IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XL, 1998, Numero 2, Pagina 157

 

 

IDEOLOGIA, UTOPIA, RELIGIONE
 
 
Premessa.
 
    E’ ben noto, almeno ai più, che sotto il nome di federalismo s’intendono due concezioni che, pur avendo molti punti di contatto, presentano tuttavia diversità sostanziali.
    La prima — quella classica e più nota, e che alcuni definiscono hamiltoniana perché ha ispirato i Padri fondatori degli Stati Uniti — è di matrice essenzialmente liberale, e ha quindi la dottrina del liberalismo come premessa e sottofondo. Essa si propone, come obiettivo specifico non quello di proporre una concezione generale dell’uomo, della società, dello Stato, ma di suggerire uno strumento scientificamente valido per sostituire, nei rapporti fra gli Stati, la legge dell’ordine all’impero della violenza, grazie al superamento delle sovranità statali: limitate, ma non annullate, in un ordine politico caratterizzato tanto da una reale unità dell’insieme come da una reale autonomia delle parti.
    A questa concezione se ne affianca però un’altra, di origine soprattutto francese, che vuol esser una vera e propria filosofia, e come tale pretende possedere una risposta globale, per quanto ciò sia oggi possibile, a tutti i fondamentali problemi politici — e non solo a quelli dell’ordine e della pace — che affaticano l’umanità. E’ questo il federalismo integrale, o globale, di matrice proudhoniana e che ha oggi il suo corifeo in Alexandre Marc e il suo organo nella rivista — fondata appunto da Marc — L’Europe en Formation di Nizza.
    lo ad ogni modo, formatomi alla tradizione federalista italiana, che va da Einaudi a Spinelli a Rossi ad Albertini — ed ha il suo antecedente appunto nel federalismo di marca liberale della Federai Union e di Lionel Robbins -, pur riconoscendo diversi meriti a Marc e alla sua scuola, resto ideologicamente, oltre che sentimentalmente, legato alla concezione hamiltoniana: ed è per sostenere la tesi centrale di questa che ho partecipato, nel 1996, con una mia comunicazione, a un Convegno internazionale, organizzato da alcuni discepoli di Alexandre Marc e dedicato al tema «Ideologia, utopia, religione considerate dal punto di vista federalista». Le pagine che seguono riproducono appunto, con vari tagli e qualche modifica, quella comunicazione.
 
RudolfBultmann: demitizzazione della religione...
 
    Vorrei iniziare partendo dalla distinzione, elaborata da un grande teologo e studioso di storia del cristianesimo, Rudolf Bultmann, fra kerugma e mythos. E’ quasi inutile ricordare l’essenziale di tale concezione, tanto essa è nota. Davanti a una religione, e in particolare al cristianesimo, l’analisi dello storico come il giudizio del filosofo devono distinguere, e separare nettamente, ciò che costituisce realmente il messaggio profondo ed eternamente valido (un sistema d’insegnamenti morali che l’imperativo kantiano ha «razionalizzati») da ciò che è, per così dire, veste esteriore, mito: un insieme di leggende, di racconti, di miracoli, di fatti sovrumani attribuiti a personaggi sovrumani: un «involucro» che, grazie alla sua presa sull’immaginazione delle masse, ha contribuito in modo decisivo all’affermazione, ad esempio, della religione cristiana e ha costituito il «vettore» indispensabile che ha permesso a questa di acquistare e conservare, in Occidente, l’egemonia culturale che le è propria.
    Appunto partendo da una tale concezione si giustifica e deve esser difesa, in campo politico, la tolleranza verso le credenze religiose propria della concezione democratica: tolleranza che si è affermata in Europa appunto come reazione ai crimini dell’intolleranza che hanno caratterizzato le guerre di religione dell’epoca della Riforma e della Controriforma. Una concezione liberale che Rawls[1] ha recentemente formulato in questi termini più generali: «L’esistenza di convinzioni ragionevoli ma incompatibili non rimette in discussione il funzionamento di una società ben ordinata, a condizione tuttavia che quest’ultima non sia concepita come una società unificata dalle sue convinzioni morali, ma dal principio della tolleranza, per cui la divergenza degl’ideali morali e degli orizzonti culturali non impedisce il riconoscimento delle stesse regole di giustizia e l’esercizio di una ragione pubblica comune».
    E’ appunto questa l’essenza, da tale punto di vista, del liberalismo e io non credo che la concezione federalista, di cui l’ecumenismo costituisce una delle ispirazioni fondamentali, abbia nulla da modificare in tale idea della tolleranza, che è anche la sua[2].
 
... e delle ideologie politiche.
 
    La tesi di Bultmann a cui ho fatto allusione — e la cui prima radice si ritrova nel Tractatus theologicus-politicus di Spinoza — può esser messa in rapporto con la concezione di Raymond Boudon secondo cui le ideologie che si affermano sono tutte fondate su un «nocciolo scientifico» (è l’equivalente del kerugma di Bultmann), a partire dal quale si costruisce un mito più o meno totalizzante, che dimentica i limiti e il senso profondo del messaggio[3].
    Boudon mostra così, molto opportunamente, come alle ideologie politiche debba applicarsi lo stesso tipo di demitizzazione, mutatis mutandis, che Bultmann propone nel campo religioso.
 
ll concetto d’ideologia.
 
    Per meglio precisare questo punto sarà opportuno definir meglio, anzitutto, il significato e la portata della parola «ideologia». In armonia con gli autori — numerosi, per non dir innumerevoli — che si sono affaticati su questo problema[4], si può definire l’ideologia come una concezione olistica che — partendo da un nucleo vero e originale, ma ricorrendo poi a generalizzazioni arbitrarie — finisce per dimenticare il carattere limitato e relativo di tale verità per giungere a una visione totalizzante della società e della storia, divenendo in tal modo unilaterale, riduttrice e finalmente falsa, quali che siano le cause — di regola almeno parzialmente subconscie — di una tale distorsione: semplice ignoranza; interessi di classe (Marx); una volontà di potenza politica (Cassirer).
    L’ideologia è dunque una concezione che manca di consapevolezza, cioè di una coscienza chiara di ciò che è la filosofia. Secondo la definizione di Georg Simmel: interpretazione e costruzione del mondo partendo da un punto di vista determinato, la totalità dell’essere vista attraverso un temperamento personale; consapevolezza che implica quella del carattere relativo di ogni concezione filosofica, incapace di esaurire una volta per tutte il reale e dunque erronea quando pretende di coglierne, e di coglierne per sempre, tutti gli aspetti, per quanto valida in ciò che essa afferma relativamente al suo problema specifico, al tempo e al luogo in cui essa è stata concepita e ai quali resta legata[5].
 
Il rischio del mito...
 
    Ernst Cassirer, che abbiamo citato poc’anzi[6], ci mette in guardia opportunamente contro il pericolo, che ancor oggi ci minaccia costantemente, di un passaggio dal nucleo razionale alla generalizzazione mitica a cui si ha tendenza quasi irresistibile a ricorrere ogni volta che manchino mezzi scientificamente appropriati per risolvere difficoltà gravi che si presentino alla società o allo Stato. (Cassirer, nella conclusione della sua opera, cita come esempio di reviviscenza di una tale mentalità «mitica», di una tale regressione a stadii primitivi e «magici», il fascismo e quello che è stato successivamente chiamato «socialismo reale»: e — si potrebbe aggiungere oggi — il fondamentalismo islamico). Pericolo grave non solo nel campo socio-politico, ma, più in generale, nell’ambito delle scienze che i Tedeschi chiamano «dello spirito» (senza tuttavia che le scienze della natura ne siano immuni)[7].
    Donde l’importanza di ogni mise en garde contro quelli che Boudon ha chiamato gli «effetti perversi» che conseguono a progetti troppo ambiziosi di riforma della società, e che giungono spesso a risultati opposti alle intenzioni dei loro autori[8]. E’ importante, dicevo, tener sempre presente la distinzione fra ciò che Boudon chiama a ragione il «nucleo scientifico» di una teoria, e in particolare di un progetto politico, da un lato, da ciò che non è, dall’altro, se non generalizzazione arbitraria, illusione e wishful thinking.
 
... esorcizzato da Alberto Mochi.
 
    A questo proposito è opportuno far uscire dalla dimenticanza la concezione di un autore italiano della prima metà del nostro secolo, che ha pubblicato in Francia e in francese le sue opere più importanti[9].
    Le scienze fisico-chimiche, egli osserva, hanno potuto raggiungere il livello di obiettività che esse conoscono a partire da Bacone e da Galileo perché sono state fondate su una sperimentazione rigorosa: tale rigore consistendo anzitutto nella definizione precisa del loro oggetto, che Mochi chiama il «presupposto» di ciascuna scienza. (Con questa concezione — notiamolo di sfuggita — Mochi, rimasto assolutamente sconosciuto, ha anticipato di quasi mezzo secolo la teoria di Kuhn sui fondamenti della scienza[10]: solo che Mochi chiama «presupposto» ciò che Kuhn chiamerà «paradigma». Potenza di ciò che viene dagli Stati Uniti ed è scritto in inglese!...).
    Ma Mochi non si è fermato a questa spiegazione dell’obiettività delle scienze della natura. Queste scienze, egli osserva, hanno la possibilità di sperimentare senza limiti, e appunto per questo, nel loro ambito, i progressi della teoria sono indipendenti dalle applicazioni pratiche di questa. Ben diverso è il caso delle scienze umane, a cominciare dalla medicina. Qui ogni sperimentazione senza limiti essendo o immorale (la vivisezione umana) o impossibile (nel campo della sociologia), il progresso di ciascuna scienza dipende, e spesso strettamente, dal progresso della terapeutica — e, in generale, delle applicazioni pratiche (è un’obiezione che Mochi rivolge soprattutto contro la sociologia di Wilfredo Pareto).
    Per questa ragione l’uomo politico deve procedere con la stessa prudenza del medico, fondandosi sempre sulle conferme dell’esperienza: e cioè applicando ciò che Mochi — medico e filosofo della medicina[11] — chiama «intervento minimo efficace», a cui il medico ricorre quando le anomalie che presenta il malato appaiono più gravi di altre di cui pure egli soffre, e che bisogna dunque curare prioritariamente (è ciò che Mochi chiama l’«indicazione vitale»), perché il miglioramento in questo campo è la condizione essenziale e preliminare per ottenere miglioramenti ulteriori in tutti gli altri. Sono, qui, i risultati pratici che guidano la scienza e per questo, egli aggiunge, le scienze sociali non possono se non restar strettamente connesse con i giudizi morali.
    Ora, l’«indicazione vitale» cambia con le epoche storiche: scriveva Mochi in Civiltà, i termini di una crisi, essa è costituita dall’anarchia internazionale, e dunque il primo passo da compiere è la realizzazione di una Federazione europea: tesi di cui egli vedeva una conferma particolarmente convincente — e particolarmente consonante con la sua filosofia — nelle opere di Lionel Robbins dedicate a questo argomento, e in particolare Economie Economic Causes of War ed Economic Planning and International Order[12]: il che significa — notiamolo di sfuggita — che, in questo senso ed entro tali limiti, la concezione hamiltoniana del federalismo ha senza dubbio carattere prioritario[13].
    L’alternativa, prosegue Mochi, è la decadenza: là dove l’uomo non riesce ad adattare l’ambiente a se stesso e finisce per adattarsi all’ambiente, la società peggiora moralmente, in un circolo vizioso di cui anche autori recenti, mi permetto di aggiungere — quali Alain Minc e Umberto Eco — temono le conseguenze disastrose, parlando di un nuovo Medioevo[14].
    Lo stesso accade quando, all’opposto, si vuol modificare dalle fondamenta la società, senza il controllo preliminare dell’esperienza. Il fallimento dei totalitarismi e i disastri di cui sono responsabili lo provano in maniera definitiva. Ci si illude di «arricchire e liberare l’uomo» e non si riesce se non a «asservirlo e mutilarlo»[15].
 
Una via d’uscita: Karl Mannheim.
 
    Questa regola della prudenza a ragion veduta, elaborata da Mochi e che è esattamente il contrario dell’immobilismo — deve a mio avviso, da un lato, esser completata oggi da ciò che Karl Popper ha scritto a proposito della «non falsificabilità» come criterio fondamentale della verità obiettiva e scientifica, così come sul carattere errato dello storicismo, quando pretende di possedere la chiave per cogliere le leggi della storia e prevedere l’avvenire dell’umanità[16]; e dall’altro esser messa in rapporto con la concezione di Ideologia e utopia di Karl Mannheim[17], che, pur teorizzando il carattere sempre unilaterale, parziale e limitato di ogni interpretazione storica come di ogni progetto politico, giunge ad ammettere — in ordine al secondo punto – la possibilità, per una freischwebende Intelligenz, di superare posizioni e proposte unilaterali in una nuova sintesi dinamica, grazie all’indipendenza di tale intelligenza dai condizionamenti propri della lotta politica. In tal modo la funzione che Mannheim affida a una tale classe di dotti — ha affermato un sociologo americano[18] — è paragonabile alla funzione che Hegel attribuiva allo «Spirito assoluto» e Marx al proletariato. Si ha qui al limite, afferma un altro interprete di Mannheim, la realizzazione dell’obiettività, la fondazione della politica come scienza[19].
    Una tale «libertà» dell’uomo di cultura dai condizionamenti esterni è  però sempre relativa e non potrebbe da sola garantire pienamente l’obiettività e la «scientificità» dei progetti politici che essa elabora. Donde l’importanza, anzi l’indispensabilità che una tale concezione venga completata dalla «filosofia della prudenza» di Mochi, se posso definirla così, la quale ci mette in guardia — anche qui con mezzo secolo di anticipo — contro gli «effetti perversi dell’azione sociale» denunziati poi da Raymond Boudon e ci richiama alla gradualità e alla prova dei fatti.
 
Insegnamenti per la dottrina federalista.
 
    Tale concezione dovrebbe costituire un capitolo importante della dottrina del federalismo, e in particolare del federalismo integrale o globale. Questa filosofia federalista ha infatti come ispirazione fondamentale quella di evitare ogni monismo, ogni concezione totalizzante e unilaterale, ogni mutilazione arbitraria della realtà: concezioni a cui essa oppone la ricerca costante di una sintesi organica certo, e di una visione unitaria dei diversi aspetti della società come delle diverse vocazioni degl’individui; ma sempre conservando la differenza e la distinzione — e riconoscendo il valore autonomo — di ciascuno e di ciascuna. Appunto in tal senso il federalismo costituisce una concezione anti-ideologica e rappresenta un vaccino contro ogni ideologia intesa come visione totalitaria, la quale sacrifica la ricchezza e il pluralismo che costituiscono il pregio — e l’essenza — della persona umana e di una società degna di questo nome. Ed è appunto in tal senso che si è sempre espresso in proposito Alexandre Marc[20].
    Ebbene, a questa chiara e coerente posizione nel campo della dottrina occorre unire nel campo della prospettazione politica e dell’azione ancor più decisamente ed ex informata conscientia di quanto non si sia fatto fin qui — il contributo, a mio avviso ancor oggi originale e praticamente inedito, di Alberto Mochi, che completa opportunamente, come si è visto, quello di Karl Mannheim.
    In altri termini il fatto che si riconosca il carattere globale dei problemi (nella realtà tout se tient), e dunque il carattere indebitamente unilaterale — al limite della falsità — di ogni visione parziale e non organica, non significa che una tale globalizzazione debba caratterizzare anche l’azione. Le rivoluzioni, i cambiamenti totali e immediati, realizzati indipendentemente da ogni conferma dell’esperienza (e da ogni consenso generale degli esperti e dei competenti) rischiano di produrre l’effetto opposto a quello sperato[21].
 
Conclusione: contro l’utopismo rivoluzionario.
 
    Questa «filosofia della prudenza a ragion veduta» rientra di pieno diritto nella storia della cultura europea. La grande scoperta politica dell’Europa nell’epoca moderna è — lo si è già ricordato — l’insegnamento che essa ha saputo trarre dalle assurdità dei fanatismi e dei crimini delle guerre di religione: l’insegnamento della tolleranza. Analogamente la lezione che essa deve trarre dal fallimento dei totalitarismi del nostro secolo è quello della prudenza riformatrice. Si tratta, in fondo, della stessa virtù che ha permesso l’affermarsi delle scienze della natura. «Provando e riprovando» era il motto dell’«Accademia del Cimento» e Nullius in verba, quella della «Royal Society» britannica, motti nei quali si può leggere in filigrana l’arrière pensée filosofico di queste accademie, la nuova idea rinnovatrice, opposta all’aristotelismo sterile degli ultimi scolastici (non, in linea di principio, ad Aristotele) persi nel sonno dogmatico dello jurare in verba magistri.
    Il compito è ben più difficile nel campo della progettazione politica, dove bisogna non solo evitare i rischi degli effetti perversi dell’azione sociale, ma anche determinare qual è, secondo l’espressione di Mochi, l’«indicazione vitale», il male più grave da estirpare per primo. E tuttavia solo a questo prezzo l’utopia uscirà dalle nebbie dell’arbitrarietà per entrare nel campo della ragione.
    Kant diceva, nei suoi Prolegomeni, criticando la possibilità di una metafisica come scienza, che la colomba, se fosse dotata di ragione, potrebbe illudersi che nel vuoto il suo volo sarebbe più facile e rapido. In realtà, senza il sostegno dell’aria, essa non potrebbe neppur sollevarsi da terra. Mochi c’invita a una modestia analoga.
 
Andrea Chiti-Batelli
 
 


[1] John Rawls, Political Liberalism, Columbia University Press, 1993.
[2] Resta tuttavia da definire l’atteggiamento da assumere di fronte a concezioni religiose o politiche intolleranti (non «ragionevoli», per dirla con Rawls) o, al limite, aberranti (la vedova indiana che deve esser bruciata sul rogo del marito defunto, o più semplicemente la ragazza mussulmana che si presenta a una scuola francese con lo chador). In tutti questi casi la concezione liberale deve difendersi, perché altrimenti rischia di esser eliminata: non bisogna dunque esitare a praticare contro gl’intolleranti una rigorosa intolleranza a ragion veduta. La libertà che resta impotente davanti ai suoi nemici, temendo di contraddirsi, finisce per favorire le condizioni del suo annientamento: qui, eccezionalmente, in dubio contra reum.
[3] Raymond Boudon, L’idéologie. L’origine des idées reçues, Parigi, Fayard., 1986.
[4] Una storia breve ma abbastanza completa del concetto d’ideologia e degli autori che hanno contribuito, nel corso degli anni — e soprattutto negli ultimi due secoli — a definirla è quella di Terry Eagleton, Ideology: An Introduction, Londra-New-York, Verso, 1991, a cui rimando per la bibliografia. Si veda anche Jorge Larrain, The Concept of Ideology, Londra, Hutchinson (e Athens, University of Georgia Press), 1979. Una trattazione meno succinta è quella in 3 volumi, a cura di François Châtelet, Histoire des idéologies, Parigi, Hachette, 1978. Si veda anche Michel Amiot e altri, Les idéologies dans le monde actuel, Parigi, Desclée de Brouwer, 1971 e J. Gabel, ldéologies, Parigi, Anthropos, 1974. Un’introduzione breve ma esauriente, con bibliografia, alla storia del concetto d’ideologia nel corso dei due ultimi secoli è quella di Luciano Gallino nel suo Dizionario di Sociologia, Torino, Unione Tipografica Torinese, 19932 (sotto la voce «Ideologia»). Un’attenzione particolare meritano poi, da un lato, Hans Barth, Wahrheit und Ideologie, Zurigo, Manesse, 1945 (e Francoforte, Suhrkamp, 1974, New York, Arno-Ayer, 1975, tr. ingl. Stratford, California University Press, 1976); e dall’altro Paul Ricoeur, nei suoi tre saggi («Herméneutique et critique des idéologies», in Démythisation et idéologie, a cura di E. Castelli, Parigi, Aubier, 1973; «Science et idéologie», in Revue de Philosophie de Louvain, maggio 1974 e «Idéologieet utopie», in Annual Proceedings of ’The Centre for philosophical Exchange’, 1976, vol. 2, n. 2), riuniti, in traduzione italiana, nel volume, dello stesso Ricoeur, Tradizione e alternativa, Brescia, Morcelliana, 1980.
[5] Si veda ancora, sempre per una definizione del concetto d’ideologia, Mireille Marc Lipiansky, «Le fédéralisme est-il une ideologie?», in L’Europe en Formation (Nizza), inverno 1992-3, pp. 41-64 (soprattutto pp. 55-6).
[6] Ernst Cassirer, The Myth of the State (1946), New Haven, Yale University Pr,ess, 1979. Non è un caso se un secolo più tardi Karl Dietrich Bracher (Zeit der Ideologien, Stoccarda, D.V.A., 1982) manifesta una preoccupazione analoga a quella di Cassirer che indico subito dopo nel testo, e in termini pressoché identici.
[7] Questo rilievo è svolto da Klaus W. Hempfer, «Id eologieanfälligkeit und Relevanzverlust der Geisteswissenschaften», in Aus Politik und Zeitgeschichte (inserto nell’ebdomadario Das Parlament, Bonn), 3 aprile 1992.
[8] Raymond Boudon, Effets pervers et ordre social, Parigi, P.U.F., 1977.
[9] Alberto Mochi, La connaissance scientifique, Parigi, Alcan, 1927; De la connaissance à l’action, Parigi, Alcan, 1928; Science et morale dans le problémes sociaux, Parigi, Alcan, 1932. Non meno notevole è la sua opera, in italiano, Civiltà i termini di una crisi, L’Universale di Roma, 1947. Conferme importanti della concezione di Mochi possono trovarsi in Paul Ricoeur, Science et idéologie, citato al termine della n. 5.
[10] Thomas S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, The University of Chicago, 1962.
[11] Alberto Mochi, Filosofia della medicina, Siena, Ticci, 1948.
[12] Alberto Mochi, Oriente comunista e Federazione europea, Firenze, La Nuova Italia, 1950.
[13] Occorre dunque, nell’ordine d’idee di Mochi — che è anche il nostro – sforzarsi d’individuare altre «indicazioni vitali» per domani: quali il controllo congiunto di fenomeni tra loro strettamente connessi, e quindi curabili solo congiuntamente, come: l’inquinamento planetario; lo sviluppo indiscriminato delle nascite; la disoccupazione prodotta dall’automazione; lo squilibrio Nord-Sud; le emigrazioni sempre più massicce di quelli che in Europa si definiscono gli «extra-comunitari»: cura congiunta che implica, tra l’altro, la scoperta di un’economia che non si fondi e riesca a vivere solo sullo sviluppo indefinito (alla lunga impossibile e suicida, in un pianeta con risorse limitate). A mio avviso — come ho cercato di mostrare altrove — un’«indicazione vitale» che non potrà non venir presto in primo piano è la riforma della democrazia del suffragio universale, che la formazione di grandi unità statali continentali, come la Federazione europea, renderà, io credo, indispensabile.
[14] Quanto essi affermano è riassunto da Joscha Schmierer, Mein Name sei Europa. Einigung ohne Mythos und Utopie, Francoforte, Fischer, 1996 (soprattutto pp. 188 segg.). Aggiungiamo un autore meno recente, inventore dell’espressione «nuovo medio-evo»: Roberto Vacca, Il Medioevo prossimo venturo, Milano, Mondadori, 1971.
[15] Queste parole sono di Alexandre Marc (L’Ordre Nouveau, luglio 1933) che già all’inizio degli anni Trenta aveva previsto ciò che si è potuto constatare per dir così de visu qualche decennio più tardi.
[16] Karl Popper, La logique de la découverte scientifique, Parigi, Payot, 1973 e Misère de l’historicisme, Parigi, Plon, 1956.
[17] Karl Mannheim, Ideologie und Utopie, Bonn, Cohen, 1929; edizione più completa: Ideology and Utopia, New York, Harcourt and Brace (e Londra, Routledge and Kegan), 1953.
[18] R. K. Merton, «K. Mannheim and the Sociology of Knowledge», in The Journal of Liberal Religion, Chicago, III, inverno 1941; dello stesso autore, Social Theory and Social Structure, Glencoe, The Free Press, 1957.
[19] Antonio Santucci, prefazione alla traduzione italiana dell’opera citata di Mannheim, Ideologia e Utopia, Bologna, Il Mulino, 1957, 1965.
[20] Si veda ad esempio di lui «Tuer l’idéologie ou tuer l’homme», in L’Europe en Formation, aprile-maggio 1974. Nello stesso senso Mireille Marc-Lipiansky, citata sopra alla n. 6.
[21] Si sarebbe tentati di citare, in appoggio di questa tesi che Mochi sviluppa ampiamente, la... «dimostrazione ironica» che ne dà Paul Reboux, nella sua ben nota raccolta À la manière de..., con le sue parodie di Jaurès e di Tolstoi.

 

 

 

 

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