Anno XIX, 1977, Numero 2, Pagina 75
L’identità europea
MARIO ALBERTINI
Con i temi della identità europea e della cultura europea — che devono evidentemente essere associati — si pone una questione che è servita troppo spesso solo per parlare a vanvera. Ma con l’elezione europea saranno i fatti a porla. Non si potrà votare senza chiedersi quale sia il senso dell’Europa; e senza che la questione cominci a manifestarsi nella coscienza di tutti per quello che anche è: il primo esercizio sovrannazionale del voto, il primo passo della democrazia nel campo internazionale. La questione va dunque affrontata, e non basta, allo stato dei fatti, partire da una bibliografia: è in causa tutta la storia d’Europa, ma con una visuale post-nazionale che non ha avuto fortuna tra gli studiosi, gli intellettuali e gli ideologi — anche se corrisponde al corso degli eventi — forse perché non procura fortuna, in ogni caso perché comporta un superamento del modo usuale di vedere, un cambiamento del modo di pensare e di agire.
Vorrei cominciare subito dicendo che io credo che l’Europa sia il terreno, transeunte perché storico, nel quale si può formare la cultura politica di cui il mondo ha bisogno. Dico «cultura politica» alla svelta. Intendo qualcosa di non solo pensato, ma anche di storicamente realizzato come fatto pratico; e tale da diventare un punto di riferimento per tutti, beninteso nei tempi e nei modi della storia, non della cronaca, sempre più invadente a causa delle false forme di informazione, arte e pensiero. Un esempio è l’idea hegeliana di «figura» dello svolgimento dello spirito: qualcosa che sia nel contempo un fatto — collocato in un punto empirico dello spazio e del tempo — e un modo di pensare già come forma del fatto, struttura del fatto, influenza del fatto; non necessariamente, anzi mai fino ad ora, compiutamente rispecchiato nel pensiero puro, in opere teoriche, scritti.
L’esempio concreto sarebbero la rivoluzione francese, quella sovietica, anche la rivoluzione industriale, ecc. Fatti che potremmo chiamare «fatti culturali», ma usando l’espressione nel senso in cui Gurvitch parlava di «fatti normativi»,[1] e a patto di non confondere il fatto e la prosecuzione istituzionale del fatto (la rivoluzione francese e lo Stato giacobino-napoleonico); e di tener presente che il primo vive nella politica come cultura, il secondo nella politica come potere. Con questi esempi, e questa precisazione, vorrei delimitare il senso del termine «cultura» quando riguarda direttamente il processo storico-sociale; e lasciare nel loro mondo universale, senza patria, senza Stato, senza «campo», la teoria pura, l’arte e la religiosità (almeno nel modo della trascendenza, e nel senso che, pur avendo radici nazionali, le più alte opere della ragione trascendono ogni limite, e diventano opere di tutti e di sempre, opere del genere umano).
Vorrei ancora osservare che il concetto sociologico di cultura è più riduttivo perché riguarda i criteri di comportamento sociale abituali. La cultura politica, invece, è di fatto riferita ai criteri di comportamento che compaiono con i grandi episodi storici. Questi criteri diventano modelli di comportamento che si pongono in confronto, sino al contrasto, proprio con i criteri di comportamento sociale abituali (in questa ottica vili, colpevoli, mediocri, ecc.); e assumono così il significato di principi morali e ideali di portata storica, di gradi di sviluppo della libertà, dell’emancipazione umana, ecc.
Nel senso che ho detto c’è indubbiamente bisogno di una cultura dell’unità del genere umano, e quindi di un «fatto culturale» che la sprigioni. C’è un mercato mondiale, il mondo è uno, uno anche come destino perché si avvicina ormai il tempo nel quale deve essere governato dalla ragione o perire. Per ora è governato solo dall’andamento cieco delle cose. Ha senso affermare, col marxismo teorico, che la rivoluzione industriale ha unificato il genere umano a livello strutturale (il modo di produzione industriale rende universalmente interdipendente l’azione umana) proprio perché ciò permette di vedere che la cultura politica, ancora dominata dall’idea di nazione, divide il genere umano al livello «soprastrutturale» (politico, giuridico, culturale), che è però il livello delle decisioni umane, il livello della conoscenza e della morale, e pertanto, in sé e in potenza, il mondo umano. Gli uomini vanno tutti, ormai, nella stessa direzione, ma credono di andare ancora nella direzione della propria nazione. Questa cecità ha un fondamento nella routine e nel privilegio. In realtà se si pensa l’avvenire della propria nazione come il fatto supremo o il solo di cui comunque si sarebbe responsabili, si cela a sé stessi, almeno nel momento dell’azione e delle scelte concrete, che il fatto veramente supremo, — la «contraddizione» fondamentale del nostro tempo — non sta più nei conflitti di classe, ceto o potere all’interno delle nazioni — ma sta invece e proprio nella divisione del genere umano, che mantiene l’ineguale distribuzione del potere e della ricchezza fra i popoli (gli Stati) e impedisce il governo razionale del mondo.
In questione è la cultura perché non si può trattenere presso di sé, col pensiero, la situazione del nostro tempo — l’unità del mondo e la brutale diseguaglianza dei popoli — senza sapere che cosa è una nazione (senza una teoria della nazione); senza tener presente che la nazione è uno dei grandi «fatti culturali» del passato, quello che ha sprigionato tanto il primo apparire della democrazia moderna quanto il suo opposto, la cultura politica della divisione «naturale» del genere umano, oscurando l’universalismo del cristianesimo e della scienza; e senza sapere che viviamo ancora nell’era delle nazioni, anche se ciò prolunga a livello del potere una situazione ormai superata al livello della società e della necessità.
Il fatto è che non si sa nemmeno di non sapere che cosa sia una nazione.[2] Accade così che si constata la forza di resistenza del nazionalismo, senza tuttavia sapere di che cosa si parla e che cosa si dice.[3] Accade così che non ci si chiede se non si serve il nazionalismo limitando l’azione democratica e la mobilitazione del popolo nell’ambito delle nazioni senza mettere nelle mani del popolo anche la politica internazionale. Per questo non si identifica nella nazione l’ostacolo che impedisce di battersi con i fatti, e non solo con le parole, contro l’ineguale distribuzione del potere e della ricchezza del mondo. Per questo non si studia la nazione come modello culturale, come comportamento sociale che non può affermarsi senza corrompere liberalismo, democrazia e socialismo (comunismo incluso); e senza rendere feroce il genere umano, e senza rendere esemplare la violenza, e persino la guerra, se «nazionale» e di «sinistra» (quando si riscoprirà che l’ideale è mettere la libertà di tutti gli uomini nelle mani di tutti gli uomini, e non solo dei propri connazionali?).
La nazione è il criterio con il quale è organizzato politicamente il genere umano, dunque dovrebbe essere la prima idea con la quale fare i conti (l’O.N.U. recepisce, e non modifica, la sovranità esclusiva delle nazioni). Ma i più — si dovrebbe dire tutti — ritengono semplicemente naturale, dunque non storico, non transeunte, il fatto che tutti i popoli del genere umano, risospinti alla vita dall’unità del mondo, si siano organizzati socialmente e politicamente pensando alla nazione e realizzando una nazione, persino sulla base dei confini tracciati dalle potenze coloniali. Si può benissimo dire che non era possibile altro; ma non si può dire che non si può pensare altro, come se la forma compiuta e perfetta di società fosse la nazione, come se attraverso questo tipo di organizzazione sociale si manifestasse un aspetto essenziale della natura umana (a questo ci si riduce se non si supera l’internazionalismo con il federalismo); come se al di sopra delle nazioni non ci potesse essere popolo, consenso e potere, e al di sotto non ci potesse essere che decentramento, e non di nuovo popolo, consenso e potere (fino a trasformare, al vertice, i rapporti di forza tra gli Stati in rapporti giuridici con l’organizzazione politica del genere umano, e, alla base, i rapporti di potere in rapporti di solidarietà con l’organizzazione politica delle piccole unità nelle quali la vita sociale è ancora in relazione diretta e globale con la vita quotidiana). E si dovrebbe pur dire che se si vogliono davvero rispettare i valori di libertà e liberazione, e se si vuole davvero provvedere ai bisogni della giustizia internazionale e del governo del mondo, bisogna pensare altro. E qui il discorso tocca l’Europa, la cultura europea, l’identità europea, che a mio parere si manifesta nel fatto che il dramma dell’Europa è il dramma del mondo.
L’Europa è la sede storica del modello nazionale, dunque, la sede storica della formazione della cultura politica della divisione del genere umano. Ma l’Europa è anche la sede del primo apparire della cultura dell’uomo. Questa verità evidente viene spesso negata o taciuta, dunque va ribadita. La cultura europea, una straordinaria unità dal pensiero greco a Marx, è diventata di fatto la cultura mondiale. Il genere umano, mai attivo come tale, cioè come una unità, prima della rivoluzione industriale, si è messo in moto con il pensiero scientifico, politico e sociale creato in Europa. Persino la Cina per destarsi ha avuto bisogno non solo della scienza creata in Europa, ma anche del nazionalismo occidentale e del marxismo. Dunque è vero che con la cultura europea è giunta alla prima forma di maturità la cultura per tutti gli uomini, la cultura dell’uomo.
L’Europa cela ancora a sé stessa e al mondo l’essenza universale, cioè generalmente umana, di questa cultura con il modello nazionale, che subordina l’umano al nazionale nel cuore di ogni uomo (non c’è identità personale senza identità sociale; ma questa, se si arresta alla nazione, afferma alcuni e nega altri, quindi corrompe l’universalità della cultura e cela all’uomo l’uomo come uomo umano per affermarlo come italiano e via dicendo). Ma, per vivere, l’Europa deve ormai unire le nazioni e disarmarle, presidiando l’unità con lo Stato federale del popolo delle nazioni europee, e sta cercando di farlo. Chi identifica la realtà con la cronaca, e scambia la cronaca con la storia, assiste indifferente a questo tentativo che metterebbe fine all’era delle nazioni. Ma è proprio la storia a stabilire che si tratterebbe di un grande «fatto culturale», della comparsa del modello multinazionale, cioè veramente umano, nella stessa sede storica delle nazioni; del primo apparire della cultura politica dell’unità del genere umano. A questo punto l’essenza universale della cultura, per ciascuno di noi l’identità culturale nella sua purezza, si rispecchierebbe finalmente nell’identità politico-culturale, anch’essa ormai aperta all’umano.
A questo punto non ci sarebbe più la cultura europea, ma semplicemente la cultura di tutti, la cultura umana universale, alla seconda tappa del suo apparire. La cultura europea esiste come tale proprio perché, con la cultura politica della divisione del genere umano, l’Europa presenta la cultura universale, che è giunta al primo compimento nel suo seno, come una cultura separata, come la sua cultura (ma se è sua non è dell’uomo, è negata nella sua essenza; non c’è imputazione all’uomo ma ad alcuni uomini con esclusione degli altri). Non ci sarebbe più la cultura europea — questo presentare come europea la cultura universale — ma ci sarebbe, naturalmente, lo Stato europeo (buono per la bilancia mondiale del potere); e, con lo Stato europeo, il cittadino europeo, l’identità sociale europea (ancora un affermare alcuni e negare altri). Ma per la prima volta nella storia l’identità storico-sociale (la cittadinanza europea) sarebbe in contrasto non solo con la universalità della cultura pura e della trascendenza, ma anche con l’identità politico-culturale, ormai elevata sino al livello della cultura politica della unità del genere umano.
Ciò equivale a dire che il contrasto che si manifesta sempre tra un «fatto culturale» e il potere che gli succede (così la rivoluzione francese, quella sovietica, ecc.) sarebbe attivo non solo nella sfera dell’ideale puro, ma anche in quella dell’ideale politico, mirante ormai alla riunificazione degli uomini, al riconoscimento politico di tutti gli uomini. Così, dopo aver tolto di mezzo, con il superamento della cultura politica della divisione del genere umano, la base stessa della presentazione europea della cultura umana, cioè dopo aver soppresso la cultura europea per realizzarla come cultura universale, l’Europa si troverebbe di fronte al compito di sopprimere sé stessa per realizzarsi nel mondo. Questo mi pare il senso dell’affermazione secondo la quale la federazione europea aprirà la via alla federazione mondiale. E questo a me pare il senso dell’identità europea: l’europeo in conflitto con il suo essere sociale per diventare, con gli altri, ciò che è, un uomo.
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Se si volge lo sguardo fino a questo punto, si può anche dire sin da ora che, come la via verso la federazione europea è stata ed è tuttora la base per una prima forma di politica europea, così la via verso la federazione mondiale può costituire la base per una prima forma di politica mondiale, altrimenti impensabile. Allo stato dei fatti la ragione è impotente. La ragione scientifica sa che il genere umano è giunto ad un bivio, al crocevia tra la sopravvivenza in termini umani o la catastrofe; e sa anche programmare il futuro dell’umanità. Ma la ragione politica sa che la solidarietà sociale vera e propria — sino al trasferimento adeguato di risorse — si manifesta solo nel quadro dell’esercizio di un potere sovrano, solo all’interno di ogni singola nazione. Al di là della nazione vale ancora il contrario della ragione, la legge del più forte. La ragion politica può riconoscere che ciò corrisponde ormai al rischio della catastrofe, ma in questo caso può solo ammettere la sua impotenza, o nasconderla con l’ipocrisia dietro un velo di parole. Solo se l’uomo, l’uomo come tale e non come membro di questa o quella nazione, comincerà ad avere veramente esistenza politica, questo stato di cose potrà essere superato. Per questo la federazione europea — come nuovo polo dell’equilibrio mondiale e soprattutto come «fatto culturale» innovatore — può segnare l’inizio di una vita nuova.
Questa vita nuova si annuncia come la riconciliazione della ragione con sé stessa. L’uomo fa il mondo.[4] Dall’avvento della scienza l’uomo sa di fare il mondo: con la scienza l’uomo imputa a sé stesso, e a sé stesso come uomo non come italiano o altro, la sua azione. Per questo la scienza, a differenza della politica, è di tutti. Ma a partire da questo momento si manifesta la lacerazione della ragione. L’uomo scopre che fa il mondo, ma scopre anche che non lo controlla, e che ciò che sa fare si ritorce contro di lui. Il fatto è che gli uomini fanno il mondo ad uno ad uno. Essi riescono ad accordarsi perché sia razionale non solo ogni singola azione, ma anche la somma delle loro azioni, allivello di comunità separate, al livello della nazione. Al di sopra, no. Al di sopra delle nazioni non c’è un potere che nasca da un dibattito sul cosa fare insieme e sul come accordare le azioni di ognuno. Ci sono solo i rapporti di forza tra le nazioni; e la politica mondiale, il governo del mondo, è solo il cieco corso delle cose, lo spostamento ormai insensato dell’ago della balance of power.[5] E ora che la capacità degli uomini di fare il mondo è arrivata al massimo, è arrivata al massimo anche la crisi della ragione, che si manifesta ovunque, e che ciascuno chiama col nome del settore nel quale la avverte.
L’uomo sa ormai distruggere il mondo, non sa ancora governarlo. La cultura nazionale — che è la cultura politica della divisione naturale del genere umano — gli impedisce persino di pensare che il mondo possa essere governato. Ma la cultura nazionale può essere superata con la federazione europea, con l’avvento della cultura politica dell’unità del genere umano. A questo punto un numero crescente di persone si riconoscerà in questa cultura e potrà sostenere la prima forma di politica mondiale. E con la prima forma di politica mondiale — la prima forma di politica fatta da tutti per tutti, fatta cioè dalla ragione e non dal suo contrario, la forza — la ragione, nella sua applicazione alla politica, non si troverà più in disaccordo con la ragione nella sua applicazione alla scienza — facendo svanire il fantasma delle «due culture» — sia per l’imputazione della politica a tutti, sia perché nel contesto di una politica fatta da tutti per tutti il potere non potrebbe più coincidere con il vantaggio di alcuni e il danno di altri, ma dovrebbe coincidere con l’interesse di tutti, cioè con qualcosa che può essere accertato solo scientificamente, e solo a patto di includere nel campo di ciò che è accertabile scientificamente la forma stessa del potere. Se si tiene presente che la scienza è il campo nel quale la ragione nel suo uso pratico pareggia la ragione nel suo uso teorico (nel quale il razionale si converte nel reale e il reale nel razionale), si può constatare che la politica mondiale, cioè l’inclusione della politica nel campo della scienza, è, ipso facto, la fine della separazione del teorico dal pratico e del pratico dal teorico, separazione che condanna il pratico alla irrazionalità, e il teorico all’impotenza, e coincide con lo scacco della ragione.
[1] La norma è un dover essere, il fatto un essere, ma ci sono fatti che pongono in essere una norma prima che essa venga riconosciuta e formulata; dopo di che acquistano una indipendenza relativa sia la norma (o l’ideale, o il giusto, o l’utopia, ecc.) sia l’essere. Si può obiettare, per l’idea di «fatto culturale» come «fatto normativo», che prima del fatto (la rivoluzione francese) c’è una cultura, un dover essere (l’illuminismo), ma si può replicare che la rivoluzione francese ha una forma che non è quella dell’illuminismo, e parla a tutti mentre l’illuminismo parla solo ai dotti. E va ancora detto che il pensiero che unifica questi momenti — il pensiero dialettico di Hegel — è anche quello che li distingue con la maggiore chiarezza, come si può vedere ad esempio nella mirabile descrizione del trapasso da un’era ad un’era nuova che si trova nella Prefazione della Fenomenologia.
[2] Nel 1882 Renan mostrò che il fondamento della nazione non sta nella lingua, nella razza (o stirpe), nelle tradizioni ecc.; e se la cavò con l’idea del «plebiscito di tutti i giorni», della «volontà di vivere insieme» (cfr. E. Renan, Qu’est-ce qu’une nation?, in Discours et conférences, Parigi, 1887, pp. 277-305). Ciò nonostante si è continuato a pensare che qualcosa di essenziale o naturale dividerebbe gli italiani dai francesi, dai tedeschi e così via. Le cose stanno ancora a questo punto, salvo che per i federalisti, anche se Popper può a giusta ragione scrivere: «L’assoluta assurdità del principio dell’autodeterminazione nazionale deve essere palese a chiunque si sforzi anche solo per un momento di criticarlo. Tale principio equivale alla esigenza che ogni Stato sia uno Stato nazionale; che sia limitato da un confine naturale, e che questo coincida con la naturale dimora di un gruppo etnico; sicché dovrebbe essere il gruppo etnico, la ‘nazione’, a determinare e a proteggere i confini naturali dello Stato. Ma degli Stati nazionali di questo genere non esistono» (Cf. K.R. Popper, Congetture e confutazioni, Bologna, a p. 623 dell’ed. it. del 1976). Naturalmente ciò che va preso in esame è però il fatto che anche se gli Stati nazionali non esistono — in un senso stretto del termine — gli uomini generalmente credono che esistano, e ciò riguarda, ovviamente, il campo dell’ideologia. In breve si può dire che, empiricamente, la nazione è uno Stato tale da far credere ai suoi membri che essi costituirebbero un gruppo di uomini naturalmente o essenzialmente diversi da ogni altro uomo. Teoricamente si può ascrivere questo fenomeno all’ideologia, e stabilire che la nazione è, tipicamente, l’ideologia dello Stato moderno nella sua versione unitaria ed accentrata (l’ideologia essendo anche una automistificazione, ciò spiega come uno possa sentirsi «italiano» per natura ecc. in certe circostanze e in altre no). Con ciò non si nega che abbia senso essere «italiano» dal punto di vista della comunità linguistica, o «friulano» ecc. dal punto di vista della comunità territoriale; va detto anzi che in questo modo si identificano le vere e proprie realtà nazionali, che presentano sempre un grado di spontaneità molto maggiore di quella delle nazioni secondo l’accezione comune del termine.
[3] È il caso, ad esempio, di Hobsbawm, che pretende di parlare storicamente del nazionalismo dopo aver criticato le definizioni della nazione (ma solo quelle che conosce), e dopo aver affermato che «la ricerca di uno o più criteri obiettivi della nazionalità si rivela presto inconsistente». Va detto che Hobsbawm appartiene a quel particolare gruppo di persone che in teoria pensano «che la via migliore per evitare che ciascuno Stato produca il suo nazionalismo, sia o di fonderli tutti in una federazione generale, oppure di avere una forma di organizzazione socio-politica del tutto differente da quella territoriale centralizzata che caratterizza lo Stato moderno», ma che cercano poi di esorcizzare, per quanto riguarda la loro nazione, questo esito, affermando che l’unione federale dell’Europa occidentale è «improbabile» (cfr. Hobsbawm, Riflessioni sul nazionalismo, in I rivoluzionari, Torino, 1975, pp. 351-79, e per queste citazioni pp. 352-362 in nota -364).
[4] L’uomo non ha il mondo, fa il mondo, riducendo la natura ad ambiente dell’uomo, e trasformando la società naturale in società umana. Per questo l’uomo non vive nel suo mondo, e non può ancora conoscere sé stesso (se non nelle forme automistificate dell’ideologia che configurano come libero chi non lo è ancora), fino a che non abbia fatto il suo mondo, creando, sulla base dell’ordine causale della natura, l’ordine teleologico della ragione nel quale tutti sono «fine» e nessuno è «mezzo».
[5] La ragion di Stato, quando sia distinta dalla cieca volontà di potenza, ha avuto certamente il carattere di una applicazione della ragione alla sfera della politica, nel senso che ha identificato un campo della conoscenza — quello dei rapporti di forza tra gli Stati (forza o potenza in senso lato, cioè comprensivo degli aspetti tecnici, sociali e politici della cultura), ed ha assunto la fredda valutazione di questi rapporti di forza come criterio supremo della condotta politica, controllando così, entro certi limiti, per un verso proprio la cieca volontà di potenza, e per l’altro l’arbitrio, la condotta casuale. Ma la politica qui in questione è quella sprigionata dai rapporti di forza tra gli Stati e non dalla ragione, che si applica così ad un mondo fatto dal contrario di sé stessa (dai rapporti di forza). E va osservato, naturalmente, che nella civiltà industriale avanzata questa politica non è più compatibile con lo sviluppo dell’umanità. Ma va anche osservato che per superare la politica come rapporti di forza tra gli Stati bisogna eliminare realmente questi rapporti di forza, cioè fondare la sicurezza degli Stati non sui loro eserciti, ma su un potere mondiale capace di risolvere giuridicamente le controversie internazionali. È in causa, sostanzialmente, l’organizzazione politica del genere umano.