Anno XXIX, 1987, Numero 3, Pagina 229
PERCHE’ L’ATTO UNICO E’ INSUFFICIENTE
Si potrebbe discutere per ore sul problema se l’Atto Unico sia davvero un grande balzo in avanti per la Comunità oppure se sia un puro atto di «cosmesi». Nei prossimi anni si chiarirà se l’estensione a pochi altri articoli del Trattato della possibilità del voto a maggioranza porterà veramente a decisioni più rapide nell’ambito del Consiglio; si chiarirà se la Commissione riacquisterà il proprio ruolo esecutivo e se aumenterà l’influenza del Parlamento sulla legislazione comunitaria. Vi sono ancora certamente battaglie da combattere all’interno dell’Atto; tuttavia, lo scopo di questo articolo è dimostrare che, pur dando un’interpretazione ottimistica dell’Atto Unico — anzi, proprio dando una simile interpretazione — è necessaria una ulteriore riforma.
Supponiamo che l’Atto Unico permetta di raggiungere con successo il suo obiettivo prioritario: la creazione, entro il 1992, di un autentico mercato interno, ossia la libera circolazione di beni, servizi, capitali e lavoro. Ebbene, ciò significherebbe la creazione di un mercato unico, ma sprovvisto degli strumenti comuni per la sua gestione, il suo controllo e la sua organizzazione.
Prendiamo in considerazione un esempio molto chiaro. Se la Comunità non ha stabilito standards comuni per la protezione del consumatore all’interno del mercato unico, e rimangono ancora validi i singoli provvedimenti nazionali (benché reciprocamente riconosciuti), il mercato correrà il rischio di una concorrenza distorta, che minaccerà nello stesso tempo i consumatori. E’ infatti possibile che le imprese concentrino la propria produzione in quegli Stati membri che hanno adottato provvedimenti meno restrittivi. Questo problema è già sorto nel settore degli additivi alimentari. In questa situazione si può garantire la difesa del consumatore in due modi: attraverso provvedimenti nazionali, ai quali devono conformarsi tutte le merci importate (il che equivarrebbe alla eliminazione del mercato unico), oppure attraverso provvedimenti comuni da applicare nella Comunità. Sulla base dell’Atto Unico, c’è qualche opportunità di armonizzare le disposizioni nazionali mediante l’articolo 100 A, ma ciò è sufficiente? Lo stesso articolo ammette deroghe nazionali in campi relativi ai problemi dei consumatori (articolo 36, tutela della salute, scelte politiche di utilità pubblica), e non sono state stabilite misure per sviluppare nella Comunità una vera politica in difesa del consumatore.
La situazione è forse peggiore per quanto riguarda i problemi dell’ambiente. Anche in questo caso possono essere introdotte distorsioni nella concorrenza se gli standards nazionali sono diversi. In realtà, certi paesi possono essere tentati di attirare imprese, imponendo loro standards (e di conseguenza costi) meno restrittivi, specialmente laddove non sono essi stessi le prime vittime del danno ambientale (un esempio sono le piogge acide). Naturalmente l’Atto Unico comprende un capitolo sull’ambiente che prevede la possibilità di fissare standards comuni. Tuttavia, per prendere decisioni è richiesta l’unanimità: un metodo che porta a compromessi inadeguati, basati sul minimo denominatore comune.
Più direttamente, in campo economico, le differenze nella tassazione indiretta (in particolare aliquote IVA e accise) avranno come conseguenza o il mantenimento dei controlli doganali o ulteriori distorsioni nella concorrenza (e ciò in particolare a favore di alcuni piccoli Stati che possono deliberatamente vendere a un prezzo inferiore rispetto ai loro vicini grazie a manovre in questo campo). Anche in questo caso i Trattati prevedono l’armonizzazione delle imposte, ma il metodo adottato è quello dell’unanimità all’interno del Consiglio — ossia la dittatura della minoranza.
Distorsioni nella concorrenza sorgeranno anche nel mercato dei capitali se ci sarà una effettiva libera circolazione senza una armonizzazione della legislazione bancaria, degli standards di sorveglianza e dell’accesso ai mercati dei capitali. Ciò ci porta a considerare il problema monetario: se, all’interno del mercato unico, la Comunità dovesse mantenere dodici monete nazionali concorrenti, l’intera economia ne soffrirebbe. Come si legge nel rapporto Albert-Ball: «Le continue fluttuazioni nei tassi di cambio rappresentano, per economie interdipendenti, un handicap quasi altrettanto grave dell’instabilità di pesi e misure. Si può immaginare un normale svolgimento degli affari con un metro o un chilogrammo ‘fluttuanti’?». L’Atto Unico prevede una cooperazione monetaria all’interno dello SME. Tuttavia, esso stabilisce che qualsiasi sviluppo istituzionale dello stesso richiede non solo accordi unanimi fra i governi nazionali, ma anche la ratifica da parte di ciascun parlamento nazionale. Sarebbe ingenuo aspettarsi maggiori sviluppi dello SME con procedure così ingombranti. Ma anche una cooperazione più stretta fra le monete nazionali all’interno dello SME, se fosse raggiunta, rimarrebbe insufficiente. Senza una moneta comune per tutta la Comunità, gli imprenditori saranno ostacolati dai costi della semplice conversione di una moneta nell’altra e dei residui rischi di cambio. I governi dovranno mantenere riserve separate per difendere le monete nazionali sia l’una nei confronti dell’altra sia verso l’esterno. Dunque, un mercato unico senza un’unica moneta è un’illusione.
In un mercato unico si presenta anche la questione della coesione, che è l’ultima trovata del gergo comunitario per indicare la convergenza economica. Si accentuerà la tendenza alla concentrazione delle imprese in certe aree. L’Atto Unico prevede a parole un rafforzamento di politiche di coesione, ma non prevede nulla per quanto riguarda l’aumento delle risorse della Comunità. Il bilancio totale della Comunità rappresenta l’1% scarso del prodotto interno lordo,e le politiche strutturali assorbono meno del 20% del bilancio comunitario. Qualsiasi sensata redistribuzione di risorse richiede somme molto superiori, a cui le economie più deboli hanno sicuramente diritto, avendo esse aperto le loro vulnerabili industrie alla libera concorrenza all’interno del mercato unico. Ma le risorse della Comunità sono esaurite, e, sulla base dei Trattati che l’Atto Unico lascia immutati su questo punto, possono essere aumentate solo attraverso l’accordo unanime di ciascun governo e di ciascun parlamento nazionale. Un singolo Stato, dunque, può bloccare lo sviluppo della Comunità. Invece di pianificare globalmente l’uso dei fondi, per esempio nella politica regionale, gli Stati membri ricevono separatamente e in concorrenza fra di loro (il che implica costi maggiori) sussidi regionali. Il Netherlands Scientific Council ha definito ciò come una «contesa fra gli Stati membri per ottenere sussidi, che ha portato a un enorme spreco di fondi pubblici all’interno della Comunità».
Se la Comunità, nonostante si esiga continuamente l’unanimità in molte di queste questioni vitali, tuttavia si impegna a sviluppare politiche comuni, per realizzarle effettivamente sarà necessario rafforzare le sue istituzioni. Ciò significa in particolare che bisogna rafforzare il ruolo esecutivo della Commissione (oserei dire il suo ruolo di governo). Un esempio che dimostra questa necessità è la politica agricola comune. Essendo questa una delle poche genuine politiche comuni esistenti, essa ha mostrato uno dei più vistosi fallimenti istituzionali della Comunità. Nel suo ruolo di esecutivo comune della politica agricola comunitaria (PAC), la Commissione è senza dubbio in una situazione migliore rispetto agli Stati membri per valutare le necessità complessive di questa politica. Per quanto riguarda la fissazione dei prezzi, per esempio, la Commissione può giudicare molto meglio le conseguenze globali di diverse possibili scelte. Tuttavia, gli Stati membri hanno affidato al Consiglio la decisione in proposito, e, anno dopo anno, ciascun ministro vi partecipa con lo scopo di difendere gli interessi nazionali settoriali. Per raggiungere l’unanimità, essi stipulano accordi di compromesso che innalzano il livello dei prezzi proposti. Il risultato di questo processo nel corso degli anni è una continua lievitazione dei prezzi stessi rispetto alle proposte originarie della Commissione, con una differenza globale, a partire dal 1979, del 12-13%. Essendo molti prodotti eccedenti rispetto al fabbisogno, l’impatto dei cambiamenti dei prezzi sul costo dei rimborsi delle esportazioni e sugli stocks è più che proporzionale. Se i prezzi fossero inferiori del 13%, il costo della PAC sarebbe inferiore dai tre ai sei miliardi di ECU all’anno (cioè molto di più dell’ammontare del bilancio comunitario per la ricerca, che dà luogo attualmente a molte controversie). Ciò non accadrebbe tanto a spese degli agricoltori, quanto a spese di una riduzione dei costi di stoccaggio e dei sussidi all’esportazione. L’onere addizionale imposto al bilancio comunitario può dunque essere imputato direttamente alla contraddizione che caratterizza le istituzioni della Comunità, che ha una politica comune, ma non ne affida la gestione all’organo esecutivo comune.
Se si prendono in considerazione, al di là del mercato interno, altri obiettivi dell’Atto Unico, anche qui la sua insufficienza è presto dimostrata. La ricerca è già in crisi, dato che nessun singolo programma di ricerca può ora essere approvato prima dell’adozione di un «programma-quadro», che richiede l’unanimità. Eppure la Comunità ha un interesse vitale nel colmare il divario in questo campo con gli Stati Uniti e il Giappone.
La codificazione delle procedure della cooperazione politica in forma di trattato nell’articolo 30 dell’Atto Unico è stata forse utile per formalizzare la cooperazione politica e collegarla alla Comunità; tuttavia sono stati introdotti pochi cambiamenti rispetto alle pratiche in atto. L’unico passo avanti significativo è stata la creazione di un segretariato per la cooperazione politica. Ma, sebbene esso sia senza dubbio utile per la normale amministrazione, l’aggiunta di un segretariato separato dalle istituzioni comunitarie esistenti è pericolosa. La Comunità ha già adeguati organi che rappresentano gli Stati membri (il Consiglio) e l’elettorato nel suo insieme (il Parlamento) e ha un esecutivo che agisce in nome dell’intera Comunità (la Commissione). Perché creare un organismo intergovernativo separato? A medio o lungo termine, esso potrebbe diventare fonte di conflitti e dovrebbe perciò essere cambiato.
Un ulteriore e maggiore svantaggio consiste nel fatto che la cosiddetta cooperazione politica non è che un semplice coordinamento delle politiche estere nazionali che si nasconde dietro il concetto di politica estera comune. Ma in realtà l’insieme degli Stati europei di piccola o media dimensione non ha alcuna possibilità di influenzare gli avvenimenti mondiali, anche in questioni che li riguardano direttamente, come i negoziati USA-URSS per il controllo degli armamenti. Senza una vera politica comune, non è possibile alcuna politica.
Ultima, ma non meno importante, è la questione della democrazia. E’ inaccettabile che il potere legislativo che i parlamenti nazionali hanno delegato alla Comunità debba essere esercitato esclusivamente dal Consiglio (cioè da ministri nazionali che decidono a porte chiuse senza alcuna responsabilità collettiva). L’Atto Unico, tranne che per due questioni per le quali è ora richiesto l’assenso del Parlamento europeo (adesione alla Comunità di nuovi Stati e accordi di cooperazione) assegna a quest’ultimo un semplice ruolo consultivo. Questo limite deve essere superato se si vuole garantire che la legislazione comunitaria sia soggetta all’approvazione dei rappresentanti del popolo e dei governi nazionali. Per quanto riguarda tutte queste e altre questioni, è evidente che l’Atto Unico, nonostante la possibilità di successo in qualcuno degli obiettivi che si propone, non permetterà all’Europa di affrontare i problemi del futuro. Come la Commissione ha recentemente dichiarato, «la nave dell’Europa ha bisogno di un timoniere»; è cioè necessario il governo europeo per quei settori nei quali gli Stati membri stanno allentando (sia pure a malincuore) i controlli nazionali. Chi afferma che l’Atto Unico sarà l’ultimo passo istituzionale del nostro secolo, certamente sbaglia.
Richard Corbett