate rappresentano solo un aspetto marginale, specie dal punto di vista musulmano che riconduce a semplici scontri i tentativi dei cristiani di riconquistare la Terra Santa. Questo periodo di forte espansione territoriale e di grande proselitismo religioso è comunemente chiamato Età dell’Oro dagli storici musulmani ed è il periodo cui si richiamano gli integralisti islamici per cercare di riaffermare la superiorità dell’Islam sul mondo degli infedeli.
La forza espansionistica dell’Islam verso l’Europa si placò solo nel XVI secolo e da quel momento iniziò un lento declino militare e culturale. Le scoperte di nuove rotte mercantili e di nuove terre, il forte impulso all’arte della guerra e alla scienza favorirono l’Europa ed emarginarono il mondo musulmano. E’ inoltre importante sottolineare il fatto che la Riforma protestante e la successiva Controriforma contribuirono in Europa ad un forte slancio ideale, culturale ed artistico che avviò il continente ad un laicismo radicatosi definitivamente nel corso dei secoli, rompendo l’antico vincolo potere temporale-potere secolare che invece, nel mondo islamico, ancora oggi è fonte di molti problemi.
Ma questa lunga fase di decadenza lasciò comunque sussistere una grande realtà religiosa, che va dal Bangladesh, dall’Indocina e da una parte delle Filippine da un lato al Marocco dall’altro, destinata a costituire la base di eventi cruciali — che in parte sono già accaduti e in parte accadranno — di natura politica. E’ importante distinguere a questo proposito la più grande comunità islamica (la umma) che comprende tutti i popoli che appartengono alla stessa religione, da quella araba, che all’unità di religione aggiunge quella di lingua e di cultura, anche se articolata in una molteplicità di dialetti e di stili di vita diversi.
***
L’Islam è stato fino a tempi relativamente recenti una realtà prevalentemente religiosa e culturale, senza una diretta rilevanza politica. Quando Maometto iniziò la sua opera di proselitismo, egli utilizzò la fede quale strumento di unificazione delle realtà tribali che caratterizzavano il mondo arabo. La fede giustificava le guerre di espansione: non si doveva affermare il principio della difesa di un territorio, bensì la superiorità di una comunità che condivideva l’unica e vera fede su qualunque altra. In questo contesto la politica passava in secondo piano rispetto alla religione. La comunità islamica ha visto il succedersi e la compresenza di diversi califfati dagli incerti confini, che si occupavano dell’amministrazione degli aspetti laici della convivenza, ma, oltre alla umma, il principale legame che univa i musulmani, e in particolare gli arabi, era la realtà prepolitica della tribù, che continua a vivere ai nostri giorni. Bisogna sottolineare che non esistono in lingua araba vocaboli che corrispondano al senso e alla definizione che in Europa si danno ai termini Stato e nazione.[1]
Profondi cambiamenti furono introdotti nel mondo arabo, e più in generale musulmano, dal colonialismo europeo e dal processo di decolonizzazione. Il colonialismo russo in Crimea nel ‘700 e successivamente quello francese, inglese e olandese in Asia e nella regione del Mediterraneo meridionale e orientale misero il mondo islamico dinanzi alla propria incapacità di reagire alle sfide del mondo moderno, ponendo anche il problema di una convivenza, sino a quel momento inconcepibile, tra musulmani e infedeli che imponevano le proprie leggi (civili e penali) e i propri modelli istituzionali.[2] In questo modo è stata introdotta in vaste regioni del mondo la realtà dello Stato, con confini definiti, una amministrazione e un esercito. Rimane il fatto che il processo coloniale e la sua fine divisero il mondo arabo (e musulmano) con frontiere artificiali, incomprensibili per chi sentiva il senso di appartenenza solo rispetto alla propria tribù, da una parte, e, dall’altra, alla comunità islamica che non conosce confini o barriere e per la quale l’unico confine è là dove non vi sono più fedeli.[3] Non a caso i governi dei primi Stati nazionali che sorsero con l’imprimatur europeo erano controllati direttamente o indirettamente da caste militari addestrate in Europa, che tentavano di reggersi su di un nazionalismo privo di qualsiasi fondamento nella storia di queste nuove entità. In alcuni casi si tentò di coniugare il socialismo con l’Islam.
Ma la realtà dello Stato era nata, con i suoi problemi, i suoi conflitti e le sue rivalità. Peraltro la umma ha continuato ad influenzare profondamente questa realtà. Senza l’Islam è praticamente impossibile governare uno Stato arabo, o più in generale musulmano, per la cui legittimazione esso è indispensabile. La religione è quindi essenziale come instrumentum regni, ma insieme essa rende difficile la nascita di un vero e proprio nazionalismo. Esiste nel mondo arabo (e più in generale musulmano) un lealismo nazionale, in realtà molto fragile, e uno sovranazionale, che hanno rispettivamente come punti di riferimento lo Stato e la umma, e quest’ultima è venuta acquistando in questo modo rilievo politico.
Nel corso degli ultimi cinquant’anni, un ulteriore elemento ha caratterizzato il mondo arabo: le enormi ricchezze che derivano dai giacimenti petroliferi sono in realtà concentrate nelle mani di ristrette élite in genere provenienti dalla tribù o dalla etnia dominante. Nei paesi arabi, con le eccezioni della Turchia e dell’Egitto, non si è mai avviato un sistema fiscale moderno, perché comunque le casse dello Stato sono rifornite dalle entrate derivanti dai petrodollari.[4] Si tratta di un ulteriore elemento che indica il distacco tra lo Stato e il cittadino, e che è il segnale di una concezione della statualità, delle sue funzioni e prerogative, profondamente diversa rispetto all’idea europea dello Stato.
***
Queste brevi constatazioni ci aiutano a comprendere le resistenze al cambiamento che sono presenti in questa vasta area del mondo e le tensioni che la pervadono. La guerra in Iraq e i continui insuccessi a cui sono andati incontro i tentativi di creare un quadro di stabilità per la convivenza tra israeliani e palestinesi sono indicatori di una situazione in perenne fermento: la questione è come riuscire a far evolvere questa situazione verso la pace e lo sviluppo sottraendola al caos e al disordine attuali. Nelle pagine di questa rivista più volte si è ribadita l’importanza che potrebbe avere una Europa unita quale esempio di pacificazione e stabilizzazione politica, sociale ed economica.[5] Vi sono indubbie responsabilità da parte dell’Europa sia per quello che è accaduto in epoca coloniale, sia per l’eredità che essa ha lasciato con la decolonizzazione, sia per la sua attuale impotenza nello scenario della politica internazionale.
Ma ci sono responsabilità anche da parte dei paesi musulmani, in particolare dell’area araba. E’ essenziale che la struttura statale, ancora imperfetta, che essi hanno ereditato dall’Occidente venga completata attraverso l’introduzione della democrazia e di un ragionevole grado di laicismo. Nello stesso tempo è essenziale che, parallelamente al consolidamento democratico degli Stati ereditati dal colonialismo, prendano forma nella regione iniziative sovranazionali: senza una svolta di questo genere, ogni speranza di sviluppo è destinata a naufragare.
Le crisi interne di paesi come l’Iran o l’Algeria sono la conseguenza, pur se in forma diversa, di tensioni politiche che si sviluppano anche a seguito della globalizzazione. Per quanti sforzi vengano compiuti per limitare gli accessi al mondo di internet e alle televisioni satellitari, i contatti con il mondo occidentale sono inevitabili e destinati a spingere gli attuali governi dell’area a condividere sempre più le vicende che legano Oriente ed Occidente. Nello stesso tempo la globalizzazione approfondisce l’interdipendenza tra i paesi islamici, e soprattutto arabi, aggiungendo i propri effetti a quelli tradizionalmente dovuti alla comunanza di religione e di cultura. Il punto è allora quello di riuscire a garantire un quadro internazionale che sostenga ogni sforzo indirizzato verso le aperture alla modernità e verso prime forme di democrazia e di unità interna. Si tratta cioè di favorire i movimenti islamici più tolleranti (che sono comunque la maggioranza, perché il Corano non nega affatto i principi democratici), e di sostenere ogni sforzo che punti a forme di integrazione regionale.
Per quanto riguarda in particolare il mondo arabo, il ruolo dell’Europa sarebbe essenziale, anche in considerazione degli stretti legami di interdipendenza che la uniscono ad esso, cioè alla parte più occidentale del mondo islamico. La collaborazione tra mondo arabo ed Europa potrebbe favorire la stabilità e l’unione laddove il dominio militare americano fomenta il disordine e porta la guerra. Il futuro del mondo arabo è quindi vincolato anche al fatto che l’Europa si doti di istituzioni che le consentano di avere una propria presenza autonoma nella regione, sostenuta da una politica estera e di difesa autonome. Per questo una nuova, pesante responsabilità grava sui paesi europei che non sanno assumersi il ruolo che la storia ha loro assegnato dopo la fine della seconda guerra mondiale: favorire la pace e lo sviluppo nel rispetto delle diversità.
Stefano Spoltore
[1]Panayotis Vatikiotis, Islam: Stati senza nazioni, Milano, Il Saggiatore, 1993, p. 54 (traduzione di Islam and the State, Routledge, 1987).
[2]Giorgio Vercellin, Islam, fede, legge e società, Firenze, Giunti, 2003, p. 50 e p. 88; Heinz Halm, L’Islam, Bari, Laterza, 2003, pp. 21 e segg. (traduzione di Der Islam. Geschichte und Gegenwart, Monaco, Verlag C.H. Beck, 2000).
[3]Si veda Panayotis Vatikiotis, op. cit., pp. 54-70 e pp. 143-187.
[4]Si veda la rivista Aspenia, Roma, n. 20, 2003, p. 167.
La spaccatura verificatasi al Vertice di Bruxelles del 12-13 dicembre scorso tra i paesi dell’Unione riguardo all’approvazione del testo di trattato costituzionale, e il lungo confronto tra gli Stati che l’ha preceduta, hanno evidenziato con molta chiarezza il grado di divisione in cui sta sprofondando l’Europa. A questo proposito occorre fare due considerazioni. La prima concerne il fatto che l’approvazione della cosiddetta costituzione europea non avrebbe assolutamente reso l’Unione più forte e coesa e quindi non avrebbe permesso di superare il problema; la seconda è relativa al dibattito sull’«Europa a due velocità» che il fallimento del Vertice ha suscitato.
Per quanto riguarda il primo punto è necessario ricordare che la Convenzione è stata convocata con il mandato di redigere le proposte per un nuovo trattato, che permettesse all’Unione di diventare più democratica, più vicina ai cittadini e più efficace nell’azione, dopo il fallimento, sotto questo profilo, di ben due Conferenze intergovernative — che avevano prodotto rispettivamente il Trattato di Amsterdam e il Trattato di Nizza. Entrambi questi Trattati, infatti, non rispondevano alla necessità di riforma delle istituzioni europee che le esigenze di governo dell’euro, da una parte, e l’allargamento, dall’altra, evidenziavano. Nonostante il dibattito acceso svoltosi negli anni ‘90 sul futuro dell’Europa e sull’urgenza di approfondire la sua costruzione politica, la domanda formulata nel ‘98 da Hans Tietmayer, allora Presidente della Bundesbank, («L’Unione politica è piuttosto una condizione o una conseguenza dell’Unione monetaria?») continuava a non trovare risposta, né la trovavano le ipotesi allora in discussione per dotare l’Unione della flessibilità necessaria ad accogliere i nuovi membri, creando una struttura a cerchi concentrici, con al centro i paesi maggiormente integrati, oppure creando — sulla base di una felice, anche se più recente, definizione di Giscard d’Estaing — la «Federazione all’interno della Confederazione».
La Convenzione, quindi, teoricamente, avrebbe dovuto far compiere all’Unione quel salto di qualità che era mancato negli anni precedenti, dato che ormai l’euro era diventato una realtà di cui si erano sperimentati anche i limiti in assenza di un governo unico europeo dell’economia, e dato che l’allargamento era ormai un fatto acquisito a fronte del quale l’assetto istituzionale dell’Unione era del tutto inadeguato.
A riprova di queste contraddizioni in cui si stava dibattendo l’Europa, durante i lavori della Convenzione, nel corso del 2002 e nella prima metà del 2003, si sono moltiplicati i segnali relativi alla precarietà della situazione in cui versa l’Unione: innanzitutto la difficoltà da parte di alcuni Stati, e in particolare di Francia e Germania, a rispettare, a fronte di una grave stagnazione economica, i parametri del Patto di stabilità; ma anche in generale la dipendenza europea rispetto alla congiuntura economica americana, e la sua incapacità di trovare una via autonoma per la ripresa. La crisi scoppiata a fine novembre del 2003 in seguito alla decisione dell’Ecofin di non sanzionare Francia e Germania per l’eccesso di deficit rispetto ai limiti imposti dal Patto e alla conseguente reazione della Commissione europea, che, proprio nei giorni in cui si sta scrivendo questa nota, ha deciso di ricorrere alle vie legali contro tale scelta, era da tempo nell’aria. Ed era del resto prevedibile e inevitabile, perché è folle pensare che i paesi dell’euro possano continuare all’infinito a non avere una politica economica — che ormai i singoli Stati non sono più in grado di fare ma che non possono realizzare neanche in comune perché non hanno trasferito a livello europeo i poteri necessari — e a sostituirla con regole restrittive che possono avere una funzione di stimolo a comportamenti virtuosi in fasi di espansione economica, ma che diventano delle camicie di forza nei periodi di recessione. D’altro canto finché non si crea un governo europeo dell’economia queste regole sono indispensabili per mantenere la coesione all’interno dell’area monetaria europea, perpetuando così una contraddizione che rischia di stritolare l’Europa. La soluzione non può essere che il passaggio all’Unione politica, come sollecitava già la domanda posta da Tietmeyer, che significa trasferire la sovranità dagli Stati all’Europa e trasformare l’Unione in uno Stato federale, dotato di tutte le competenze e degli strumenti necessari per governare, in modo effettivo e democratico, con il consenso e il controllo dei cittadini, l’economia e la moneta europea. Di questo dunque avrebbe dovuto occuparsi la Convenzione, se voleva davvero dare risposte concrete alle contraddizioni create da una moneta europea che deve vivere senza che esista un potere europeo.
Oltre alla crisi economica, sempre nel periodo durante il quale si sono svolti i lavori della Convenzione, è intervenuto un altro fatto drammatico a rendere evidente la necessità, e l’urgenza, che l’Europa si doti di una propria fisionomia politica: la guerra in Iraq. L’impotenza degli Stati europei in questo frangente, stretti tra il servilismo di chi sa di non potersi opporre allo strapotere del più forte e cerca perciò di ingraziarselo e l’opposizione, destinata inevitabilmente alla sconfitta, di una minoranza, hanno mostrato con un’evidenza senza pari come solo la presenza di un’Europa forte ed autonoma avrebbe potuto fare la differenza. Anche in questo caso, a fronte della necessità di creare una politica estera e di sicurezza europea, è evidente che l’unica possibilità sarebbe quella di trasferire poteri sovrani dagli Stati all’Europa. I pallidi e velleitari tentativi di dar vita ad una difesa europea sulla base di una cooperazione più stretta tra alcuni paesi non può che portare infatti a risultati ridicoli, come quello della nascita di una «Cellula di pianificazione militare europea» recentemente concordata da Francia, Germania e Gran Bretagna sotto il vigile controllo degli Stati Uniti e della Nato.
Ma era realistico pensare che la Convenzione potesse davvero proporre di trasformare l’Unione in una vera Federazione? Chiaramente no, e per più ragioni. Rispetto ad una Conferenza intergovernativa la Convenzione aveva effettivamente il vantaggio di non essere vincolata dall’esigenza dell’unanimità, anzi di non doversi porre neanche il problema del voto. La formula adottata di decidere per consenso permetteva, ed infatti ha permesso, di tranciare le questioni più controverse grazie all’autorità del Presidium. La Convenzione poteva dunque arrivare più facilmente, rispetto ad una CIG, a trovare degli accordi, ma ciò era dovuto proprio al fatto che non era responsabile in ultima istanza. Il suo lavoro era orientato dalla coscienza che sarebbero poi stati i governi, all’unanimità, a prendere le decisioni definitive, per cui in quella sede era possibile ignorare i dissensi. Il suo mandato era dunque vincolato, nella forma e nella sostanza, dalla volontà dei governi, e questi chiedevano semplicemente proposte per migliorare il funzionamento dell’Unione senza alterarne gli equilibri istituzionali (fondati sul fatto che sono gli Stati a detenere il potere di decidere in ultima istanza).
La Convenzione ha quindi lavorato — e non poteva essere altrimenti — non nell’ottica di far fare un salto politico all’Europa, ma in quella di rendere più «governabile» l’Unione, cosa che in molti casi significava dare un po’ più di potere di controllo agli Stati sulle istituzioni europee per alleviare, anche se in minima parte, l’enorme deficit democratico implicito nel funzionamento di una confederazione a venticinque Stati dotata di molte competenze sugli affari interni degli Stati membri. Il quadro era quello delineato da Giscard d’Estaing nel ‘94, durante il dibattito sulla creazione di un nucleo più integrato al cuore dell’Europa, in cui egli distingueva tra un’Europa-potenza (composta dai paesi che avevano la volontà di dare una fisionomia politica autonoma all’Europa) e un’Europa-spazio (l’Europa allargata), sottolineando che si trattava di dotare le due realtà di regole e impianti istituzionali diversi, proprio perché avevano finalità diverse. La Convenzione aveva esattamente il compito di occuparsi dell’Europa-spazio. Lo dimostrava la sua stessa composizione che includeva i rappresentanti dei paesi candidati. Proprio la profonda eterogeneità dei suoi membri costituiva la caratteristica predominante di questa assemblea in cui erano rappresentate realtà nazionali dotate di atteggiamenti radicalmente differenti nei confronti del processo europeo e in cui dovevano trovare un’intesa paesi con livelli di integrazione diversissimi tra loro, i cui interessi nazionali non erano ancora stati resi convergenti dal fatto di essere parte, da decenni, di un processo comune.
Questo ha portato la Convenzione a non potersi occupare del problema di un governo economico europeo e ad ignorare completamente le divisioni che laceravano l’Unione sulla questione della guerra in Iraq (e a vantarsi addirittura di aver lasciato la crisi «fuori dalla porta») per lavorare alla ricerca di un compromesso — necessariamente di basso profilo — che potesse essere accettato da tutti. Il cosiddetto progetto di trattato costituzionale che ha elaborato non era quindi altro che un toilettage dei vecchi trattati, che per la prima volta sanciva come immodificabile l’equilibrio «comunitario» dei poteri in ambito europeo — l’equilibrio in base al quale gli Stati detengono la sovranità, e mantengono il potere di mettere in atto le decisioni concordate a livello europeo. Tutte le soluzioni prospettate sulle questioni più spinose (rappresentanza esterna dell’Unione, sistema di votazione, composizione della Commissione) non modificavano né la natura delle istituzioni in causa, né le rendevano più efficienti o democratiche, ma semplicemente cercavano di sanare le vecchie contraddizioni inserendone di diverse, come è inevitabile in ogni assetto confederale. Ad esempio, laddove il sistema di votazione a maggioranza previsto dal trattato precedente premiava eccessivamente i paesi medi, esso veniva modificato a favore dei più grandi e dei più piccoli; oppure, nella misura in cui la composizione della Commissione allargata, pensata, sempre nel precedente trattato, per garantire i piccoli paesi, penalizzava troppo i grandi, si cercava una soluzione intermedia che potesse realizzare la quadratura del cerchio, creando in realtà nuovi scompensi. Rispetto ai precedenti Trattati di Amsterdam e Nizza, anche secondo il parere di molti esperti in materia, il nuovo testo non apportava dunque nessuna novità in grado di far compiere reali passi avanti alla costruzione europea (come concordavano anche i giudizi dei commentatori politici all’indomani della chiusura dei lavori della Convenzione).
Il fatto, quindi, che per il momento la proposta di «Costituzione» sia stata respinta dagli Stati — che hanno litigato proprio sul problema se mantenere le vecchie incongruenze o sostituirle con nuove — non cambia i termini del problema: il vero nodo da sciogliere resta il progressivo e inarrestabile allontanamento dalla prospettiva dell’unità politica che caratterizza oggi il quadro dell’Unione e cui si accompagnano preoccupanti rigurgiti di nazionalismo.
***
Alla luce di queste considerazioni diventa più facile analizzare anche il problema dell’«Europa a due velocità». Il fatto che questo concetto continui a riemergere indica che esiste ancora un barlume di consapevolezza innanzitutto della necessità di far avanzare l’unità europea — e non è un caso che questa posizione emerga nell’ambito dei paesi fondatori che, essendo più coinvolti nel processo europeo, sentono maggiormente il peso della disunione — e in secondo luogo del fatto che questo avanzamento è possibile solo in un quadro più ristretto rispetto a quello dell’attuale Unione. Chi difende invece la necessità di far procedere l’Unione in blocco e bolla come un tentativo di rompere l’unità dell’Europa l’ipotesi delle due velocità non vuole altro — che ne sia o meno consapevole — che mantenere, anzi, vista la tendenza, approfondire, la divisione dell’Europa. L’Unione non è in grado di avanzare se mantiene un’unica velocità, perché ormai non costituisce più un quadro evolutivo. Con questo non si vuole dire né che l’Unione è inutile (nessuno può mettere in dubbio la drammaticità dell’alternativa della sua disgregazione), né che va smantellata per permettere ad un gruppo di paesi di approfondire la reciproca integrazione. Essa resta l’ambito che rende possibile l’integrazione graduale dei nuovi paesi, che avrà necessariamente bisogno di tempi lunghi. Ma solo la presenza al suo interno di un nucleo federale le permetterà di svolgere questo compito, facendole acquisire la stabilità necessaria per contrastare le inevitabili spinte alla disgregazione cui è soggetta ogni confederazione. E il nucleo costituirà anche l’esempio indispensabile per indicare la prospettiva corretta ai nuovi aderenti. In questo quadro le istituzioni europee, che oggi svolgono obiettivamente un ruolo di difesa e di conservazione dello status quo, diventerebbero il tramite tra la Federazione e il resto dell’Unione, rendendo possibile il processo di integrazione dei paesi non ancora pronti alla cessione della sovranità.
Bisogna tornare quindi al dibattito degli anni ’90 sulla necessità di creare una Federazione nella Confederazione e dargli concretezza, facendolo seguire dai fatti: occorre identificare con chiarezza l’obiettivo (lo Stato federale), il quadro in cui è possibile un’iniziativa in tal senso (il nucleo dei paesi che hanno le condizioni storiche e politiche per assumersi questa responsabilità — e la prima ipotesi non può che riguardare i paesi fondatori) e il metodo (un Patto federale tra essi, e la convocazione di un’Assemblea costituente con il mandato di elaborare la Costituzione federale dello Stato europeo, cui potranno chiedere di aderire tutti gli Stati dell’Unione che vorranno farlo).
Si tratta ovviamente di un’iniziativa che implica una rottura rispetto ai Trattati esistenti e che in un primo momento non può che collocarsi al di fuori della logica dell’Unione. Ma è una rottura necessaria, che costituisce la premessa indispensabile per salvare l’unità degli europei e che si ricomporrà subito con l’ingresso della Federazione nell’Unione e con il prevedibile allargamento del primo nucleo federale ai numerosi Stati che oggi non sono pronti ad appoggiare un’iniziativa di questo tipo ma che potranno aderire una volta che essa si fosse concretizzata.
Nel dibattito attuale sull’Europa a due velocità non c’è traccia di tutto ciò. Ci si ferma, appunto, ad un primo barlume di consapevolezza e poi, forse spaventati dalla difficoltà che portare la scelta fino in fondo implica, si preferisce deviare su proposte minimaliste se non pericolose. L’ipotesi che raccoglie più consensi e che viene maggiormente discussa, soprattutto in Francia e in Germania, sembra essere quella delle cooperazioni rafforzate, ipotesi che rimane valida in un certo senso sia che si arrivi nel corso dell’anno ad un accordo sulla «costituzione», sia che questo accordo non venga raggiunto. I Trattati in vigore prevedono già, infatti, l’opzione delle cooperazioni rafforzate e si tratterebbe, nel disegno franco-tedesco — anche se il condizionale è d’obbligo perché le idee che circolano sono ancora molto vaghe — di permettere ai paesi che lo ritengono opportuno di cooperare più strettamente in vari settori sulla base, in ultima istanza, dei rispettivi interessi nazionali. Si tratta di una possibilità che non favorirebbe affatto uno sviluppo in senso federale, ma che anzi lo renderebbe più difficile perché porterebbe — nel caso si realizzasse — ad una rete di alleanze asimmetriche e incrociate destinate a creare tensioni e contrapposizioni in seno all’Unione. Né è pensabile che a questa obiettiva spinta alla disgregazione si possa ovviare se un gruppo di paesi si ponesse l’obiettivo di diventare il cuore dell’Europa partecipando a tutte le cooperazioni rafforzate: nemmeno Francia e Germania sarebbero in grado di farlo perché non potrebbero mantenere un’identità di interessi sufficiente in una situazione del genere.
Il basso profilo delle reazioni al fallimento di Bruxelles, anche nell’ipotesi dell’Europa a due velocità, è dunque il segno della difficoltà che il processo europeo sta attraversando. Di fronte all’evidenza di dover compiere un salto di qualità anche gli Stati più legati alla prospettiva dell’unità europea indietreggiano e, non avendo il coraggio di fare le scelte radicali necessarie, si rifugiano dietro a ipotesi controproducenti. Fino a quando l’Europa sarà in grado di resistere in questa situazione è difficile da prevedere. Ma è certo che il resto del mondo non sta ad aspettare le nostre decisioni e che gli europei non sono al momento in grado di raccogliere le sfide del nuovo secolo. Nella migliore delle ipotesi, se non interviene in tempi ragionevoli una reazione, la storia, che sta già condannando quest’area all’emarginazione, ne decreterà il decadimento civile, sociale e politico. Ma è solo la migliore delle ipotesi, perché gli effetti della disunione europea potrebbero essere anche molto più drammatici.
Luisa Trumellini
Anno XXIX, 1987, Numero 1, Pagina 45
L’EUROPA E IL PROBLEMA ENERGETICO DOPO CHERNOBYL
Dopo il grave incidente di Chernobyl e l’allarmata reazione dell’opinione pubblica, si è avviata in tutti i paesi europei una salutare riflessione sul problema energetico. Ha fatto in particolare clamore la decisione presa dal Congresso di Norimberga della SPD di «uscire dal nucleare», attraverso un programma decennale che prevede il graduale ricorso a risorse alternative, in primo luogo il carbone. La risoluzione politica approvata dal Congresso di Norimberga recepisce la relazione intitolata «Transizione verso un approvvigionamento energetico sicuro senza l’uso di energia nucleare», preparata dalla apposita Commissione istituita presso la Direzione. Chi volesse tuttavia approfondire le conseguenze politiche di questo programma energetico non potrebbe fare a meno di rilevare alcune ambiguità. La Germania (e forse la Gran Bretagna) può certamente contare sulle sue riserve nazionali di carbone. Non altrettanto possono fare gli altri paesi europei, che vedrebbero così aumentare la loro dipendenza esterna se ne volessero seguire passivamente le orme. Si ammette inoltre che il ricorso ad un uso accresciuto del carbone aumenterà l’inquinamento — di anidride solforosa e di ossido di carbonio — di almeno il 20% in più rispetto al tasso attuale. Ma si arresterà ai confini della Germania quest’aria inquinata? E cosa accadrebbe se tutti i paesi europei adottassero la stessa politica?
In verità, l’incidente di Chernobyl non sembra aver insegnato molto ai partiti europei. Il primo e fondamentale fatto da cui occorre prendere le mosse per avviare un serio dibattito sulle politiche energetiche del futuro è che l’inquinamento non ha frontiere. Ogni piano energetico nazionale che non rappresenti l’articolazione di un coerente piano energetico europeo — e al limite mondiale — è destinato all’insuccesso. Nessuno Stato europeo può oggi garantire ai suoi cittadini la sicurezza degli approvvigionamenti, una protezione adeguata dell’ambiente e un ammontare sufficiente di risorse per lo sviluppo, indipendentemente dagli altri paesi della Comunità.
Ma quando si prendono in considerazione gli aspetti europei del programma energetico della SPD le perplessità aumentano. La SPD mette in discussione il Trattato dell’Euratom, a cui, secondo i socialdemocratici tedeschi, si dovrebbe far ricorso solo per impedire agli altri paesi europei ulteriori aumenti nell’uso di energia nucleare e «per garantire la protezione della salute». Nulla viene, tuttavia, detto sulla necessità di giungere ad una vera politica energetica comunitaria e sui mezzi per realizzarla. Il futuro resta così nel vago.
Non è difficile prevedere, sulla base dell’esperienza già fatta, quale sarà il risultato di questo modo di impostare il problema energetico. Data l’attuale incapacità d’azione della Comunità i programmi energetici nazionali continueranno a far premio su qualsiasi predica degli organi europei: Commissione e Parlamento. In definitiva, l’incidente di Chernobyl ha scosso l’opinione pubblica internazionale che ha preso coscienza della dimensione nuova del problema energetico, ma in mancanza di un governo europeo che manifesti una decisa volontà di realizzare una efficace politica europea paradossalmente riprendono forza i piani nazionali. L’Europa dell’energia continuerà ad andare alla deriva come sinora ha fatto.
***
Prima di prendere in considerazione le politiche che si potrebbero sviluppare a livello europeo con strumenti adeguati di governo, è bene ripercorrere brevemente il cammino che ha condotto la Comunità alla attuale situazione di stallo. Pochi ricordano che la Comunità è nata proprio per risolvere il problema della gestione in comune di alcune fonti di energia e materie prime strategiche per lo sviluppo e la sicurezza degli Europei. Nel 1951 è stata, infatti, istituita la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) allo scopo di creare un mercato comune europeo in alcuni settori allora cruciali per la ripresa economica postbellica: agli inizi degli anni Cinquanta il carbone rappresentava il 75% dei consumi di energia della Comunità. Inoltre, nel 1957, insieme al Mercato comune, è stato istituito l’Euratom al fine di consentire una gestione comune dell’energia nucleare a scopi pacifici. L’Euratom era giustificato dal fatto che il carbone era ormai diventato un combustibile eccessivamente costoso (in specie, per le dannose conseguenze sociali dei processi di estrazione) ed inquinante, così che conveniva avviare la sua sostituzione radicale per i successivi decenni. Il Trattato dell’Euratom prevedeva tutti gli strumenti necessari alla realizzazione di una efficace politica europea per l’energia nucleare, ed avrebbe anche potuto — se i governi europei lo avessero voluto — venir esteso facilmente alle altre fonti di energia. Fra l’altro, nel Trattato si prevedeva che l’Euratom poteva «esercitare il diritto di proprietà sui materiali fissili speciali». Pertanto, grazie al monopolio riconosciuto su tutti i prodotti nucleari importati e circolanti all’interno della Comunità, l’Euratom aveva il potere di decidere la loro ripartizione per paese, i tassi di accrescimento delle risorse e delle nuove centrali, oltre che standards comuni di sicurezza. Nei fatti, tuttavia, il Trattato dell’Euratom non venne mai applicato integralmente, tanto meno nelle parti che avrebbero implicato una forte limitazione delle sovranità nazionali.
Gli Stati europei potevano in quegli anni ancora illudersi sul loro futuro. L’abbondanza ed il basso prezzo del petrolio consentirono di diluire nel tempo, o di rimandare del tutto, il ricorso alle tecnologie nucleari. I piani energetici nazionali furono impostati in funzione della ricchezza o scarsità interna di risorse naturali e delle rispettive esigenze di sicurezza. E nella misura in cui si delineava una forte divaricazione fra le scelte energetiche dei differenti paesi, diventava anche evidente il vizio di fondo di tutto l’edificio comunitario: una Comunità senza legittimità democratica non poteva pretendere di fare scelte decisive per il benessere e la sicurezza dei cittadini europei.
La crisi del 1973 ha mostrato che erano ormai mutati alcuni dati strutturali del problema energetico sia al livello europeo, sia a quello mondiale. Il petrolio aveva ormai sostituito il carbone come principale fonte di energia della Comunità, ma a differenza del carbone veniva quasi interamente importato. Rispetto agli anni della CECA, pertanto, la dipendenza esterna della Comunità si era enormemente aggravata ed essa aveva perso ogni potere di controllare sia i prezzi che i rifornimenti delle materie prime energetiche. In questa situazione di accresciuta dipendenza, l’Europa doveva inoltre affrontare nuove sfide internazionali. Il Terzo mondo rivendicava vigorosamente una più giusta distribuzione mondiale delle risorse e del reddito. Le richieste del Terzo mondo erano e sono comprensibili: i paesi industrializzati, in cui risiede il 22% della popolazione, consumano circa il 60% dell’energia mondiale disponibile. E poiché vi è una stretta correlazione tra reddito pro-capite e consumo pro-capite di energia, almeno fra paesi che attraversano stadi differenti di sviluppo, la crescita industriale del Terzo mondo è impensabile senza una maggiore disponibilità di risorse energetiche. Infine, le tensioni si sono accresciute anche fra paesi ricchi. Le esigenze di crescita dei paesi di più antica industrializzazione, proiettati ormai verso la cosiddetta società post-industriale, in cui diventa possibile una progressiva riduzione dell’orario di lavoro grazie ad una più elevata produttività, impongono un maggior consumo di energia (energia è lavoro potenziale). È noto, infatti, che la società post-industriale è caratterizzata da una alta percentuale della popolazione attiva impegnata nel settore dei servizi, dove il consumo di energia pro-capite è mediamente più elevato che nel resto dell’economia. In questo nuovo mondo, in lotta per l’accaparramento di risorse scarse, l’Europa non ha saputo dare alcuna risposta unitaria e coerente. Ciascun paese ha seguito logiche differenti. Francia e Germania hanno puntato sull’energia nucleare, la Gran Bretagna sul petrolio del Mare del Nord, l’Italia sul petrolio dei paesi arabi.
***
Dopo questi mutamenti strutturali, e dopo il fallimento delle precedenti politiche comunitarie, è ormai indispensabile affrontare il problema energetico in termini nuovi. Non è possibile impostare una seria politica energetica per la Comunità europea senza una attiva partecipazione delle forze politiche e sociali e senza un controllo costante del Parlamento europeo, unico legittimo rappresentante dei cittadini europei, sull’esecutivo europeo.
Il progetto di Trattato per l’Unione europea, approvato dal Parlamento europeo il 14 febbraio 1984, se fosse stato accettato dai governi europei, avrebbe potuto consentire la necessaria trasformazione della Comunità in una federazione, con poteri effettivi in materia di moneta, economia, energia e sicurezza ambientale. Per quanto riguarda la politica energetica, l’art. 53, f) del progetto di Trattato recita infatti: «Nel campo dell’energia, l’intervento dell’Unione mira a garantire la sicurezza degli approvvigionamenti, la stabilità del mercato dell’Unione e, nella misura in cui vi sia una regolamentazione dei prezzi, una politica armonizzata dei prezzi stessi, compatibile con una concorrenza leale. Essa mira parimenti a promuovere lo sviluppo delle energie alternative e rinnovabili, a introdurre norme tecniche comuni in materia di efficienza, di sicurezza e di protezione della popolazione e dell’ambiente, e a incoraggiare l’utilizzazione delle fonti europee di energia».
Su questa base, un governo europeo avrebbe potuto affrontare i differenti aspetti del problema energetico nel modo seguente:
a) Sicurezza degli approvvigionamenti. È un problema decisivo per l’Europa che dipende per circa il 45% dei suoi fabbisogni di energia da fonti esterne (ma alcuni paesi, come l’Italia, hanno una dipendenza che giunge al1’85%). È anche per mettersi al riparo da eventuali ricatti in materia di rifornimenti che alcuni Stati europei, come la Francia, hanno decisamente orientato le loro politiche nella direzione dell’energia nucleare. Per l’Europa il problema della sicurezza degli approvvigionamenti coincide in gran parte con la sua capacità di affrontare il dialogo Nord-Sud, cioè di impostare una seria politica di cooperazione con i paesi del Terzo mondo. In proposito, i federalisti non possono fare a meno di ricordare che da anni sostengono la proposta che la Comunità si faccia promotrice di un grande piano Marshall europeo per l’Africa ed il Medio Oriente, che si proponga come obiettivo prioritario lo sviluppo economico, industriale e sociale di questi popoli nell’arco di qualche decennio. L’Unione europea (che potrebbe utilizzare l’ECU come moneta internazionale) avrebbe la capacità finanziaria, tecnologica e politica di realizzare questa storica impresa che garantirebbe una progressiva stabilizzazione e pacificazione della regione mediterranea, medio-orientale ed africana.
b) Ricerca di energie alternative. L’Europa è la macroregione del mondo di maggiore densità industriale e di popolazione. Per questo, l’utilizzazione di energie «sporche», come le centrali a carbone o quelle a fissione, provoca danni o rischi di contaminazioni dell’ambiente in misura molto più elevata rispetto a paesi come URSS e USA dove la dispersione della popolazione e dell’industria sul territorio è maggiore. La ricerca di fonti energetiche alternative «pulite» è dunque di importanza vitale per l’Europa. Ma a questo proposito la divisione politica dell’Europa ha giocato un ruolo nefasto. Gli Stati membri spesso finanziano progetti in concorrenza fra di loro, contribuendo così allo spreco di risorse, perché nessuno Stato nazionale ha ormai più una autonoma capacità di sostenere la ricerca su grande scala di tecnologie d’avanguardia. Le risorse dedicate dalla Comunità alla ricerca e allo sviluppo nei settori dell’energia solare e della fusione nucleare, le energie «pulite» del futuro, raggiungono a mala pena un terzo in termini di addetti e di capacità di bilancio rispetto agli sforzi di URSS e USA.
c) Sicurezza e ambiente. E’ ormai evidente — come dimostra eloquentemente l’esempio di Cattenom, oltre che di Chernobyl — che non ha senso una scelta di standards di sicurezza e di rispetto dell’ambiente nell’angusto quadro nazionale. Solo un governo europeo, con poteri effettivi e responsabile di fronte al Parlamento europeo, sostenuto dalle forze politiche e dall’opinione pubblica, potrà progressivamente imporre, anche ai paesi più riluttanti, misure adeguate ed uniformi in tutta la Comunità.
d) Energia e difesa. Qualsiasi programma europeo dell’energia è destinato, nel lungo periodo, al fallimento se non viene affrontato esplicitamente il problema della difesa comune dell’Europa. La Francia si è sottratta alla disciplina comunitaria dell’Euratom quando ha incominciato a costruire la sua force de frappe autonoma. Più in generale, va osservato che i confini fra nucleare civile e nucleare militare sono spesso imprecisi e che la difesa della propria indipendenza è praticamente impossibile senza un controllo assoluto delle fonti energetiche strategiche.
La scelta contenuta nel progetto di Trattato per l’Unione europea è quella di prevedere un periodo transitorio. Il Parlamento europeo, una volta istituita l’Unione economico-monetaria, si assumerà l’incarico di fare proposte concrete sulle tappe e sulle modalità per la realizzazione di una difesa comune europea.
e) La transizione all’energia «pulita». Sin dagli anni Cinquanta, il ricorso all’energia da fissione nucleare è stato concepito come un programma di transizione, per sopperire ai bisogni crescenti di energia delle società industrializzate, in vista dell’adozione di energie «pulite», che si prevedeva di poter introdurre prima del 2000. Ma questa «transizione» rischia di diventare una scelta definitiva a causa della esiguità di risorse umane e finanziarie dedicate, nel mondo intero, alla ricerca di energie alternative. Le superpotenze hanno preferito concentrare i loro sforzi al potenziamento degli arsenali militari e l’Europa si è mostrata del tutto incapace di affrontare il problema. L’esperienza successiva alla crisi del 1973 ha mostrato che i paesi industrializzati riescono a mantenere un grado costante di sviluppo e di benessere solo a spese del Terzo mondo — dato il loro più elevato potere d’acquisto — oppure ricorrendo ad un uso crescente e forsennato dell’energia nucleare «sporca». Chernobyl ha minato definitivamente le certezze che stavano alla base della vecchia politica energetica.
Un governo europeo potrebbe anche prendere la coraggiosa decisione di «uscire dal nucleare», cioè di affrontare senza il ricorso alla energia nucleare da fissione i problemi della transizione, a tre condizioni: 1) di chiarire senza equivoci ai cittadini europei i costi in termini di inquinamento — allo stato attuale, la sola alternativa praticabile è un maggior uso di carbone e di petrolio — e di mancato sviluppo economico; 2) di varare un efficace piano per la ricerca di energie «pulite e rinnovabili»; 3) di pretendere dai paesi dell’Est europeo e dall’URSS misure analoghe di contenimento nell’uso dell’energia nucleare oppure standards comuni di sicurezza (l’Inghilterra e l’Ucraina sono ugualmente distanti, in linea d’aria, da Roma).
f) L’Europa e la pace. Il programma di transizione all’energia pulita e rinnovabile potrebbe venire enormemente accelerato se ad esso potessero essere dedicati molti più denari e talenti di quanto si faccia oggi, in un mondo dominato dal confronto Est-Ovest. Ad esempio, negli Stati Uniti i fondi per la ricerca sono per più del 70% destinati a progetti di natura militare. Il programma per la fusione nucleare assorbe solo il 3,5% delle risorse che si vorrebbero destinare alle guerre stellari (SDI). La riconversione delle risorse, oggi destinate alla ricerca di nuovi armamenti, verso fini di pace diventerà possibile solo nella misura in cui l’Europa saprà realizzare politiche efficaci per superare l’attuale bipolarismo politico-militare.
In questa prospettiva, il governo europeo dovrebbe allora assumersi il compito di operare all’interno dell’ONU affinché venga riconosciuto il problema della transizione alle energie pulite e rinnovabili come di vitale importanza per il genere umano: dalla sua soluzione dipendono infatti lo sviluppo pulito dei paesi più prosperi e le speranze di industrializzazione dei paesi più poveri. L’ONU dovrebbe dunque varare un grande piano mondiale di ricerca per le fonti energetiche rinnovabili (energia solare e fusione nucleare), finanziato da tutti i paesi in proporzione al loro reddito ed a cui dovrebbero partecipare gli scienziati di ogni nazione. I risultati di questo sforzo collettivo saranno messi a disposizione del mondo intero.
***
I tentativi che i governi, caparbiamente arroccati in difesa delle sovranità nazionali e ciechi di fronte ai problemi del nuovo mondo postindustriale, stanno facendo per varare accordi internazionali e formule di cooperazione per garantire standards uniformi di sicurezza delle centrali atomiche vanno denunciati come un volgare inganno dell’opinione pubblica. Senza un potere sovrannazionale che possa imporre il rispetto dei patti nessun governo sarà tenuto, al momento decisivo, al loro rispetto. L’esperienza dell’Euratom dovrebbe costituire la cartina di tornasole per valutare la portata e l’efficacia di ogni accordo internazionale: qualsiasi politica energetica proposta potrà diventare realtà solo sulla base di istituzioni più — e non meno — sovrannazionali di quelle comunitarie.
In conclusione, senza l’Unione europea è impossibile affrontare adeguatamente, in Europa, il problema energetico e porre le basi per una sua soluzione a livello mondiale. A chi obietta che l’Unione è ancora un obiettivo lontano, vale la pena di ricordare che se il Consiglio europeo di Lussemburgo (dicembre 1985) avesse deciso altrimenti, in questo momento l’Europa, al posto di recriminare sulla sua impotenza, sarebbe già in grado di discutere le modalità di attuazione di una efficace politica energetica. Dopo Chernobyl, vi sono dunque ulteriori ragioni per riprendere senza esitazioni il cammino verso l’Unione europea.
Guido Montani
Anno XXIX, 1987, Numero 1, Pagina 52
DOVE VA IL MONDO?
Nella «Dichiarazione d’intenti» introduttiva al suo recente libro sulle conseguenze della Rivoluzione scientifica e tecnologica,[1] Adam Schaff si pone la domanda: «Dove va il mondo?». Una simile domanda indica la chiara consapevolezza che ci troviamo di fronte ad una serie di cambiamenti talmente radicali da mettere in gioco il futuro dell’umanità nel suo complesso. E non è un caso che un autorevole studioso di ispirazione marxista si ponga il problema di individuare nuove categorie di interpretazione della fase storica che stiamo vivendo, che superino, sia pure dialetticamente, le vecchie categorie legate alle ideologie tradizionali, ormai incapaci di offrire risposte adeguate al tipo e alla dimensione dei problemi da affrontare.
Il libro è diviso in due parti. La prima, dopo aver brevemente presentato i tre aspetti di quella che Schaff definisce «Rivoluzione tecnico-scientifica» (microelettronica, microbiologia e ingegneria genetica), ne prende in esame le conseguenze economiche, sociali, politiche e culturali e si conclude con un capitolo sui problemi del Terzo mondo. La seconda parte analizza la situazione e le prospettive dell’individuo nella società informatica.
Ognuna delle questioni trattate (dalla disoccupazione strutturale al rapporto città-campagna, dal nuovo modello di urbanizzazione al ruolo dell’informazione, ecc.) meriterebbe un ampio discorso. Ma di fronte alla varietà e complessità di tutte queste problematiche (per alcune delle quali, in realtà, lo stesso Schaff si limita a pochi cenni), si è scelto qui un filo conduttore che mette in relazione la progressiva scomparsa della classe operaia con la nuova condizione dell’uomo nella società informatica, nella quale, secondo l’autore, saranno messi in discussione sia il senso della vita e i valori in cui credere, sia la capacità di gestire il cambiamento, sia, infine, la dimensione dei problemi da affrontare.
La premessa da cui parte Schaff per articolare il suo discorso è che il modo di produzione emergente, in cui la scienza sta diventando una forza produttiva e in cui progressivamente il lavoro ripetitivo dell’uomo sarà sostituito dai robot, produrrà la scomparsa della classe operaia, con il conseguente sconvolgimento di tutto il quadro della realtà sociale di oggi. Questa nuova prospettiva, che pone l’individuo (sia pure inteso come «individuo sociale») al di sopra del proprio ruolo produttivo nella società, sta alla base della creazione di un nuovo senso della vita. Il senso della vita moderna — afferma Erich Weil[2] — consiste nella lotta con la natura: questo è il valore sulla base del quale la società moderna riflette e grazie al quale si orienta. Nella società moderna, l’individuo si trova dinanzi ad un meccanismo al quale è sottomesso e nel quale in pari tempo confida per guadagnarsi un posto nella società: chi non contribuisce al successo della lotta con la natura non può aspettarsi alcuna partecipazione ai benefici. Se vuol vivere e partecipare ai vantaggi del lavoro sociale, deve trasformarsi in oggetto utilizzabile in un lavoro. Dunque, fino ad ora, il senso della vita dell’uomo è sempre stato correlato ad una qualche attività come fonte dei mezzi necessari di sussistenza e come misura del suo status sociale. Ma «che cosa dovrà sostituire il senso della vita dell’uomo, quando questo scomparirà insieme all’attuale concezione di lavoro?», si chiede Schaff (p. 113).
L’abolizione del lavoro, di un certo tipo di lavoro, pone il problema del tempo libero, e può diventare la premessa di un malessere diffuso, pericoloso per la società, della quale ciascun individuo vuole e deve sentirsi partecipe per dare senso alla propria vita. Per l’individuo il tempo libero non può diventare tempo vuoto senza che esso diventi insensato. Oggi il tempo libero è considerato solo come un intervallo, uno stacco più o meno breve da un’attività lavorativa più o meno gratificante e, come scrive Schaff, «il problema è quello di insegnare alla gente come utilizzare il tempo libero con la ragione e con la fantasia» (p. 122), mediante attività sportive, turismo e hobbies di vario genere. Ma la piena affermazione della Rivoluzione scientifica e tecnologica e la conseguente abolizione del lavoro ripetitivo muteranno il concetto di tempo libero: la società informatica non sarà «una specie di paese di cuccagna dove la gente, liberata dal peso del lavoro, si spreme le meningi per escogitare un modo di passare il tempo. Questo significherebbe in concreto un inquinamento del tempo libero, che distruggerebbe l’individuo, privandolo del suo senso della vita» (p. 122). Il tempo libero dovrà dunque diventare una delle componenti essenziali dell’autorealizzazione dell’uomo (homo autocreator).
In questa prospettiva Schaff attribuisce un’importanza essenziale all’«istruzione continuata (o educazione permanente), che possa combinare… un’attività di studio vero e proprio con un’altra di insegnamento» (p. 114). Questo progetto avrebbe come risultato un nuovo tipo di uomo (homo studiosus o homo universalis), «in possesso di una istruzione poliedrica in grado di fargli cambiare occupazione a seconda delle circostanze e quindi anche la posizione all’interno dell’organizzazione sociale del lavoro» (p. 116).
Un altro risultato, altrettanto rilevante, dell’innalzamento del livello culturale degli individui sarebbe la «stabilizzazione della società democratica» (p. 115). A questo proposito Schaff fa riferimento all’idea di Platone secondo la quale tutti gli uomini ammessi alla vita politica dovrebbero essere maturi e sapienti, ossia effettivamente in grado di gestire gli affari pubblici. Questo principio, che all’epoca di Platone stava alla base di una concezione aristocratica, ha la possibilità di diventare operante nelle moderne democrazie, in cui sempre più si manifestano esigenze di partecipazione attiva alla gestione del potere da parte di tutti i cittadini.
Ma la garanzia teorica dell’uguaglianza politica (uguaglianza sociale e culturale) non coincide con l’effettivo esercizio di essa: all’interno di istituzioni politiche accentrate, le esigenze e le potenzialità di partecipazione attiva dei cittadini vengono necessariamente frustrate. E Schaff si rende conto del problema laddove prende in considerazione il rapporto fra rivoluzione informatica e funzionamento dello Stato: «I progressi dell’informatica agiranno in favore del decentramento delle funzioni pubbliche… Questo vale soprattutto per le amministrazioni locali ai vari livelli, rendendo possibile una relativa autonomia dal governo centrale» (p. 64). Ma la sua conclusione va in tutt’altra direzione rispetto alle premesse del discorso: «L’informatica apre nuovi orizzonti alla democrazia diretta, ovvero all’autogoverno dei cittadini nel vero senso dell’espressione, perché rende possibile la diffusione del referendum popolare su una scala mai sperimentata in precedenza, viste le difficoltà tecniche che si sono riscontrate quando si è voluto ricorrere a questa forma di consultazione popolare. In questo modo si potrà rivoluzionare la vita politica della società, nel senso di una maggiore democratizzazione» (p. 65).
Ora, se è pur vero che le nuove tecnologie applicate all’informazione e alla comunicazione avranno una notevole influenza sul rapporto fra i cittadini e la gestione della «cosa pubblica», sulle conclusioni di Schaff è necessario fare alcune riflessioni.
Innanzitutto, l’idea di una forma di democrazia diretta su vasta scala, attraverso l’istituto del referendum, non tiene conto del fatto che questa forma di partecipazione può essere efficacemente applicata, e non rischia di degenerare in strumentalizzazioni ideologiche o demagogiche, solo nell’ambito di comunità relativamente ristrette: solo in questo caso i cittadini si sentono effettivamente responsabili delle decisioni da prendere, sia perché conoscono direttamente i problemi che sono chiamati ad affrontare, sia perché ogni decisione ricade direttamente su ognuno di loro in quanto membro della comunità.
In secondo luogo, l’autogoverno in ambiti territoriali ristretti è possibile solo se «l’ambiente esterno si trova in un relativo stato di equilibrio, cioè se i problemi di dimensione più vasta vengono affrontati con efficacia da centri democratici di autogoverno aventi una competenza territoriale di uguale estensione»;[3] e oggi molti problemi stanno assumendo una dimensione mondiale.
Infine, se si vuole offrire all’uomo la possibilità di un governo veramente democratico e razionale della comunità in cui vive, è necessario mettere in discussione la cultura del nazionalismo. Schaff intuisce ciò, laddove indica come una delle conseguenze della rivoluzione scientifica e tecnologica «l’evoluzione verso una cultura sovrannazionale» (p. 73) come «affrancamento dalla custodia della cultura nazionale» (p. 67). Ma in realtà egli non è del tutto consapevole del fatto che la cultura del nazionalismo continuerà ad essere alimentata dal persistere della divisione del mondo in Stati nazionali sovrani. E non è inoltre consapevole del fatto che il lealismo incondizionato nei confronti della propria comunità nazionale esclusiva non può che alimentare le tendenze all’accentramento e alla burocratizzazione delle decisioni.
In definitiva, dunque, ciò che manca in questa analisi, che pure è stimolante e ricca di spunti per una riflessione oggettiva su vari problemi, è il tentativo di visualizzare il quadro politico che possa dare spazio alla realizzazione delle potenzialità che emergono dal nuovo modo di produzione.
Lo stesso limite sta alla base dell’analisi del problema del Terzo mondo e sta anche alla base dell’atteggiamento estremamente pessimistico con cui Schaff prende in esame le prospettive di soluzione. Egli prende in considerazione separatamente due possibili alternative. L’una consiste nella riduzione sostanziale degli armamenti in tutto il mondo, al fine di reperire i fondi per l’acquisto di merci necessarie alla creazione di nuove infrastrutture nei paesi sottosviluppati, merci di cui avranno enormi disponibilità i paesi la cui produzione è automatizzata. «Ma — aggiunge — solo gli sprovveduti credono che i prossimi venti o trent’anni vedranno una riduzione degli armamenti… La corsa agli armamenti aumenterà la sua velocità con l’arricchimento delle nazioni. Nessuna retorica dei nobili ma praticamente impotenti umanisti, pacifisti, ecc. potrà mai invertire questa tendenza. lo li ammiro, ma non credo siano realisti» (p. 86). L’altra alternativa (che però non può obiettivamente essere disgiunta dalla prima) consiste nella partecipazione alla soluzione del problema di tutte le nazioni più ricche, che dovrebbero mettere a disposizione i fondi necessari per l’impresa. Riguardo a ciò Schaff afferma che sarebbe necessario un vero e proprio piano mondiale di sviluppo, e che esso implicherebbe il trasferimento di «alcuni poteri a speciali organismi internazionali» (p. 87), ma conclude affermando che «sorgerebbero dei conflitti tra iniziative sovrannazionali e la sovranità nazionale» (p. 88); dunque si tratta di una soluzione irrealistica e purtroppo, scrive, «dopo aver lanciato appelli di tutti i tipi, poco si può fare» (p. 89).
Uno scetticismo così totale e irrimediabile è la logica conclusione di un’analisi che parte da premesse generali sbagliate. Non si può, infatti, identificare e tentare di realizzare degli obiettivi politici a livello mondiale (la pace, l’attivazione di organismi sovrannazionali) partendo dal presupposto della impossibilità di modificare l’assetto del potere. La divisione del mondo in Stati nazionali sovrani, la cui politica interna ed estera sono regolate dalla ragion di Stato, così come non permette l’affermazione di una vera democrazia partecipativa all’interno degli Stati stessi, è anche l’ostacolo che impedisce di pensare e di realizzare la pace e una più equa distribuzione delle risorse mondiali.
Il pessimismo di Schaff esprime certamente una coscienza più avanzata rispetto al superficiale ottimismo che troppo spesso accompagna gli accordi internazionali di qualsiasi genere, la cui applicazione non è garantita da alcun potere politico effettivo al di sopra delle nazioni. Ma è una coscienza negativa, paralizzante, che contraddice le sue stesse conclusioni: “Il futuro non è un fato determinato dai progressi della tecnologia, ma è opera dell’uomo” (p. 142).
Insieme alla consapevolezza delle potenzialità che emergono dal nuovo modo di produzione, è perciò indispensabile la ricerca di alternative politiche — le quali dovranno necessariamente essere di natura federale e di dimensione mondiale — che creino un quadro istituzionale all’interno del quale sia possibile fare scelte consapevoli e responsabili.
Nicoletta Mosconi
[1]Adam Schaff, Wohin fuhrt der Weg? Die gesellschaftlichen Folgen der zweiten industriellen Revolution, Vienna, Club di Roma - Europa Verlag GesmbH, 1985 (Trad. it. Il prossimo Duemila, Roma, Editori Riuniti, 1985).
[2]Erich Weil, Philosophie politique, Paris, J. Vrin, 1966 (Trad. it. Filosofia politica, Napoli, Guida, 1973, p. 82 e p. 94).
[3]Francesco Rossolillo, «Il federalismo nella società postindustriale», in Il Federalista, XXVI (1984), p. 133.