Jane Jacobs è nota per aver analizzato la crisi urbana partendo dall’osservazione del tessuto urbano e delle sue relazioni con la vita quotidiana.[1] In polemica con le concezioni urbanistiche dominanti la Jacobs sostiene che l’urbanistica si trova ancora ad uno stadio di elaborazione scientifica rudimentale, paragonabile a quello in cui si trovava la scienza medica nel secolo scorso. Il suo approccio, pur trascurando i problemi posti dall’evoluzione storica del fenomeno urbano e del rapporto della città con il territorio, rappresenta tuttora un importante contributo nel dibattito sulla crisi dell’ordine urbano. L’interesse della Jacobs si è rivolto successivamente ai processi economici relativi allo sviluppo urbano e a ciò che ella definisce sostituzione delle importazioni nelle economie cittadine.[2]
Recentemente la Jacobs,[3] restando fedele all’indagine di tipo empirico-descrittivo, riprende ed amplia questi temi, occupandosi di quegli aspetti economici e monetari che, a suo parere, esercitano un’influenza decisiva nel differenziare l’accumulazione di ricchezza fra città e città e fra Stato e Stato.
Lo spirito con il quale la Jacobs imposta la sua indagine è riassunto in alcune righe che precedono l’inizio del secondo capitolo, non a caso intitolato Back to Reality: «Dobbiamo trovare linee di osservazione e di pensiero più realistiche e feconde di quelle che abbiamo usato finora. Scegliere una delle attuali scuole di pensiero non è di alcun aiuto. Dobbiamo contare solo su noi stessi» (p. 28).
E’ un richiamo allo spirito di osservazione autonomo esercitato in The Death and Life of Great American Cities. Ma, a differenza della sua prima opera, l’oggetto dell’indagine non è più il tessuto urbano, bensì sono l’interazione fra il fenomeno urbano e la dimensione nazionale del governo dell’economia e, come ci ricorda, «le distinzioni fra l’economia delle città e la miscela di ciò che chiamiamo economie nazionali». Infatti «l’aver mancato di fare simili distinzioni ha prodotto numerosi e dispendiosi insuccessi nelle economie arretrate, insuccessi dovuti appunto al fatto di non aver considerato che l’importante funzione della sostituzione delle importazioni è, nella vita reale, precisamente la funzione della città, piuttosto che quella di una economia nazionale» (p. 35).[4]
La Jacobs si concentra in definitiva sugli effetti prodotti da un solo fattore considerato sotto diversi aspetti: il fenomeno dell’approvvigionamento di beni di consumo. Questa riduzione del campo d’indagine non tiene tuttavia conto del contributo dato in questo campo dalla scuola dei geografi tedeschi, e soprattutto da Walter Christaller, nella prima metà del nostro secolo.[5]
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La Jacobs cerca di individuare gli ostacoli all’innesco dei processi di sostituzione delle importazioni che avvengono, o che non avvengono, anche all’interno degli Stati. Dal punto di vista dello sviluppo delle città, sostiene la Jacobs (senza chiarire se e come secondo lei importazioni diverse hanno impatti diversi sull’espansione economica), il fatto che i prodotti importati siano di origine nazionale oppure no, non fa differenza. Ciò che conta è la loro capacità di sostituire le importazioni. «Le città che generano città-regione di una qualche importanza possiedono la capacità, o l’hanno posseduta in passato, di sostituire le proprie importazioni. E’ proprio la meccanica della sostituzione delle importazioni che decreta la formazione di una città-regione» (p. 47). Al contrario, «quando una città al centro di una città-regione si trova in una situazione di declino economico, ciò accade perché non vive più da tempo esperienze di sostituzione delle importazioni» (p. 57). Nel tempo, ricorda la Jacobs, si è assistito a continui trasferimenti di ricchezza e benessere da una città all’altra e, di conseguenza, da un impero o da uno Stato ad un altro: «Finora, risalendo fino all’epoca del neolitico, sembra che non si sia mai verificata una contemporanea decadenza di tutte le città del mondo… Mentre Addis Abeba stava morendo, Roma era in ascesa. Mentre le grandi città della Cina erano in declino, Venezia stava emergendo. Senza dubbio in futuro (ammesso naturalmente che ci sia un futuro per un mondo sotto la spada di Damocle delle armi nucleari), si ammetterà che, mentre le città della Gran Bretagna stavano morendo, quelle giapponesi erano in crescita» (p. 134).
Ma è corretto, sul piano storico, imputare solo a una porzione dello spazio così specifica come le città questi trasferimenti di ricchezze?
Certamente la Jacobs si serve di alcune classificazioni storiche usate da Fernand Braudel, autore di cui si dichiara debitrice in relazione a diversi commenti storici (si veda in proposito la nota 4 a p. 236). Alcune formulazioni della Jacobs sono molto simili a quelle di Braudel,[6] senza tuttavia conservare la precisione metodologica dello storico francese. Braudel infatti mette in evidenza sia il processo di ascesa e di declino delle economie-mondo a dominazione urbana, sia l’elemento politico che è ben diverso per una città-Stato del XV secolo quale Venezia rispetto a una città del XVIII secolo quale Londra, «l’enorme città che dispone di tutto il mercato nazionale inglese, e quindi delle isole britanniche, fino al giorno in cui, essendo mutate le proporzioni del mondo, questo agglomerato di potenza non si ridurrà alla piccola Inghilterra di fronte a un gigante, gli Stati Uniti».[7]
In questa ottica Tokyo e le città-Stato del Pacific Rim non prefigurano un nuovo modello di organizzazione della vita economica e politica, come sembra credere la Jacobs, ma sono avvisaglie di un ennesimo trasferimento storico di risorse economiche, commerciali e di potenza politica, del décentrage in atto, come direbbe Braudel, dalle sponde dell’Atlantico a quelle del Pacifico.
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Continuando ad ignorare gli aspetti di potere che hanno storicamente influenzato l’andamento del commercio, nella seconda metà del suo libro la Jacobs si concentra sul ruolo giocato dalla competizione economica, e in particolare da uno degli strumenti attraverso i quali essa si esplica, la moneta, nel processo di accumulazione della ricchezza delle città.
La Jacobs cerca così «di dimostrare che le monete nazionali o imperiali forniscono errati e distruttivi feedback alle economie delle città» (p. 158). Perciò si domanda attraverso quali meccanismi le sovranità monetarie nazionali causano queste distorsioni.
Secondo la Jacobs la sovranità monetaria nazionale unifica mercati più ampi e si accompagna ad abbattimenti di barriere tariffarie fra città dello stesso Stato, ma ciò a vantaggio soprattutto delle città che alimentano in misura maggiore il commercio internazionale e che possono quindi beneficiare delle manovre monetarie effettuate per rendere competitiva l’economia nazionale (p. 172). Analogamente agiscono le politiche tariffarie nazionali innalzate per proteggere, o incentivare, lo sviluppo di certe produzioni nazionali: esse favoriscono un flusso economico che si manifesta sul territorio in un diversificato premio ad alcune città, quelle le cui produzioni possono diventare competitive nel commercio internazionale rispetto alle altre (p. 168).
In secondo luogo la Jacobs si domanda perché nel lungo periodo anche le monete dei grandi Stati continentali, o degli imperi, provocano dei flussi economici strutturali sul territorio altrettanto dannosi di quelli prodotti nei piccoli Stati.
Secondo la Jacobs, riducendosi il numero delle monete si riducono anche i meccanismi di regolazione automatica dei mercati cittadini e vengono distorti i meccanismi della competizione. Da tutto ciò la Jacobs ricava la conclusione che la creazione di un solo Stato mondiale, eliminando ogni fluttuazione monetaria, equivarrebbe in prospettiva alla morte delle città.
Infine, per mettere in evidenza il ruolo esercitato dalla moneta anche nelle politiche di aiuti nei confronti delle regioni meno sviluppate, la Jacobs si propone di dimostrare che gli aiuti incessanti, al pari delle produzioni militari, vanno a «discapito del commercio fra le città e del processo di sostituzione delle importazioni» (p. 189). Per la Jacobs «prestiti, aiuti e sussidi inviati in regioni prive di vigorose città… sono inutili per creare economie che si autogenerano, cioè inutili per creare città capaci di sostituire le importazioni» (p. 110).
La sua conclusione è che una politica di aiuti economici sarebbe meglio svolta dalla moltiplicazione delle monete. Per esempio, «se le regioni settentrionali e meridionali del Giappone avessero monete diverse, esse potrebbero automaticamente ottenere l’equivalente di dazi e sussidi» (p. 205). La concorrenza fra città, l’improvvisazione, l’innovazione, l’imprevedibilità delle conseguenze ad essa collegate, la promozione della creatività sono gli strumenti proposti dalla Jacobs per promuovere lo sviluppo delle città.
Una volta criticata la funzione delle economie nazionali e la sovranità assoluta degli Stati nazionali la Jacobs si trova di fronte a due alternative: o accettare la prospettiva del superamento dello Stato nazionale attraverso l’unificazione del mondo, oppure proporre di distruggere gli attuali assetti di potere nazionali promuovendo la moltiplicazione delle sovranità locali. La Jacobs sceglie senza esitazioni la seconda via: «Dobbiamo essere contenti che un governo mondiale ed una moneta mondiale siano ancora solo dei sogni» (p. 180). Così i suoi propositi di non volersi identificare con una delle scuole di pensiero economico o politico tradizionali cedono il passo ad una apologia delle tesi proprie della non nuova scuola del monetarismo nazionale.
Ecco come la Jacobs tenta di giustificare la sua scelta di campo: «Se il libero commercio fosse tutto ciò di cui le città o le città potenziali hanno bisogno per fiorire, un unico governo mondiale sarebbe l’ideale da un punto di vista economico» (p. 209). Ma il secondo bisogno fondamentale delle città, aggiunge subito la Jacobs, è quello di arricchirsi individualmente, attraverso la competizione, seguendo cicli economici espansivi che non coincidono necessariamente con i cicli economici dello Stato (p. 210). Sul piano teorico quindi la soluzione consiste nel «dividere un’unica sovranità in una famiglia di sovranità più piccole» in modo da produrre «una moltiplicazione delle monete» (pp. 214-215). Il problema, come ammette la Jacobs, sta proprio nel fatto che la creazione di «più monete implica l’esistenza di più sovranità» e ciò non può che avvenire a spese delle attuali unità nazionali.
Con ciò si può osservare che la Jacobs non propone di affrontare e risolvere i problemi che la crisi della città ci pone oggi, bensì di far ricominciare la storia dalla città-Stato, ignorando che non vi è solo la moneta tra i fattori economici della sovranità e che le manovre monetarie sono guerre non guerreggiate in cui la posta in gioco è sempre il trasferimento di ricchezza da una regione all’altra. Lasciare l’esito di questa contesa ai rapporti di forza senza preoccuparsi di sottoporli ad un governo razionale significherebbe perpetuare la sottomissione delle regioni già svantaggiate alla legge del più forte.
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Come l’analisi di Christaller ci aiuta a capire i fattori che determinano la gerarchizzazione delle funzioni urbane sul territorio (si confronti la nota 5), allo stesso modo Lionel Robbins[8] può aiutarci a capire quanto siano infondate le conclusioni a favore del monetarismo locale che, in definitiva, produrrebbe un aumento del disordine monetario. Se si può riconoscere che il libero commercio tra Stati nazionali sovrani tende a privilegiare certe città nei confronti di altre, ciò non deve costituire una prova della necessità di impoverirle tutte abolendo i condizionamenti nazionali senza preoccuparsi di instaurare un nuovo quadro di potere. Il problema semmai è quello di eliminare i fattori che privilegiano alcune città rispetto alle altre, ricordando che il commercio fra Stati sovrani non è comunque mai veramente libero, e cercando di chiarire in quale contesto istituzionale le città potrebbero conseguire l’indipendenza senza minare la loro stessa sopravvivenza.
Secondo Robbins, le arbitrarie fluttuazioni dei cambi sono il fattore di perturbazione più importante del commercio. Se le cose fossero così semplici come affermano i sostenitori del monetarismo locale, prosegue Robbins, «potremmo spingere il ragionamento alle sue logiche conclusioni e domandarci perché ogni particolare industria non dovrebbe avere una propria moneta, per permetterle, quando varia il valore dei suoi prodotti, di tenere costante il reddito in moneta, variando il saggio di cambio».[9] Naturalmente un sistema siffatto dovrebbe fondarsi sulla buona volontà e sull’impegno di tutte le autorità monetarie indipendenti di non sconvolgere il mercato dei cambi e di prevedere la possibilità di usare le diverse monete in tutte le parti del mondo.
Poiché la storia tormentata della difficile convivenza di più monete nazionali non offre alcuna garanzia sulla possibilità di favorire in modo pacifico e democratico lo sviluppo del commercio attraverso conferenze, vertici e accordi bilaterali e multilaterali, occorre che l’ultima parola spetti ad un’autorità federale al di sopra degli Stati nazionali. Un’autorità che abbia l’ultima parola per impedire che i singoli Stati, e tantomeno le singole città o industrie, abbiano il potere di danneggiare arbitrariamente gli altri Stati e città.
In questo modo, conclude Robbins, «le autorità federali potranno decidere che è meglio esista un’unica moneta ed un sistema bancario unificato; in tal caso non si avrà nessuna delle difficoltà che abbiamo esaminato. Potranno invece decidere che son preferibili dei sistemi monetari distinti; ma in tal caso dovranno tenere il controllo delle variazioni del saggio dei cambi e di ogni altra regolamentazione che sia necessaria. Si avrà così la garanzia che le variazioni avverranno per opera della autorità federale, e non per la decisione sovrana degli Stati indipendenti sovrani».[10] Robbins sostiene apertamente di preferire la prima ipotesi, quella che porterebbe alla creazione di un’unica moneta.
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Resta un’ultima ipotesi da contestare alla Jacobs, quella da lei usata per giustificare il suo rifiuto di un governo mondiale: l’impossibilità di creare delle istituzioni che consentano alle città di essere allo stesso tempo indipendenti e sottoposte ad un comune governo, con un’unica moneta. Se la Jacobs avesse ragione, ciò significherebbe doversi rassegnare a lasciare libere tutte le entità indipendenti, oggi gli Stati nazionali, domani le città-Stato, di farsi la guerra per perseguire davvero fino in fondo i propri scopi. In un’era in cui è certamente alla portata anche di città come Hong Kong e Singapore la produzione e l’impiego di ordigni nucleari, ciò implicherebbe credere nell’ineluttabilità della distruzione del mondo. Al di là di ogni discorso economico e monetario il mondo deve quindi unirsi per eliminare la guerra e per sopravvivere all’era nucleare. La via da seguire è stata indicata due secoli fa da Hamilton ed è perfettamente concepibile, come ha mostrato K.C. Wheare, una distribuzione del potere fra livelli di governo indipendenti e coordinati.[11]
I rimedi proposti dalla Jacobs risultano quindi essere peggiori dei mali che si propongono di eliminare e ricordano le cure pseudo-scientifiche della medicina dell’Ottocento condannate dalla stessa Jacobs. Appaiono, in definitiva, parafrasando un saggio di Mumford in quel caso forse troppo critico nei confronti della Jacobs,[12] «dei rimedi casalinghi per il cancro delle città».
Franco Spoltore
[1]Jane Jacobs, The Death and Life of Great American Cities, Harmondsworth, Penguin Books, 1961.
[2]Jane Jacobs, The Economy of Cities, Harmondsworth, Penguin Books, 1969.
[3]Jane Jacobs, Cities and the Wealth of Nations, Harmondsworth, Viking Penguin, 1985.
[4]In Cities and the Wealth of Nations la Jacobs non spiega sufficientemente che cosa intende per sostituzione delle importazioni cittadine, dando per scontata, da parte del lettore, la terminologia da lei adottata nel suo precedente libro The Economy of Cities. Ma anche in quell’opera la Jacobs non ha chiarito in che cosa e come la sostituzione delle importazioni si distingua da una politica autarchica (l’impiego dell’espressione import replacement rispetto a import substitution dovrebbe essere sufficiente per l’autrice a chiarire che cosa vuole intendere). Questa ambiguità nasconde, come conferma il prosieguo del libro, il rifiuto a priori di voler considerare il dato di fatto che il commercio in sé è stato storicamente il maggior fattore di sviluppo storico. Solo riferendosi allo sviluppo del commercio è possibile infatti spiegare i mutamenti storici che si sono verificati nei flussi delle importazioni e delle esportazioni fra le diverse aree del mondo. E’ questo del resto il punto di vista che Henri Pirenne ha sostenuto in Les villes du Moyen Age, Bruxelles, Maurice Lamertin, 1927 (trad. it. Le città del Medioevo, Bari, Laterza, 1971): «Soltanto nel XII secolo… sotto l’influenza del commercio (il corsivo è mio), le antiche città romane si rianimano e si ripopolano; agglomerati commerciali si raggruppano ai piedi dei borghi e si stabiliscono lungo le coste del mare, dei fiumi, alla confluenza dei corsi d’acqua, agli incroci delle vie naturali di comunicazione. Ognuna di esse costituisce un mercato la cui attrazione, proporzionata all’importanza, si esercita sulla campagna circostante o si fa sentire in lontananza. Grandi e piccole, sono sparse ovunque, in media una ogni cinque leghe quadrate: in effetti esse sono divenute indispensabili alla società. Vi hanno introdotto una divisione del lavoro di cui non potrebbero più fare a meno. Tra le città e la campagna si stabilisce uno scambio reciproco di servizi» (p. 70). Non è che la Jacobs non prenda in considerazione questi fenomeni. Semplicemente li collega ad un processo, quello della sostituzione delle importazioni, che resta indefinito e non chiarito se non si fa riferimento alle cause dell’evoluzione del commercio. Ecco infatti come si esprime la Jacobs: «L’espansione che deriva dalla sostituzione delle importazioni cittadine consiste propriamente in queste cinque forme di crescita: improvviso ampliamento del mercato cittadino a causa di nuove e diverse importazioni, costituite in larga parte da beni agricoli e da innovazioni prodotti in altre città; improvviso aumento del numero e dei tipi di lavoro nelle città capaci di sostituire le importazioni; aumento del trasferimento del lavoro in località non urbane allorquando le industrie più vecchie non trovano più spazio per espandersi nell’ambito della città; nuove applicazioni tecnologiche, in particolare per aumentare la produzione agricola e la produttività; crescita del capitale cittadino» (p. 42).
[5]Walter Christaller, Die zentralen Orte in Suddeutschland. Eine ökonomischgeographische Untersuchung über die Gesetzmassigkeit der Verbreitung und Entwiklung der Siedlungen mit städtischen Funktionen, Jena, G. Fischer 1933 (trad. it. Le località centrali della Germania meridionale, Milano, Franco Angeli, 1980). L’analisi del geografo tedesco si occupa degli effetti prodotti sulla distribuzione delle funzioni urbane, oltre che dal mercato, dall’evoluzione del sistema dei trasporti, dalla scelta delle sedi amministrative, dalla politica fiscale. Grazie a queste intuizioni Christaller, a differenza della Jacobs, la quale non sa spiegarsi, per esempio, come mai non ci sia stato un coordinamento dello sviluppo di due città come Buenos Aires e Montevideo affacciate entrambe sul Rio della Plata, può spiegarsi gli effetti indotti dalla creazione di barriere artificiali quali i confini nazionali: «Gran parte della presente crisi che colpisce l’Europa centrale e meridionale, in particolare l’Austria e l’Ungheria», scriveva Christaller nel 1933, «è stata condizionata proprio dallo smembramento, potente ed improvviso, del sistema di località centrali, dovuto alla creazione di nuovi confini; quest’evento provocò una svalutazione, a volte grottesca, delle istituzioni centrali già esistenti ed una contemporanea necessità di creare nuove istituzioni centrali, non solo governative, ma anche private, culturali, commerciali ed industriali. Inoltre si ebbe un generale cambiamento di valore dei prezzi, delle tariffe, della domanda ecc., che forse è ancora più significativo dell’evidente trasformazione delle istituzioni centrali» (p. 163).
[6]Fernand Braudel, Civilisation matérielle, économie et capitalisme (XV-XVIII siècle). Le temps du monde, Paris, Librairie Armand Colin, 1979 (trad. it. I tempi del mondo, Torino Einaudi, 1982). Nell’esporre le regole tendenziali che «precisano e definiscono anche i loro rapporti con lo spazio», Braudel scrive: «Non esiste economia-mondo senza uno spazio proprio e per più ragioni significante: esso ha dei confini, e la linea che lo contorna gli dà un senso particolare, come le coste definiscono il mare; implica un centro, a favore di una città e di un capitalismo già dominante, qualunque ne sia la forma. La moltiplicazione dei centri costituisce una testimonianza di giovinezza, o una forma di degenerazione o di mutazione. Sotto la spinta di forze esterne e interne possono in effetti delinearsi e quindi compiersi forme di decentramento: le città a vocazione internazionale, le ‘città mondo’, sono in continua competizione reciproca, e si sostituiscono a vicenda; ordinato gerarchicamente, tale spazio è una somma di economie particolari, alcune povere, altre modeste, una sola relativamente ricca nel proprio nucleo. Ne derivano diseguaglianze, differenze di quel voltaggio che assicura il funzionamento dell’insieme. Ne deriva quella ‘divisione internazionale del lavoro’ della quale Sweezy spiega come Marx non avesse previsto che ‘si sarebbe concretizzata in un modello (spaziale) di sviluppo e di sottosviluppo tale da dividere l’umanità in due campi, gli have e gli have not, separati da un fossato ancora più profondo di quello che oppone borghesia e proletariato nei paesi capitalistici avanzati’. Non si tratta comunque di una ‘nuova’ separazione, ma di una ferita antica, e probabilmente inguaribile. Una ferita che esisteva ben prima dei tempi di Marx» (p. 7).
[8]Lionel Robbins, «Economic Aspects of Federation», in Federal Union. A Symposium, London, Jonathan Cape, 1940 (trad. it. «Aspetti economici della Federazione», in Il federalismo e l’ordine economico internazionale, Bologna, Il Mulino, 1985).
[11]K.C. Wheare, Federal Government, Oxford University Press, Ely House, 1967.
[12]Lewis Mumford, The Urban Prospect, 1956, cfr. il saggio tratto da The New Yorker del 1° dicembre 1962 (trad. it. «Rimedi casalinghi per il cancro della città», in Il futuro della città, il Saggiatore, Milano, 1971).
Anno XXIX, 1987, Numero 2, Pagina 145
VERSO L’UNITA’ MONDIALE DEI FEDERALISTI
Allorché, a venticinque anni di distanza dal suo primo numero, Il Federalista ha deciso di uscire anche in inglese ed in francese, si trattava «di lavorare per l’unità mondiale dei federalisti e di costituire a questo scopo un punto di riferimento e di scambio di informazioni». In effetti «molte persone si rendono conto della necessità del federalismo… Ma senza unità organizzativa, cioè senza la possibilità di sapere che ciò che si sta facendo nella propria regione del mondo, nel proprio paese o nella propria città, si sta facendo anche in altre parti, paesi o città del mondo, non si può acquistare fiducia nella propria azione, e restare sul campo contribuendo così a fare del federalismo una forza».[1]
Gli editori della rivista erano consapevoli che si trattava di un compito di lungo respiro; tuttavia, meno di un anno dopo questa decisione ed alla luce dei contatti che essa aveva provocato o favorito in tutti i continenti ed in un lasso temporale molto breve, quella che inizialmente non era altro che una dichiarazione di intenti, era divenuta una certezza enunciata con maggior vigore: «Non si può non rimanere stupiti e ammirati nel constatare quanti uomini e donne coraggiosi e tenaci, al di fuori dell’Europa occidentale, dedichino oggi le loro energie ad una battaglia — quella per la federazione mondiale — destinata a rimanere a lungo una pura testimonianza ideale».[2]
In un recente editoriale, si è infine proceduto ad un’analisi delle possibili strade verso l’unità federale del mondo, obiettivo ultimo di tutti i federalisti, cioè di tutti coloro che hanno fatto della lotta per la pace una questione personale e la giustificazione morale della loro azione politica.[3]
Questa nota, quindi, in un momento in cui i federalisti degli altri continenti sono diventati (o ridiventati) per noi degli interlocutori reali, non si propone altro obiettivo che quello di dar vita ad una pausa di riflessione e di fare il punto sulle loro differenti organizzazioni e sull’evoluzione dei nostri rapporti con loro.
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Per quanto riguarda Il Federalista, è importante sottolineare l’interesse che ha suscitato al di fuori dell’Europa negli ambienti federalisti. Le numerose segnalazioni di cui la rivista è stata oggetto ne costituiscono la prova;[4] si tratta anche della prova che essa ha saputo rispondere ad una attesa e ad un bisogno reali, anche se inespressi, da parte di tutti i militanti dispersi nei cinque continenti; è la prova, infine, della qualità del lavoro culturale e politico svolto, il migliore, come ha potuto scrivere un responsabile della World Federalist Association americana a Mario Albertini, dopo quello del Committee to Frame a World Constitution, o «Comitato di Chicago», e la pubblicazione di Common Cause, dal luglio 1947 al luglio 1951.[5]
In altri casi, i responsabili di differenti organizzazioni federaliste si sono offerti spontaneamente di aiutarci nel settore cruciale della diffusione, sia centralizzando le richieste di abbonamenti provenienti da dati paesi, come hanno fatto l’inglese Federal Trust[6] o l’Association to Unite the Democracies negli Stati Uniti, sia trasmettendoci centinaia di indirizzi di militanti federalisti o di organizzazioni che si occupano del problema della pace, di intellettuali ed universitari, di biblioteche ed istituti di ricerca, come è avvenuto ad esempio in Australia o nel continente nord-americano.
E’ interessante inoltre sottolineare che la pubblicazione della rivista in tre lingue ha corrisposto, nel corso del tempo, ad un risveglio dell’interesse dei federalisti, al di fuori dell’Europa comunitaria, per il processo di integrazione europea, il suo valore di esempio e la sua incidenza sull’equilibrio internazionale del potere, in seguito all’approvazione da parte del Parlamento europeo, nel 1984, del progetto di Trattato istitutivo dell’Unione europea.[7]
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Questo vale per i federalisti atlantisti dell’AUD, erede e prosecuzione dell’Interdemocracy Federal Unionists Inc., fondata negli Stati Uniti nel luglio del 1939, dopo la pubblicazione da parte di Clarence K. Streit del suo libro Union now[8]e diventata Federal Union Inc. dal 1940 a questi ultimi anni.[9]
Streit, deceduto nel luglio scorso a Washington, a quel tempo era corrispondente del New York Times presso la Società delle Nazioni; da questo osservatorio privilegiato, egli denunciò le debolezze dell’organizzazione, fragile lega di Stati sovrani, incapace di salvaguardare la pace di fronte alla minaccia fascista, e ne concluse che era necessario il federalismo. Egli individuò il «problema pubblico numero uno» in quello del governo mondiale e indicò la sola possibilità di fermare la guerra e di assicurare nel lungo periodo la vittoria del sistema democratico nell’unione federale degli Stati democratici del tempo in un solo Stato, la cui stessa potenza avrebbe scoraggiato qualunque aggressore potenziale ed attratto a sé ogni nuovo Stato — che fosse diventato democratico — dando vita in tal modo al primo nucleo della Federazione mondiale.
Dopo la guerra, Streit vide nell’URSS, alleata di un tempo contro il fascismo, la nuova minaccia contro la quale i paesi liberi avrebbero dovuto costruire la loro unità e prese le distanze da gran parte del movimento mondialista americano che, già dal 1941, aveva denunciato una deviazione antisovietica ed atlantista dei suoi amici e, con l’avvento della guerra fredda, il loro sostegno agli ambienti ed alle tesi della NATO.[10] Parallelamente, Streit rifiutò la prospettiva dell’unità europea fine a se stessa, unità che da un lato non avrebbe fatto altro che dividere l’area della democrazia fra l’Unione europea e la United States Union e dall’altro avrebbe rischiato di essere dominata dai «marxisti».[11] Da diversi anni l’AUD, pur tenendo fermi i due principi basilari della sua azione, vale a dire, come anche recentemente Streit stesso aveva avuto occasione di richiamare, quelli di «avviare una federazione internazionale, partendo da un nucleo composto dalle democrazie avanzate, essenzialmente quelle situate nella zona nord-atlantica, e di estenderla progressivamente, man mano che le nazioni sarebbero pronte»,[12] riconosce grande importanza all’Unione europea ed auspica di sviluppare rapidamente i suoi contatti organizzativi con l’UEF.[13]
Bisogna qui ricordare che Il Federalista ha definito ultimamente le condizioni che consentirebbero di evitare che l’idea stessa Unione delle democrazie cada in un circolo perverso e che renderebbero configurabile una federazione economica e successivamente politica fra l’Europa unita politicamente e gli Stati Uniti, parallelamente all’avanzamento del processo di formazione di grandi unioni federali in Asia, Africa ed America latina e nel quadro del superamento del divario Nord-Sud.[14]
A questo proposito, occorre infine sottolineare che l’AUD, pur definendo la federazione democratica mondiale come il suo scopo ultimo e riaffermando che «l’Unione intercontinentale delle democrazie avanzate è l’anima della sua missione», ha allargato il raggio del suo impegno, allo scopo di favorire il dialogo tanto con l’UEF quanto con il movimento mondialista.[15]
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Negli ultimi anni, parallelamente ai contatti fra i federalisti europei ed i federalisti atlantisti, si sono anche intensificati quelli fra l’UEF ed i federalisti mondiali.
Alla fine della guerra, nell’agosto 1947, entrambe le organizzazioni, il Mouvement Universel pour une Fédération Mondiale[16] da un lato e l’UEF dall’altro, erano state fondate in Svizzera, a Montreux, ma separatamente. Subito era sorto pure il problema dei rapporti e del coordinamento fra quei federalisti che perseguivano sin dall’inizio la Federazione mondiale e quelli che privilegiavano in una prima fase la creazione di federazioni regionali.[17] I propositi di collaborazione rimasero tuttavia lettera morta, ed i contatti fra i due gruppi diventarono sempre più tenui, nonostante gli sforzi di certuni e di Alexandre Marc in particolare.
E’ ben vero che il MUFM, sin dal momento della sua creazione, si era posto il problema della formazione di federazioni regionali come una delle strade che avrebbero permesso di giungere alla Federazione mondiale, ma senza privilegiarla rispetto ad altre, quali l’elezione di un’Assemblea costituente dei popoli, il registro dei Cittadini del mondo, il rafforzamento dell’ONU e la revisione della Carta di San Francisco; il problema delle federazioni regionali è presente in numerosi testi di risoluzioni, in cui emergono anche delle riserve; comunque, nessuna azione concreta fu mai avviata in questo senso.[18]
A quanto pare ciò si può spiegare, almeno durante i primi anni, con il beato ottimismo che regnava allora negli ambienti federalisti mondiali e con l’opinione diffusa in quegli ambienti che la Federazione mondiale non fosse, in fondo, lo sbocco di un lungo processo di maturazione storica, ma al contrario potesse nascere dal nulla, quasi per intervento dello «Spirito Santo». «Ci si stupirà — scrive Rolf Paul Haegler (segretario dei federalisti mondiali svizzeri) a conclusione del suo libro — dei termini straordinariamente brevi entro i quali molti mondialisti sembrano aver sperato di poter realizzare il loro ideale: convocazione di una Assemblea costituente dei popoli entro il 1950, mentre i gruppi responsabili erano stati costituiti appena nel 1947, revisione della Carta e trasformazione completa dell’Organizzazione delle Nazioni Unite in una Federazione mondiale entro il 1955, vale a dire da due a tre anni dopo aver deciso di lanciare una campagna a questo scopo; tutto ciò è molto poco realistico… I mondialisti hanno accarezzato troppo a lungo l’illusione che sarebbe bastato loro presentare una costituzione mondiale ed una procedura accettabile da tutti per ottenere la ratifica sperata del testo proposto».[19]
Per equità, bisogna rilevare, del resto, che i federalisti europei, salvo qualche eccezione, si sono occupati molto poco della Federazione mondiale, al di là di una semplice esigenza morale e culturale e non si può non fare propria questa recente riflessione di Ferdinand Kinsky, membro sia dell’UEF che del MUFM: «In passato i federalisti mondiali hanno spesso guardato con sospetto ai federalisti europei — essi vogliono creare un nuovo super potere e così dividere ancora di più il mondo. D’altra parte, i federalisti europei si ritenevano molto più realistici dei federalisti mondiali che essi giudicavano totalmente utopisti».[20]
A distanza di quarant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla fondazione delle principali organizzazioni federaliste, è giunto il momento per l’una e per l’altra parte di convincersi che, come ricordava Kinsky, l’Europa unita e la Federazione mondiale sono due obiettivi complementari e non alternativi, e di convenire con lui che «una strategia federalista mondiale oggi non può né consistere nel ribadire semplicemente il nostro scopo (‘Noi abbiamo bisogno di una Federazione mondiale’), né limitarsi in modo conformistico ad una politica dei piccoli passi (‘rafforziamo l’ONU’)… La sola strategia realistica verso la Federazione mondiale è l’approccio regionalistico. Essa consiste nel promuovere delle soluzioni federaliste per l’unificazione dell’Europa, dell’Africa e dell’America latina e degli sbocchi federalisti per la composizione dei conflitti medio-orientali ed indocinesi».[21]
Oggi sembra ragionevole affermare che i federalisti mondiali sono prossimi a riconoscere che se il federalismo non può essere che mondiale, «esso si può sviluppare solo attraverso un processo che deve iniziare in un luogo determinato».[22]
Questo sembra essere, per noi, il significato dell’importanza crescente che essi, come i federalisti atlantisti, hanno recentemente attribuito al processo di integrazione europea ed all’azione del Parlamento europeo.[23] Va ricordato infine che il MUFM ha organizzato ad Aosta, nel giugno 1986, un nuovo incontro, in gran parte dedicato all’«esempio europeo», cui sono stati invitati a partecipare John Pinder e Francesco Rossolillo, rispettivamente presidente e vice-presidente dell’UEF;[24] a questo incontro partecipava anche Ira Strauss, responsabile dell’AUD.
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Al di fuori delle organizzazioni federaliste esistenti e attive a tutt’oggi, non mancano neppure delle potenzialità in altri continenti.
Così, la International Student Association of Japan[25] ha preso contatto con la Jeunesse européenne fédéraliste, proponendole di organizzare seminari comuni ed affermando di lottare per la diffusione degli ideali del federalismo in Asia.
In Africa il messaggio federalista dei padri dell’indipendenza, in particolare di Nkrumah, Nyerere e Senghor, non è caduto nell’oblio. Oggi sembrano esistere le basi per la creazione di un movimento federalista africano autonomo dalle contingenze politiche del continente.
Anche in America latina il federalismo ed il problema dell’unificazione a livello continentale sono al centro del dibattito politico, dalle lotte di indipendenza ad oggi; Artigas, che ha lottato per l’unione dei popoli del Rio della Plata o Simon Bolivar, che ha organizzato il Congresso di Panama, sono due esempi che si collocano agli inizi del secolo scorso. In un momento in cui la maggior parte dei paesi che la compongono sono ritornati alla democrazia e gli uomini politici del continente, come Raul Alfonsìn, vogliono rilanciare il suo processo di integrazione economica e politica,[26] non esiste più, almeno per quanto ne sappiamo, alcuna forza federalista organizzata a sud del Rio Grande.[27] Tuttavia, come nell’Europa del post-fascismo, esistono le condizioni affinché si sviluppi in questa parte del mondo una ripresa dell’azione federalista; manca soltanto, come hanno scritto i responsabili della sezione argentina del Movimento federalista europeo in un opuscolo recente, «la scintilla che provochi l’incendio, un manipolo di uomini illuminati e disinteressati che trasformino l’utopia e i sogni in realtà».[28]
***
Il Federalista in questi ultimi anni ha svolto la funzione di catalizzatore fra le diverse correnti citate in questa nota. Il loro obiettivo ultimo comune è la creazione della Federazione mondiale. Ciò non toglie che queste differenti organizzazioni, legate anche da riferimenti culturali comuni, abbiano ciascuna una propria originalità ed obiettivi loro propri a medio termine. Ad esse si offrono prospettive immediate di azione comune, che non significano necessariamente la fusione.
La celebrazione del bicentenario dclla Convenzione di Filadelfia, che chiama in causa lutti i federalisti e che sarà contrassegnata dal Congresso del MUFM, solo qualche mese dopo quello dell’UEF a Strasburgo, dovrebbe essere l’occasione per concretizzare il riavvicinamento che è stato avviato.
Jean-Francis Billion
[1]Si veda l’editoriale «Verso un governo mondiale», in Il Federalista, XXVI (1984), pp. 3-9.
[2]«Una battaglia decisiva», in Il Federalista, XXVI (1984), p. 183.
[3]«Le vie verso la Federazione mondiale», in Il Federalista, XXVIII (1986), pp. 75-80.
[4]Ci limiteremo a citare, a titolo di esempio e senza alcuno spirito di parte, le pubblicazioni del Registre international des Citoyens du monde (15, rue Victor Duruy, 75015 Paris), della segreteria internazionale del Movimento universale per una federazione mondiale (World Federalist News, Leliegracht 21, 1016 GR Amsterdam) o della sua sezione britannica (AWF, 43 Wallingford Avenue, London W10 6PZ), The Federator, pubblicazione della Association to Unite the Democracies (AUD, PO Box 75920, Washington, DC 20013) o World Peace News (777 UN Plaza, New York 10017), rivista dell’American Movement for World Government.
[5]Nella prefazione a A Constitution for the World, la riedizione di Preliminary Draft of a World Constitution (Center for the Study of Democratic Institutions, Santa Barbara, Calif.,1965), Elisabeth Mann Borgese, figlia minore di Thomas Mann e moglie del segretario del Comitato di Chicago, così ne sintetizza la vita e l’opera: «Nell’autunno del 1945, alcuni membri della Facoltà dell’Università di Chicago proposero al Chancellor Robert M. Hutchins la creazione di un Institute of World Government che si affiancasse all’Institute of Nuclear Physics già esistente. ‘Il coraggio intellettuale che ha frantumato l’atomo, scrivevano, dovrebbe essere chiamato in causa per unire il mondo’. La loro proposta si concretizzò nel Committee to Frame a World Constitution, presieduto dal Chancellor. Il segretario generale e principale autore del testo che venne alla fine adottato era Giuseppe Antonio Borgese, oggi scomparso, un esule dall’Italia fascista… Per più di due anni, questo gruppo di giuristi, scienziati sociali e filosofi della politica, con i loro assistenti, discussero, proposero, criticarono e fecero delle revisioni. Il risultato del loro lavoro si è concretizzato nella Preliminary Draft of a World Constitution, nei quattro volumi che raccolgono la rivista mensile Common Cause e in più di duemila pagine di documenti di ricerca fotocopiati o su microfilm».
Sulle pagine di Common Cause ebbero anche la possibilità di esprimersi numerosi militanti federalisti d’Europa (e sui più svariati argomenti), come Albert Camus, Andrea Chiti Batelli, Alexandre Marc, Ernesto Rossi ,e Altiero Spinelli.
Nel luglio 1947, nell’editoriale del primo numero di questa rivista, Robert M. Hutchins scriveva: «Noi non pensiamo, naturalmente, che il nostro progetto preliminare sarà la legge del Mondo unito. Riteniamo tuttavia che il risultato provvisorio di uno sforzo collettivo di diversi anni non sarà vano… Sarà disponibile un modello. Non pensiamo che sarà adottato; osiamo sperare che non cadrà nell’oblio».
A distanza di quarant’anni dalla sua redazione, il progetto del Comitato di Chicago, che all’epoca fu considerato massimalista, persino negli ambienti federalisti, resta uno dei testi fondamentali del federalismo americano del dopoguerra, insieme all’opera di Greenville Clark e Louis B. Sohn, World Peace through World Law (Harvard University Press, 1958).
[7]Sul valore di esempio dell’unificazione europea, si veda «I problemi della pace e il Parlamento europeo», in Il Federalista, XXVI (1984), pp. 97-102.
[8]Union Now fu dapprima pubblicato a cura dell’autore nel settembre 1938, poi da Harper & Brothers a New York nel marzo 1939. Il libro sarà ristampato più volte durante e dopo la seconda guerra mondiale.
[9]Federal Union Inc. non deve essere confusa con il movimento fondato nella primavera del 1938 a Londra da Derek Rawsnley, Charles Kimber e Patrick Ransome (cfr. Charles Kimber «La nascita di Federal Union», in Il Federalista, XXVI (1984), pp. 206-213).
[10]Il lettore che desideri più ampie informazioni su questo problema e sulla storia del movimento federalista negli USA potrà fare riferimento per i diversi punti di vista, fra gli altri, a Stewart Ogilvy «A Brief History of the World Government Movement in the US», in Humanity, Glasgow, settembre 1949, nuova serie, vol. I, p. 14; Clarence K. Streit, «To Unite Federalists», in Freedom & Union, Washington, 1949, vol. 4, n. 11, pp. 1-4. Si vedano anche i cinque capitoli dell’edizione del dopoguerra di Union Now (Federal Union Inc., Washington, pp. 251324, nella ristampa del 1976) e Clarence K. Streit, «Ten Years Progress towards ‘Union Now’», in Freedom & Union, 1948, vol. 3, n. 10. (Le principali riviste federaliste americane del dopoguerra, comprese Common Cause, Freedom & Union e World Government News sono in corso di ristampa sotto forma di microfilm, a cura di Joseph Preston Baratta, presso Clearwater Cy., New York).
[11]Si veda Clarence K. Streit, Union Now, edizione del dopoguerra, op. cit., «The Dangers in Mere European Union», pp. 277-279, e «A Marxist US of Europe», in Freedom & Union, 1947, vol. 2, n. 7, pp. 2-4.
[12]Clarence K. Streit, «Federate», in The Federator, vol. I (1984), n. 2.
[13]Si veda la collezione completa di The Federator, bollettino dell’AUD dal 1984; con ragione The Federator può considerare i suoi lettori come i soli americani che siano stati regolarmente informati della lotta per l’Unione europea dopo il voto storico del Parlamento europeo nel 1984, fino allo scacco costituito dall’adozione da parte del Consiglio europeo di Lussemburgo, nel dicembre 1985, dell’Atto unico europeo.
[14]«A proposito del dirottamento dell’Achille Lauro», in Il Federalista, XXVII (1985), pp. 83-87.
[15]Si veda la risoluzione dell’Executive Committee dell’AUD del 6 ottobre 1986, «Preliminary Guidelines on AUD Support of Extra-atlantic Federalism», alcuni estratti della quale (citati in The Federator, vol. III (1986), n. 6, pp. 5-6) sono riportati di seguito: «a) A livello intercontinentale l’AUD sostiene le proposte di integrazione e federazione delle democrazie della NATO, quelle dell’OECE e parziali raggruppamenti di queste democrazie… L’unione intercontinentale delle democrazie industriali avanzate è l’obiettivo cruciale della missione dell’AUD. b) A livello regionale, l’AUD sostiene le iniziative e le proposte per la federazione e l’integrazione delle democrazie in: l) Europa; 2) America latina, sia nel suo complesso sia in alcune componenti, compresi gli sforzi attualmente in corso a livello subregionale, quali la proposta di Trattato di Contadora, nella misura in cui esso configura una confederazione centro-americana garantita dai paesi vicini, e prevede libere elezioni nazionali; 3) Caraibi; 4) Africa; 5) Asia meridionale, come il governo federale dell’India che già esiste, e i tentativi dei paesi dell’ASEAN (con la riserva che le procedure democratiche non sono omogenee fra i paesi dell’ASEAN, e qualsiasi forma di governo federale fra di essi dovrebbe fondarsi saldamente sulla democrazia); 6) bacino del Pacifico fra società compatibili, compresi i recenti Federated States of Micronesia; 7) USA e Canada, come proposto nel patto di libero scambio».
[16]Il MUFM ha adottato questa denominazione in francese nel 1954, al suo 6° Congresso a Londra; si era chiamato sino ad allora Mouvement Universel pour une Confédération Mondiale; la denominazione inglese dell’organizzazione., World Movement for World Federal Government, era diventata World Association of World Federalists nel 1956, e successivamente World Federalist Movement ad Aosta, nel giugno 1986.
[17]Cfr. Rolf Paul Haegler, (Histoire et idéologie du mondialisme, Zürich, Europa Verlag, 1972) che cita come organizzazioni in contatto con il MUFM negli anni ‘50, oltre all’UEF, il Movimiento pro Federación americana e l’Asian Federation Movement. E’ un libro da leggere, poiché traccia la storia della nebulosa mondialista dalle sue origini, che risalgono alla fine degli anni ‘30, sino agli anni ‘70.
[18]Si vedano, fra le altre e per parlare solo dei primi anni, la dichiarazione politica di Lussemburgo nel 1946, la dichiarazione di Montreux nel 1947, la dichiarazione del 2° Congresso di Lussemburgo nel 1948, che riprendiamo in parte di seguito: «L’integrazione a livello regionale può essere un metodo per avviarsi verso il governo federale mondiale. La formazione di federazioni regionali può affrettare la formazione del governo federale mondiale a condizione che: a) esse non diventino fini a se stesse; b) siano suscettibili di diminuire le tensioni e le divergenze esistenti fra grandi e piccole nazioni e c) restino subordinate all’obiettivo superiore, la costituzione del governo federale mondiale. Bisogna tuttavia sottolineare che le federazioni regionali non possono da sole risolvere il problema di garantire una pace durevole». (testi riportati nel lavoro di Rolf Paul Haegler, op. cit., pp. 159-164).
[20]Questa citazione e quelle che seguiranno di Ferdinand Kinsky, sono tratte dal suo intervento al seminario del MUFM «World Federalism: Contemporary Goals and Strategies» del luglio 1985, pubblicato in The London Seminar, WAWF, Amsterdam, 1985, pp. 13-16.
[21]Non è irrilevante che Ron J. Rutherglen, a quel tempo executive director del MUFM, abbia citato questo passo dell’allocuzione di Ferdinand Kinsky in extenso, nel corso dei suoi interventi negli USA e in Canada nella primavera del 1986, facendo sapere che egli lo riprendeva per conto suo, come nel documento interno «Presentation North American Visit — march 16 - april 6» diffuso all’interno dell’organizzazione al suo ritorno.
[23]Faremo soltanto due esempi per illustrare questa tesi e l’interesse crescente dei federalisti mondiali, in particolare al di fuori dell’Europa, per la costruzione comunitaria. In primo luogo l’editoriale del Canadian World Federalist, agosto 1985, «Towards European Federation» (WFC, 46 Elgin Street, Suite 32, Ottawa – Ont. KIP 5K6); in secondo luogo la risoluzione sull’Unione europea adottata il 14 settembre 1985 a Newark dal Board Meeting della WFA (418 7th Street, S.E., Washington, DC 20003) e di cui riprendiamo alcune parti: «…Sostiene con entusiasmo il rafforzamento proposto delle istituzioni sovrannazionali della Comunità (CEE) attraverso: a) l’abolizione del diritto di veto nazionale nel Consiglio dei Ministri; b) il rafforzamento dei poteri del Parlamento europco nei suoi rapporti con il Consiglio dei ministri e con la Commissione europea; riconosce l’importanza storica del progetto di Trattato approvato dal Parlamento europeo, che istituisce l’Unione europea ed auspica la sua rapida ratifica. La costruzione dell’Unione europea sarà un modello per la costruzione della Federazione mondiale. La WFA sostiene con favore l’azione dell’UEF e delle altre organizzazioni europee che operano a questo scopo…».
[24]Un numero speciale di World Federalist News, contenente i principali interventi al seminario di Aosta, è stato recentemente pubblicato.
[25]ISAJ, recapito postale in Europa: c/o Pacific Rim Study Center, Lijnbaansgracht 347/4, 1017 XB Amsterdam, Olanda.
[26]In questo senso, secondo la Nacion di Buenos Aires, egli ha dichiarato nell’aprile scorso, in occasione di un seminario su «Los partidos polìticos y la integracion de América latina» che «vi sarà una società mondiale democratica e giusta o vi saranno soltanto caos, guerre e ritorno alla barbarie, sotto la minaccia crescente di un definitivo olocausto nucleare», insistendo sulla «necessità per le nazioni dell’America latina di lavorare per la loro unità continentale» ed «invitandole a imitare l’esempio delle Comunità europee».
[27]Il Movimiento pro Federación americana di Bogotà per molto tempo in contatto con il MUFM, sembra essere scomparso negli anni 1970 e la dittatura argentina ha avuto ragione del Movimiento Accion para la Unidad latinoamericana.
[28]Hacia la Unidad europea, MFE (seccion en Argentina), 1986, Ayacucho 3130, 1651 San Andres.
Anno XXIX, 1987, Numero 3, Pagina 224
IL CONGRESSO DEL MOVIMENTO FEDERALISTA MONDIALE
Dal 6 al 13 agosto 1987, i federalisti mondiali si sono riuniti a Filadelfia, la città dove duecento anni fa fu redatta la Costituzione degli Stati Uniti, per partecipare a un simposio sul rafforzamento delle Nazioni Unite e al loro ventesimo Congresso.
Il simposio era stato organizzato per rispondere a questa domanda: «Che cosa ha da dire la Convenzione di Filadelfia del 1787 al mondo del 1987?». Esso si è aperto in forma solenne nell’Independence Hall, nella sala dove fu proclamata l’indipendenza degli Stati Uniti e dove si riunì la Convenzione che elaborò la prima costituzione federale della storia, con una relazione di Norman Cousins, Presidente della sezione degli Stati Uniti dell’Associazione dei federalisti mondiali, ed è poi proseguito nel campus dell’Università della Pennsylvania, dove si è svolto anche il Congresso dei federalisti mondiali.
Il simposio è stato soprattutto un confronto tra studiosi americani di teoria federalista e diplomatici rappresentanti di alcuni tra i più importanti paesi del mondo presso le Nazioni Unite. Gli studiosi di ispirazione federalista hanno illustrato le linee di una riforma delle istituzioni dell’ONU in senso federale. I diplomatici hanno illustrato le difficoltà che si oppongono a questa riforma. Essi hanno reso omaggio al federalismo, ma in sostanza hanno difeso le sovranità nazionali.
Di particolare interesse è stato l’intervento del professor Timofeev, dell’Accademia delle Scienze di Mosca, il quale ha affermato che il mondo è di fronte a una svolta derivante dal carattere prioritario assunto dal problema della pace e dall’esigenza che hanno Est e Ovest di risolvere insieme il problema della sicurezza. Di qui la necessità di elaborare un nuovo pensiero che permetta di affrontare i problemi nuovi posti dall’evoluzione della storia contemporanea. E con sorpresa e compiacimento gli ascoltatori hanno appreso dall’accademico sovietico che, in questo sforzo di ricerca e di approfondimento, il federalismo è diventato un oggetto di studio in Unione Sovietica. In questo discorso c’era l’eco dei cambiamenti dell’era Gorbaciov, confermati da alcuni federalisti americani che recentemente avevano incontrato a Mosca dei gruppi pacifisti sovietici. Sulla base di queste premesse, e se il processo di rinnovamento non si interromperà, è lecito pensare che, tra qualche anno, potremo avere una sezione sovietica del Movimento federalista mondiale. E l’importanza e il significato di ciò sono evidenti se teniamo presente che le prospettive del federalismo mondiale sono legate al superamento del conflitto Est-Ovest, senza il quale mancheranno le basi per fare i primi passi sulla via dell’unificazione del mondo.
Il simposio non ha invece affrontato la questione relativa al tipo di azione politica necessaria a realizzare in modo pacifico un’unione di Stati, azione sulla quale c’è un vuoto di conoscenza a causa del carattere assolutamente straordinario di un simile evento. Eppure l’analisi del precedente della formazione degli Stati Uniti avrebbe potuto dare importanti indicazioni a coloro che si battono oggi per unificare con le istituzioni federali i continenti e il mondo. E’ noto che Spinelli studiò questo precedente e si ispirò ad esso nel definire la strategia della lotta per la Federazione europea.
I lavori del Congresso si sono svolti prevalentemente in quattro commissioni: 1) disarmo e sicurezza, 2) sviluppo del patrimonio comune, 3) rafforzamento delle Nazioni Unite, 4) diritti umani. Le riunioni in assemblea plenaria, invece, sono state dedicate alla discussione e all’approvazione delle risoluzioni e delle modifiche di statuto.
Il contenuto delle quattro risoluzioni elaborate dalle commissioni rispecchia la ricchezza del dibattito e la vastità dei temi discussi. Nella risoluzione sui problemi della sicurezza si avanzano le seguenti proposte: a) convocazione di una conferenza permanente sulla sicurezza e il diritto internazionale, per migliorare i meccanismi necessari a una composizione pacifica dei conflitti internazionali; b) costituzione di un’Agenzia dell’ONU per il controllo degli armamenti via satellite; c) creazione di un corpo di forze armate per il mantenimento della pace, a disposizione di qualsiasi Stato ne faccia richiesta, composta di soldati reclutati direttamente dall’ONU; d) creazione di un’Agenzia dell’ONU che garantisca l’uso pacifico dello spazio extra-terrestre; e) sostegno al congelamento delle armi nucleari, alla moratoria degli esperimenti nucleari e pressione su tutti gli Stati perché si impegnino a non usare per primi le armi nucleari.
Nella risoluzione sullo sviluppo del patrimonio comune, il Congresso constata che, di fronte alla crescita dei bisogni della popolazione mondiale e soprattutto di quella dei paesi sottosviluppati, si registra una riduzione delle risorse disponibili: distruzione delle foreste tropicali, estensione dei deserti, contrazione delle risorse ittiche, tendenziale esaurimento delle risorse minerali e delle fonti di energia non rinnovabili, alcune delle quali (come il petrolio) hanno un ruolo-chiave nel funzionamento dell’economia mondiale. A ciò si deve aggiungere anche la crisi del sistema monetario e commerciale internazionale e il crescente indebitamento dei paesi del Terzo mondo. Tutto ciò esige strategie globali per conservare le risorse naturali e per pianificare lo sviluppo del mondo, in modo da ridurre l’inquinamento della biosfera, sviluppare fonti di energia pulita, migliorare la produzione e la distribuzione delle risorse alimentari, assicurare a tutti l’accesso ai servizi sanitari, promuovere il trasferimento di risorse dai paesi ricchi a quelli poveri, estendere l’uso dei diritti speciali di prelievo nei regolamenti internazionali. Ma la linea lungo la quale sono possibili importanti sviluppi dei poteri delle Nazioni Unite è l’affermazione del principio, contenuto nella Convenzione sul diritto del mare, che i fondi marini situati fuori dalle acque territoriali sono patrimonio comune dell’umanità, e, in base a ciò, il loro sfruttamento dovrà essere attribuito a un’Autorità mondiale. Il Congresso invita gli Stati che non l’hanno ancora fatto a ratificare questa Convenzione e a estendere il concetto di patrimonio comune a nuovi settori, come lo spazio extra-terrestre e l’Antartide.
Per quanto riguarda la riforma delle istituzioni dell’ONU, queste sono le principali proposte: a) limitazione del diritto di veto in seno al Consiglio di Sicurezza, cominciando ad abolirlo in casi come la nomina di una commissione d’inchiesta e l’ammissione di nuovi membri e vietando il ricorso ad esso da parte di un membro permanente quando questo sia parte in un conflitto; b) sostituzione del sistema di voto in seno all’Assemblea generale con un sistema (chiamato «la triade vincolante») che tenga conto, oltre che del principio dell’uguaglianza di tutti gli Stati membri, anche della loro popolazione e dei loro contributi finanziari; c) istituzione di un’assemblea dei popoli eletta a suffragio universale accanto all’attuale assemblea delle nazioni; d) rafforzamento della Corte internazionale di giustizia. La convocazione di una convenzione costituzionale è stata indicata come il metodo più corretto per giungere alla riforma in senso federale delle organizzazioni internazionali che operano sia a livello mondiale sia a livello regionale.
Sul tema della difesa dei diritti dell’uomo il Congresso ha proposto: a) di sviluppare in seno all’ONU i meccanismi giuridici della loro difesa previsti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo; b) di vigilare sull’applicazione delle convenzioni mondiali e regionali che tutelano gli stessi e di denunciarne le violazioni; c) di battersi per ottenere il riconoscimento dei diritti delle minoranze, degli emarginati e delle persone che vivono in un paese diverso da quello di origine.
Sia dalle risoluzioni sia dal dibattito è emersa la tendenza, soprattutto da parte dei dirigenti, a orientare l’interesse verso le tappe della transizione alla Federazione mondiale e verso la ricerca di obiettivi intermedi. Ciò dimostra che è in corso un processo di evoluzione del Movimento, il quale a sua volta è il frutto di profondi cambiamenti avvenuti nella situazione politica mondiale.
Per lunghi anni il lavoro dei federalisti mondiali è stato quello di definire i contorni dell’obiettivo ultimo, cioè della Costituzione della Federazione mondiale, intesa come alternativa ai limiti dell’ONU e alla sua incapacità di assicurare la pace. La natura di questo impegno era il riflesso della grande distanza che separava il progetto dell’unità del mondo dalla possibilità di realizzazione. L’affermazione della tematica della transizione è espressione della ricerca di un rapporto più stretto con le trasformazioni in corso della storia contemporanea e la premessa di questa scelta è la coscienza che la lotta per l’unificazione del mondo è un compito di lungo periodo. E’ quindi caduta l’illusione che l’obiettivo ultimo possa essere raggiunto rapidamente, saltando tappe intermedie, ossia con la convocazione di un’assemblea costituente mondiale. Nello stesso tempo, però, l’evoluzione della storia ha messo all’ordine del giorno problemi che non possono avere soluzione se non nel quadro mondiale e attraverso il rafforzamento dell’ONU. Di qui lo sforzo di identificare degli obiettivi intermedi, la cui realizzazione permetterebbe al mondo di invertire la sua folle corsa verso la catastrofe nucleare ed ecologica e di avviarlo progressivamente verso l’unità.
Come priorità assoluta è stata riconosciuta quella della sicurezza, che nell’era nucleare, e ancor più nell’epoca della crisi dell’equilibrio del terrore, deve essere concepita come un bene indivisibile, cioè come sicurezza del genere umano, fondata sul progressivo sviluppo di istituzioni mondiali, a cominciare dalla creazione di un’Agenzia dell’ONU che assicuri il controllo via satellite degli armamenti e l’uso pacifico dello spazio. Ma altri obiettivi intermedi sembrano diventare concreti. Ad esempio, è emersa per la prima volta con la Convenzione sul diritto del mare la possibilità di affermare la sovranità delle Nazioni Unite su beni comuni, definiti «patrimonio comune dell’umanità», come i fondi marini, l’Antartide e lo spazio, creando in seno all’ONU delle forme di integrazione funzionalistiche sul modello delle Comunità europee.
In questa fase di ripensamento in atto nel Movimento federalista mondiale, esso non è però ancora giunto a concepire la Federazione europea come un elemento di questo processo di transizione. Essa è percepita come un fatto il cui significato si esaurisce sul piano regionale e non come l’avvio di un processo di pacificazione che, pur avvenendo in una parte del mondo, interessa tutto il mondo.
I federalisti europei (e soprattutto il gruppo che gravita attorno a questa rivista) hanno attribuito all’unificazione europea un significato storico: essa rappresenta un primo passo verso la sconfitta della logica della forza nelle relazioni internazionali e verso la democrazia internazionale. Essa rappresenta anche una tappa verso la Federazione mondiale, che per i federalisti europei ha cessato di essere semplicemente un lontano fine ultimo senza influenza sul presente per diventare un elemento propulsore del processo di pacificazione dell’umanità.
Ciò spiega il motivo per cui si debbono considerare cadute le ragioni della separazione tra federalisti europei e federalisti mondiali. La convergenza riguarda non solo la linea teorica (cioè il modo di concepire le tendenze di fondo della storia contemporanea), ma in gran parte anche la linea politica, nella misura in cui i maggiori problemi politici e sociali (pace, ambiente, giustizia sociale ecc.) hanno assunto dimensioni mondiali (e non solo europee) e possono trovare una soluzione solo nella prospettiva del federalismo mondiale.
Esistono, è vero, ancora divergenze sulla linea strategica, cioè sull’obiettivo sul quale concentrare le forze. In complesso, però, le rispettive posizioni, che alle origini erano considerate come alternative, oggi appaiono sempre più come complementari. E, in effetti, la presenza del rappresentante dell’organizzazione nazionale italiana, la cui adesione alla World Association for World Federation era stata approvata alla vigilia del Congresso, è stata considerata come uno degli avvenimenti più promettenti dello stesso. Questa presenza è stata interpretata come il segnale dell’emergere di una nuova prospettiva: la possibilità di riallacciare legami sempre più stretti tra federalisti mondiali e federalisti europei dopo la frattura di quarant’anni fa. Questa convinzione, maturata a seguito di alcuni incontri (la riunione del Consiglio del WAWF, svoltasi ad Aosta nel 1986, e il Congresso di Strasburgo dell’Unione europea dei federalisti di quest’anno), si è consolidata grazie alla diffusione di questa rivista, la cui impostazione riceve unanimi apprezzamenti negli ambienti dei federalisti mondiali.
La collaborazione che è iniziata si prospetta particolarmente fruttuosa anche alla luce di un’ulteriore considerazione. I federalisti mondialisti ed europei sono presenti in Europa in misura diversa a seconda delle aree territoriali: dove non esiste o è debole l’UEF ci sono forti gruppi del WAWF (paesi scandinavi e Olanda), mentre dove è forte l’UEF non esiste o è debole il WAWF (Italia, Germania, Belgio). Ci sono dunque le premesse per moltiplicare la capacità di influenza sull’opinione pubblica europea sulla base di un serio lavoro comune.
Lucio Levi
Anno XXIX, 1987, Numero 3, Pagina 229
PERCHE’ L’ATTO UNICO E’ INSUFFICIENTE
Si potrebbe discutere per ore sul problema se l’Atto Unico sia davvero un grande balzo in avanti per la Comunità oppure se sia un puro atto di «cosmesi». Nei prossimi anni si chiarirà se l’estensione a pochi altri articoli del Trattato della possibilità del voto a maggioranza porterà veramente a decisioni più rapide nell’ambito del Consiglio; si chiarirà se la Commissione riacquisterà il proprio ruolo esecutivo e se aumenterà l’influenza del Parlamento sulla legislazione comunitaria. Vi sono ancora certamente battaglie da combattere all’interno dell’Atto; tuttavia, lo scopo di questo articolo è dimostrare che, pur dando un’interpretazione ottimistica dell’Atto Unico — anzi, proprio dando una simile interpretazione — è necessaria una ulteriore riforma.
Supponiamo che l’Atto Unico permetta di raggiungere con successo il suo obiettivo prioritario: la creazione, entro il 1992, di un autentico mercato interno, ossia la libera circolazione di beni, servizi, capitali e lavoro. Ebbene, ciò significherebbe la creazione di un mercato unico, ma sprovvisto degli strumenti comuni per la sua gestione, il suo controllo e la sua organizzazione.
Prendiamo in considerazione un esempio molto chiaro. Se la Comunità non ha stabilito standards comuni per la protezione del consumatore all’interno del mercato unico, e rimangono ancora validi i singoli provvedimenti nazionali (benché reciprocamente riconosciuti), il mercato correrà il rischio di una concorrenza distorta, che minaccerà nello stesso tempo i consumatori. E’ infatti possibile che le imprese concentrino la propria produzione in quegli Stati membri che hanno adottato provvedimenti meno restrittivi. Questo problema è già sorto nel settore degli additivi alimentari. In questa situazione si può garantire la difesa del consumatore in due modi: attraverso provvedimenti nazionali, ai quali devono conformarsi tutte le merci importate (il che equivarrebbe alla eliminazione del mercato unico), oppure attraverso provvedimenti comuni da applicare nella Comunità. Sulla base dell’Atto Unico, c’è qualche opportunità di armonizzare le disposizioni nazionali mediante l’articolo 100 A, ma ciò è sufficiente? Lo stesso articolo ammette deroghe nazionali in campi relativi ai problemi dei consumatori (articolo 36, tutela della salute, scelte politiche di utilità pubblica), e non sono state stabilite misure per sviluppare nella Comunità una vera politica in difesa del consumatore.
La situazione è forse peggiore per quanto riguarda i problemi dell’ambiente. Anche in questo caso possono essere introdotte distorsioni nella concorrenza se gli standards nazionali sono diversi. In realtà, certi paesi possono essere tentati di attirare imprese, imponendo loro standards (e di conseguenza costi) meno restrittivi, specialmente laddove non sono essi stessi le prime vittime del danno ambientale (un esempio sono le piogge acide). Naturalmente l’Atto Unico comprende un capitolo sull’ambiente che prevede la possibilità di fissare standards comuni. Tuttavia, per prendere decisioni è richiesta l’unanimità: un metodo che porta a compromessi inadeguati, basati sul minimo denominatore comune.
Più direttamente, in campo economico, le differenze nella tassazione indiretta (in particolare aliquote IVA e accise) avranno come conseguenza o il mantenimento dei controlli doganali o ulteriori distorsioni nella concorrenza (e ciò in particolare a favore di alcuni piccoli Stati che possono deliberatamente vendere a un prezzo inferiore rispetto ai loro vicini grazie a manovre in questo campo). Anche in questo caso i Trattati prevedono l’armonizzazione delle imposte, ma il metodo adottato è quello dell’unanimità all’interno del Consiglio — ossia la dittatura della minoranza.
Distorsioni nella concorrenza sorgeranno anche nel mercato dei capitali se ci sarà una effettiva libera circolazione senza una armonizzazione della legislazione bancaria, degli standards di sorveglianza e dell’accesso ai mercati dei capitali. Ciò ci porta a considerare il problema monetario: se, all’interno del mercato unico, la Comunità dovesse mantenere dodici monete nazionali concorrenti, l’intera economia ne soffrirebbe. Come si legge nel rapporto Albert-Ball: «Le continue fluttuazioni nei tassi di cambio rappresentano, per economie interdipendenti, un handicap quasi altrettanto grave dell’instabilità di pesi e misure. Si può immaginare un normale svolgimento degli affari con un metro o un chilogrammo ‘fluttuanti’?». L’Atto Unico prevede una cooperazione monetaria all’interno dello SME. Tuttavia, esso stabilisce che qualsiasi sviluppo istituzionale dello stesso richiede non solo accordi unanimi fra i governi nazionali, ma anche la ratifica da parte di ciascun parlamento nazionale. Sarebbe ingenuo aspettarsi maggiori sviluppi dello SME con procedure così ingombranti. Ma anche una cooperazione più stretta fra le monete nazionali all’interno dello SME, se fosse raggiunta, rimarrebbe insufficiente. Senza una moneta comune per tutta la Comunità, gli imprenditori saranno ostacolati dai costi della semplice conversione di una moneta nell’altra e dei residui rischi di cambio. I governi dovranno mantenere riserve separate per difendere le monete nazionali sia l’una nei confronti dell’altra sia verso l’esterno. Dunque, un mercato unico senza un’unica moneta è un’illusione.
In un mercato unico si presenta anche la questione della coesione, che è l’ultima trovata del gergo comunitario per indicare la convergenza economica. Si accentuerà la tendenza alla concentrazione delle imprese in certe aree. L’Atto Unico prevede a parole un rafforzamento di politiche di coesione, ma non prevede nulla per quanto riguarda l’aumento delle risorse della Comunità. Il bilancio totale della Comunità rappresenta l’1% scarso del prodotto interno lordo,e le politiche strutturali assorbono meno del 20% del bilancio comunitario. Qualsiasi sensata redistribuzione di risorse richiede somme molto superiori, a cui le economie più deboli hanno sicuramente diritto, avendo esse aperto le loro vulnerabili industrie alla libera concorrenza all’interno del mercato unico. Ma le risorse della Comunità sono esaurite, e, sulla base dei Trattati che l’Atto Unico lascia immutati su questo punto, possono essere aumentate solo attraverso l’accordo unanime di ciascun governo e di ciascun parlamento nazionale. Un singolo Stato, dunque, può bloccare lo sviluppo della Comunità. Invece di pianificare globalmente l’uso dei fondi, per esempio nella politica regionale, gli Stati membri ricevono separatamente e in concorrenza fra di loro (il che implica costi maggiori) sussidi regionali. Il Netherlands Scientific Council ha definito ciò come una «contesa fra gli Stati membri per ottenere sussidi, che ha portato a un enorme spreco di fondi pubblici all’interno della Comunità».
Se la Comunità, nonostante si esiga continuamente l’unanimità in molte di queste questioni vitali, tuttavia si impegna a sviluppare politiche comuni, per realizzarle effettivamente sarà necessario rafforzare le sue istituzioni. Ciò significa in particolare che bisogna rafforzare il ruolo esecutivo della Commissione (oserei dire il suo ruolo di governo). Un esempio che dimostra questa necessità è la politica agricola comune. Essendo questa una delle poche genuine politiche comuni esistenti, essa ha mostrato uno dei più vistosi fallimenti istituzionali della Comunità. Nel suo ruolo di esecutivo comune della politica agricola comunitaria (PAC), la Commissione è senza dubbio in una situazione migliore rispetto agli Stati membri per valutare le necessità complessive di questa politica. Per quanto riguarda la fissazione dei prezzi, per esempio, la Commissione può giudicare molto meglio le conseguenze globali di diverse possibili scelte. Tuttavia, gli Stati membri hanno affidato al Consiglio la decisione in proposito, e, anno dopo anno, ciascun ministro vi partecipa con lo scopo di difendere gli interessi nazionali settoriali. Per raggiungere l’unanimità, essi stipulano accordi di compromesso che innalzano il livello dei prezzi proposti. Il risultato di questo processo nel corso degli anni è una continua lievitazione dei prezzi stessi rispetto alle proposte originarie della Commissione, con una differenza globale, a partire dal 1979, del 12-13%. Essendo molti prodotti eccedenti rispetto al fabbisogno, l’impatto dei cambiamenti dei prezzi sul costo dei rimborsi delle esportazioni e sugli stocks è più che proporzionale. Se i prezzi fossero inferiori del 13%, il costo della PAC sarebbe inferiore dai tre ai sei miliardi di ECU all’anno (cioè molto di più dell’ammontare del bilancio comunitario per la ricerca, che dà luogo attualmente a molte controversie). Ciò non accadrebbe tanto a spese degli agricoltori, quanto a spese di una riduzione dei costi di stoccaggio e dei sussidi all’esportazione. L’onere addizionale imposto al bilancio comunitario può dunque essere imputato direttamente alla contraddizione che caratterizza le istituzioni della Comunità, che ha una politica comune, ma non ne affida la gestione all’organo esecutivo comune.
Se si prendono in considerazione, al di là del mercato interno, altri obiettivi dell’Atto Unico, anche qui la sua insufficienza è presto dimostrata. La ricerca è già in crisi, dato che nessun singolo programma di ricerca può ora essere approvato prima dell’adozione di un «programma-quadro», che richiede l’unanimità. Eppure la Comunità ha un interesse vitale nel colmare il divario in questo campo con gli Stati Uniti e il Giappone.
La codificazione delle procedure della cooperazione politica in forma di trattato nell’articolo 30 dell’Atto Unico è stata forse utile per formalizzare la cooperazione politica e collegarla alla Comunità; tuttavia sono stati introdotti pochi cambiamenti rispetto alle pratiche in atto. L’unico passo avanti significativo è stata la creazione di un segretariato per la cooperazione politica. Ma, sebbene esso sia senza dubbio utile per la normale amministrazione, l’aggiunta di un segretariato separato dalle istituzioni comunitarie esistenti è pericolosa. La Comunità ha già adeguati organi che rappresentano gli Stati membri (il Consiglio) e l’elettorato nel suo insieme (il Parlamento) e ha un esecutivo che agisce in nome dell’intera Comunità (la Commissione). Perché creare un organismo intergovernativo separato? A medio o lungo termine, esso potrebbe diventare fonte di conflitti e dovrebbe perciò essere cambiato.
Un ulteriore e maggiore svantaggio consiste nel fatto che la cosiddetta cooperazione politica non è che un semplice coordinamento delle politiche estere nazionali che si nasconde dietro il concetto di politica estera comune. Ma in realtà l’insieme degli Stati europei di piccola o media dimensione non ha alcuna possibilità di influenzare gli avvenimenti mondiali, anche in questioni che li riguardano direttamente, come i negoziati USA-URSS per il controllo degli armamenti. Senza una vera politica comune, non è possibile alcuna politica.
Ultima, ma non meno importante, è la questione della democrazia. E’ inaccettabile che il potere legislativo che i parlamenti nazionali hanno delegato alla Comunità debba essere esercitato esclusivamente dal Consiglio (cioè da ministri nazionali che decidono a porte chiuse senza alcuna responsabilità collettiva). L’Atto Unico, tranne che per due questioni per le quali è ora richiesto l’assenso del Parlamento europeo (adesione alla Comunità di nuovi Stati e accordi di cooperazione) assegna a quest’ultimo un semplice ruolo consultivo. Questo limite deve essere superato se si vuole garantire che la legislazione comunitaria sia soggetta all’approvazione dei rappresentanti del popolo e dei governi nazionali. Per quanto riguarda tutte queste e altre questioni, è evidente che l’Atto Unico, nonostante la possibilità di successo in qualcuno degli obiettivi che si propone, non permetterà all’Europa di affrontare i problemi del futuro. Come la Commissione ha recentemente dichiarato, «la nave dell’Europa ha bisogno di un timoniere»; è cioè necessario il governo europeo per quei settori nei quali gli Stati membri stanno allentando (sia pure a malincuore) i controlli nazionali. Chi afferma che l’Atto Unico sarà l’ultimo passo istituzionale del nostro secolo, certamente sbaglia.
Richard Corbett
Anno XXX, 1988, Numero 1, Pagina 19
LA CRITICA DEL MOVIMENTO FEDERALISTA EUROPEO AI TRATTATI DI ROMA
Fra le forze politiche favorevoli all’unificazione europea il MFE fu quella che espresse, sotto la guida di Spinelli, la critica più radicale ai Trattati di Roma nel periodo della loro genesi,[1] e proprio la divergenza su questo tema fu una delle ragioni fondamentali della scissione dell’UEF, che poté essere ricomposta nel 1972. Più di trent’anni ci separano ormai dalla firma di quei Trattati (il Trentennale è stato celebrato nel 1987) e credo che sia utile svolgere un confronto fra la critica allora espressa dal MFE e lo sviluppo dell’integrazione europea finora realizzatosi.
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Occorre precisare che la critica del MFE ai Trattati di Roma fu in realtà soprattutto una critica alla CEE, perché l’Euratom, data la ristrettezza delle sue competenze, non fu considerata in grado di far avanzare in modo consistente l’unificazione europea, anche se essa avesse potuto realizzare i suoi obiettivi. L’attenzione fu pertanto concentrata essenzialmente sulla CEE, la quale aveva l’obiettivo estremamente ambizioso di realizzare l’unificazione del mercato europeo nel suo complesso come base per poi progredire verso l’unificazione politica.
Nei confronti di questo progetto venne sviluppata anzitutto una critica di principio. Il MFE riteneva, sulla base degli insegnamenti fondamentali contenuti nel Federalist e ripresi da grandi economisti contemporanei come Robbins, Einaudi, Ropke e Hayek, che l’effettiva unificazione economica di più entità statali fosse impossibile senza una preliminare unificazione politica che limitasse la sovranità e instaurasse un potere federale superstatale. Due erano gli argomenti fondamentali in cui veniva articolato questo assioma, che fin dall’inizio della politica di unificazione europea aveva guidato la critica federalista all’approccio gradualistico-settoriale.
In primo luogo l’unificazione economica degli Stati europei disposti a marciare seriamente in questa direzione aveva il suo presupposto nell’unificazione delle loro politiche estere e delle loro difese. Nessuno Stato, infatti, sarebbe stato disposto a rinunciare, come era implicito nel concetto di unificazione dei mercati, alla propria autosufficienza economica — condizione della sua indipendenza politica e della sua sicurezza militare — senza serie garanzie in merito alla salvaguardia della propria sicurezza. Ma queste garanzie potevano fondarsi solo sull’esistenza di istituzioni federali incaricate appunto di assicurare in modo unitario l’indipendenza e la difesa del territorio di tutti gli Stati aderenti. Inoltre, poiché le relazioni con gli Stati terzi non potevano non influenzare lo sviluppo economico degli Stati coinvolti nell’unificazione, era indispensabile una comune politica estera, possibile solo sulla base dell’unificazione politico-militare, per poter realizzare una economia effettivamente unitaria.
In secondo luogo solo l’esistenza, fin dall’inizio del processo di unificazione economica, di una autorità sovrannazionale, fondata sul consenso democratico diretto dei popoli, avrebbe consentito di sconfiggere i potenti e radicati interessi protezionistici presenti nei diversi Stati e di far prevalere l’interesse generale dei popoli europei per la creazione di un sistema economico unitario. Così come nessuno poteva pensare che si potesse instaurare e mantenere una economia unitaria nel singolo paese sottoponendola a un Consiglio di governatori provinciali dotati del diritto di veto e responsabili solo di fronte ai parlamenti provinciali, allo stesso modo non aveva alcun senso ritenere che un’economia unitaria europea potesse essere instaurata e mantenuta sulla base della cooperazione di governi nazionali sovrani, strutturalmente orientati a privilegiare gli interessi nazionali particolari rispetto all’interesse comune europeo.
Sulla base di questo punto di vista teorico, venne sviluppata nei confronti della CEE una critica soprattutto istituzionale. In modo particolare fu confutata la dottrina secondo cui le Comunità europee costituivano una categoria intermedia fra le tradizionali organizzazioni internazionali e quelle di natura federale, perché erano caratterizzate da taluni embrioni federali: soprattutto l’autonomia dell’organo esecutivo sovrannazionale, l’efficacia diretta della normativa e delle sentenze comunitarie, il voto a maggioranza nel Consiglio dei Ministri, la previsione di elezioni dirette del Parlamento europeo. L’elemento decisivo che, secondo il MFE, assimilava nella sostanza le Comunità alle tradizionali organizzazioni internazionali era la mancanza di autonomia finanziaria e di un potere autonomo (che solo l’unificazione politico-militare avrebbe potuto creare) in grado di imporre ai governi nazionali la volontà comune. Questo fatto, d’altra parte, togliendo alla Comunità lo strumento decisivo per impedire la secessione degli Stati che non fossero disposti ad accettare la volontà comune, rendeva inevitabile il mantenimento, anche contro la lettera dei Trattati, della prassi confederale del voto all’unanimità. Quanto all’elezione diretta del Parlamento europeo, si sottolineava infine che, data la mancanza di poteri di quest’organo, una sua elezione diretta sarebbe stata contraria ai più elementari principi democratici e, comunque, incapace di produrre un superamento della natura confederale delle Comunità.
Questa critica istituzionale fu integrata dalla individuazione di alcune fondamentali carenze del progetto di unificazione economica proprio della CEE, le quali derivavano dalla inadeguatezza delle istituzioni.
Questo progetto non conteneva anzitutto alcuna disposizione circa la creazione di una moneta comune. Ciò derivava chiaramente dal fatto che non si era voluto creare un vero governo europeo; di conseguenza, si era dovuto accantonare il problema di attribuire alla CEE dei poteri in campo monetario poiché questi possono competere soltanto ad una istituzione sovrana. D’altra parte ciò minava alla base il progetto di integrazione economica, poiché un mercato comune poteva funzionare solo in quanto sussistesse nell’area unificata una moneta comune, non diverse monete nazionali a cambi incerti e fluttuanti. E ciò per due ordini di ragioni: in primo luogo perché solo una moneta unica avrebbe permesso pagamenti e previsioni sicure su tutta l’area del mercato comune ed eliminato alla radice i rischi di restrizioni valutarie; in secondo luogo perché solo mediante l’istituzione di una moneta comune si sarebbero potuti superare interamente i problemi di cambio e di equilibrio delle bilance dei pagamenti che altrimenti sarebbero rimasti insolubili e avrebbero imposto, per imprescindibili interessi nazionali, ogni sorta di restrizioni.
Questa carenza costituiva una manifestazione particolarmente vistosa di una carenza d’ordine più generale relativa alle politiche economiche. La CEE prevedeva in modo molto preciso e dettagliato l’abolizione graduale delle dogane e dei contingentamenti per i prodotti industriali e conteneva la promessa di arrivare all’organizzazione di un mercato agricolo comune, nonché alla liberalizzazione dei movimenti dei lavoratori, dei capitali e dei servizi. Il Trattato era invece estremamente lacunoso in merito alle politiche economiche, vale a dire agli strumenti di cui devono disporre le moderne economie miste per affrontare le crisi dovute all’andamento della congiuntura economica, per correggere gli squilibri territoriali, settoriali e sociali prodotti da un incontrollato gioco delle forze economiche, più in generale per orientare lo sviluppo economico verso determinate priorità scelte dalle istituzioni democratiche. In questo campo erano previsti due strumenti, il fondo sociale e la banca europea degli investimenti, dotati di risorse e di poteri troppo limitati per avere una seria incidenza riequilibratrice. Per il resto ci si limitava a vaghi impegni ad armonizzare le politiche economiche e sociali degli Stati membri che restavano sotto l’esclusivo controllo dei singoli governi nazionali.
Anche questa era una scelta obbligata, data la natura confederale delle istituzioni comunitarie. Il trasferimento alla Comunità di compiti rilevanti nel settore delle politiche economiche sarebbe in effetti stato possibile solo a condizione di dar vita a un governo europeo di carattere federale. Solo un governo del genere, infatti, avrebbe avuto gli strumenti (la capacità di esecuzione propria, il consenso democratico, l’autonomia finanziaria) per attuare efficaci politiche economiche a livello europeo, sostitutive in alcuni casi e complementari in altri rispetto alle politiche economiche nazionali. D’altra parte l’incapacità di affrontare questo problema comprometteva in partenza le prospettive di seri progressi dell’integrazione economica.
Poiché senza una forte unitarietà delle politiche economiche degli Stati membri non si poteva instaurare e mantenere un mercato unitario, la realizzazione di questo programma rimaneva legata alla convergenza spontanea di politiche nazionali del tutto indipendenti. Ma questa, a sua volta, se era realizzabile in fasi di congiuntura economica generalmente positiva, era destinata a venir meno nei momenti di crisi, che avrebbero prodotto inevitabilmente divergenze nelle politiche economiche nazionali con immancabili effetti restrizionistici.
La mancanza di efficaci politiche economiche a livello europeo, oltre a rendere estremamente precaria l’integrazione dei mercati, implicava altresì che qualsiasi progresso si fosse compiuto su questo terreno sarebbe stato inevitabilmente accompagnato da gravi distorsioni. In particolare, un’ampia liberalizzazione degli scambi non accompagnata da vigorose politiche riequilibratrici su scala europea avrebbe prodotto gravi squilibri territoriali, favorendo un’ulteriore concentrazione industriale nelle aree forti d’Europa e la persistenza dell’arretratezza delle aree deboli. Inoltre la lotta contro lo strapotere dei gruppi monopolistici sarebbe diventata ancora più difficile perché, mentre la liberalizzazione degli scambi avrebbe indebolito l’efficacia degli strumenti nazionali di politica economica, non si sarebbero d’altro canto potuti creare validi strumenti europei di politica economica a causa dei limiti delle istituzioni comunitarie.
La critica del MFE alla CEE sboccava in una conclusione drastica. Il Mercato comune, ridotto ai suoi veri termini, era l’impegno dei sei governi ad intensificare nel settore industriale il processo di liberalizzazione che nel quadro dell’OECE era arrivato ad un punto morto. Si trattava di un impegno reso possibile da una situazione di forte espansione economica che caratterizzava da alcuni anni i paesi a economia di mercato. Questa espansione rendeva desiderabile e poco temibile per le industrie nazionali dei Sei la liberalizzazione degli scambi e favoriva la convergenza delle politiche economiche. Finché fosse durata la congiuntura favorevole la CEE avrebbe funzionato, perché i governi sarebbero stati interessati a farla funzionare, ma essa sarebbe andata in pezzi non appena, con il cambiamento della congiuntura, i governi o una parte di essi avessero ritenuto più conveniente sottrarsi agli impegni assunti.
La conseguenza politica che il MFE trasse da questa analisi fu il lancio di una campagna in grande stile imperniata sulla mobilitazione del popolo europeo a favore della Costituente europea e dell’Unione federale europea e sulla denuncia della illegittimità degli Stati nazionali e della pretesa di costruire l’unità europea attraverso trattative diplomatiche tra i governi.
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Si tratta ora di vagliare queste tesi alla luce della successiva trentennale esperienza storica.
La parte meno valida della critica federalista dei Trattati di Roma è chiaramente la sfiducia nella possibilità di ottenere importanti progressi nell’unificazione economica europea sulla base delle istituzioni comunitarie. Questa previsione è stata contraddetta dal successo della cosiddetta integrazione negativa, cioè liberoscambista, che ha avuto un’influenza determinante sulla grande crescita economica dell’Europa comunitaria, ha portato ai successivi allargamenti della Comunità, ha favorito il consolidamento del sistema democratico e la sua estensione a tutta l’area dell’Europa occidentale. Occorre a questo proposito osservare che il MFE, correggendo alla luce dell’esperienza la sua visione troppo schematica circa la priorità dell’unificazione politica rispetto a quella economica, seppe fornire una spiegazione molto convincente del fatto che si fossero potuti realizzare notevoli progressi nell’unificazione economica nonostante il rinvio sine die della creazione di un’autorità politica europea di carattere democratico e federale. Secondo tale analisi, questi progressi erano stati resi possibili dalla circostanza per cui, in mancanza di un potere democratico europeo, era intervenuto come fattore integrativo determinante un potere politico informale fondato sull’«eclissi di fatto delle sovranità nazionali» e sull’«unità di fatto delle ragioni di Stato».[2] Con ciò si intendeva in sostanza la debolezza endemica degli Stati nazionali europei, che li costringeva a cooperare per sopravvivere, e la forte convergenza delle loro politiche estere, difensive ed economiche assicurata dall’egemonia americana, che la caduta della CED aveva rafforzato — fattori che erano particolarmente forti per precise ragioni geostoriche nell’Europa dei Sei. Nell’analisi dei federalisti si faceva d’altra parte rilevare che questa base politica dell’integrazione economica europea era strutturalmente precaria anche perché il rafforzamento relativo degli Stati nazionali prodotto dalla stessa integrazione economica era destinato alla lunga a minare le basi della convergenza delle loro ragioni di Stato se questa non avesse trovato una stabilizzazione tramite forti istituzioni sovrannazionali.
Ciò precisato, se l’esperienza storica ha messo in luce taluni schematismi della critica federalista alla CEE, d’altro lato essa ha fornito una sostanziale conferma sia della tesi relativa alle inevitabili distorsioni di un processo integrativo non inquadrato da forti politiche economiche comuni, sia della previsione di una crisi profonda dell’unificazione economica in corrispondenza con una seria inversione di congiuntura.
A proposito della tesi sulle distorsioni del processo di integrazione è sufficiente qui sottolineare che i profondi squilibri territoriali della Comunità hanno sempre costituito e costituiscono tuttora il suo più grave handicap e che è diventato sempre più evidente il nesso fra questo handicap e l’inadeguatezza delle istituzioni comunitarie. L’esperienza ha ormai dimostrato che solo un’autorità europea fornita di poteri reali e di una legittimazione democratica diretta sarebbe in grado di imporre un livello soddisfacente di solidarietà fra gli Stati forti e quelli deboli della Comunità, allo stesso modo in cui nell’ambito degli Stati solo l’esistenza di un’autorità democratica centrale fondata sul consenso delle popolazioni sia delle regioni ricche che di quelle povere è in grado di far prevalere le esigenze della solidarietà nazionale rispetto agli interessi regionali particolari.
Per quanto riguarda la previsione di una crisi acuta della Comunità, è una dato di fatto che dal momento in cui, all’inizio degli anni Settanta, si è chiusa la fase di espansione economica mondiale e di stabilità monetaria nel cui ambito si era svolto il periodo transitorio del Mercato comune, e si è aperta una fase critica dello sviluppo economico mondiale, l’integrazione economica è entrata in una situazione di sostanziale stallo in cui si trova tuttora. Non solo non ha avuto successo il tentativo di passare dall’integrazione negativa a quella positiva, cioè alla realizzazione di efficaci politiche comuni, ma ha fatto passi indietro la stessa liberalizzazione degli scambi.
Anche in riferimento al risvolto politico della critica federalista ai Trattati di Roma, vale a dire alla scommessa sulla possibilità di costituire una forza popolare autonoma di carattere sovrannazionale in grado di forzare i governi nazionali ad accettare la rivendicazione della Costituente europea, il giudizio non può essere univoco.
La linea di opposizione frontale alla politica europeistica ufficiale, diretta a mobilitare il popolo europeo sulla base della contestazione della legittimità degli Stati nazionali, non ebbe il successo sperato. In effetti la campagna per il Congresso del popolo europeo e le altre campagne popolari che la seguirono nella prima metà degli anni Sessanta non dettero luogo, a causa della debolezza organizzativa della forza federalista, a una mobilitazione dell’opinione pubblica sufficiente a modificare la situazione di potere in senso favorevole alle rivendicazioni federaliste.
Questo indubbio insuccesso, se chiama in causa un certo velleitarismo che caratterizzò la linea politica del MFE in quegli anni, non deve però indurre a trascurare un fatto di grande importanza. In una fase storica in cui i successi dell’unificazione economica tendevano a nascondere i limiti strutturali della Comunità europea, le campagne popolari svolte dal MFE fra il 1957 e il 1966 hanno avuto il grande merito di mantenere viva l’alternativa democratica e federale a una costruzione europea che era debole e precaria proprio perché escludeva la partecipazione popolare. Anche se solo una piccola parte dell’opinione pubblica fu in grado di conoscere il messaggio dei federalisti, queste campagne popolari costituirono il primo esempio nella storia europea di un’azione politica di base capace di svilupparsi in modo unitario al di là delle frontiere nazionali in diversi paesi d’Europa. Esse dimostrarono inoltre che, ogniqualvolta si chiedeva ai cittadini di esprimersi a favore di un’unità europea completa e della partecipazione popolare alla sua costruzione, la risposta era largamente positiva. L’aver mantenuto viva la rivendicazione della Costituente europea in una fase sfavorevole ha permesso al MFE di svolgere un ruolo efficace allorché la crisi dell’integrazione europea ha nuovamente portato all’ordine del giorno il problema dell’unificazione politica.
Ciò è avvenuto anche perché è stata superata la visione eccessivamente riduttiva delle istituzioni comunitarie, che negava la presenza in esse di qualsiasi embrione federale e, quindi, escludeva la possibilità di trovare in esse un qualsiasi appiglio cui agganciarsi per portare avanti con più efficacia la rivendicazione della Costituente europea. In questo contesto è emerso l’impegno del MFE a favore dell’elezione diretta del Parlamento europeo, fondato sulla convinzione che la legittimazione popolare diretta avrebbe aperto la strada alla lotta per l’assunzione di un ruolo costituente da parte del Parlamento europeo stesso. Ed è emerso in seguito l’appoggio all’iniziativa dell’assemblea di Strasburgo a favore della riforma istituzionale della Comunità, che ha portato all’approvazione del progetto di Trattato di Unione europea il 14 febbraio 1984 e alla riproposizione di una vera riforma delle istituzioni comunitarie dopo che i governi hanno varato l’Atto Unico europeo.
Sergio Pistone
[1]Per la critica del MFE ai Trattati di Roma cfr.: A. Spinelli, L’Europa non cade dal cielo, Bologna, Il Mulino, 1960; A. Chiti-Batelli, I trattati del Mercato comune e dell’Euratom visti da un federalista (due fascicoli ciclostilati editi dal MFE nel 1957 e 1958); L. Levi - S. Pistone (a cura di), Trent’anni di vita del MFE, Milano, F. Angeli, 1973; L.V. Malocchi - F. Rossolillo, Il Parlamento europeo. Significato storico di un’elezione, Napoli, Guida, 1979; W. Lipgens, 45 Jahre Ringen um die Europäische Verfassung, Bonn, Europa Union Verlag, 1986.
[2]Cfr. M. Albertini, L’integrazione europea e altri saggi, Pavia, ed. Il Federalista, 1965.