Si rimane colpiti leggendo oggi un piccolo libro di Christian Saint-Etienne, dal titolo La fin de l’euro,[1] scritto all’inizio del 2009. Vi erano già descritte, con molto anticipo, le vicissitudini dell’euro negli anni successivi e vaticinato un suo non improbabile collasso. Il duro linguaggio dei fatti si impone a chi abbia occhi per vedere e non sia costretto dalla sua situazione di potere a chiuderli, o a volgerli altrove, trovando, come i cortigiani della fiaba di Andersen, bellissimi gli inesistenti abiti dell’imperatore nudo.
Saint-Etienne ricorda che tre millenni di storia economica mostrano che non può esistere durevole divorzio fra sovranità monetaria e sovranità politica – presto o tardi la zona monetaria si unifica o si dissolve – e si chiede se, paradossalmente, la continuazione dello SME, che ha preparato l’avvento dell’euro, non avrebbe dato risultati migliori della creazione di quest’ultimo. Effettivamente, fra il 1979 e il 1991, lo SME aveva ridotto e controllato la fluttuazione dei tassi di cambio fra le monete dei paesi partecipanti, mediante parità stabili, ma aggiustabili e ridotto l’inflazione. Naturalmente, Saint-Etienne non ritiene che l’errore sia stato il passaggio dallo SME all’euro, ma l’averlo organizzato senza fondare un governo economico europeo e senza federalismo fiscale: rifiutando la costituzione di un governo economico della zona euro, i paesi membri ne hanno probabilmente firmato anche l’atto di morte.
Secondo l’analisi di Saint-Etienne, la costruzione europea dopo Maastricht è viziata alle fondamenta da un triplice errore: è immaginata come un processo apolitico, mentre l’Unione dovrebbe prendere decisioni intrinsecamente politiche (aver accettato che la costruzione europea restasse un processo apolitico ha anche impedito l’instaurazione di un processo di legittimazione democratica nei confronti dei suoi responsabili); è costruita sulla rinuncia a una politica di potenza, che riduce l’Unione all’impotenza strategica; comprende membri che non condividono obiettivi e finalità dell’Unione stessa.
Per quanto riguarda il primo vizio d’origine, secondo Saint-Etienne, con il Trattato di Maastricht la costruzione europea avrebbe dovuto cambiare di natura. Non si sarebbe dovuto più soltanto favorire lo scambio di beni e di servizi all’interno dell’Unione, ma integrare nell’Unione elementi essenziali della sovranità oltre alla moneta, come la difesa e la politica estera. Per rendere questa evoluzione politicamente legittima, si sarebbero dovute fare tre scelte contemporanee. Anzitutto imporla a tutti gli Stati, dicendo a quelli che desideravano clausole di esenzione che potevano lasciare l’Unione. Ma questo tipo di decisione intrinsecamente politica non poteva essere presa da un’Unione intrinsecamente apolitica, e così si è accettato di riconoscere che alcuni Stati sono autorizzati a non avere gli stessi doveri e gli stessi diritti degli altri. In secondo luogo, si sarebbe dovuto prender coscienza del fatto che l’integrazione delle politiche avrebbe dovuto comportare l’armonizzazione del contratto sociale. E’ stata una contraddizione mortale lasciare che, in seno ad una unione monetaria, si instaurasse una concorrenza fiscale e sociale, senza imporre una base minima di disposizioni volte a preservare il contratto sociale europeo. In terzo luogo, si sarebbero dovute definire le frontiere dell’Unione, non necessariamente in senso fisico, ma politico.
Questo primo vizio d’origine è strettamente legato al secondo, il rifiuto di una politica di potenza. Rifiuto che è stato addirittura teorizzato, per esempio dal direttore dell’Istituto di studi sulla sicurezza dell’Unione europea: “L’Unione ha per fondamento il rifiuto della politica di potenza… Questo fondamento è il garante della sua sopravvivenza. Se esiste un interesse vitale comune, questo consiste nel preservare l’Unione e con questa la sua ambizione di promuovere il multilateralismo a scala mondiale”.[2]
L’Europa di oggi ha un problema con il concetto di potenza. Certo, la potenza è un termine ambiguo, con connotazioni anche negative (oltre che positive), ma essa resta un attributo necessario degli Stati che vogliono pesare nella storia. Voler costruire una potenza positiva ed efficace costituisce un ideale e un obiettivo lodevoli. A che giova essere virtuosi, o pretendersi tali – scrive Saint-Etienne – in un mondo che resta sottoposto ad una logica di potenza, ragione per la quale si ottiene solo il risultato di affermare la propria impotenza? Dichiarare che l’Unione ha per fondamento il rifiuto della politica di potenza, mostra fino a che punto i responsabili dell’Unione europea si sbaglino nell’interpretare il mondo. Questa loro confessione spiega magistralmente l’impotenza dell’Europa. Per Saint-Etienne bastano due esempi a dimostrarlo. Primo esempio: la parità fra l’euro e il dollaro, in assenza di un governo della zona euro, è diventata la variabile di aggiustamento degli scambi internazionali: il valore dell’euro dipende dalle scelte economiche della Cina e degli Stati Uniti, in funzione dei loro interessi strategici. Secondo esempio: Israele distrugge sistematicamente tutte le infrastrutture civili costruite a caro prezzo a Gaza dall’Unione europea, senza che questa reagisca in altro modo che pianificando una nuova serie di investimenti in infrastrutture, che serviranno come bersagli per le esercitazioni dell’esercito israeliano. Non capir nulla del mondo è una cosa. Teorizzare la propria impotenza come politica fondatrice dell’avvenire è un’altra: un multilateralismo che ignora le strategie di potenza degli Stati contemporanei è una tragica farsa.
Il terzo vizio originario è stato quello di associare membri che non condividono obiettivi e finalità dell’Unione stessa. Sono in campo due visioni, singolarmente legittime, ma contraddittorie nel loro insieme, che Saint-Etienne definisce rispettivamente come un progetto di zona di libero scambio senza limiti geografici, integrata con la NATO e sotto controllo strategico americano (come desiderato dalla Gran Bretagna, che non solo non desidera far parte di un eventuale federazione, ma vuole evitarne la formazione, e dagli Stati Uniti, che non auspicano più la nascita di un eventuale concorrente globale) e come un progetto che conduca ad un’unione federale, come era nelle intenzioni dei fondatori. E, proprio per l’assenza di un progetto strategico condiviso di sviluppo, l’Europa è diventata un luogo di non crescita in un mondo in piena espansione.
Secondo Saint-Etienne, l’architettura economica dell’intero pianeta, oggi in corso di definizione, è l’ultima metamorfosi di quella che Braudel chiamava l’economia-mondo, con l’economia mondiale organizzata attorno ad un centro, e ripartita in zone successive di influenza, dal centro verso la periferia. “Lo splendore, la ricchezza, la gioia di vivere – scriveva Braudel[3] – si radunano al centro dell’economia-mondo, nel suo cuore. E’ lì che il sole della storia fa brillare i colori più vivi, è lì che si manifestano alti prezzi, alti salari, la banca, le merci ‘reali’, le industrie redditizie, le agricolture capitalistiche; è lì che si trovano il punto di partenza e il punto di arrivo dei traffici, l’afflusso dei metalli preziosi, delle monete forti e dei titoli di credito. Lì risiede la modernità economica d’avanguardia, come nota il viaggiatore che vede Venezia nel XV secolo, o Amsterdam nel XVII, o Londra nel XVIII o New York oggi. La tecnica di punta, la scienza fondamentale, le libertà, sono là…”. E Saint-Etienne conclude. “Non ci saranno ricchezza economica, solidarietà sociale e, soprattutto, libertà, in un’Europa degli anni 2020, sottomessa ai giganti nazionalisti che si affronteranno per affermare la loro leadership economica e militare. Al contrario, un’Europa che si organizzasse per essere protagonista nell’economia-mondo, che va nascendo sotto i suoi occhi, potrebbe essere il cuore dell’economia globale, il luogo dove ‘il sole della storia fa brillare i suoi colori più vivi’ e dove esisterebbero le migliori condizioni di vita”.
Per arrestare il declino dell’Europa bisognerebbe almeno, sempre secondo Saint-Etienne, prendere rapidamente tre decisioni “ragionevoli”: primo, elaborare una politica strategica autonoma, pur nel quadro di un’alleanza con gli Stati Uniti; secondo, stabilire un meccanismo democratico di definizione delle frontiere esterne; terzo, senza frenare il processo di riforme strutturali, fissare delle regole minime di armonizzazione delle politiche fiscali e sociali.
Queste decisioni non sarebbero sufficienti a risolvere il conflitto sulle finalità dell’Unione, né a conferire una legittimazione democratica ai suoi dirigenti. Ma almeno, adottando un progetto strategico autonomo, che gettasse le basi di una politica energetica e ambientale comune, di una seria politica della ricerca, di uno sviluppo delle infrastrutture, di una capacità di difesa, l’Europa sembrerebbe più forte e sarebbe in grado di arrestare il declino del suo peso economico relativo nel mondo. Adottando un meccanismo democratico di fissazione delle sue frontiere esterne, l’Europa rafforzerebbe il senso di appartenenza dei suoi cosiddetti cittadini. Infine, fissando regole minime di armonizzazione delle disposizioni fiscali e sociali all’interno dell’Unione, si permetterebbe agli europei di superare una concorrenza interna, che non solo è contraria ai proclami di solidarietà all’interno dell’Unione, ma rappresenta un handicap alla creazione di sinergie di sviluppo nel suo seno. Bisogna infatti distinguere una concorrenza sulle regole sociali e fiscali da una concorrenza sui mercati dei beni e dei servizi; la seconda è vitale, mentre la prima è suicida e indebolisce la seconda. Ma decisioni di questo tipo, sempre secondo Saint-Etienne, non potrebbero essere prese se non con un colpo di forza della Francia e della Germania, cosa oggi del tutto improbabile.
L’Unione europea, scriveva Saint-Etienne già all’inizio del 2009, attraverserà allora probabilmente una serie di crisi violente. Le crisi, però, permettono talvolta svolte decisive. Se è assai poco probabile che vengano prese a freddo le tre decisioni “ragionevoli” sopra richiamate, una crisi molto grave potrebbe permettere un chiarimento nelle finalità dell’Unione e gettare le basi di una legittimazione democratica dei suoi responsabili. Ma perché la crisi abbia un esito salutare, andrebbe controllata da attori lucidi e visionari… Ne esistono sulla scena?
Qui, sempre in funzione di questa improbabile ipotesi, Saint-Etienne introduce il capitolo più lungo e tecnico del libro – il cui resoconto eccede gli scopi di questa breve nota – nel quale sono analizzati: il funzionamento attuale della zona euro, le sue istituzioni e le sue politiche; una proposta di riforma del funzionamento della zona euro e i relativi obiettivi strategici; la conseguente posizione negoziale della zona euro nella riforma internazionale. Non bisogna dimenticare che Saint-Etienne non è solo un illustre accademico, ma anche un esperto del FMI e dell’OCSE: la sola terza parte del capitolo prevede infatti l’analisi delle cinque principali cause della crisi economica e finanziaria mondiali, dei cinque “cantieri” da aprire per la riforma del sistema monetario internazionale e degli otto “cantieri” da aprire per la riforma del sistema finanziario internazionale.
Ma, chiusa questa parentesi, del tutto ipotetica (l’attuale atteggiamento dei paesi europei di fronte ai problemi della governance mondiale viene definito “una tragica farsa”), le conclusioni del libro ci riportano alla “fine dell’euro”. Quando il crollo dell’euro sarà inevitabile, si potranno verificare, secondo Saint-Etienne, due situazioni. La prima consisterà nel continuare a negare le differenze negli obiettivi dei diversi paesi, e questa condurrà necessariamente ad un crollo violento e perverso, dopo un periodo più o meno lungo di stagnazione economica, accompagnato da un ritorno a svalutazioni competitive, con un colpo terribile alla costruzione europea e alla credibilità del Vecchio continente nel mondo.
La seconda prevederà invece un ritorno coordinato ad un Sistema monetario europeo rafforzato, basato su svalutazioni più ridotte dello scarto inflattivo effettivo, evitando il disastro delle svalutazioni competitive intra-europee, che metterebbero in gioco tutta la costruzione europea. Non sarebbe questo, evidentemente, che un obiettivo di seconda istanza, ma sempre preferibile a un crollo disordinato.
In conclusione, secondo Saint-Etienne, in mancanza di una comune volontà politica, è venuto il momento di prepararsi ad un ritorno allo SME, per evitare una mortale guerra dei cambi nell’Unione europea, una volta imploso l’euro, fatto questo che resta l’ipotesi più probabile: i popoli e gli Stati non si lascino cullare dalle illusioni; la fine della zona euro, per come questa funziona oggi, è vicina.
Elio Cannillo
[1]Christian Saint-Etienne, La fin de l’euro, Paris, Burin Editeur, 2009.
[2]Alvaro de Vasconcelos, “L’Union européenne parmi les grandes puissances“, Commentaire, n. 24, (hiver 2008-2009), come riportato da Saint-Etienne, op.cit., p.71.
[3]Fernand Braudel, La dynamique du capitalisme, Paris, Flammarion 1988, come riportato da Saint-Etienne, op. cit., pp. 84-85.
Anno LIII, 2011, Numero 1, Pagina 58
EUROPEISMO E FEDERALISMO
La crisi che sta investendo oggi l’Unione europea a causa della questione dei debiti sovrani dei paesi più deboli dell’area dell’euro sta mettendo a repentaglio drammaticamente la sopravvivenza dell’Unione monetaria e con essa dell’intera costruzione europea. Per i federalisti è pertanto cruciale capire come possono e come devono agire in questo contesto che mette in campo per gli europei l’alternativa radicale tra unirsi o perire.
I federalisti giungono a questo momento decisivo della storia europea dopo aver percorso un lungo cammino, durato settant’anni e caratterizzato da diverse fasi: quella della contestazione radicale delle scelte operate dai governi nazionali, imperniata sull’iniziativa del Congresso del popolo europeo; quella, fino agli anni Novanta, del gradualismo costituzionale, tesa a promuovere la realizzazione di obiettivi di natura politica (inclusa la moneta unica) che andassero ad interagire con l’interdipendenza materiale costruita dai governi con il processo di integrazione economica e a preparare la possibilità del salto federale a fronte delle palesi contraddizioni legate alla mancanza di un governo politico europeo (in un contesto in cui questo obiettivo costituiva ancora la prospettiva reale all’interno della quale il processo europeo evolveva). Dalla seconda metà degli anni Novanta, dopo la fine dell’equilibrio bipolare, e date le condizioni in cui si andava realizzando l’allargamento, vi è stata la fase in cui si è posto il problema di riuscire a mantenere in vita, indicandolo con chiarezza e portandolo nel dibattito politico, l’obiettivo della Federazione europea in un quadro in cui il perseguimento di questo obiettivo non era più ritenuto necessario e utile (in quanto esso non coincideva più né come dimensione, né come prospettiva politica, con il quadro comunitario dell’Unione europea). Per arrivare a questi ultimi anni in cui, con il manifestarsi come conseguenza della crisi economica e finanziaria della contraddizione, prevista dai federalisti, dell’esistenza di una moneta senza Stato, è tornata di attualità la battaglia per fare la Federazione europea nella confederazione.
Per affrontare con lucidità le sfide che ci attendono può pertanto essere utile cercare di analizzare molto schematicamente il senso della battaglia condotta sin qui dai federalisti e in particolare dal Movimento federalista europeo.
* * *
A partire dalla caduta della CED, i federalisti hanno dovuto misurarsi con la difficoltà di mantenere in vita la battaglia per la Federazione europea a fronte del fatto che negli Stati non esisteva la volontà politica sufficiente per realizzare il necessario trasferimento di sovranità, pur nella consapevolezza diffusa che perseguire l’unità europea era vitale per ciascun paese. Fino al 1954 il salto verso l’unità politica non solo faceva parte dell’orizzonte delle prospettive politiche attuabili in tempi relativamente rapidi, ma era il punto di riferimento delle iniziative funzionaliste che avevano portato alla nascita della CECA e alla proposta della CED. Si trattava infatti di un quadro in cui, sia per le sue dimensioni sia per il progetto da cui era scaturito, il salto federale era considerato come la naturale conseguenza del progressivo trasferimento di competenze e poteri ad autorità sovranazionali che avrebbero esercitato funzioni che avrebbero posto direttamente il problema del controllo democratico e quindi della nascita di un sistema di governo europeo federale.
Invece, dal fallimento del primo tentativo di fondare la Federazione europea, i governi ripartirono, pur nella coscienza che fosse indispensabile rafforzare il quadro unitario europeo, con la presa d’atto della sconfitta del federalismo – e della loro stessa insufficiente volontà politica di fare il salto verso la federazione. Perciò optarono per una nuova strategia, nella sostanza diversa anche da quella monnetiana (che non aveva mai perso di vista l’obiettivo della fondazione della Federazione europea) imboccando la via comunitaria, o europeista, che mirava a creare l’integrazione economica, e quindi una certa cessione di competenze e soprattutto una crescente interdipendenza materiale, senza tuttavia prevedere parallelamente la creazione in tempi brevi di un quadro di potere europeo indipendente. Sicuramente uno degli obiettivi di questa scelta era anche quello di preparare negli Stati la rinascita della volontà politica di realizzare la Federazione europea, partendo dal presupposto che legando sempre più sul piano materiale il destino reciproco dei paesi europei, si sarebbero create le condizioni per rendere inevitabile la scelta del trasferimento di sovranità.
Di fronte alla nuova linea dei governi, i federalisti, con la scelta di Spinelli di dar vita al CPE, hanno dapprima sfidato gli Stati nazionali scommettendo sul fallimento del Mercato comune, e quindi del tentativo europeista di unificare le competenze senza togliere i corrispondenti poteri politici ai governi nazionali; e contemporaneamente hanno iniziato ad attrezzarsi per diventare un movimento autonomo di militanti capaci di portare avanti da soli, senza l’appoggio delle istituzioni e delle classi politiche nazionali, la battaglia federalista. E’ grazie a questa duplice impresa (l’“opposizione di comunità” e la costruzione del Movimento autonomista a partire dall’Italia) che è stato possibile per il MFE dotarsi degli strumenti politici ed organizzativi adeguati per una battaglia di lungo periodo. Ma ciò non toglie che di fronte al successo del MEC e alla prospettiva dell’ingresso della Gran Bretagna nella CE (ingresso che nei fatti rafforzava ulteriormente la scelta europeista – e anti-federalista – dei Sei), i federalisti abbiano dovuto prendere atto del fatto che l’europeismo aveva vinto la prima battaglia, e che aveva radici più solide di quanto essi non avessero ipotizzato inizialmente: di fronte alla complessità di compiere il trasferimento di sovranità dagli Stati all’Europa, esso infatti offriva ai governi la via di fuga per aggirare l’inadeguatezza del quadro nazionale, svuotandolo di competenze da un lato, ma mantenendolo vivo come quadro politico di riferimento dall’altro, e rianimandolo, in qualche modo, proprio grazie alle nuove potenzialità che derivavano dal processo di integrazione. Sotto l’impulso delle due spinte contrapposte (l’impotenza degli Stati nazionali da un lato e il rifiuto di cedere la sovranità dall’altro) i governi erano riusciti a trovare la volontà politica sufficiente per far funzionare il meccanismo comunitario, non senza difficoltà e contraddizioni, ma in modo comunque accettabile e sufficiente per avanzare sulla via della sempre più stretta integrazione. Il tutto si reggeva su di un quadro internazionale esterno che garantiva la stabilità a livello globale e la sicurezza della protezione americana a livello europeo. Fatto questo che da un lato esimeva gli europei dalla responsabilità di un impegno nel campo della politica estera e di sicurezza, e permetteva loro di concentrarsi esclusivamente sullo sviluppo economico garantendo comunque un quadro politico comune; dall’altro lato assicurava il sostegno al processo europeo da parte degli Stati Uniti.
La strategia dei federalisti, per cercare di sfruttare le spinte contraddittorie che il meccanismo europeista generava, non poteva prescindere da questi dati oggettivi: bisognava partire dai limiti strutturali della costruzione comunitaria, che si manifestavano nel costo (politico ed economico) del perdurare della divisione, e anche nello svuotamento della democrazia e nella degenerazione della vita politica nazionale causati dal fatto che i paesi membri venivano privati di competenze importanti senza che ci fosse parallelamente la creazione di un quadro di potere europeo indipendente e democratico. E bisognava al tempo stesso identificare dei passaggi istituzionali importanti (che prefigurassero la creazione di “pezzi di Stato”) su cui raccogliere consenso e da indicare ai governi, perché in un momento di impasse del processo politico questi potessero decidere di sostenerli; passaggi istituzionali compatibili, quindi, con la scelta europeista (e che pertanto non richiedessero la manifestazione di una esplicita volontà politica “federalista”, anche se presupponevano un orientamento favorevole al progetto federale), capaci di rispondere almeno parzialmente alle impasse del processo di integrazione e al tempo stesso di accentuare le contraddizioni dovute all’assenza di un quadro statuale europeo, preparandone così il terreno. Si trattava della cosiddetta strategia del gradualismo costituzionale, che permetteva ai federalisti di ingaggiare una corsa contro il tempo, per evitare che l’effetto dell’ingresso della Gran Bretagna e del consolidarsi delle strutture comunitarie, unitamente alle conseguenze dell’evolvere del quadro internazionale, allontanassero definitivamente l’obiettivo dell’unità politica.
Elementi essenziali di questa strategia furono le battaglie per l’elezione diretta del Parlamento europeo e poi per la creazione di una moneta unica.
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A distanza di trent’anni dalla prima elezione diretta del Parlamento europeo e dopo oltre dieci anni di vita dell’euro, che bilancio dobbiamo trarne anche per cercare di cogliere le indicazioni su come proseguire la nostra battaglia oggi? La prima constatazione da fare è che il vero spartiacque per gli europei è stato la fine del bipolarismo: gli Stati europei, nonostante i traguardi raggiunti, anche istituzionali, realizzati nel corso dei decenni sulla via dell’integrazione, non hanno saputo cogliere l’occasione di questo terremoto politico per fare il salto dell’unità politica. Si sono così condannati alla crescente marginalizzazione sul piano internazionale e hanno preparato la crisi dell’Unione europea, perché non sono stati in grado di dare risposte efficaci alle sfide che il crollo dell’Unione Sovietica poneva loro. Era del tutto evidente già a partire dai primi anni Novanta, che il nuovo quadro internazionale stava innescando un processo di divaricazione tra gli interessi europei e quelli americani che avrebbe posto agli europei l’esigenza di assumersi nuove responsabilità, rispetto alle quali non sarebbe certo stato sufficiente limitarsi all’integrazione nell’Unione dei paesi centro-orientali, compiuta nel quadro di un parallelo allargamento della NATO. Sul piano della politica estera e di sicurezza si profilava il problema di attrezzarsi per poter guadagnare un ruolo autonomo, di tipo innanzitutto politico, che avrebbe dovuto riempire i vuoti di potere che inevitabilmente le nuove priorità americane avrebbero creato. Sul piano interno emergeva invece il problema di governare i nuovi equilibri che l’unificazione tedesca da un lato e l’allargamento dall’altro avrebbero creato a breve nell’Unione europea e su cui giocava la Gran Bretagna per estirpare la prospettiva politica dal processo europeo. Si trattava, in breve, di passare dal dibattito sull’esigenza di creare la “Federazione nella Confederazione” – più volte evocato in Francia e Germania, ma mai perseguito concretamente – alle iniziative politiche necessarie per realizzarla davvero. L’aver mancato questo obiettivo, il non aver avuto, ancora una volta, sufficiente volontà per arrivare all’unità politica almeno in un nucleo di paesi, ha gettato il processo di unificazione europea in una crisi drammatica.
Inizialmente la crisi non è apparsa in tutta la sua gravità, anzi, l’europeismo (che considerava il comunitarismo l’obiettivo definitivo) è sembrato celebrare il proprio trionfo, continuando a rafforzarsi ideologicamente e politicamente a scapito del federalismo. Esso, infatti, ha potuto godere in questo quadro di un duplice, ma effimero vantaggio: innanzitutto ha potuto rivendicare i successi del quadro comunitario (euro in primis), nascondendo il fatto che il conseguimento di questi obiettivi era stato possibile proprio sulla base della spinta dell’iniziativa federalista. Non era stato infatti il comunitarismo il vero artefice di tali successi, bensì il federalismo, che aveva creato le condizioni politiche per la loro realizzazione (dall’identificazione degli obiettivi, allo sviluppo dell’analisi circa la loro effettiva modalità di realizzazione, fino alla preparazione del consenso) e che aveva fornito il quadro politico (la prospettiva della creazione di uno Stato federale europeo) all’interno del quale la creazione delle istituzioni comunitarie aveva una funzione propulsiva di avanzamento del processo; ma nel momento in cui il comunitarismo pretendeva di sostituirsi al federalismo, di fatto esso preparava anche la sua stessa crisi, perché tutti i suoi limiti teorici e politici e le sue contraddizioni sarebbero presto emerse. In ogni caso, grazie all’altro vantaggio di cui ha potuto godere l’europeismo – quello di essere legato all’inerzia del sistema europeo ormai formatosi, che tende a promuovere la propria continuità, nel bene e nel male, anche allontanando l’ipotesi di obiettivi politici che ne snaturino gli equilibri – questa crisi ha potuto rimanere a lungo nascosta; e infatti pochi, tranne i federalisti, hanno colto che si stava in realtà preparando il terreno per la crescita dell’euroscetticismo e del divario tra l’opinione pubblica e le istituzioni europee, entrambi conseguenza dell’inadeguatezza del modello comunitario rispetto ai problemi che l’Europa deve fronteggiare.
Le contraddizioni che i federalisti avevano individuato e denunciato sono oggi emerse alla luce del sole. Sono quindi diventati ormai ineludibili i problemi legati al fatto di aver creato una moneta senza Stato, quelli di un’Europa che ha sostituito la politica con la sola integrazione del mercato e che non ha gli strumenti per assumersi responsabilità effettive ed indipendenti nel quadro internazionale, o che non riesce a crescere e ad investire per preparare il futuro. Un’Europa in cui l’allargamento non accompagnato dall’approfondimento politico del nucleo più integrato ha segnato la vittoria degli anti-europei, perché ha diluito la coesione politica e ha innescato un pericoloso processo di rinazionalizzazione, di cui, come si era previsto ai tempi, la Germania riunificata, non inserita in un quadro politico europeo, è al momento una dei protagonisti.
Un quadro, quindi, che mostra chiaramente come la sola possibilità di soluzione per tutti i problemi dell’Europa possa essere quella del salto dall’europeismo (e dal sistema comunitario) al federalismo (dando vita alla Federazione europea). La doppia crisi che sta investendo gli Stati membri e che spinge i mercati, che non credono alla capacità degli europei di unirsi politicamente, non lascia infatti più molto spazio: sotto la pressione del debito pubblico da un lato, e con una crescita economica ampiamente insufficiente dall’altro, in un contesto mondiale che invece progredisce molto velocemente, gli europei possono invertire il trend che li sta schiacciando solo compiendo il salto di qualità della fondazione dello Stato federale europeo, a partire dall’iniziativa di un primo nucleo di paesi che vede al cuore Francia e Germania e l’eurogruppo, o una parte di esso, come quadro naturale. Ma al tempo stesso, proprio l’evidenza del traguardo che gli europei dovrebbero raggiungere ne mette in luce la tremenda difficoltà, rimasta immutata nell’arco degli oltre cinquant’anni di integrazione che avrebbero dovuto preparare il salto politico. Se da un lato infatti è cresciuta in modo esponenziale l’interdipendenza degli Stati europei, soprattutto dei paesi dell’area dell’euro (e continua ad essere evidente, agli occhi della ragione, che il quadro europeo è indispensabile), dall’altro però la volontà politica si è addirittura affievolita – e ciò è particolarmente grave per quanto riguarda la Germania, la Francia e l’Italia; inoltre è fortemente diminuito il consenso da parte dei cittadini, che ancora credono nel progetto di un’Europa unita, ma non ne vedono le prospettive concrete e non credono più alla capacità della classe politica di portarla a compimento, mentre sono insoddisfatti di questa Unione che non li protegge abbastanza dalla concorrenza esterna e che non riesce ad offrire progetti per il futuro. E’ quindi un dato di fatto che l’europeismo e il meccanismo comunitario non alimentano né la volontà politica europea degli Stati, né il consenso dei cittadini. Tutto ciò, unito alla crisi che esaspera la difficoltà di mantenere un quadro di solidarietà reciproca tra aree più ricche e aree più povere, rende concreto il rischio che, soprattutto i paesi più forti, con una reazione irrazionale, scelgano di lasciare affondare l’euro, e con esso la stessa Unione europea.
Le prime reazioni alla crisi che ha colpito i paesi più deboli dell’area dell’euro e che minaccia di fatto la sopravvivenza dell’Unione monetaria, dimostrano, fortunatamente, che, pur con molta fatica e ambiguità, la reazione degli Stati europei per il momento rimane quella di cercare di tamponare il problema. Essi sono infatti costretti a prendere misure di rafforzamento della governance economica, anche se al tempo stesso dimostrano di non aver ancora maturato la volontà politica di prendere la decisione fondamentale. In questo quadro i federalisti sono impegnati a correre una nuova, decisiva corsa contro il tempo. Si tratta di una corsa che ha sicuramente il suo fulcro e le sue scadenze inderogabili sul piano economico e finanziario, ma che non risparmia nessun settore della vita civile e politica europea: dalla crisi dei sistemi democratici, a fronte della marea montante del populismo, al risorgere di tentazioni e chiusure nazionalistiche, fino all’impotenza in politica estera, mentre il Sud del Mediterraneo brucia e avrebbe bisogno di un sostegno e di un forte ruolo propulsivo europeo. Il rischio pertanto è che le tendenze autodistruttive che accompagnano ogni crisi prevalgano e trascinino gli europei verso il baratro di una nuova divisione, nonostante siano evidenti le conseguenze drammatiche che una tale scelta comporterebbe.
Per i federalisti è venuto quindi il momento dell’azione e della mobilitazione. I fatti dimostrano chiaramente che lo status quo non è più sostenibile e che si avvicina l’ora della scelta. La prima battaglia su cui bisogna impegnarsi riguarda pertanto la necessità di chiarire in che cosa consiste l’obiettivo dell’unità, dopo anni in cui c’è stata molta ambiguità a questo proposito: è necessario portare al centro del dibattito politico la parola d’ordine della Federazione nella confederazione, evidenziandone la natura statuale e le caratteristiche politiche. Parallelamente bisogna indicare il metodo per realizzarla, ossia la convocazione di un’Assemblea costituente da parte dei paesi che vogliono dar vita alla Federazione. Ma come alimentare la volontà politica necessaria per compiere un simile passo? Come far emergere il sostegno dell’opinione pubblica al progetto politico europeo nei paesi dove ancora esiste ma convive anche con lo scetticismo nei confronti dell’Unione europea? Come interrompere la spirale perversa della deriva nazionalista (suicida) dei governi, che la giustificano proprio sulla base dell’euroscetticismo che essi stessi alimentano? Come fermare la marea populista? La risposta può solo essere nel tentativo di mobilitare le forze politiche e sociali a sostegno del progetto europeo. La Federazione europea non nascerà senza un forte consenso da parte dell’opinione pubblica, e questo consenso deve essere intercettato e reso visibile subito. I federalisti da soli non possono farlo, essi possono solo innescare la miccia, e poi è nelle forze protagoniste della vita politica e sociale che deve manifestarsi questa volontà di mobilitazione. Per questo il grimaldello dell’Iniziativa dei cittadini europei prevista dal Trattato di Lisbona può venire utile: sfrondandolo della demagogica pretesa di rappresentare un’opportunità di partecipazione democratica all’interno del quadro comunitario attuale, esso può invece diventare uno strumento per coagulare le forze pro-europee attorno ad un obiettivo europeo all’apparenza realistico, perché già giuridicamente possibile nel quadro dell’Unione (la creazione di un potere fiscale europeo per finanziare un piano europeo per la crescita economica), e al tempo stesso politicamente innovativo (un tassello cruciale per la realizzazione dell’Unione economica) e destinato a rafforzare la differenziazione tra paesi a maggior vocazione unitaria e paesi euro-tiepidi o euroscettici. E soprattutto può diventare uno strumento che spinge partiti, sindacati e società civile a schierarsi e a coinvolgere concretamente la propria base per dimostrare che esiste consenso e capacità di mobilitazione sull’Europa. Se i federalisti saranno capaci di lavorare affinché questo processo non confluisca nell’alveo di uno sterile comunitarismo, ma si accompagni alla consapevolezza che il traguardo da raggiungere è quello della Federazione nella confederazione, forse riusciranno ad interrompere il circolo vizioso che soffoca l’Europa e a preparare il terreno per realizzarne l’unità politica.
Luisa Trumellini
Anno LIII, 2011, Numero 3, Pagina 199
IL GIUDIZIO DELLA CORTE COSTITUZIONALE TEDESCA
SUL MECCANISMO DI STABILIZZAZIONE DELL’EURO
Il 7 settembre 2011 la Corte Costituzionale tedesca è tornata[1] a pronunciarsi sul processo di integrazione europea questa volta a proposito della legittimità del Fondo europeo di stabilità finanziaria, meglio conosciuto come Fondo salva Stati, creato dai paesi dell’Euro-zona nel maggio 2010 per salvare la Grecia dal default economico e per impedire la conseguente dissoluzione dell’Unione monetaria.
Il Bundestag il 22 maggio 2010 aveva approvato la legge di ratifica del Fondo di stabilità finanziaria con cui oltre centoventi miliardi di euro venivano destinati a questo nuovo fondo europeo e veniva stabilito che ogni futuro incremento di tale fondo sarebbe stato possibile con la semplice autorizzazione della Commissione bilancio del parlamento. La legge di ratifica è stata quindi impugnata[2] davanti alla Corte di Karlsruhe da un gruppo di cittadini, i quali denunciavano l’incompatibilità della creazione del Fondo salva Stati con l’art. 38[3] della Costituzione tedesca, il quale riconosce la sovranità del Bundestag in quanto assemblea dei rappresentanti del popolo tedesco.
Come è già avvenuto in passato nelle sentenze sul processo di integrazione europea, la Corte costituzionale ha affrontato la questione della legittimità delle nuove riforme istituzionali dell’Unione europea sulla base del principio della sovranità democratica dello Stato tedesco. Secondo i giudici di Karlsruhe la Costituzione esige che sia il Bundestag a prendere le decisioni fondamentali in materia di spesa pubblica, essendo questa una delle attribuzioni sovrane di cui è titolare il popolo. Tali competenze non possono essere cedute, anche solo parzialmente ad istituzioni intergovernative e non democratiche quali appunto il Consiglio europeo, in cui il popolo tedesco non è direttamente rappresentato. La Corte ha poi ribadito che tutti gli atti volti a creare una stabilità economica e finanziaria tra i paesi dell’euro devono essere adottati con il consenso del Bundestag, il quale resta libero di revocarli ove lo ritenga necessario. Il parlamento non può secondo i giudici di Karlsruhe adottare una legge che consenta una cessione sostanziale di sovranità a favore di soggetti esterni che, privi di un vincolo di rappresentanza col popolo tedesco, dispongano delle risorse pubbliche dei cittadini senza l’autorizzazione del Bundestag, unico organo dove il popolo tramite i suoi rappresentanti esercita la sua sovranità.
In relazione alla legge di ratifica del Fondo di stabilità finanziaria (Euro-Stabilisierungmechanismus-Gesetzt) la Corte ha negato la sua incostituzionalità nella misura in cui questo, nella sua applicazione pratica, non pregiudica le competenze esclusive del Bundestag di prendere le decisioni in materia di bilancio. Nel caso concreto il parlamento tedesco, adottando la legge di ratifica, non ha alterato a priori e in modo incompatibile con la Costituzione il potere del Bundestag di adottare le leggi di bilancio e di controllarne l’implementazione da parte del governo. Il parlamento tedesco resta cioè sovrano in materia fiscale.
Secondo quanto disposto nella sentenza della Corte l’applicazione del Fondo salva Stati dovrà tuttavia rispettare una serie di limiti che i giudici di Karlsruhe riconoscono al fine di garantire il rispetto della Costituzione. Innanzitutto per ogni eventuale aggiornamento ed incremento del fondo non sarà sufficiente la sola autorizzazione della Commissione bilancio del parlamento, come previsto dalle legge di ratifica, ma sarà invece necessaria l’approvazione del Bundestag, che è l’unico organo competente in materia fiscale e di bilancio. In secondo luogo ogni eventuale sviluppo futuro del fondo non dovrà pregiudicare la competenza esclusiva del Bundestag relativa all’esercizio della sovranità in ambito fiscale.
Venendo ora all’analisi della sentenza è chiaro che la Corte costituzionale tedesca, pur risparmiando il Fondo di stabilità finanziaria da una disastrosa pronuncia di incostituzionalità, intende precisare ancora una volta i limiti che i principi dello Stato di diritto pongono allo sviluppo di una sovranità europea nel quadro attuale dei trattati. I giudici di Karlsruhe sono evidentemente consapevoli, in modo molto più lucido di molti altri colleghi europei, che il processo di integrazione è ormai arrivato ad un punto decisivo in cui ad essere in gioco è la sovranità democratica degli Stati membri. La Corte esercitando per dovere costituzionale una funzione di garanzia e di tutela dell’ordinamento democratico tedesco non può che essere critica sui modi in cui si sta sviluppando il processo di sovranizzazione delle istituzioni comunitarie, che non garantiscono evidentemente gli stessi standard di democraticità degli ordinamenti nazionali. Così anche se la Costituzione afferma il principio dell’Europafreundlichkeit, la naturale predisposizione dell’ordinamento giuridico tedesco per lo sviluppo e il rafforzamento dell’integrazione europea, non può permettere lo svuotamento dei principi su cui si fonda lo Stato tedesco.
Secondo i giudici di Karlsruhe le istituzioni europee non possono esercitare competenze fiscali in modo autonomo e svincolato dal parlamento tedesco per due motivi fondamentali. Innanzitutto il principio “no taxation without representation”, proprio di ogni Stato di diritto, sarebbe sostanzialmente violato se l’Unione europea, la cui natura è sicuramente intergovernativa, esercitasse un potere fiscale gestendo risorse proprie dei cittadini senza risponderne davanti ad essi. Già nella sentenza sul Trattato di Maastricht la Corte costituzionale tedesca aveva dichiarato la natura intergovernativa dell’Unione che non si fonda su un popolo europeo, bensì sugli Stati membri che restano signori dei trattati. Il deficit democratico era stato poi ribadito nella sentenza sul Trattato di Lisbona del giugno 2009 in cui venivano sottolineate la differenze tra i parlamenti nazionali e il Parlamento europeo. Questo non solo non rappresenta efficacemente i cittadini, in quanto non tutti i popoli degli Stati membri sono rappresentati in modo uguale, ma soprattutto rimane un organo subordinato al Consiglio europeo nel cui quadro le decisioni vengono prese dai rappresentanti dei governi, per di più all’unanimità.
In secondo luogo la Corte di Karlsruhe, quale garante della Costituzione tedesca, non può accettare processi giuridici che svuotino di fatto l’ordinamento giuridico tedesco della sua sovranità nelle forme e nei modi che sono propri al metodo funzionalista e cioè attraverso la cessione progressiva e parziale di competenze dal livello nazionale a quello comunitario. Nell’attuale fase del processo di integrazione europea la necessità di creare un’unione fiscale tra i paesi dell’euro e quindi, in prospettiva, una sovranità europea, non può essere realizzata con un semplice trattato intergovernativo come è stato fatto invece per tutti i precedenti passi della costruzione europea. Questo è palese se si considera che i primi venti articoli della Costituzione tedesca, che riconoscono i caratteri fondamentali dell’ordinamento democratico e federale della Repubblica, sono considerati dalla stessa Costituzione essenzialmente eterni: non possono cioè essere oggetto di riforme costituzionali neanche secondo la procedura prevista all’art. 146 della Legge fondamentale. I giudici di Karlsruhe sanno evidentemente che la creazione di una sovranità europea costituisce in qualche modo un atto rivoluzionario che rompe il quadro giuridico esistente e necessita qualcosa di più di un trattato o di una semplice modifica delle Costituzioni nazionali. Come affermato nel giudizio sul Trattato di Lisbona la cessione della sovranità sostanziale a favore di istituzioni sovranazionali e democratiche necessiterebbe l’esercizio di quel potere costituente che non detiene neanche il Bundestag, ma che spetta al popolo tedesco.[4] La Corte evidentemente non definisce una procedura chiara per permettere al popolo di esercitare le proprie competenze sovrane in vista della creazione di uno Stato federale europeo, né probabilmente auspica una rottura del quadro giuridico esistente, essendone essa il sommo guardiano. La Corte si limita giustamente a porre il problema fondamentale della sovranità del popolo e ad evidenziare i limiti del metodo funzionalista. Tra l’ordinamento costituzionale tedesco e quello intergovernativo europeo esiste evidentemente una differenza sostanziale che non può essere superata se non attraverso un atto costituente con cui il popolo tedesco venga consultato e nuove istituzioni democratiche e sovrane vengano fondate a livello europeo.
In una recente intervista al settimanale Der Spiegel[5] il giudice uscente della Corte costituzionale tedesca, Udo Di Fabio, co-autore della sentenza sul Trattato di Lisbona, è stato interrogato sui futuri sviluppi del processo di integrazione europea e sul ruolo che la Corte di Karlsruhe giocherà. Pur non nascondendo il suo scetticismo circa la fondazione degli Stati Uniti d’Europa, Di Fabio ha ribadito ancora una volta l’ostacolo fondamentale che si pone tra questa Unione intergovernativa e la fondazione di uno Stato federale europeo e cioè un atto costituente in cui il popolo tedesco insieme a tutti gli altri popoli eserciti la sua sovranità: “Il popolo [tedesco]è ovviamente libero di abbandonare la [sua]legge fondamentale. Tutti i popoli sono liberi di decidere di non essere più indipendenti e cioè di voler diventare uno Stato membro dei sovrani Stati Uniti d’Europa”.
Finché tutto questo non avverrà evidentemente, le future riforme adottare col metodo funzionalista, dal coordinamento dei bilanci alla creazione degli eurobonds, potranno sicuramente essere messe in discussione dalle Corti costituzionali degli Stati membri, che non possono accettare lo sviluppo di competenze europee senza la creazione di una democrazia europea che le amministri: una democrazia per cui è necessario un atto costituente.
Luca Lionello
[1] In particolare si ricordino le sentenze Solange I del 1974, Solange II del 1986, Maastricht Urteil del 1993, la sentenza sul mandato di arresto europeo (Europäische Haftbefehl) del 2005, e Lissabon Urteil del 2009.
[2] I singoli cittadini sono legittimati a presentare ricorso costituzionale qualora ritengano lesi i propri diritti fondamentali da parte dei pubblici poteri.
[3] “I deputati del Bundenstag sono eletti con elezioni generali, dirette, libere, uguali e segrete. Essi sono i rappresentanti di tutto il popolo, non sono vincolati da mandati o da istruzioni e sono soggetti soltanto alla loro coscienza”.
[4] Decisione sulla costituzionalità del Trattato di Lisbona, 30 giugno 2009, SS 113: “La trasformazione dell’Unione europea in uno Stato federale va al di là dei compiti e dei poteri degli organi costituzionali della Repubblica federale tedesca. Il fondamento di una tale trasformazione potrebbe essere dato solo da una atto costituzionale del popolo tedesco sulla base dell’art. 146 del Grundgesetz”.
La Conferenza intergovernativa per la revisione del Trattato di Maastricht è stata un successo o un fallimento? Un successo, dicono alcuni, in omaggio alla regola diplomatica, valida oggi come sempre, secondo la quale il proprio paese partecipa soltanto a conferenze che hanno successo, talché il loro risultato è sempre esattamente quello al quale si mirava… Ma se si prescinde da simili cautele diplomatiche, ci si deve chiedere in base a quale criterio si può distinguere il successo dall’insuccesso. Chiediamoci dunque: tenendo conto di quanto è possibile ottenere in una normale conferenza diplomatica, si può ritenere che Maastricht II sia stata un successo? Se si considera l’entità dei mutamenti che sono stati introdotti nei Trattati da precedenti eventi di questo genere, si può dire che in questo caso il gioco sia valso la candela? In previsione delle sfide dei prossimi anni, e in particolare dell’allargamento a est, si può dire che la Conferenza intergovernativa abbia reso l’Unione europea capace di affrontare efficacemente l’«Agenda2000»? Rispetto all’obiettivo di una Comunità europea politica di natura federale, si può dire che la revisione abbia significato un passo decisivo nella giusta direzione?
Sembra di poter affermare che, indipendentemente dai dettagli del risultato della Conferenza intergovernativa — e, si noti bene, uno dei problemi principali che questa presenta sta proprio nel fatto che il suo risultato si esaurisce nei suoi dettagli —, quello che deve essere ripensato non è questo o quell’aspetto delle sue conclusioni, ma il metodo stesso con il quale sarà d’ora in poi portato avanti il processo di unificazione europea. Da qualche tempo si moltiplicano le voci di coloro che ritengono che il «metodo Jean-Monnet» non abbia più un futuro. Altri invece, prendendo atto delle limitate capacità decisionali di ogni singola Conferenza intergovernativa, parlano dell’inevitabilità di uno «sviluppo evolutivo» dei Trattati. Ci si deve quindi porre il problema di quali siano le strade pensabili e adeguate per portare l’Unione europea a diventare ciò che è nella sua vocazione di essere: una res publica accettata dai suoi cittadini come strumento per la costruzione del futuro dell’Europa.
La prima cosa della quale ci si dovrebbe ricordare è che il «metodo» di Jean Monnet era già stato concepito come un’alternativa ad un altro tentativo — fallito — di unire l’Europa. Quando Jean Monnet, nell’aprile del 1950, parlò della sua idea con il Ministro degli Esteri francese Schuman, il Congresso dell’Aja si era svolto già da un anno (l’anno prossimo ne ricorrerà il cinquantesimo anniversario). Nel maggio 1948 era fallito il tentativo rivoluzionario di creare la Federazione europea in un sol colpo, con un atto di volontà degli uomini di Stato. I movimenti che avevano promosso questo tentativo dovettero abbandonare l’iniziativa.
L’alternativa alla realizzazione immediata degli «Stati Uniti d’Europa», così come essa era stata chiesta da Churchill, fu, in un primo tempo, discussa ed elaborata in seno all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa prima che Jean Monnet ne facesse un progetto preciso e realizzabile. La formula elaborata in seno al Consiglio d’Europa si componeva di tre parti. Si sottolineava in primo luogo l’esigenza di una vera autorità politica europea comune, cioè di un nucleo o motore istituzionale; questo doveva, in secondo luogo, essere dotato di un potere reale, le sue decisioni dovevano costituire norme di validità immediata e la loro esecuzione non doveva dipendere dalla buona volontà di questo o quello Stato membro; in terzo luogo, il suo potere doveva essere limitato ad un ristretto numero di settori e per questo essere accettabile per gli Stati membri.
L’alternativa di un’autorità politica con poteri limitati ma reali rappresentò l’idea-forza di Jean Monnet e Robert Schuman. Ma dietro questa idea se ne celava un’altra, che ne avrebbe dovuto costituire l’elemento dinamico. Le competenze, che all’inizio avrebbero dovuto essere limitate, erano destinate ad ampliarsi progressivamente ad un numero crescente di settori, in un processo che avrebbe condotto ad una Federazione europea in grado di agire in tutti i comparti della politica europea e non soltanto in quei pochi ai quali gli Stati membri, gelosi della loro sovranità, sarebbero stati disposti a rinunziare.
Questa strategia dell’integrazione, al di là delle sfumature, è stata quella che ha guidato il processo fino ad oggi, fino a Maastricht e a Maastricht II, e di fatto non è nulla di diverso dallo «sviluppo evolutivo dei Trattati». E si deve dire che il «metodo Jean Monnet» ha avuto un indubbio successo, malgrado alcuni fallimenti (come la caduta della Comunità europea di difesa nel 1954). E’ anzi proprio il suo successo che costituisce oggi il problema principale di questa strategia di integrazione. Grazie al suo successo essa è giunta al limite delle sue potenzialità.
Uno sguardo allo sviluppo dei Trattati europei chiarisce questa affermazione. La prima «Comunità europea» che, secondo la formulazione del Consiglio d’Europa, era rimasta limitata a poche competenze, e in particolare ai due settori del carbone e dell’acciaio, è stata integrata da altri trattati, che hanno sancito la nascita di altre «comunità» dotate di altre e più estese competenze: l’Euratom che, anche se con poco successo, doveva consentire lo sfruttamento su scala europea dell’energia atomica e di altre forme di energia e di tecnologia; e la Comunità economica europea, destinata a evolvere con il progetto del Mercato unico e le politiche connesse (come per esempio la politica della concorrenza e quella del commercio esterno) fino all’ultima conseguenza del Mercato comune, la moneta unica.
Nell’Atto Unico europeo si trovano già riuniti in un unico documento quattro parti di trattato — o trattati parziali. Si è aggiunta alle competenze precedenti la «Cooperazione politica europea» (riguardante la politica estera). E con il Trattato di Maastricht il libro dei trattati europei si è arricchito di nuovi capitoli: si è aggiunta la «Collaborazione in materia di giustizia e di affari interni» e i protocolli aggiuntivi hanno assunto una dimensione e un’importanza tali (si pensi allo Statuto della Banca centrale europea) da acquisire lo status di veri e propri trattati autonomi. Invece che di sei trattati o parti di trattato si può parlare, semplificando alquanto, di «tre pilastri», che riguardano rispettivamente la politica economica, la politica estera e di sicurezza e la politica interna e di giustizia.
In tutte le principali svolte del processo era valsa la regola che i trattati esistenti venissero completati e ampliati, o che ad essi venissero aggiunti nuovi trattati o nuove parti, ma che essi non fossero mai fusi e coordinati in un unico testo. In questo modo è nato un paesaggio accidentato e disuguale, composto di molti trattati e parti di trattato, con procedure decisionali del tutto diverse a seconda dei trattati o delle parti di trattato dalle quali erano previste. In questo modo il «metodo Jean Monnet», da un certo punto di vista ha, al più tardi con il Trattato di Maastricht, raggiunto il suo scopo: è nato un sistema politico europeo che in realtà è in grado di affrontare quasi tutti i compiti europei, che copre tutti i settori politici che hanno una dimensione europea.
Lo scopo di Jean Monnet è stato raggiunto: dove sta dunque il problema? Il problema sta nell’esistenza di una res publica europea che in realtà non è affatto pubblica. Una molteplicità di trattati già di per sé complicati non può costituire il fondamento sul quale si realizza una vera consonanza tra i cittadini e il sistema politico, nella misura in cui questo sistema politico pretende di essere democratico (o di volerlo diventare). Il fondamento di quello che in Europa si intende per un sistema politico legittimo è l’idea della sovranità popolare, del popolo, dei cittadini, come origine del potere. E il contratto che i cittadini e il sistema politico stipulano per il trasferimento e l’esercizio del potere politico è di solito — e questa affermazione non è messa in dubbio da nessuno — una costituzione.
Da principio il processo di «comunitarizzazione» messo in moto da Jean Monnet non richiedeva certamente ancora una costituzione. Fino agli anni ‘70 si poteva discutere se le Comunità europee non fossero soltanto associazioni funzionali tra più Stati interessati, che non necessitavano di alcuna legittimazione democratica al di là di quella che ricevevano dai parlamenti degli Stati membri. Ma una Unione europea con un mercato comune e una moneta comune — e quindi anche con una politica economica comune —, con una politica estera e di sicurezza comune e con politiche interne e di giustizia coordinate, e in parte comuni, è diventata senza dubbio una formazione politica così completa da potersi ritenere di natura quasi statuale. Né può sussistere più alcun dubbio circa il fatto che i cittadini europei sono coinvolti in tale misura nel modo in cui questo sistema gestisce il potere politico da potere e dovere a buon diritto rivendicare per questo potere un fondamento diverso dall’intrico di trattati cui si è accennato.
Ed è proprio perché il metodo dell’integrazione graduale ha raggiunto il limite entro il quale esso aveva la capacità di trasferire porzioni di potere politico al livello europeo che un cambiamento di metodo si impone. Questa non è una critica al metodo delle Conferenze intergovernative, o a coloro che fino ad oggi hanno negoziato i trattati. Al contrario, il problema di un cambiamento di metodo si pone soltanto oggi perché ormai attraverso il metodo delle Conferenze intergovernative è stato ottenuto tutto ciò che si poteva ottenere. E il bilancio che se ne può trarre è considerevole: un intero, completo sistema politico di natura quasi statale. E’ proprio questo che richiede un ordinamento costituzionale, e questo non si può creare attraverso uno «sviluppo evolutivo» dei Trattati realizzato mediante ulteriori Conferenze intergovernative.
Già nel 1986 una tuttora preziosa raccolta di documenti di Walter Lipgens poteva intitolarsi «45 anni di lotte per la Costituzione europea». La rivendicazione di una costituzione europea non è affatto una novità, tanto che essa fu avanzata fin da prima che avesse inizio il processo di integrazione graduale. Questo fatto presenta nella situazione attuale vantaggi e svantaggi. E’ un vantaggio che il discorso relativo alla Federazione europea abbia perduto ogni tonalità rivoluzionaria. E’ uno svantaggio che l’assuefazione ad esso corrisponda alla nota inefficacia di questo discorso, che rientra tra quelli che suscitano reazioni di benevola condiscendenza perché vengono considerati del tutto innocui in quanto lontani dalla realtà.
E questo è uno svantaggio perché oggi la richiesta di una costituzione europea si pone con ben altra urgenza rispetto a tutta la restante storia dell’unificazione europea. Il problema è oggi di piena attualità e deve uscire dall’ambito dei desideri innocui perché irrealistici. L’intensità con la quale dovunque vengono discussi i compiti decisionali dell’Unione europea, la drammatica diminuzione del consenso per l’«Europa», parlano da sé. E l’argomento, spesso usato, secondo il quale i conflitti che hanno luogo sulle decisioni europee sono un buon segno, perché dimostrano che l’Unione europea è un sistema di natura quasi statale e di efficacia immediata, parla ulteriormente a favore dell’instaurazione di un ordine costituzionale.
Si deve dire peraltro che vi è un altro motivo per il quale la richiesta di un cambiamento di metodo nel processo di integrazione, che sostituisca un processo costituente alle Conferenze intergovernative, non è poi così rivoluzionaria. Ed è che il cambiamento di metodo è già iniziato. Si tratta di combinare e completare i diversi approcci. Si tratta inoltre di fare del cambiamento di metodo un principio al quale ci si ispira volutamente, e non qualcosa che viene attuato occasionalmente e in modo quasi inconsapevole. E si tratta infine di interrogarsi sugli strumenti da adottare per evitare che le trattative all’interno di «gruppi di riflessione» o di comitati di natura diplomatica allontanino la prospettiva di un coinvolgimento dei cittadini nella costruzione europea. A questi tre aspetti — approcci esistenti sin da ora, loro sistematizzazione e strumenti per la loro messa in pratica — sono dedicate le considerazioni che seguono.
Il metodo della pura e semplice giustapposizione di trattati formalmente autonomi è stato violato per la prima volta nel 1965, allorché le istituzioni dei tre trattati allora esistenti furono fuse. Questa tendenza divenne più chiara con l’Atto Unico europeo che, nel 1985, raggruppò i trattati sotto un unico mantello. E infine il Trattato sull’Unione europea, cioè il Trattato di Maastricht, ha realizzato un’ulteriore unificazione, al di là dell’Atto Unico, dei trattati e delle parti di trattati precedenti. L’inquadramento effettuato dal Trattato sull’Unione europea è senza dubbio il segno della presa di coscienza che senza qualche forma di legame la complicazione determinata dall’aumento del numero dei trattati e delle parti di trattato avrebbe dato luogo a spinte disgregative. Ma nel caso del Trattato di Maastricht il legame fu realizzato «in qualche modo», senza essere guidato da un piano preciso. L’unificazione dei Trattati non è organica, ma riguarda soltanto la struttura formale dei testi.
Il secondo segnale di un cambiamento di metodo rispetto all’integrazione attuata mediante un’estensione graduale delle competenze è l’ormai unanime riconoscimento che le Conferenze intergovernative non devono più trasferire nuove competenze all’Unione europea. Questo vale prima di tutto per l’ulteriore evoluzione dei trattati. Ancora il Trattato di Maastricht aveva aggiunto alle competenze della Comunità europea elementi dell’importanza dell’Unione economica e monetaria, aveva trasformato la Collaborazione politica europea nella Politica estera e di sicurezza comune e configurato la cooperazione nel settore della giustizia e della politica interna. Con Maastricht II invece la regola, seguita fin dal 1950, secondo la quale ogni cambiamento dei trattati ha come oggetto l’estensione dell’integrazione europea a nuovi settori politici è stata, quantomeno in linea generale e per un lungo periodo di tempo, invalidata.
Essa è stata sostituita da un’altra massima: i trattati non devono essere estesi, ma semplificati e resi più efficaci. Essi devono essere semplificati mediante la riduzione delle molteplici e complesse procedure decisionali che prevedevano precedentemente a poche procedure meno complesse; e resi più efficaci mediante la restrizione della regola dell’unanimità e la previsione della possibilità per gruppi più ristretti di Stati di prendere decisioni più avanzate senza esserne impediti da una minoranza, o da uno solo di essi. Si tratta di una possibilità che, sotto la denominazione di «flessibilità», è diventata il problema centrale della riforma.
La fine dell’estensione delle competenze e la ricerca della semplificazione e dell’aumento di efficacia sono chiari segni di un cambiamento di metodo. Resta il fatto che i risultati del cambiamento sono stati di poco conto perché si è preteso di mettere in pratica il metodo nuovo con strumenti vecchi. Ma su questo si dovrà tornare.
Il terzo sintomo di uno «strisciante» cambiamento di metodo è costituito dalla crescente importanza che sta assumendo nell’Unione europea il principio di sussidiarietà. Si tratta di un indizio decisivo dell’adozione di un criterio nuovo rispetto al passato per la divisione del potere tra Stati ed Europa. Il metodo di Jean Monnet consisteva nell’assegnare un numero ristretto di competenze alla responsabilità comunitaria, e di lasciare le altre — che costituivano la maggioranza — agli Stati. Si trattava di una divisione verticale del potere. Al contrario, il principio di sussidiarietà presuppone una divisione orizzontale del potere. In molti settori vi è il coinvolgimento congiunto dell’Unione europea e degli Stati, e ciò si realizza attraverso diverse procedure di decisione e di collaborazione.
Il principio di sussidiarietà si è fatto strada nel funzionamento della Comunità europea da tempo, in ultima analisi fin dalla fondazione della CEE, nella quale gli Stati disponevano, attraverso il Consiglio dei Ministri, di un potere decisionale maggiore di quello che avevano nella CECA. In generale vige la regola che, con alcune eccezioni, i settori attribuiti più tardi alla Comunità presentano un grado di integrazione inferiore rispetto a quelli che le erano stati attribuiti in precedenza: nei settori di competenza della Comunità europea il grado di integrazione è più alto che nell’ambito della Politica estera e di sicurezza comune; in quest’ultima (che risale pur sempre alla Cooperazione politica europea) esso è più alto che nella politica interna e di giustizia, ecc. In questo fenomeno incomincia ad intravedersi il fatto che il metodo dell’integrazione graduale ormai da tempo non procede più secondo il semplice schema del progressivo trasferimento di competenze, bensì secondo quello della collaborazione tra il livello dell’Unione e quello degli Stati membri guidata dal principio di sussidiarietà.
In questo modo però, che i sostenitori del principio di sussidiarietà ne siano consapevoli o meno, si è eretto un principio federale a criterio dello sviluppo dell’Unione europea. Infatti il principio di sussidiarietà ha come presupposto delle strutture federali, e in particolare l’esistenza di diversi livelli decisionali organicamente collegati l’uno con l’altro. Per converso è lecito concludere che il metodo di Jean Monnet non era in fondo così federalista. Esso tendeva piuttosto a realizzare un accentramento europeo, anche se all’inizio soltanto nell’ambito di alcuni settori specifici. Con l’aumento del numero di questi settori si poneva nei fatti il problema della «federalizzazione», un problema al quale rispondeva in parte il principio di sussidiarietà.
I diversi trattati, o parti di trattato, sono già riuniti, anche se in modo insoddisfacente, e quindi non sono più privi di connessioni l’uno con l’altro; le competenze dell’Unione europea si sono in ultima analisi estese a tutti i settori che hanno una dimensione europea; e la regola secondo la quale viene distribuito il potere non è più quella del «questo a me, questo a te» ma consiste in una cooperazione (pre-)federale organizzata secondo il principio di sussidiarietà. In questo modo l’esigenza di cambiare il metodo dell’integrazione graduale ha già ricevuto in buona parte una risposta dalla realtà, anche se esso non è stato sostituito da un altro metodo, ma tutt’al più da soluzioni pragmatiche e per lo più prive di un preciso orientamento.
Bisogna ora che il cambiamento di metodo, la cui necessità si è già fatta valere nella realtà, diventi un principio consapevolmente perseguito. Al posto del vecchio metodo deve esserne adottato uno nuovo. E’ questo il problema cruciale del processo di integrazione in questo momento di cambiamento e di crisi.
A questo scopo è necessario ricorrere ad uno strumentario nuovo. Le Conferenze intergovernative non sono in grado di controllare il cambiamento. I governi, nel loro complesso, non costituiscono il corretto punto di partenza per la soluzione dei nuovi compiti: devono entrare nel gioco la società europea, i popoli europei, i cittadini d’Europa e, tra questi, non soltanto i destinatari delle campagne di informazione dei governi, della Commissione o del Parlamento, ma i soggetti attivi e indipendenti che di fatto controllano il processo di unificazione europea.
E’ opportuno ribadire che non si tratta qui di formulare una critica radicale del processo di integrazione così come esso si è svolto fino ad ora, né di coloro che, negoziando, lo hanno portato avanti: al contrario essi hanno fatto quanto era in loro potere, e chiedere a diplomatici e funzionari che facciano una costituzione europea significherebbe misconoscere i loro doveri e le loro competenze. Una forza costituente non può nascere che dalla società, attraverso l’impegno delle forze sociali organizzate in gruppi ed associazioni.
Va da sé che la vera e propria formulazione della costituzione deve essere affidata ad una rappresentanza legittima del popolo o dei popoli europei. Ciò non può accadere in seno alla società in quanto tale, ma deve nascere nello spazio esterno allo Stato e da esso essere trasportato in quello statale. Per questo compito viene in questione il Parlamento europeo, per il quale peraltro questa rivendicazione non è per nulla nuova. Si tratterebbe soltanto di riprendere le iniziative costituzionali già portate avanti in seno ad esso. In ogni caso, il Parlamento europeo è il ponte tra i cittadini europei e «la loro» Europa, è la «rappresentanza popolare» che deve far propria la rivendicazione costituente.
Non si tratta per definizione di decidere in anticipo quale natura questa costituzione dovrà avere. Essa dovrà sorgere dall’impegno della società civile europea. Il concetto di «costituzione» vuol quindi designare soltanto un contratto fondamentale tra cittadini ed Europa che può assumere forme diverse.
Ciò non toglie che in questo contratto dovranno essere contenuti tre elementi essenziali: in primo luogo l’Unione europea dovrebbe riconoscere i diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino, nonché i fini che i cittadini europei le chiedono di perseguire. In secondo luogo dovrebbe emergere dal documento quali sono i settori nei quali dovrà e potrà operare l’Unione europea, e se e come essa dovrà collaborare in questi campi con gli Stati membri. Qui si colloca il principio di sussidiarietà. E in terzo luogo deve apparire da questo contratto fondamentale agli occhi del cittadino interessato quali soggetti avranno il potere di prendere quali decisioni: in altre parole i cittadini e l’Europa della politica devono concordare la struttura istituzionale dell’Unione e le sue procedure decisionali.
Come già si è accennato, questa richiesta non è che la conseguenza di iniziative prese ormai da tempo, degli esitanti tentativi di fondere i trattati, del processo ormai definitivamente concluso di trasferimento delle competenze, dell’importanza crescente del principio di sussidiarietà. Spetta al Parlamento europeo assumersi questo compito. I cittadini europei sono abbastanza insoddisfatti dell’Unione europea da essere spinti a sottrarle del tutto il loro consenso se questa svolta non fosse compiuta.
La richiesta di una costituzione europea è sempre stata giusta, ma mai urgente. Per questo essa veniva accettata in linea di principio, ma rimaneva senza conseguenze. Oggi la rivendicazione è diventata urgente. Governi, diplomatici e funzionari hanno portato avanti l’integrazione fino a fame un sistema quasi statale con un’originale impronta federale, che ora deve essere affidato ai cittadini europei per venirne legittimato. L’Europa ha bisogno di un nuovo contratto fondamentale tra i cittadini e la politica.
Hartmut Marhold
Anno XXXIX, 1997, Numero 3, Pagina 186
PATTO NATO-RUSSIA E
ALLARGAMENTO DELLA NATO
Il 27 maggio scorso è stato siglato a Parigi un accordo, sulla base di un documento denominato «Atto fondatore», da parte del governo russo e dei paesi aderenti alla NATO, presentato dalla stampa internazionale come una svolta nel quadro internazionale per quanto riguarda il problema della sicurezza. Esso è stato preceduto dalla decisione americana di procedere all’allargamento della NATO ad alcuni paesi dell’Est europeo (Repubblica ceca, Polonia, Ungheria, lasciando aperta per il futuro l’adesione di altri paesi), progetto a lungo osteggiato e infine ritenuto accettabile dal governo russo nel quadro dei suoi nuovi rapporti con l’alleanza militare.
I punti principali del testo del documento sottoscritto prevedono che «la NATO e la Russia non si considerano nemici», e sulla base di ciò «intendono sviluppare una collaborazione forte, stabile e duratura… Partendo dal principio che la sicurezza di tutti gli Stati della comunità euroatlantica è indivisibile, la NATO e la Russia lavoreranno insieme per contribuire a instaurare in Europa una sicurezza comune e globale» sulla base di principi e scopi comuni, ossia: a) democrazia, pluralismo, rispetto dei diritti umani, economia di mercato, b) rinuncia all’uso della forza, c) trasparenza reciproca per quanto riguarda la politica di difesa e le dottrine militari, d) prevenzione dei conflitti con mezzi pacifici, in conformità con i principi dell’ONU e dell’OSCE, e) appoggio a operazioni di peace-keeping condotte sotto l’autorità del Consiglio di sicurezza dell’ONU o sotto la responsabilità dell’OSCE.
Al fine di mettere in pratica questa collaborazione, è stato creato un Consiglio congiunto permanente NATO-Russia, organo di consultazione, di cooperazione, e, nella misura del possibile, di decisioni congiunte (così recita l’Atto), per il rafforzamento della sicurezza attraverso un maggiore livello di fiducia, stante il fatto che nessuna delle due parti ha il diritto di veto su decisioni o azioni che ognuna potrà svolgere in modo indipendente. Il Consiglio sarà anche una sede di dibattito per quanto riguarda il controllo degli armamenti, la sicurezza nucleare, la prevenzione della proliferazione di armi nucleari, biologiche e chimiche. Come contropartita all’allargamento della NATO, l’Atto prevede l’impegno di questa a non installare armi nucleari sul territorio dei nuovi Stati aderenti e a non incrementare le forze convenzionali sul suolo europeo (impegno preso anche dalla Russia) e invece a utilizzarle al meglio, assicurandone l’interoperabilità e l’integrazione.
Il ruolo che ciascuno dei partners avrà all’interno di questo Consiglio è definito vagamente e diversamente interpretato dalle due controparti essenziali dell’accordo (USA e Russia). Eltsin, da una parte, di fronte a una forte opposizione interna all’allargamento della NATO da parte di nazionalisti e comunisti, non può che mettere l’accento sulla riassunzione di un ruolo attivo della Russia in Europa e nel mondo. «Il documento dice, egli ha affermato, che le decisioni [nel Consiglio] si prendono solo sulla base del consenso… Se la Russia è contraria a qualche decisione, essa non sarà presa. Ciò è di importanza capitale» (Le Monde, 16 maggio 1997). Clinton, d’altra parte, per bocca del suo portavoce ha affermato che la NATO non ha fatto «nessuna concessione» fondamentale, e ha precisato che la Russia ha ottenuto «una voce» nell’ambito di essa, «ma non ha il diritto di veto».
Tutte queste dichiarazioni rispecchiano in un certo senso il normale gioco delle parti che caratterizza i rapporti internazionali, laddove ogni Stato, indipendentemente dalla sua posizione di potere nel mondo, tende a mettere l’accento sull’orgoglio nazionale e sull’importanza del proprio ruolo. Ma al di là di questo, per valutare il significato e i limiti di questo Atto bisogna chiedersi se esso contribuisce ad attenuare la logica della ragion di Stato, una logica che è fondamentalmente conservatrice e che può essere tendenzialmente superata solo se, sulla base di interessi reciproci concreti, essa viene ingabbiata in un progetto evolutivo globale.
I limiti dell’Atto fondatore possono essere meglio identificati attraverso il confronto con il clima politico e i progetti dell’era Gorbaciov. Limitandosi a una lettura superficiale dei principi contenuti nell’Atto, in essi compaiono molte delle parole pronunciate e scritte da Gorbaciov e Reagan al tempo della svolta nei rapporti fra le due superpotenze (democrazia, collaborazione, trasparenza reciproca, fiducia, ecc.), ma ben diverso era allora il respiro del nuovo quadro mondiale che si andava delineando, al punto che quello che abbiamo chiamato «il gioco delle parti» ha potuto essere in parte accantonato. Contro la «logica folle» generata dalla strategia della deterrenza nucleare (e nello stesso tempo in conseguenza di essa) era emersa una analisi al tempo stesso realistica e in un certo senso rivoluzionaria, ossia basata sulla constatazione dell’interdipendenza mondiale e della necessità di adeguamento del pensiero e dei progetti politici alla nuova realtà finalmente rivelatasi. Molte parole dei due statisti sembravano smentire la tormentata frase di Einstein: «La liberazione della potenza dell’atomo ha cambiato tutto tranne il nostro modo di pensare, e così andiamo alla deriva verso una catastrofe senza precedenti».
Dopo il fallimento della politica di Gorbaciov e il crollo dell’Unione Sovietica si è subito scatenato un nutrito numero di detrattori, con accuse di velleitarismo, di ingenuità, di incapacità politica nei confronti di un uomo che in realtà aveva visto lontano. Pur senza uscire dalla logica conservatrice della «collaborazione» fra gli Stati, quella fase dei rapporti internazionali era profondamente caratterizzata dall’accento posto sulla necessità di gestire una fase di transizione verso una nuova situazione di potere, ed è proprio prendendo in considerazione la tendenza evolutiva della situazione di potere che si possono giudicare le potenzialità insite in un dato quadro politico.
Quel disegno è comunque fallito, e il nuovo quadro politico mondiale, passato dal bipolarismo al «monopolarismo», si presenta estremamente difficile non solo da gestire (gli USA da soli non possono farsi carico della gestione dei vecchi e nuovi problemi globali e regionali), ma anche da modificare. Quella che abbiamo chiamato «tendenza evolutiva della situazione di potere», infatti, può attivarsi solo in presenza di poli di potere effettivi, cioè di attori che si assumano la responsabilità di svolgere una determinata politica, che siano forti abbastanza da rendere credibili le affermazioni di principio e i progetti annunciati: la politica, o è assunzione di responsabilità, o produce disordine.
La logica dello sviluppo economico e tecnologico sta creando una società globale che non può più essere gestita dai singoli Stati. Ciò vale in particolare per il problema della sicurezza, che può essere affrontato solo attraverso un programma di riforma e democratizzazione dell’ONU. Diversamente, una alleanza militare come la NATO, che ha avuto un ruolo preciso durante la guerra fredda, tende, come già sta avvenendo, ad assumere una funzione dai contorni sempre più ambigui, a trasformarsi cioè in una organizzazione che va al di là dei suoi compiti militari per assumere un ruolo politico, e il cui epicentro è l’unica superstite superpotenza. Nel vuoto di potere creatosi con la scomparsa del vecchio ordine mondiale, che andava superato, ma che comunque era un quadro di riferimento relativamente stabile, non meraviglia che la NATO, per quanto riguarda la sicurezza, sia diventata il magnete che attira via via verso di sé sempre nuovi Stati che vogliono uscire dalla deriva del disordine. E non meraviglia inoltre che, sulla base di un’altra logica, Eltsin cerchi di ridiventare un interlocutore politico credibile anche attraverso il patto con la NATO, mascherando così la debolezza e l’isolamento della Russia con un ruolo di facciata.
L’esigenza di stabilità spinge a ragione gli Stati a trovare punti di aggregazione, ma ciò avviene in modo confuso. E la confusione nasce dal fatto che, per affrontare i problemi che stanno alla base della stabilità (sicurezza, sviluppo economico, democrazia), gli Stati hanno come punti di riferimento organismi internazionali, proliferati a livello regionale e mondiale, privi di «anima politica», i quali, a partire da competenze e compiti specifici (economici, di sicurezza ecc.), tendono ad assumere funzioni di «governo» senza averne la legittimità e gli strumenti. In realtà essi sono il quadro, in ultima istanza, non tanto della gestione comune dei problemi, ma della definizione o ridefinizione dei ruolo dei singoli Stati nel mondo, sono il riflesso della bilancia del potere mondiale, ossia del gioco delle ragion di Stato, e quindi sono schiavi di un meccanismo per superare il quale sono stati creati. E’ dunque a partire da queste considerazioni che si devono giudicare i processi di aggregazione in atto, chiedendosi se essi tendono oppure no verso nuove forme di statualità, ossia verso una modificazione evolutiva del quadro di potere nel mondo che permetta, a breve termine, di modificarlo in senso multipolare, e crei, a lungo termine, le condizioni per dar vita a un vero ed efficace governo del mondo attraverso la Federazione mondiale.
Da questo punto di vista l’allargamento della NATO e l’associazione della Russia non danno alcuna prospettiva ai nuovi membri, oltre a non contribuire a modificare l’ordine mondiale. Al contrario, da una parte ai nuovi Stati membri viene concesso il diritto a un ombrello protettivo da parte della potenza egemone, e dall’altra, alla Russia viene concesso un ambiguo riconoscimento di essere ancora un interlocutore.
Ben diversi saranno il quadro e le prospettive se si porterà a termine il processo di unificazione europea con la creazione di una federazione: un nuovo soggetto politico responsabile entrerà in gioco e chi ne farà parte, compresi i paesi dell’Est, non sarà succube membro di un’alleanza dominata da una superpotenza, ma potrà democraticamente contribuire alla costruzione del proprio futuro e di quello del mondo.