Anno XXII, 1980, Numero 1-2, Pagina 35
Nota su Kant e il modello della società futura
LUCIO LEVI
Uno degli aspetti più evidenti della decadenza della cultura politica nel nostro tempo consiste nell’incapacità del pensiero dominante di pensare, in connessione con i problemi posti dalla storia contemporanea, agli obiettivi di emancipazione umana, che hanno ispirato i grandi movimenti rivoluzionari liberale, democratico, socialista e comunista. Le ideologie tradizionali rivelano sempre più i loro limiti nel prevedere e nel controllare i maggiori fatti politici ed economici della nostra epoca, che hanno assunto ormai dimensioni planetarie. Tanto le categorie tradizionali di analisi storico-sociale, quanto i modelli politico-istituzionali ereditati dal passato si dimostrano inadeguati a comprendere e a dominare la realtà di un mondo sempre più interdipendente nelle sue parti e tendente in modo irresistibile verso l’unificazione. Condizionate dalla lotta per il potere nell’ambito dei singoli Stati, le ideologie liberale, democratica, socialista e comunista sono state costrette a sacrificare la loro ispirazione internazionalistica agli egoismi nazionali. D’altra parte, esse sono talmente permeate dalla tradizione di divisione, che ha caratterizzato tutta la storia del genere umano e che è culminata nell’organizzazione dell’Europa in Stati nazionali, che si trovano impreparate ad affrontare i problemi nuovi posti dalla fase supernazionale del corso della storia, dimostrando così di avere esaurito la loro originaria tensione innovatrice. La crisi delle ideologie si esprime soprattutto nell’incapacità di progettare la forma che dovrà assumere la società futura e nella scomparsa dei grandi princìpi dalla lotta politica. E, nello stesso tempo, si riflette in uno dei caratteri che accomuna le società che hanno maggiormente sviluppato il processo di industrializzazione: la mancanza di finalità. Eppure, la nascita e lo sviluppo delle ideologie liberale, democratica, socialista e comunista fu accompagnata dalla convinzione che la storia potesse essere oggetto di comprensione razionale e di controllo consapevole. Le più vive correnti ideali del mondo moderno, nel loro periodo creativo si presentavano come concezioni politiche dotate di un punto di vista autonomo sui valori, sulle istituzioni, sulla società e sul corso storico e quindi capaci di indicare non solo la strada che conduce all’emancipazione umana, ma anche le forze sociali e politiche, che, spinte dai loro stessi interessi, avrebbero lottato per quell’obiettivo. In sostanza, ognuna di queste correnti politiche fondava la propria azione sul solido terreno di un modello di società e di Stato da costruire, che includeva l’indicazione non solo dei fini e dei contenuti, ma anche degli strumenti e delle istituzioni.
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In effetti, l’elaborazione di modelli corrisponde a un’esigenza della ragione, di cui Kant ha illustrato in modo rigoroso il significato e la portata. Leggiamo nella Critica della ragion pura: «Chi volesse trarre dall’esperienza i concetti della virtù… farebbe della virtù un nome vano ed equivoco, variabile secondo i tempi e le circostanze, e non adoperabile come regola». Kant prosegue poi, affermando incisivamente: «Il fatto che un uomo non agirà mai in modo adeguato al contenuto dell’idea pura della virtù, non dimostra per nulla un che di chimerico in tale pensiero. Perché sempre egualmente mediante questa idea è possibile ogni giudizio sopra il valore o disvalore morale; e però essa sta necessariamente a fondamento di ogni approssimazione alla perfezione morale, per quanto anche gl’impedimenti, il cui grado non è determinabile, proprii dell’umana natura, possano tenercene discosti».[1]
L’utilizzazione di modelli ideali, non tratti dall’esperienza, ma elaborati autonomamente dalla ragione, che è necessaria per valutare e per orientare la condotta individuale, è altrettanto indispensabile per avere criteri di giudizio sulle forme della convivenza politica e per poterle migliorare. Ecco quanto scrive Kant a proposito della Repubblica di Platone: «La Repubblica platonica è diventata proverbiale come un preteso esempio, che salti agli occhi, di perfezione fantastica, che non possa avere sua sede se non nel cervello del pensatore sfaccendato; e il Brucker trova ridicola l’affermazione del filosofo, che un principe non possa mai ben governare se non è a parte delle idee. Se non che si farebbe meglio a insistere di più sopra questo suo pensiero e (dove il grand’uomo ci lascia senza il suo aiuto) metterlo in luce con nuove cure, anzi che metterlo da parte come inutile sotto l’assai miserabile e vergognoso pretesto della sua inattuabilità. Una costituzione della maggior libertà umana secondo leggi, che facciano che la libertà di ciascuno possa coesistere con quella degli altri (non della maggior felicità, perché questa già ne seguirà da sé), è pure per lo meno un’idea necessaria, che dev’essere a fondamento non solo del primo disegno di una costituzione politica, ma di tutte le leggi, e in cui si deve, da principio, astrarre dagli ostacoli presenti, che probabilmente non derivano inevitabilmente dalla natura umana, quanto piuttosto dall’inosservanza delle idee vere in materia di legislazione. Niente infatti può trovarsi di più dannoso e di più indegno di un filosofo, che quel triviale appello a una presunta esperienza contraria, che per altro non sarebbe punto esistita, se a tempo opportuno si fossero avute quelle istituzioni secondo le idee e se, in luogo di queste, concetti, rozzi appunto perché presi dall’esperienza, non avessero frustrato ogni buona intenzione. Quanto più la legislazione e il governo fossero ordinati in accordo a tale idea, tanto più rare sarebbero le pene; ed è perfettamente ragionevole pensare, che (come Platone asserisce) in un ordinamento perfetto di quelli, le pene non sarebbero più necessarie. Ora, sebbene quest’ultimo caso non possa mai aver luogo, è tuttavia interamente esatta l’idea, che pone questo maximum come archetipo, per portare, alla sua stregua, la costituzione legale degli uomini sempre più accosto alla maggiore perfezione possibile. Giacché quale sia per essere il grado supremo, a cui l’umanità debba arrestarsi, e quanto grande, quindi, il distacco che necessariamente rimanga tra l’idea e la sua attuazione, nessuno può o deve determinarlo, appunto perché si tratta di libertà, che può superare ogni limite che le si voglia assegnare ».[2]
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I modelli costituiscono dunque indispensabili termini di confronto per formulare un giudizio non solo sulle costituzioni, ma sulla stessa legislazione degli Stati, per valutare cioè non solo il grado di approssimazione delle forme storiche di organizzazione politica rispetto all’idea dell’«ordinamento perfetto», ma anche la funzione di ogni azione politica rispetto a quell’obiettivo. In particolare, consentono di accertare se una determinata azione è compatibile o meno con quel fine e se ha consentito di compiere dei progressi in quella direzione. In effetti, senza un costante riferimento al fine, il progresso non può essere misurato. I modelli sono dunque come la stella polare, che permette di stabilire il senso della navigazione notturna. Fuori di metafora, sono un punto di riferimento che illumina la storia nel suo divenire. Di conseguenza, il loro ruolo assume il massimo rilievo proprio in relazione ai problemi dell’azione politica. In definitiva, costituiscono una dimensione necessaria dell’azione politica, la quale, per sua natura, è proiettata sul futuro e quindi non può fare a meno di un termine di confronto per stabilire il significato e la direzione delle scelte politiche.
Come sosteneva Platone e fu ribadito da Kant, gli stessi uomini politici, che si propongono di migliorare le condizioni della convivenza sociale, devono conoscere la soluzione dei problemi posti dalla storia e quindi gli strumenti per assoggettare i processi sociali alla programmazione umana. E questo non è possibile senza un modello, cioè senza inquadrare le soluzioni proposte nella prospettiva di un progetto di lungo periodo di trasformazione della società. Non c’è dubbio infatti che un’azione non adeguatamente illuminata da uno scopo finale e orientata da una teoria conduce facilmente fuori strada.
D’altra parte, è inevitabile che, senza un modello della società futura, tenda a imporsi come punto di riferimento per valutare la società e lo Stato quello definito dai gruppi di potere dominanti, i quali sono intenti soprattutto a difendere i loro privilegi e a giustificare il loro potere. «Il possesso della forza», ha scritto Kant, «corrompe inevitabilmente il libero giudizio della ragione».[3] Di conseguenza, i grandi ideali politici sono trasformati dagli uomini di governo in strumenti di potere, con la funzione di legittimare l’ordine costituito.
Tuttavia la formulazione del modello della società futura è un compito della massima difficoltà, perché richiede che si determini la fisionomia di un nuovo mondo contro l’inerzia delle forme di coscienza e delle istituzioni del passato, e un’operazione rischiosa, perché i pericoli di errore sono grandissimi. Il modello della società futura è un «criterio regolativo» o un’«idea-limite», cioè la definizione di un punto di arrivo, al quale le formazioni sociali storicamente determinate si possono avvicinare, procedendo per successive approssimazioni, senza mai poterlo raggiungere interamente.
Nel corso del 18° secolo l’analisi della società si è arricchita della consapevolezza del carattere storico dei fatti sociali; la storia è diventata il fondamento della concezione della realtà. Essa conferisce al pensiero utopico un carattere nuovo, che lo differenzia da quello precedente. La filosofia della storia di Kant è una delle espressioni più organiche dell’incontro fra il pensiero utopico e l’idea del progresso storico. In questo contesto, la società si presenta come un mondo incompiuto: il presente è il terreno limitato della realtà esistente e il futuro è il terreno sconfinato delle possibilità. Per usare una formula hegeliana, riferita alla difficoltà di pensare il «nuovo» nella storia e ai problemi concettuali che emergono in ogni fase di transizione verso una nuova epoca storica, i caratteri del nuovo mondo si manifestano all’inizio attraverso un concetto non ancora sviluppato: «il concetto semplice dell’intiero» o «l’intiero nell’involucro della sua semplicità».[4] In effetti, il modello è come l’embrione, nel quale sono difficilmente riconoscibili le determinazioni che si manifesteranno nel corso del suo sviluppo. Eppure, tali determinazioni sono presenti in nuce fin dall’inizio. A mano a mano che ci si avvicina al fine prefigurato nel modello, i suoi caratteri si precisano progressivamente in connessione con i problemi che emergono nel corso della storia. Ciò che all’inizio si presentava come un’esigenza puramente razionale di una nuova e diversa organizzazione della società tende ad assumere i tratti sempre più definiti di un progetto che identifica anche le condizioni storiche e gli strumenti istituzionali della propria realizzazione.
Per quanto grande sia la distanza che separa l’idea dalla sua attuazione, sarebbe del tutto arbitrario fissare dei limiti, fondandosi sull’esperienza della storia passata, alla lunga marcia di avvicinamento del genere umano verso quel traguardo. La libertà e la ragione costituiscono potenze capaci di trasformare il mondo e di emancipare l’uomo dallo strapotere della natura.
Kant ha giustamente sottolineato che la comprensione del comportamento umano non si può risolvere unicamente nell’orizzonte della scienza, la quale studia le azioni in quanto causalmente determinate. Il contenuto e il senso dell’azione umana non si esauriscono infatti in questo determinismo. La sfera dei bisogni materiali, della sopravvivenza fisica, coincide con il mondo del determinismo, ma esistono sfere autonome di comportamenti che trascendono queste funzioni e sono espressione di un’attività libera e cosciente. Le azioni umane sono eventi condizionati dal punto di vista storico e sociale, ma esse esprimono scelte dei soggetti morali e sono quindi espressione di un altro tipo di determinazione indipendente dalla natura e fondata sull’autonomia della volontà e sulla legge universale della ragione.
Il modello della società futura, così come è stato definito da Kant, non deve essere confuso con l’utopia, nel senso negativo che questo termine ha nel linguaggio comune, cioè con una costruzione arbitraria e astratta, come un espediente per evadere da una realtà politica e sociale giudicata inaccettabile. È un’esigenza della ragione, la quale insegna che cosa manca nella realtà sociale e in quale direzione questa deve mutare. Mette cioè in evidenza la contraddizione tra il mondo della politica e l’ordine della ragione e come deve trasformarsi il primo per essere in accordo con il secondo. Svolge quindi un duplice ruolo: uno negativo, di critica dell’ordine politico esistente, e uno positivo di indicazione di una possibile trasformazione della società. Non è, in altri termini, un semplice mito, ma qualcosa di reale, un fattore essenziale di ogni mutamento storico e quindi un aspetto della realtà storica nel suo divenire. Lo si può osservare operare concretamente nella storia come principio di contraddizione, che sottopone l’ordine costituito a una tensione costante nel senso del cambiamento. Esso ha svolto un ruolo determinante in tutte le trasformazioni rivoluzionarie della storia moderna, soprattutto a partire dalla rivoluzione francese. Si è quindi rivelato come una forza storica, che ha messo in movimento poderose energie trasformatrici, che hanno cambiato la faccia del mondo.
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Ma Kant non si è limitato a indicare l’esigenza teorica e pratica di ricorrere al modello della società futura per orientare il pensiero e l’azione. Egli ha anche dato un contributo fondamentale all’analisi dello stadio finale dell’evoluzione delle forme di organizzazione politica.
Come risulta dal brano sopra riportato della Critica della ragion pura, secondo Kant, lo Stato ideale deve garantire la maggiore libertà umana mediante una forma di associazione, nella quale tutti accettino dei limiti al libero esercizio della loro volontà e della loro azione, che rendano possibile la coesistenza pacifica dei singoli secondo una legge universalmente valida, e nella quale, al limite, le pene non siano più necessarie. Ma il merito di Kant consiste nell’avere iniziato l’esplorazione di una regione sconosciuta, cercando di identificare le caratteristiche della società nella quale si sia affermata la pace, intesa come la condizione che permette di realizzare un ordinamento politico che unisca tutto il genere umano sotto un potere e una legge comuni, in modo da rendere possibile la libertà e l’uguaglianza di tutti gli uomini insieme.[5]
Il modello della società futura elaborato da Kant non è una utopia astratta,[6] ma ha una relazione con le caratteristiche empiricamente osservabili e descrivibili dei processi politici e sociali e con le leggi che li governano. Indica quindi una possibilità reale di trasformazione della società.
Kant si differenzia dalla maggior parte degli studiosi di politica internazionale, perché individua la fonte della guerra nella sovranità statale. Il suo punto di vista federalistico si distingue da tutte le concezioni utopistiche della politica internazionale, che si attendono la pace dalla collaborazione tra gli Stati, senza mettere in discussione la sovranità, non si rendono conto che tutte le riforme interne dello Stato, che hanno come obiettivo l’umanizzazione della vita politica, sono minacciate dall’anarchia internazionale, e quindi non si pongono il problema della subordinazione degli Stati a una legge comune e a un potere democratico supernazionale. Negli scritti di Kant c’è l’embrione di una teoria empirica delle relazioni internazionali, che finora non è mai stata smentita dalla storia e che permette di spiegare, in primo luogo, perché la trasformazione della struttura degli Stati in senso liberale, democratico o socialista non è stata sufficiente a garantire la pace, e, in secondo luogo, perché la libertà, l’uguaglianza e la giustizia sociale si siano realizzate in modo solo parziale e precario all’interno degli Stati, a differenza di quanto ci si attendeva nell’ambito del pensiero politica dominante nel secolo scorso e nel nostro secolo.
Sulla base di questi presupposti teorici, fondati sull’osservazione empirica di determinate costanti del comportamento politico, che gli hanno permesso di formulare previsioni storiche finora sempre verificate, Kant ha dato un apporto effettivo alla conoscenza della politica internazionale e quindi ha offerto anche un orientamento agli uomini di azione nei loro tentativi spesso falliti, ma mai abbandonati, di avvicinarsi all’idea di una comunità internazionale pacifica. Egli ha dato un contributo di grande valore alla definizione dello stadio finale della storia delle forme di convivenza politica con l’elaborazione del modello della federazione mondiale, un modello di organizzazione del sistema politico internazionale, nel quale sono eliminati tutti i rapporti di forza tra gli Stati e sono così riunite le condizioni necessarie a eliminare la violenza dalla storia. Si tratta di un modello che non è abbastanza definito dal punto di vista istituzionale e da quello storico-sociale (quando Kant scriveva, l’età industriale, democratica e nazionale era agli albori) e, per certi aspetti, è incoerente con le sue premesse teoriche[7] e che quindi deve essere sviluppato e completato. Tuttavia, Kant ha definito in modo rigoroso il concetto di pace e ha stabilito un nesso preciso tra questa finalità e l’estensione del diritto a tutte le relazioni sociali, in particolare alla sfera delle relazioni internazionali, in modo che il genere umano possa essere governato da un unico ordinamento costituzionale capace di garantire a tutti gli uomini insieme la libertà e l’uguaglianza.
In definitiva, egli ha identificato nella pace la condizione della piena realizzazione della libertà e dell’uguaglianza e nella federazione mondiale il quadro giuridico e politico nell’ambito del quale è possibile sconfiggere le tendenze bellicose e autoritarie dominanti in un mondo di Stati sovrani. In questo modo egli ha indicato un criterio fondamentale per pensare concretamente l’ordine federale mondiale, la via maestra per realizzare la pace, e ha definito una condizione essenziale dell’emancipazione umana.
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Da ciò emerge quali sono i limiti delle ideologie liberale, democratica, socialista e comunista: esse non controllano tutte le condizioni della loro realizzazione. In effetti, la lotta per la libertà e per l’uguaglianza si è svolta separatamente, nazione per nazione, mentre la divisione del genere umano in Stati sovrani ha impedito che si sviluppasse la lotta per la libertà e per l’uguaglianza di tutti gli uomini. La crisi delle ideologie, che ha dato lo spunto a questa nota, ha la sua radice proprio in questi limiti. Essi impediscono di dominare i problemi di fondo della storia contemporanea. In effetti, nel nostro secolo la guerra è diventata un fenomeno totale e mondiale e talmente distruttivo per entrambe le potenze (o coalizioni di potenze) in conflitto, che si sta rivelando come uno strumento sempre meno utilizzabile per risolvere i problemi internazionali. Nello stesso tempo, il mondo sta diventando sempre più unito. Si è rafforzata, di conseguenza, l’esigenza di un governo e di un piano mondiali, per risolvere i numerosi problemi che hanno assunto dimensioni mondiali. In questa prospettiva, l’organizzazione del mondo in Stati sovrani si presenta come il principale ostacolo alla pace e al progresso. Infine, per quanto riguarda la risposta politica a queste sfide, in Europa, il teatro delle più profonde divisioni che la storia moderna abbia mai conosciuto, si è scelta la via dell’unificazione e, con l’elezione diretta del Parlamento europeo, si è imboccata la strada dell’estensione della democrazia dal piano nazionale al piano internazionale. Si è aperta così una breccia nel bastione della ragion di Stato, contro la quale si sono infrante le ondate dell’internazionalismo liberale, democratico, socialista e comunista. E attraverso questa breccia il popolo europeo potrà entrare in quel settore della vita politica ed economica, che finora è stato il terreno esclusivo dello scontro diplomatico e militare tra gli Stati e della concorrenza anarchica tra le gigantesche concentrazioni capitalistiche multinazionali. L’evoluzione in senso federale della Comunità europea (che non è ancora percepita dal pensiero politico dominante) configura dunque un nuovo modo di organizzare le relazioni tra gli Stati, che rappresenta un modello valido per tutto il mondo e che permetterà all’umanità di affrontare in termini unitari i problemi determinanti per il suo avvenire. L’elezione europea, aprendo la via al superamento degli Stati nazionali, rappresenta dunque la prima grande vittoria del federalismo e segna una tappa nella storia dell’emancipazione umana, una tappa fondamentale nella lotta per espellere la violenza della storia e per controllare la sovranità nazionale assoluta, che ha spinto gli Europei a scatenare le guerre mondiali e ha fatto degenerare la democrazia in fascismo e il comunismo in stalinismo.
Così le vicende del nostro secolo sembrano suggerire che si stia avverando la profezia di Kant, secondo la quale solo l’esperienza della negatività della guerra avrebbe indotto gli Stati a rinunciare alla loro «libertà selvaggia» e a piegarsi a una legge comune.[8] Di fronte al carattere indivisibile, che ormai ha assunto il destino dell’umanità, allo scopo di favorire il dibattito sulle vie per preparare l’avvenire, di conoscere sempre meglio il futuro possibile della società e di contribuire a costruirlo consapevolmente, è dunque quanto mai opportuno riflettere sul modello kantiano della società futura.
[1] I. Kant, Critica della ragion pura (1781), trad. ital., Bari, 1910, vol. I, p. 292.
[3] I. Kant, Per la pace perpetua (1795), trad. ital. in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, Torino, 2a ed., 1965, p. 316.
[4] G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito (1807), trad. ital., Firenze, 1960, vol. I, pp. 9-10.
[5] I. Kant, Per la pace perpetua cit., pp. 291-301.
[6] Per la distinzione tra «utopia astratta» e «utopia concreta» si veda E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, Frankfurt a.M., 1959.
[7] M. Albertini, Il federalismo. Antologia e definizione, Bologna, 1979, pp. 30-31.
[8] I. Kant, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784), trad. ital. in Scritti cit., pp. 131-134.