Anno L, 2008, Numero 1, Pagina 13
Le riflessioni di Mario Albertini per una rielaborazione critica del materialismo storico
LUISA TRUMELLINI
Premessa.
La contraddizione più drammatica con cui si confronta oggi l’umanità riguarda la sfasatura tra il progresso scientifico e tecnologico in continua e rapidissima evoluzione e gli strumenti di controllo, politici, istituzionali, ma in larga parte, in questo ambito, anche culturali, che l’uomo è riuscito ad elaborare sino ad oggi per governare gli effetti di questo sviluppo e i nuovi processi che ne derivano. La causa profonda dell’inadeguatezza di tali strumenti risiede nel fatto che a fronte della dimensione mondiale dei nuovi processi in corso la politica continua ad essere organizzata e ad agire al livello dei singoli Stati, e si rivela perciò totalmente inadeguata sia rispetto alle sfide globali, sia rispetto a quelle sociali interne che ne conseguono. Il risultato è che l’immenso cumulo di conoscenze che l’uomo ha assommato e che, insieme agli strumenti intellettuali che possiede, gli prospettano ulteriori possibilità quasi infinite, non riescono a tradursi in una capacità di soluzione delle contraddizioni che continuano a minacciare l’umanità e che ne mettono addirittura a repentaglio la stessa sopravvivenza.
Di fronte a questa impasse, la reazione della cultura del nostro tempo tende ad essere quella di resa; si cerca rifugio in facili risposte che negano ogni senso alla possibilità di progresso storico e che evidenziano esclusivamente l’irrazionalità dei processi. Non è un caso che questa tendenza, che affonda sicuramente le sue radici in una larga parte della cultura del Novecento, come effetto delle nuove scoperte in ambito scientifico a partire dall’inizio del secolo — e che è comunque una tendenza che in molti ambiti ha costituito una lucida e penetrante critica all’ingenuo ottimismo razionalistico della seconda metà dell’Ottocento e ha permesso di confrontarsi con i limiti della natura umana — sia diventata assolutamente dominante in ambito storico e politico con il progredire della crisi delle grandi ideologie politiche. Fino a che queste sono state in grado di fornire una chiave di lettura dei processi in corso e di indicare indirizzi di intervento politico, la possibilità di un controllo razionale dei processi storico-politici è stata quanto meno un’esigenza dibattuta e diffusa, che ha animato, e orientato, larga parte dell’attività intellettuale e di ricerca nell’ambito delle scienze umane. Man mano che esse si rivelavano inadeguate alla comprensione dei nuovi fenomeni, che da un lato vedevano in larga parte vinte le battaglie di emancipazione politica e sociale dei cittadini all’interno dei paesi occidentali, e dall’altro l’emergere di nuove problematiche e di nuove sfide che superavano la dimensione degli Stati esistenti e di fronte alle quali esse non avevano risposte, man mano che questo accadeva e non si affermavano nuove categorie in grado di superare i limiti delle precedenti, l’idea della casualità dei processi e quindi della loro indecifrabilità diveniva il leitmotiv della cultura occidentale.
L’aggravarsi della crisi della cultura, nella misura in cui non riesce più a concepirsi come l’ambito in cui si cercano le risposte ai problemi dell’umanità, è quindi legata all’impasse della politica, ed è difficile pensare che le due questioni si possano affrontare separatamente.
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Data questa situazione, diventa una necessità inderogabile cercare di capire, da un lato, se effettivamente è pensabile una prospettiva all’interno della quale la politica può tornare ad essere l’ambito in cui si comprende il presente e si progetta il futuro, e, dall’altro, se questa prospettiva ha effettivamente una rispondenza nei processi reali e se quindi fornisce strumenti di comprensione da cui possono derivare possibilità di intervento sulla realtà. Proprio questa preoccupazione è stata al centro della ricerca di Mario Albertini, convinto che questa fosse la sfida fondamentale cui la cultura filosofico-politica del nostro tempo doveva cercare di rispondere e che fosse cruciale, sotto questo profilo, la prosecuzione del tentativo, avviato in particolare da Marx e da Max Weber, di porre le basi di una solida scienza della politica. Egli dedicò a questo scopo una grandissima parte della sua riflessione, concentrandosi soprattutto sull’obiettivo di comprendere e definire la specificità della politica come ambito dell’agire umano, e su quello di analizzare l’evoluzione del processo storico per cercare di individuarne le leggi fondamentali e dare così un fondamento oggettivo alla scienza della politica. Fu in questo ambito che rielaborò criticamente il materialismo storico di Marx in base alle linee illustrate in questo articolo.
Paradossalmente, la maggior parte di questo lavoro di analisi e riflessione non è mai stata formulata per iscritto da Albertini, ma continuamente rielaborata soprattutto nel corso delle sue lezioni di Filosofia della politica negli anni Settanta e fino alla metà circa degli anni Ottanta presso l’Università di Pavia. La ragione è da attribuire sia alla mancanza di tempo a causa dei molteplici impegni politici e organizzativi cui Albertini ha dedicato moltissime delle sue energie, sia al fatto che non era ancora del tutto soddisfatto dei risultati raggiunti. Esiste la trascrizione della registrazione completa di un ciclo di lezioni tenute nell’anno 1979-80, che è la fonte cui questo lavoro fa riferimento.[1]
La «crisi della ragione» e lo statuto epistemologico delle scienze sociali.
La tracce della riflessione sulla possibilità di identificare un corso della storia, in riferimento in particolare al materialismo storico di Marx, si ritrovano negli interventi — soprattutto orali — di Albertini sin dagli inizi degli anni Sessanta e si mantengono in tutta la sua opera, fino alla metà degli anni Novanta.
Nell’arco di questi trent’anni il contesto culturale in cui Albertini opera subisce, ovviamente, profondi cambiamenti: inizialmente il marxismo è il punto di riferimento teorico di gran parte della cultura in ambito storico-sociale, per poi entrare gradualmente in crisi dalla seconda metà degli anni Settanta ed essere infine abbandonato dalla fine degli anni Ottanta, in coincidenza con gli avvenimenti della politica internazionale, in particolare il crollo dell’URSS. Parallelamente avanzano le correnti di pensiero che denunciano la cosiddetta «crisi della ragione», che man mano arrivano a colmare il vuoto lasciato dal marxismo sostituendogli la critica alla possibilità che la ricerca della verità sia il punto di riferimento dell’orizzonte conoscitivo dell’uomo.
Albertini era invece profondamente convinto della validità della conoscenza scientifica e contrario alla pretesa che gli uomini non siano in grado di indagare la realtà. Per questa ragione pensava che anche nel campo dei fatti politici e sociali fosse possibile arrivare a definire con precisione degli ambiti in cui utilizzare una metodologia con caratteristiche paragonabili a quelle delle scienze fisiche e naturali.
La pretesa che non esista il «vero», che non ci sia corrispondenza tra la conoscenza e la realtà e che quindi la verità sia un concetto vuoto, che la scienza stessa sia un processo molto meno razionale di quanto non si credesse in passato deriva, secondo Albertini, dalla difficoltà di superare gli effetti che le nuove scoperte scientifiche e la conseguente crisi della fisica newtoniana — e con essa della filosofia di impianto kantiano — hanno avuto sulla cultura occidentale. Il tentativo — portato avanti in particolare dalla corrente che, per semplificare, possiamo definire del neopositivismo logico — di rifondare la filosofia sulla base delle nuove conoscenze e della metodologia delle scienze naturali in evoluzione, in modo da dar vita ad un’epistemologia capace di costituire un criterio generale valido in ogni campo del sapere, si è rivelato impossibile. Come ha dimostrato in sostanza Quine[2]criticando il riduzionismo teorizzato dall’empirismo logico, non esiste nessun criterio assoluto che permetta di distinguere una teoria scientifica da una metafisica. Non perché non esiste nessuna differenza tra le due, ma perché non siamo in grado di definire il fondamento di tale differenza. Albertini, nelle sue lezioni spiegava come qualsiasi proposizione assolutamente coerente e priva di ambiguità è tale nella misura in cui si riferisce ad un’idea precisa e astratta e finché, di fatto, rimane priva di contenuto (che è la caratteristica del linguaggio della logica e della matematica, che sono vere a patto di mantenersi sul piano del controllo verbale formale e di non avere nessun contenuto definito). Nella misura in cui una proposizione di questo tipo viene calata nella realtà e confrontata con i fatti, perde il suo carattere assoluto e si scontra con l’impossibilità della perfetta corrispondenza tra la logica formale e la verifica fattuale. Ciò avviene sia perché nella realtà il punto di riferimento è l’individualità e quindi la varietà è praticamente infinita, per cui una verifica implicherebbe che tutti i casi — passati, presenti, futuri — che rientrano nella formulazione formale vengano indagati; sia perché servono strumenti di controllo — verbali, fisici, tecnici — che non sono previsti e descritti nella teoria che si sta andando a verificare.
Il fatto che un certo margine di ambiguità sia ineliminabile nella nostra possibilità di conoscenza e che l’idea di certezza assoluta sia svanita ha creato, come era inevitabile, un profondo smarrimento nella nostra cultura. Ma trarre da tutto ciò l’idea che la scienza stessa perda la sua validità, secondo Albertini, è un errore. La scienza perde la propria validità assoluta nel singolo atto, la cui verifica è sempre ambigua e provvisoria, ma mantiene la capacità, come processo, di riconoscere l’errore al proprio interno e di eliminarlo. Questa caratteristica nessuno la ha mai potuta smentire. Quella che viene a cadere è, in realtà, la possibilità di attribuire i processi con cui noi stabiliamo la verità all’atto del singolo scienziato. Ed è normale che sia così: nessun individuo controlla tutto il sapere e solo la comunità scientifica — e più in generale, la comunità di tutti gli uomini — può farsi carico del controllo della conoscenza. Ma la scienza, mentre non ci consente di conoscere in un momento singolo tutta la realtà, ci consente di costruire l’edificio della conoscenza, e questo edificio è una costruzione di verità proprio perché si confronta con i fatti ed è capace di identificare l’errore al proprio interno e di superarlo. La verità e la certezza dunque scompaiono se le riferiamo al singolo, ma le recuperiamo se pensiamo in termini di processo, e se riferiamo questo processo alla comunità scientifica.
Del resto, la realtà della vita umana ci fornisce alcune conferme cruciali da cui non possiamo prescindere. Se in sede filosofica noi possiamo dubitare del fondamento della realtà, se possiamo negare la coincidenza tra la rappresentazione globale che ci fornisce la conoscenza scientifica e la realtà e se siamo consapevoli della complessità della metodologia della conoscenza scientifica, e della nostra difficoltà a comprenderla, ciò non toglie che la scienza dimostri di saper dare risposte concrete e di saper formulare previsioni che trovano riscontro nella realtà. I modelli scientifici permettono di formulare aspettative e di fare osservazioni che corrispondono a quanto accade realmente: se non possiamo essere sicuri dell’esistenza reale dell’atomo, però sappiamo che a partire dal modello dell’atomo possiamo prevedere certi eventi fisici in un contesto determinato e questi eventi si verificano effettivamente.
Questa coincidenza tra le rappresentazioni scientifiche e gli accadimenti reali è una delle due caratteristiche necessarie della scienza; l’altra è quella di essere un insieme coerente di criteri di conoscenza in riferimento ad uno stesso oggetto o ad uno stesso campo di fenomeni. Da quando l’umanità, con Galileo, si è impadronita di questa modalità di conoscenza che implica, oltre al rigore e alla coerenza, la capacità di autocontrollo e di verifica, si è aperta la possibilità di condividere universalmente la conoscenza e di accumularla. Infatti, una delle caratteristiche delle conoscenze scientifiche, è quella di affermarsi, nel tempo, come universalmente valide e di essere quindi condivise da tutti; e per questo cumulabili.
Abbandonare questo terreno, secondo Albertini, è estremamente pericoloso, perché sinora non esiste altra possibilità per gli uomini di controllare le conoscenze. Anche prima della nascita del metodo scientifico esisteva la conoscenza della realtà, così come continua ad esistere a livello della vita comune. Basti pensare a come ciascun individuo fonda la propria esistenza quotidiana sulla certezza della corrispondenza tra causa ed effetto in un’innumerevole serie di casi e situazioni che costituiscono la base della sua vita pratica e che poggiano su verità di senso comune, grazie alle quali sono possibili tutte quelle previsioni che non occorre neppure verificare di volta in volta, o perché si tratta di verità assolutamente elementari o perché sono verità scientifiche diventate fatti della vita. Così, se si deve illuminare una stanza si cerca l’interruttore della luce, se si deve chiamare qualcuno al telefono si compone il numero corrispondente, e così via. Ma la conoscenza di senso comune — che ha un riscontro immediato nella pratica, ed è quindi una prima forma di conoscenza effettiva — ha il limite di non essere controllabile in modo rigoroso, e quindi di non essere, sostanzialmente cumulabile. Solo la scienza, con la formalizzazione della teoria per eliminare ogni ambiguità e per rendere possibile la verifica fattuale al fine di controllare in modo rigoroso la corrispondenza con gli accadimenti della realtà, ha la caratteristica di essere un processo controllabile, condiviso e cumulabile.[3]
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Se la scienza nell’ambito dei fenomeni naturali, al di là dei dubbi filosofici che solleva, ha ormai raggiunto capacità straordinarie, nel campo delle scienze sociali la conquista di una metodologia capace di ottenere risultati tali da rendere possibile una conoscenza controllata e condivisa non è ancora avvenuta. Albertini è convinto che si tratti di una carenza che comporta profondi squilibri ed è questa la ragione per cui ritiene cruciale che si riesca ad avanzare su questo terreno.
Gli uomini hanno raggiunto ormai da alcuni decenni la capacità di incidere così profondamente sui processi naturali da essere addirittura in grado di distruggere la vita sulla terra. E’ un dato di fatto che all’immensa potenza acquisita tramite la scienza non corrisponde una capacità di controllo degli effetti che ne derivano. Per molti aspetti gli uomini viaggiano sull’orlo di un abisso, e la cosa più impressionante è vedere come al quadro dei progressi tecnici non corrisponde quello dei progressi morali, della felicità, della vita stessa. Basti pensare alla questione urbanistica o all’incapacità di usare le risorse disponibili per risolvere il problema della fame e del sottosviluppo, per non parlare dei problemi ambientali; ma gli esempi potrebbero essere infiniti. L’immensa capacità di «fare» dell’umanità si converte diabolicamente in capacità di distruggere e la radice di questa drammatica contraddizione risiede nell’incapacità di individuare le istituzioni adeguate per regolare i comportamenti umani. E’, infatti, dai poteri pubblici ai diversi livelli che dipendono, in ultima analisi, i comportamenti collettivi. E, oggi, i poteri politici non riescono ad essere realmente rappresentativi del livello cui è giunta l’umanità. La base di questi poteri è data ancora dalle istituzioni ottocentesche. Queste erano state capaci di risposte creative, che avevano funzionato efficacemente a fronte dei problemi della società del tempo: l’affermazione delle libertà individuali, la creazione dello Stato democratico, le prime forme di previdenza sociale e di redistribuzione del reddito, sono tutte tecnologie politiche, come le definiva Albertini, che hanno permesso all’umanità di progredire. Ma i problemi attuali sono diversi rispetto a quelli del passato, e servirebbero strumenti adeguati per governarli.
E’, dunque, innanzitutto un fallimento delle scienze sociali — in primo luogo di quella che si autodefinisce «scienza della politica» — quello cui assistiamo oggi. Il fatto che non si riesca a produrre una tecnologia politica capace di intervenire nel corso degli avvenimenti e di produrre gli effetti desiderati, cioè una tecnologia che permetta agli uomini di controllare politicamente, e quindi di mettere al servizio del progresso di tutti, le enormi conoscenze acquisite, significa che non esiste una scienza della politica. Noi, oggi, da un lato, abbiamo l’assenza di istituzioni capaci di indirizzare e controllare i comportamenti politici e di contenere gli atteggiamenti egoistici affinché non inaridiscano le fonti dell’altruismo; dall’altro assistiamo alla crisi delle grandi sintesi filosofiche (a partire dall’idealismo e dal marxismo — e un discorso analogo vale per i sistemi religiosi), crisi che affonda le proprie radici, secondo Albertini, in questa impotenza del pensiero nel rapportarsi con il presente. E nella misura in cui queste grandi visioni capaci di dare un senso al mondo e alla vita, e di dare un fondamento alla morale, vengono rifiutate come possibilità di orientamento dei comportamenti individuali si indeboliscono ulteriormente anche le radici del senso etico e si accelera la crisi della società e dello Stato.
Il permanere di queste contraddizioni ha messo in crisi anche le grandi ideologie politiche, soprattutto quelle che avevano indicato nel recente passato la via del progresso. Questo implica che non esiste più un pensiero in grado di progettare il futuro politico-sociale e che quindi l’idea stessa di futuro è in crisi. E’ importante notare come, per Albertini, la funzione del pensiero ideologico in politica sia ineliminabile (benché esso debba evolvere e diventare più controllato e coerente). Egli intende con questo termine un pensiero capace di identificare gli obiettivi istituzionali adeguati rispetto alle condizioni oggettive create dal processo storico-sociale e capaci di affermare storicamente quel valore politico che emerge come prioritario per sanare le contraddizioni in atto.[4] Un pensiero rigoroso, dunque, che deve poggiare su una base scientifica, ma che deve anche superarla, perché non può limitarsi a cercare di interpretare l’esistente, ma, a partire dall’analisi dei processi in corso, deve porsi l’obiettivo di pensare il futuro, ciò che ancora non è ed è semplicemente in nuce come potenzialità: ed è questa prospettiva che si spalanca sul futuro che fornisce il quadro per orientare l’azione politica e individuare gli ambiti prioritari di intervento. Solo in questo modo la politica può assumere completamente quel carattere di pensiero collettivo, che in ultima istanza deve essere condiviso da tutti e rendere possibile quel controllo di tutti su tutti ipotizzato da Rousseau nel concetto della volontà generale. Se fosse esclusivamente una scienza, invece, se ne dovrebbero occupare solo gli specialisti, che deciderebbero per tutti sulla base delle conoscenze raggiunte. Questo non sminuisce ovviamente la necessità e il valore di una vera scienza della politica, ma, viceversa, permette di definirne con rigore l’ambito e i compiti.
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Questa articolazione rispecchia la complessità della condizione dell’uomo in quanto essere dotato di ragione e chiamato a costruirsi il proprio mondo; e rispecchia anche il conseguente rapporto che esiste a livello generale tra la scienza e la filosofia, dove quest’ultima rimane un’esigenza insopprimibile della ragione che lo sviluppo delle scienze non intacca, perché infinite sono le domande di senso che la conoscenza razionale del reale, lungi dall’esaurire la conoscenza tout-court, lascia aperte, in campo ontologico, gnoseologico, epistemologico, pratico. Su questo delicato crinale si pone anche il problema generale dello statuto epistemologico delle scienze sociali.
Solo il pensiero scientifico, come già si diceva, ha la proprietà di essere un pensiero controllato che sa scoprire al proprio interno l’errore ed eliminarlo. Il pensiero filosofico, quello metafisico, quello religioso, non hanno questa caratteristica. E’ ovvio che gli uomini, sostanzialmente dopo la rivoluzione francese, e in concomitanza con il pieno sviluppo della rivoluzione industriale, si siano posti il problema di portare questa analoga capacità sviluppata nella conoscenza della natura anche nella conoscenza dei fatti umani. Secondo Albertini, Kant, Hegel e Marx sono i maggiori protagonisti, benché con modalità diverse, di questo primo tentativo di portare le scienze umane dall’utopia alla scienza, cioè al pensiero controllabile. E anche se oggi si vive questa situazione ambigua in cui, da un lato, si pensa di aver raggiunto questo obiettivo — quando invece non è vero — ma dall’altro, al tempo stesso, si rinuncia a perseguirlo ritenendolo impossibile, Albertini ritiene che si stia attraversando solo una fase transitoria, e che l’obiettivo di una conoscenza oggettiva dei fatti sociali tornerà ad essere ritenuto prioritario, proprio perché corrisponde ad un’esigenza insopprimibile, da cui dipende, come già si ricordava, il destino dell’umanità. Il progresso sul piano dei valori dipende infatti dalla capacità degli uomini di costruire le condizioni che li realizzino, e pertanto è un problema innanzitutto di conoscenza e in secondo luogo di azione. Senza una conoscenza precisa, basata su criteri scientifici e quindi accettata da tutti, le interpretazioni diverse, invece di dar luogo ad un confronto razionale per eliminare da ciascuna gli elementi arbitrari e mantenere quelli che corrispondono ad un’interpretazione efficace della realtà, generano solo un rifiuto reciproco e portano allo stallo. E quindi impediscono anche l’azione.
I problemi epistemologici posti dalle scienze sociali sono però di portata enorme. Alla complessità dell’impianto delle scienze fisiche e naturali si aggiungono ulteriori difficoltà specifiche. Innanzitutto quella della verifica: nelle scienze sociali è estremamente complesso anche solo arrivare a circoscrivere e definire il quadro che si vuole indagare, ed è poi sostanzialmente impensabile poter riprodurre gli stessi meccanismi delle scienze sperimentali per quanto riguarda la verifica. Nessun fatto umano, infatti, si può isolare e riprodurre in laboratorio a determinate e specifiche condizioni per testare se le ipotesi formulate su di esso si rivelano esatte in quel dato contesto. Inoltre, se anche per le scienze della natura il problema della molteplicità individuale del reale è un limite che crea una frattura tra teoria ed esperienza, resta il fatto che si indaga un contesto per cui si possono ipotizzare leggi costanti. Nel campo delle scienze sociali, invece, si devono fare i conti con l’elemento umano che non solo è individuale, ma è anche — almeno parzialmente — libero, ed è quindi imprevedibile e irripetibile. Questo, da un lato rende impossibile l’elaborazione di una teoria generale a priori e fa sì che la conoscenza effettiva possa essere solo perseguita nello studio dei casi reali individuali; dall’altro apre quello spazio ineludibile per la riflessione filosofica e per il pensiero ideologico cui già si faceva riferimento.
Tutto questo comporta che l’obiettivo delle scienze storico-sociali non potrà mai essere quello di arrivare ad una conoscenza in grado di farci prevedere gli avvenimenti, ma solo quello di portarci ad una comprensione dei meccanismi alla base dei processi in modo da poter intervenire su di essi in modo consapevole e controllato. La conseguente «tecnologia politica» (perché effettivamente laddove c’è scienza deve esserci anche una ricaduta tecnologica, cioè una capacità di intervento sulla realtà), permetterebbe agli uomini di non subire più, a livello collettivo, passivamente gli avvenimenti ma aprirebbe il campo al loro intervento consapevole e, per definizione, libero.
Che tipo di conoscenza possono quindi fornire, concretamente, queste scienze? Ciò che nel loro ambito può essere elaborato in maniera controllata e rigorosa sono i criteri metodologici per analizzare i dati della realtà, esplicitando e portando a consapevolezza i modelli esplicativi che permettono di circoscrivere i fatti cruciali e di studiarli in base al rapporto di causa ed effetto. Il riferimento di Albertini è la teoria weberiana dell’Idealtypus. Weber,[5] a suo parere, ha fornito i primi, cruciali, elementi per distinguere la conoscenza filosofica da quella scientifica nell’ambito storico-sociale. E il punto fondamentale risiede nella consapevolezza, che egli per primo ha introdotto, che in questo campo l’oggetto di studio ha una natura diversa rispetto a quella dei fenomeni naturali: non si tratta infatti di un dato puramente osservabile ma sempre di uno strumento, cioè di un mezzo rispetto ad uno scopo. Come tale può essere conosciuto solo se correttamente interpretato, cioè compreso nel suo significato originario. Alla base della conoscenza storico-sociale, quindi, c’è sempre una relazione di valore che permette di cogliere il significato dell’oggetto di studio.
Per poter operare un’analisi storico-sociale il punto di partenza è quindi dato da una relazione di valore: il primo atto da compiere è infatti quello di isolare e separare, nel continuum infinito dei fatti storici, quelli che sembrano avere significato rispetto agli obiettivi dell’indagine che si persegue. Quella che si compie, dunque, è una scelta, sulla base dell’interesse dello studioso (vale a dire sulla base del valore che egli attribuisce a determinati fatti/avvenimenti) che permette di costituire un insieme significativo, che abbia un senso rispetto all’indagine che si vuole compiere.
Questo è quanto avviene sempre nell’operare concreto degli storici, dei sociologici, ecc. Ora, il punto è che tanto più questo modo di operare è consapevole, tanto più è possibile controllarlo. E la prima cosa da fare è rendere il più chiara possibile la scelta che si compie (cioè la relazione di valore che la ha guidata) e trattare poi l’insieme significativo isolato come un’ipotesi da verificare sulla base della corrispondenza con i fatti concreti. Se questa operazione è fatta con lucidità e senza auto-mistificazioni, permette di costruire un tipo ideale (uno schema) coerente in base al quale diventano comprensibili i nessi di causa ed effetto tra gli avvenimenti e si può acquisire una conoscenza controllata di un determinato processo. A questo stadio infatti diventa possibile l’operazione dei «se» e si può verificare, eliminando determinati fatti, quali sono quelli che, una volta tolti, insieme agli altri ad essi connessi, interrompono la catena che porta al punto di arrivo e costituiscono quindi un anello indispensabile: vale a dire, si possono identificare quelle che Weber chiama le «causazioni adeguate» del fatto storico.
Identificando una metodologia che permette di procedere per cause, diventa dunque possibile superare lo stadio della storia puramente ideologica e si può arrivare ad un risultato condivisibile, pur partendo da ipotesi diverse che però, sulla base di queste operazioni, possono essere valutate oggettivamente e scartate se si rivelano inadeguate.
Albertini è perfettamente consapevole di come questa teoria weberiana susciti critiche e dubbi. Ma è anche convinto che Weber abbia innanzitutto posto il problema giusto, e cioè che anche in campo storico-sociale l’unica conoscenza controllata può essere quella basata sullo studio per cause; e pensa che questo tipo di impostazione sia cruciale per inquadrare anche il materialismo storico marxiano, che ha una valenza effettiva solo se è pensato come una tipologia molto generale per la conoscenza della storia. I dubbi e le critiche sollevati da Weber, secondo Albertini, non hanno però dato vita ad un dibattito approfondito sulle questioni da lui poste; al contrario, continua ad essere forte la tendenza, da un lato, a riconoscerne la grandezza — in base alla quale lo si ritiene universalmente una pietra miliare nella storia della sociologia —, dall’altro a non confrontarsi seriamente con i problemi posti dalla sua opera di studioso. Questo confronto è invece assolutamente necessario perché le scienze sociali possano progredire.
La questione del corso della storia e l’intuizione di Marx del materialismo storico.
Albertini era convinto che per affrontare il problema della crisi in corso, che è una crisi, in ultima istanza, che investe i fondamenti stessi della condizione umana, fosse necessario partire dalla questione del significato della storia. La storia, infatti, è il meccanismo fondamentale dell’azione umana. Tutti i grandi fatti, politici, morali, scientifici, e così via, accadono all’interno di questo processo collettivo, che in qualche modo sovrasta la vita di tutti gli uomini e che sfugge al loro controllo, pur essendo un prodotto dell’attività umana. Proprio in questa «oscurità» che avvolge la storia si annida, secondo Albertini, una delle fonti dell’irrazionalismo, e questa oscurità è tanto più grave in quanto incide, spesso totalmente, sulla possibilità di progettare il futuro.
Croce spiegava bene questo meccanismo, evidenziando la differenza tra volizione e accadimento. La caratteristica dell’uomo è quella di avere progetti, scopi definiti, e di perseguirli con una capacità razionale. A livello individuale, se ci si limita ai campi in cui l’azione dipende sostanzialmente dalla volontà e capacità del singolo, si verifica effettivamente questa situazione comportamentale in cui emerge uno scopo sulla base di un desiderio o di un bisogno e si impiegano, nella misura del possibile, mezzi adeguati per perseguirlo. Ma a livello dei fenomeni sociali, e a maggior ragione nel caso in cui tali fenomeni sono più incisivi, è evidente che il risultato è il frutto dell’azione di una molteplicità di individui, cioè della somma di molte volontà. La conseguenza è che in questi casi nessuno progetta ciò che avviene e l’«accadimento», pur essendo il frutto dell’azione degli uomini, non è controllato da nessuno.
I grandi avvenimenti storici si manifestano, quindi, con una forza che sembra irresistibile e non sono mai imputabili a persone precise. La base è sempre un fermento spontaneo che emerge dalla società e che solo in un secondo momento si può cercare di indirizzare (come dimostra anche la storia delle rivoluzioni moderne) e solo a patto di assecondarne la natura profonda; chiunque tenti di opporvisi viene infatti travolto, perché non vi è nessuna possibilità di fermare la marcia della storia o di canalizzarla verso altre direzioni. Questo vale non solo per la società come fatto organizzato e istituzionalizzato (e quindi per quanto riguarda le istituzioni politiche, giuridiche, ecc.), ma vale anche per il costume e le idee.
L’immagine che richiama la storia, è quindi quella del corso di un fiume, che non si può tentare di contrastare, ma cui bisogna in qualche modo adeguarsi, stando attenti a non nuotare «contro corrente».
La prima trappola da evitare di fronte a questa constatazione è quella di cadere nell’irrazionalismo, e quindi di farsi schiacciare dal conflitto, apparentemente insanabile, tra la libertà dei singoli e il determinismo dei processi storici che a prima vista sembra casuale. Sulla base di questo atteggiamento, infatti, diventerebbe assolutamente insensata qualsiasi ipotesi di azione politica, che se pensata e perseguita in un contesto dove l’unico meccanismo evolutivo è il caso, non potrebbe implicare nessuno scopo, né prevedere alcun mezzo. E, in ultima istanza, condannerebbe gli uomini all’impotenza, con tutte le conseguenze morali che ne deriverebbero.
L’unico modo per evitare questo rischio è proprio quello di cercare di teorizzare il carattere di questa forza irresistibile e di capire, quindi, questa «logica dell’accadimento». Impegnarsi a conoscere i meccanismi alla base del processo storico è dunque il passo indispensabile per poter esercitare un’azione politica controllata, capace di individuare le possibilità di intervento su tali meccanismi per controllarne gli effetti, elaborando una tecnologia politica. Con la consapevolezza che questa possibilità di conoscere corrisponde, per gli uomini, alla possibilità di affermare la libertà nella storia e di appropriarsi del proprio futuro.
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Nel pensiero di Marx si trova un’intuizione che sembra permettere di andare in questa direzione. Questa intuizione è contenuta appunto nel materialismo storico, e riguarda l’evoluzione del modo di produrre. Secondo Albertini, partendo da questa prima ipotesi è possibile ricostruire il primo abbozzo della teoria del corso storico e fare i primi passi in direzione di un atteggiamento scientifico nello studio della realtà sociale.
La difficoltà maggiore nel riconoscere nel materialismo storico l’inizio di un’elaborazione scientifica è dovuta principalmente a due fatti: il primo è che la formulazione di Marx non è sufficientemente univoca e chiara, come spesso succede nelle fasi iniziali delle grandi scoperte; il secondo è quello di essere generalmente considerato un elemento all’interno della teoria generale del marxismo: nella misura in cui questa non è una teoria coerente, finisce addirittura con il nascondere le scoperte teoriche di Marx, impedendo di confrontarsi direttamente con esse. Ciò che Marx ha elaborato andrebbe studiato come si studiano le teorie nel campo della scienza, analizzandole e verificandole con spirito obiettivo, cercando di perfezionarle nella misura in cui si dimostrano fruttuose e usandole come base di partenza per ulteriori scoperte. Nessuno parlerebbe mai di «einstenismo», pretendendo di valutare le scoperte di Einstein a partire da un sistema generale ricavato da una summa del suo pensiero e di quello dei suoi «seguaci» (termine che sarebbe già fuori luogo in ambito scientifico). Analogamente questo atteggiamento è privo di fondamento nei confronti di Marx, specie nella misura in cui si prendono in considerazione i suoi contributi teorici in campo storico-sociologico.
Il marxismo va dunque innanzitutto precisato: o si tratta del pensiero e della vita di Marx, e quindi di una questione storico-biografica, che come tale deve essere studiata; oppure è il pensiero nato dai contributi successivi e dalle diverse interpretazioni delle opere di Marx (il «marxismo di tutti», come lo definiva Albertini[6]) e in questo caso va affrontato come un problema o storico, o politico o sociale.
Nella misura in cui si vuole analizzare il materialismo storico bisogna quindi concentrarsi esclusivamente sul pensiero di Marx, individuare quando, come e perché egli se ne è occupato e da lì poi procedere all’esame dei testi in cui questo problema viene affrontato.
Marx ha attraversato tre diverse fasi nella sua vita attiva di studioso e di pensatore: la prima, molto breve, fin verso la fine del 1844, è quella filosofica, cui risalgono i saggi di critica alla filosofia di Hegel; la seconda, essa pure brevissima — dalla fine del 1844 fino al 1846 — è quella in cui si è occupato del materialismo storico; la terza, a partire dal ‘46, è quella in cui si è dedicato completamente allo studio della società del suo tempo e non ha più ripreso, di fatto, o cercato di rielaborare la questione del materialismo storico. La fase intermedia, quella in cui studia appunto la possibilità dell’esistenza di una legge di sviluppo della storia, e in cui crede effettivamente di scoprirla, è quella che gli permette di passare dallo stadio filosofico-idealistico a quello cosiddetto scientifico.
Marx inizia come liberale, appassionato di studi di filosofia e di storia, ma la forte reazione morale di fronte alle profonde ingiustizie della società in cui vive lo convincono che la filosofia del suo tempo non gli fornisce gli strumenti adeguati nella misura in cui egli vuole conoscere per agire. La sua ricerca, animata da un intenso spirito rivoluzionario, lo porta sicuramente ad abbracciare anche il comunismo utopistico.[7] E’ molto probabile che questa ipotesi rimanga in qualche modo sospesa nella sua mente. I Manoscritti economico-filosofici del 1844 (in cui pure Marx tenta di porre le basi filosofiche di una teoria del comunismo) sono, al tempo stesso, ancora imbevuti di una visione liberale dei problemi politico-sociali, in base alla quale le ingiustizie economiche e sociali dipendono dalla mancanza di democrazia, dalle insufficienze del sistema politico. La sua adesione al socialismo utopistco, in ogni caso, precede la stesura dell’Ideologia tedesca, che è l’opera del 1845 in cui egli affronta, appunto, il tema del materialismo storico: e infatti nell’opera se ne trovano molte tracce.[8]
Quando egli si porta sul terreno dello studio delle leggi della storia ha dunque una molteplicità di scopi (che richiamerà poi anche nella prefazione a Per la critica dell’economia politica), che vanno dal voler elaborare a fondo le ragioni del contrasto suo e di Engels con la filosofia tedesca del tempo — che significa innanzitutto fare i conti con la loro stessa coscienza filosofica — al tentativo di «capire se stessi», cioè di elaborare una concezione scientifica della storia e gli strumenti per capirne i meccanismi. Una volta compiuta questa operazione che sembra aver portato alla comprensione delle leggi di sviluppo della storia, per Marx diventa possibile dedicarsi allo studio scientifico della società, muovendosi in una prospettiva che è confermata dalla certezza della previsione: il comunismo ha una base scientifica e in quanto tale non sarà il risultato semplicemente della realizzazione di un’aspirazione politica o morale, bensì sarà il frutto dell’evoluzione oggettiva della storia.
Tutti questi elementi sono da tenere in massima considerazione nell’affrontare lo studio del materialismo storico, in particolare nell’Ideologia tedesca (che è il testo fondamentale sotto questo profilo, quello che contiene davvero il tentativo di elaborazione teorica). Se, infatti, si vuole recepire ciò che di nuovo e determinante è contenuto in questa teoria marxiana bisogna fare innanzitutto un lavoro critico. Del resto qualcosa di utile questa teoria deve contenere, visto che è ormai impossibile prescindere totalmente da molte intuizioni della concezione materialistica della storia cui tanti studiosi, anche non marxisti, si sono richiamati e ancora si richiamano; queste intuizioni, infatti, ricorrono frequentemente, anche se spesso in modo confuso e soprattutto non controllato, nell’opera sia degli storici che dei sociologi.
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A proposito del lavoro critico da fare per comprendere effettivamente la valenza del nucleo teorico centrale del materialismo storico — lavoro che deve portare in qualche modo a cercare di «entrare nella testa» di Marx per capirne la logica —, la prima osservazione da fare è che l’Ideologia tedesca è un testo molto difficile, principalmente per due ragioni: la prima è che un testo elaborato solo in modo incompleto. Le vicende del manoscritto«abbandonato alla critica roditrice dei topi» sono arcinote, ma generalmente nel prendere in esame il contenuto si tende a non tenerne conto. Invece è importante essere consapevoli che Marx ha avuto queste intuizioni, in qualche modo folgoranti, ma poi non ha avuto il tempo, o la possibilità, o non ha sentito il bisogno, di rivederle e di riprenderle per controllarne e migliorarne la coerenza. Gli appunti sparsi nel testo sono una dimostrazione evidente del fatto che la parte teorica doveva ancora essere riscritta e rimessa in ordine. La seconda ragione è che in questa opera si mescolano l’elaborazione dei concetti in base ai quali studiare la storia e uno schizzo di storia raccontata secondo questo nuovo punto di vista, anche se non sempre Marx riesce a mantenere la coerenza con esso. Questo continuo passare dal ragionamento sui concetti — che però non vengono mai elaborati sino in fondo — al ragionamento sui fatti, senza distinguere chiaramente le due parti, implica che si debba fare un faticoso lavoro di scomposizione e ricomposizione del testo separando la parte teorica da quella del racconto per poterle analizzare a fondo.
La seconda osservazione riguarda proprio la ricostruzione storica fatta in base ai nuovi schemi materialistici presente nell’Ideologia. Ad Albertini sembrava incontrovertibile il fatto che questo schizzo fosse in gran parte il frutto del comunismo utopico che Marx aveva in qualche modo recepito e interiorizzato. Vale a dire che, nel momento in cui Marx si allontana dalla concezione liberale (che implica una visione della storia legata alle tappe di sviluppo dell’affermazione della libertà e che quindi dà molta importanza agli avvenimenti ad essa legati, come, ad esempio, il fattore religioso, in primo luogo lo stesso cristianesimo e la Riforma, oppure quello politico, ecc.) per cercare di elaborare nuove categorie interpretative che rovesciano completamente tutti i punti di vista validi fino a quel momento, non può ipso facto ricostruire immediatamente tutta la storia dal punto di vista materialistico. Marx, in realtà, aveva già tutto questo nella sua mente, ma senza aver elaborato prima con chiarezza gli schemi di comprensione.[9] Di conseguenza, questo primo schizzo che si mescola all’elaborazione delle categorie teoriche, e che porta a confondere il piano dei fatti e quello dei concetti non aiuta a comprendere la sostanza del nucleo teorico e dimostra solo, come già si diceva, che quest’ultimo non era ancora pensato fino in fondo ed era ancora intriso di idee precostituite, acquisite per altre che sono spiegabili solo facendo riferimento alla tradizione del socialismo utopistico. Di questo ci sono alcuni riferimenti precisi. Egli stesso riterrà utopistica la sua concezione del lavoro in questa opera, così come non può non essere considerata utopistica l’affermazione in base alla quale la società socialista, che corrisponde al regno della libertà, regolerà la produzione generale in modo tale da non costringere nessuno ad un’attività definita, ma permetterà a tutti di perfezionarsi in ogni tipo di attività, e ciascuno sarà libero di fare un giorno una cosa e il giorno dopo un’altra, in base ai propri desideri. Altri riferimenti sono più difficili da individuare, come quello che riguarda, nell’interpretazione della storia, la centralità del criterio relativo alla questione della proprietà privata, su cui si tornerà nel corso dell’analisi del testo marxiano.
Occorre quindi essere consapevoli che nel pensiero di Marx rimangono elementi non pensati fino in fondo, di carattere utopistico, non «scientifici», e che essi si confondono con i nuovi concetti; per valutare appieno questi ultimi bisogna dunque separarli dai primi, anche al fine di portare a termine la loro elaborazione.
Del resto era impensabile che Marx potesse, in un colpo solo, scoprire una nuova concezione — che già di per sé rappresenta un’enorme fatica intellettuale — e su questa base ripensare tutta la storia, ricostruendola ex novo sulla scorta delle nuove categorie. Sia perché questo lavoro immenso può avere successo solo a partire da categorie ormai perfettamente coerenti e prive di ambiguità,[10] sia perché ai tempi di Marx la percezione della metodologia scientifica era ancora agli albori. La scienza progrediva rapidamente, ma il livello della riflessione sul modo in cui essa procedeva, sui metodi che usava, non era ancora sufficiente per stimolare una riflessione di questo tipo nel momento in cui si apriva, da pionieri, la via nel campo delle scienze sociali; addirittura, non esisteva ancora neppure una piena consapevolezza della distinzione tra scienza e filosofia in questo settore e quindi era impensabile che si potesse avere coscienza della necessità di rifinire una teoria per renderla pienamente operativa.
Oggi noi sappiamo che, innanzitutto, è necessario trattare sempre come un’ipotesi da vagliare la prima intuizione da cui partiamo per elaborare un pensiero nuovo. E per poterla vagliare, questa ipotesi deve essere innanzitutto formulata in termini assolutamente precisi e coerenti, che impediscano qualsiasi ambiguità, perché questo è l’unico modo per poterla verificare. Poi essa va verificata rispetto ai fatti cui si riferisce: si deve controllare quali fatti permette di vedere con chiarezza, e quali invece nasconde. Il risultato di questa prima verifica permette di tornare alla teoria per capire quale parte di essa resta valida e quale deve invece cadere e per affinare la formulazione; dopodiché si torna nuovamente a verificarla tramite i fatti. Questa spola deve continuare finché non si arriva ad una ricognizione empirica soddisfacente e ad una teoria coerente. Solo a questo punto l’ipotesi diventa effettivamente una teoria che può essere impiegata per vagliare le conoscenze preesistenti. E un modo, per quanto a prima vista possa apparire grossolano, per avere la conferma che una teoria è soddisfacente è che, nel tempo, essa viene man mano accettata da tutti (almeno tendenzialmente).
Questo fatto dell’accettazione di una teoria, in primis da parte della comunità scientifica, nel caso della concezione di Marx, da un lato dimostra il fatto che in essa esiste qualcosa di potente, concettualmente, perché altrimenti non avrebbe potuto avere una simile influenza nel mondo per più di cento anni. E dall’altro dimostra che queste teorie non sono ancora qualcosa di chiaro e di definito, di scientifico, perché hanno dato vita ad interpretazioni totalmente diverse e contraddittorie, fino ad essere ritenute al tempo stesso un metodo e una conoscenza (due cose antitetiche); e solo l’escamotage della dialettica, che è incompatibile per definizione con un pensiero scientifico, proprio perché non fissa mai in modo definitivo l’oggetto, ha permesso di camuffare — a fronte di esami troppo poco attenti — tutte le incompatibilità.
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Albertini ha provato a fare per moltissimi anni questo lavoro di verifica e di controllo (cosa che non aveva potuto fare Marx), ben consapevole del fatto che anch’egli tentava una via che avrebbe a sua volta richiesto una revisione critica da parte della comunità degli scienziati sociali. Albertini sapeva sin troppo bene che quando si cerca di aprire una strada nuova, difficilmente si raggiunge il risultato migliore da subito; ma credeva anche profondamente che la grandezza del pensiero scientifico è proprio quella di crescere grazie a questi tentativi e alle correzioni che chi segue può apportare, risparmiandosi la fatica di dover partire da zero e sfruttando le intuizioni di chi aveva iniziato. Il risultato cui pensava di essere giunto era quello di avere espresso una formulazione chiara, ed era convinto che questo potesse essere un contributo utile proprio perché le formulazioni chiare possono essere utilmente vagliate e criticate, e proprio per questo costituiscono un passo avanti nella conoscenza.
E’ utile infine ricordare, anche se forse appare scontato da quanto già detto, che questo lavoro compiuto da Albertini non si inserisce nella tradizione del marxismo, inteso come «fatto storico-sociale» per usare la sua definizione, cioè nella corrente di pensiero che si è ispirata alle opere di Marx e dei suoi interpreti successivi. Albertini si confrontava ovviamente con questi autori e ne accoglieva gli apporti che trovava illuminanti. Ma nessuno di essi ha mai affrontato negli stessi termini la questione del materialismo storico, ponendosi il problema di una sua rielaborazione critica e del suo confronto con i fatti. Ha sempre prevalso un certo dogmatismo che ha portato piuttosto a cercare di piegare i fatti alla teoria, senza prendere in esame le contraddizioni di quest’ultima, col risultato di svuotarne le parti valide, e di renderla uno strumento concettuale sempre più sterile. Se invece, come Albertini credeva, ci sono nelle intuizioni di Marx le basi per compiere un passo cruciale nella direzione della conoscenza dei processi storico-sociali, è importante che questo esaurirsi del marxismo generico lasci il posto ad uno studio obiettivo del suo pensiero.
La rielaborazione critica del materialismo storico.
Il punto di partenza dell’analisi di Albertini è, come già si diceva, l’Ideologia tedesca. E’ in questo testo che si trova l’elaborazione più avanzata, anche se si deve sempre tenere presente che non è un’opera compiuta. Gli scritti precedenti del 1844 presentano molte prefigurazioni, specie i Manoscritti, ma sono formulazioni ancora in gestazione, e non sono quindi utili per un lavoro di rielaborazione. Infine ci sono alcuni ritorni sull’argomento, ritorni nel senso di riflessioni su un tema che Marx considerava ormai chiuso, e queste si trovano nella prefazione a Per la critica dell’economia politica e in alcune lettere.[11]
Per riuscire a lavorare in modo rigoroso sulle ipotesi di Marx, la prima cosa, come già si diceva, è tenere presente che l’elaborazione che egli ha potuto fare era necessariamente limitata sotto il profilo della metodologia scientifica (cosa, come già si ricordava, inevitabile visti gli strumenti di cui poteva disporre sotto questo aspetto nel 1845) e che quindi bisogna cercare di fare al suo posto il lavoro di continuo rimando tra la teoria e i fatti, necessario per poter illuminare con chiarezza questi ultimi e rendere coerente la prima. Ora, è ovvio che i fatti «appaiono» solo all’interno di una schema concettuale, senza il quale non siamo neanche in grado di vederli, e che quindi il riferimento reciproco è continuo. Bisogna allora procedere con molta cautela e non pretendere di anticipare nessun passaggio.
Sembra evidente che Marx, nel momento in cui ha avuto l’intuizione di rovesciare il punto di vista idealistico e di provare a partire dalla produzione materiale per spiegare la caratteristica fondamentale dell’uomo, abbia isolato, tra tutti quelli che aveva a disposizione, una serie di fatti (il socialismo, la lotta di classe, la proprietà privata, l’alienazione, ecc.) che, grazie a questo nuovo schema concettuale, hanno acquisito immediatamente un nuovo significato, gli sono apparsi collegabili e gli hanno dato l’impressione di aver trovato il filo conduttore che permetteva di capire in quale direzione si stava incanalando la storia. A questo punto dell’esame si è ritenuto soddisfatto e ha sospeso l'analisi, senza fermarsi ad indagare se questi fatti erano tutti compatibili gli uni con gli altri, se erano tutti effettivamente spiegabili sulla base del presupposto teorico da cui era partito, e senza indagare a fondo la coerenza delle formulazioni delle sue ipotesi di partenza. E’ proprio questo tipo di indagine che invece bisogna fare.
Il dato di partenza è quindi necessariamente questa intuizione di Marx della centralità della produzione come punto di vista per rileggere tutta la vita degli uomini e la loro storia. Una volta adottato questo criterio, bisogna andare a controllare quali fatti diventano visibili a partire da esso. Per stabilirlo, Albertini riteneva che però non si dovesse seguire Marx alla lettera, proprio perché il sospetto che in lui questo passaggio fosse stato troppo veloce porta a ritenere che siano rimasti nel suo orizzonte visivo elementi precostituiti, che erano precedenti alla scoperta teorica. Occorre quindi limitare il campo di indagine a quei fatti che risultano immediatamente a partire da questa nuova angolatura, già presente in qualche modo negli scritti del 1844-45 precedenti all’Ideologia. E ciò che diventa chiaramente visibile a partire dal concetto di produzione, nel momento in cui, con Marx, esso assume questa nuova valenza e diventa il fondamento e il contenuto della vita umana, è che l’intera società è descrivibile sotto forma di articolazione di quello che egli definisce il modo di produzione.
Innanzitutto il modo di produzione determina la divisione del lavoro. Persino al livello elementare della caccia, della pesca e della raccolta del cibo, si impongono già delle specializzazioni e delle regole cui tutti devono ubbidire, pena l’impossibilità di produrre: tutte queste funzioni necessarie alla produzione sono le forze di produzione.[12]
Analogamente emergono i rapporti di produzione che sono anch’essi il prodotto della divisione del lavoro: a diverse specializzazioni corrispondono diversi ruoli nella società, che devono essere coordinati e codificati affinché sia garantito lo svolgimento ordinato delle funzioni di ciascuno.
Ci sono poi gli strumenti di produzione, che sono sia gli strumenti fisici che quelli mentali: dalla pietra scheggiata alle più sofisticate apparecchiature elettroniche nel primo caso, a tutte le conoscenze necessarie a garantire i diversi stadi della produzione nel secondo caso. Per cui sono strumenti di produzione le scienze, senza le quali non si possono fare determinate produzioni, ma lo è anche la concezione che l’uomo ha di se stesso, che deve essere compatibile con i rapporti di produzione; le stesse concezioni filosofiche, politiche, religiose sono dunque da annoverare tra gli strumenti di produzione. Si inizia qui ad entrare in relazione con il concetto di ideologia, ma, per il momento, conviene esaurire il discorso che riguarda l’articolazione della produzione e riprendere quello di ideologia nel corso dell’esame successivo.
L’ultimo elemento, che è quello che è formulato con meno precisione in Marx, è quello dei bisogni di produzione. I bisogni dell’uomo sono innanzitutto quelli biologici, che devono essere soddisfatti per garantire la sopravvivenza; ma ciò che distingue gli uomini dagli animali è che a questi primi bisogni biologici si affiancano quelli storico-sociali che l’uomo stesso crea introducendo la dimensione della produzione: entro i limiti stabiliti fisicamente dai bisogni biologici, gli uomini sopravvivono quindi anche ad un livello storico-sociale che è dato dagli strumenti di produzione e dalla loro evoluzione. Questi bisogni sono appunto il frutto delle modificazioni dei comportamenti umani introdotte dagli strumenti di produzione; e il rapporto tra l’introduzione di uno strumento e la nascita di un nuovo bisogno si può dire che è una costante del processo.
Queste prime formulazioni sono, a parere di Albertini, delle scoperte — empiriche, in prima istanza — che permettono di cogliere effettivamente l’aspetto storico-sociale della natura umana che prima rimaneva nascosto. E permettono inoltre di cogliere il legame necessario che esiste tra un certo tipo di produzione e la quantità e la composizione della popolazione. A seconda del modo di produzione il numero di abitanti in un dato territorio varia dalle poche decine di migliaia con il modo caccia e pesca alle centinaia di milioni con il modo di produzione industriale avanzato. La stessa composizione sociale è rigidamente contenuta in un arco limitato di possibilità che devono essere compatibili con il funzionamento della produzione. La dominazione all’interno della comunità, quindi, non emerge per brama di potere dei singoli, ma come esigenza di garanzia dei rapporti di produzione; ad esempio, è solo con la produzione agricola che emerge — come necessità — la grande divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. Più evolve il modo di produrre, più è complesso l’insieme dei rapporti di produzione che devono essere garantiti per permettere il funzionamento del sistema e maggiore diventa quindi l’esigenza di regole, con tutto quello che queste implicano anche sul piano della conoscenza, della politica in senso lato, della concezione del mondo (per cui a loro volta queste ultime sono condizione necessaria per lo sviluppo di un certo modo di produzione). Emerge da tutto ciò una riflessione cruciale, e cioè che la possibilità dell’emancipazione della società (quindi la realizzazione del progetto di una comunità libera e giusta, fondata sull’uguaglianza) è innanzitutto legata all’evoluzione del modo di produrre e che finché sussiste una produzione (come può essere quella industriale) che si fonda sull’esigenza di una divisione del lavoro in cui ci sono lavoratori subordinati e destinati a mansioni poco qualificate, il germe della disuguaglianza, che oggettivamente rimane nei rapporti di produzione, non può essere eliminato.[13]
Nell’analisi degli strumenti di produzione rientra, come già si accennava, il concetto di ideologia,[14] che Marx formula per la prima volta, introducendo un nuovo criterio di analisi del pensiero che mette in luce una dimensione prima sconosciuta. Si era visto che tra gli strumenti di produzione sono da annoverare anche le concezioni politiche, religiose, filosofiche, che rispecchiano i rapporti di produzione e che quindi permettono, in sostanza, di mantenere il consenso riguardo ad essi. Questo significa che sono concezioni che non si formano in base ad un rapporto diretto con l’oggetto da conoscere, ma in base ai rapporti di potere necessari alla sopravvivenza della società. Il mondo della conoscenza si rivela dunque a tre dimensioni: non solo la dimensione del soggetto che conosce e quella dell’oggetto da conoscere, ma anche quella dei rapporti e delle forze di produzione che precostituiscono la nostra capacità di sentire, di vedere e di capire. La mente dell’uomo non è perciò uno specchio capace di riflettere la realtà in modo obiettivo, salvo fare errori, ovviamente, ma che rientrano nella possibilità di questo rapporto diretto tra soggetto che conosce e oggetto conosciuto; piuttosto, i condizionamenti sociali sono, nella maggior parte dei casi, elementi che addirittura rovesciano la realtà e ce la fanno vedere in qualche modo capovolta. Uno degli esempi più evidenti e conosciuti a questo proposito è la concezione di Aristotele che gli schiavi fossero tali perché quella era la loro natura, e che quindi per loro fosse addirittura una fortuna avere un padrone che si occupava di loro. E’ evidente che Aristotele conosceva benissimo le circostanze che portavano gli uomini a diventare schiavi, ed è altrettanto evidente che Aristotele era capace di ragionare in termini non ideologici in moltissimi campi. Ma il sapere che gli schiavi erano soprattutto prigionieri di guerra e il pensare che la schiavitù è un fatto naturale convivevano in lui senza problemi.
Marx non si sofferma a lungo ad analizzare i fondamenti di questo concetto, ma spiega bene come il fenomeno del prevalere in ogni epoca del pensiero della classe dominante si accompagni anche all’accettazione di tale pensiero da parte delle classi dominate. Su questa base, riflettendo a posteriori su questa scoperta marxiana, possiamo addirittura parlare di un’esigenza imposta dalla necessità di garantire la sopravvivenza della comunità, sopravvivenza subordinata al funzionamento della produzione, che a sua volta è garantita solo da un certo tipo di organizzazione che implica disuguaglianze e privilegi, che tutti devono considerare come fatti naturali. Se non ci fosse questo meccanismo del pensiero che viene interiorizzato, sia dai dominanti che dai dominati, ben presto la realtà si scontrerebbe con l’emergere della consapevolezza — che infatti si trova nel pensiero libero filosofico o religioso — dell’uguaglianza di tutti gli uomini, e la ribellione sarebbe inevitabile. Invece quello che accade è un fenomeno di sdoppiamento della coscienza e di automistificazione, ovviamente inconscio, che permette di far convivere nella nostra mente idee contraddittorie come quella cristiana dell’uguaglianza di tutti gli uomini e il fatto di accettare al tempo stesso come immodificabili le differenze create dalla società. E’ importante notare che la caduta di questo velo ideologico che nasconde la realtà dei rapporti di sopraffazione avviene solo nella misura in cui tali rapporti non coincidono più con le esigenze della produzione, cioè nel momento in cui essi non sono più veri rapporti di produzione. Il rifiuto di un pensiero ideologico, il suo svelamento, in qualche modo, non avviene mai su basi puramente teoriche, ma sempre in coincidenza del fatto che c’è un cambiamento nella situazione di potere che esso giustificava.
Questa scoperta di Marx permette dunque di capire che l’uomo non solo è capace di conoscenza, ma anche di automistificazione e che il nostro cervello in alcuni casi funziona per indagare la realtà, in altri per giustificare o nascondere la realtà sociale. Il problema ora è capire fino a dove si estende questo meccanismo mentale. Marx infatti non sembra aver risolto questo problema: se con la sua intuizione ha aperto un nuovo campo di indagine, di fatto sconosciuto fino a quel momento, ha anche commesso l’errore al tempo stesso di dare per scontato che tutto il pensiero fosse ideologia, forse ingannato dalla sua stessa osservazione — peraltro corretta — che il pensiero come attività autonoma si può manifestare solo in concomitanza della nascita della divisione tra il lavoro intellettuale e quello manuale nella società agricola; e su questo nodo teorico non è più ritornato. Ora, il punto è che non è vero che tutto il pensiero è ideologico ed è riflesso passivo dei rapporti di produzione; non è vero empiricamente, prima ancora di doverlo teorizzare. Se tutto il pensiero fosse passivo non si spiegherebbe neanche la scoperta della pietra scheggiata, e in generale la nascita degli strumenti fisici di produzione. Ogni innovazione tecnica, di qualsiasi livello, è per definizione un atto di innovazione, e come tale è libero. Così come sono libere la matematica (due più due fa quattro indipendentemente dal contesto in cui ci poniamo), la logica, le scienze e probabilmente, almeno in larga parte, tutte le manifestazioni più alte del pensiero, dalla filosofia, alla religione, all’arte, anche se, soprattutto per queste ultime, c’è sempre la possibilità di un uso ideologico. In generale, quando c’è conoscenza vera, e la storia dell’umanità è piena di esempi di conoscenza vera, non c’è pensiero ideologico, ma pensiero attivo, libero, anche se, generalmente, da parte di individui isolati. Una gran parte del pensiero degli uomini è sicuramente ripetitivo; anche nelle attività complesse, una volta che si è imparato a svolgerle, la tendenza è quella dell’applicazione meccanica. Ma questo non deve cancellare l’esperienza reale, per quanto rara, del pensiero come innovazione. Il farlo, come è successo a Marx e soprattutto come è stato in seguito acquisito nella cultura corrente, porta a gravi contraddizioni che minano la teoria marxiana, la quale in questo modo non è più in grado di spiegare l’innovazione e di dar conto della realtà. Molte delle difficoltà e delle cadute nel dogmatismo del marxismo (inteso qui come pensiero post-Marx) sono imputabili anche a questo errore, che non è stato rilevato e corretto e, insieme alle altre contraddizioni inevitabilmente presenti nella formulazione marxiana — poco precisa per le ragioni che abbiamo più volte richiamato — ha impedito che le verità del pensiero di Marx emergessero in tutta la loro grandezza.
Resta comunque da sottolineare il fatto che, ad ogni modo, quanto abbiamo sinora descritto della produzione e della sua articolazione non è in grado di spiegare il pensiero attivo. Se l’esperienza in generale ci impedisce di negare tale tipo di pensiero, è altrettanto vero che all’interno di questo modello esso resta un fatto non chiarito. Quello che infatti questo modello può illuminare sono i determinismi che sottendono la realtà storico-sociale dell’uomo, non gli atti liberi. Il punto, per essere precisi, è quindi riconoscere che questa teoria non può spiegare la libertà e l’innovazione, ma non può neppure negarli; essa dà conto di una dimensione dell’esistenza umana, quella storico-sociale, ma non può pretendere in questo modo di esaurire la totalità dell’esistenza umana. Vedremo in seguito che rapporto si può stabilire tra questi diversi elementi.
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Questo punto di vista che Marx ha fondato ci permette anche, pur restando ancora fermi al livello della descrizione empirica svolta sinora, di individuare i meccanismi di base del dinamismo storico. Prima, le ragioni per cui la storia avanzava, si «muoveva», risultavano oscure. Di fatto si davano spiegazioni ideologiche o idealistiche che non chiarivano i meccanismi profondi. Con Marx invece questi meccanismi diventano comprensibili a partire dalla constatazione che i cambiamenti nel modo di produrre creano nuovi bisogni: quando si inserisce un nuovo strumento di produzione, questo opera una trasformazione a livello dei comportamenti, del modo di pensare, e questo fatto a sua volta crea nuovi bisogni a livello della sfera storico-sociale; i nuovi bisogni a loro volta agiscono sul sistema, modificandolo, ed è sicuramente plausibile pensare che il cumulo dei nuovi bisogni che man mano si creano e delle risposte che questi ingenerano arrivino fino al punto di far cambiare il modo di produzione. Si può pensare, come esempio, a come il modo di produzione agricolo abbia via via creato nuovi bisogni, per rispondere ai quali il sistema si è complicato, si è esteso, si è rafforzato, in tutti i settori: in quello della conoscenza (fino ad arrivare alla nascita della scienza moderna), in quello della tecnologia, in quello dell’artigianato, in quello dell’economia, ecc. C’è una crescita complessiva della società ed un progressivo trapasso che può — come si è di fatto verificato — ad un certo punto sfociare in un salto brusco, in un cambiamento profondo che porta su un nuovo modo di produzione. Un dinamismo, quindi caratterizzato da cesure profonde, da mutamenti radicali, anche se non frequenti.
E’ importante notare, prima di proseguire, che il determinismo del movimento dinamico della storia che viene così messo in luce è sempre ex post. Questo modello permette infatti di individuare i nessi causali alla radice delle trasformazioni storico-sociali, e quindi di comprenderle e di spiegarle; ma non pretende al tempo stesso di prevederle. Non è infatti anticipabile (né spiegabile con questo criterio, proprio per la sua natura libera cui si è già fatto riferimento) l’innovazione (l’introduzione del nuovo strumento fisico di produzione che avvia il generarsi dei nuovi bisogni e che può essere a sua volta la risposta ad esigenze profonde, oppure, invece, una soluzione geniale a problemi secondari); non è prevedibile automaticamente il tipo di bisogni che ne conseguirà, perché essi dipendono dalle condizioni concrete della società, e neppure la risposta che ad essi, se sorgono, verrà data; e infine non sono automatici i cambiamenti che si generano in seguito all’attivarsi di questo meccanismo. Solo ex post questo schema che parte dal punto di vista della produzione permette di capire sia perché certe trasformazioni di fondo della vita sociale si sono verificate, sia perché non si sono verificate. Nella storia infatti non c’è solo il mutamento continuo, c’è anche la stasi, la fine delle civiltà, il crollo degli imperi.
La storia procede quindi per grandi tappe, perché, finché un modo di produzione perdura nelle sue caratteristiche essenziali, anche tutti gli altri elementi della vita storico-sociale mantengono le stesse caratteristiche di fondo. Come appariva chiaro dall’analisi dell’articolazione del concetto di produzione, la quantità della popolazione è determinata (nella sua forbice di variabilità) dal modo di produzione; lo stesso vale per la composizione sociale della popolazione e per il tipo di cultura, di esperienza e di mentalità diffuse. Non in modo rigido e assolutamente univoco, ovviamente, ma all’interno di una possibilità di opzioni limitate e determinate. Nel momento in cui si ha il passaggio ad un nuovo modo di produzione, si verifica un processo di accelerazione molto forte, i comportamenti cambiano profondamente, la quantità della popolazione inizia ad aumentare e continua a crescere fino a che rimane compatibile con il nuovo tipo di produzione; la composizione sociale della popolazione cambia completamente, aumentano la scolarizzazione e il numero delle persone che partecipa al sapere orale e scritto e, in base a quanto cresce il pensiero controllato, il pensiero scientifico e filosofico, di tanto aumenta anche la capacità di libertà della società e crescono i processi di democratizzazione e di socializzazione.
Questo punto di vista consente quindi di capire sia gli aspetti dinamici della storia, sia le ragioni per cui, quando si è all’interno di un sistema produttivo stabile, i cambiamenti che si manifestano nella società (all’interno di quel quadro determinato relativo alle caratteristiche fondamentali della popolazione delineato prima), sono da imputare alla politica, al diritto, all’economia, alla scienza, alla religione, ecc. Mentre quando cambia il modo di produzione le trasformazioni devono essere riferite in prima istanza a questo cambiamento. Quando si cerca una spiegazione a determinati cambiamenti avvenuti in una data epoca nella società questo criterio estremamente generale di approccio all’indagine si rivela decisivo per una corretta comprensione dei processi avvenuti.
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Se questa ricostruzione è plausibile — e così parrebbe, dal punto di vista della ricognizione empirica, pur essendo relativamente lontana dalle formulazioni di Marx — bisogna allora passare da questa prima identificazione dell’ordine dei fatti, che il materialismo storico (in ipotesi) chiarisce, ad un nuovo controllo della teoria, per vedere se essa effettivamente è capace di isolare, descrivere e spiegare questi stessi fatti senza ambiguità e confusioni.
Prima però, occorre fare una premessa. Questa serie di operazioni compiute da Albertini per cercare di avanzare lungo la strada impostata da Marx — cioè una teoria scientifica dell’evoluzione della storia sotto il profilo della dimensione storico-sociale — si muove su un terreno ancora poco conosciuto. Per questa ragione Albertini si soffermava spessissimo sulla riflessione metodologica, cercando di chiarire fino in fondo le modalità attraverso cui procedeva. Il punto di arrivo del lavoro gli sembrava piuttosto chiaro: bisognava arrivare ad una teoria scientifica, in quanto tale fondata su un linguaggio interpretabile in modo univoco (quindi, per definizione, una teoria che non potesse più essere letta attraverso un’interpretazione filosofica, perché i due campi si escludono l’un l’altro) e che in ultima istanza avrebbe trovato la sua verifica definitiva (necessariamente pubblica) nella pratica, vale a dire che avrebbe dimostrato di essere valida nella misura in cui, nel tempo, tutti l’avessero riconosciuta come tale. Il tutto con la consapevolezza che la scienza è un processo che non è mai racchiuso in un libro o in una singola scoperta, ma che è in continua rielaborazione.
Come arrivare a questo traguardo della elaborazione scientifica della teoria, è invece una strada ancora in parte da scoprire nel campo storico-sociale. Nel suo caso specifico, ad esempio, Albertini arrivato a questo punto dell’analisi si rendeva conto di aver dovuto usare, in questa prima fase, lo strumento della descrizione per poter rappresentare la realtà storico-sociale alla luce della griglia dei concetti derivati da quello della produzione. E l’utilizzo della descrizione in questo caso è da specificare, perché si tratta di una descrizione che ha dei limiti strutturali: è innanzitutto una descrizione congetturale, ipotetica, dato che non è riferita ad una situazione storica specifica, concretamente verificatasi; e il suo oggetto sono i tratti costanti che si ritrovano nell’esperienza umana e che si ritroveranno fino a che gli uomini non cambieranno natura. Non quindi una descrizione di cose viste, una sorta di fotografia di una situazione storica, ma un’ipotesi, una congettura, la rilevazione di una legge, in qualche modo, in base alla quale si evidenzia che l’elemento della produzione ha una rilevanza sociale tale da essere decisivo per la sopravvivenza della specie umana e da determinare tutte le attività sociali.
La stessa cautela va usata nel procedere ad un riesame della teoria marxiana, alla luce di quanto emerso dalla ricognizione empirica precedente. La prudenza deriva dal fatto che è molto facile lasciarsi ingannare e non cogliere le incongruenze. Innanzitutto, nel momento in cui Marx, come punto di partenza della sua indagine, dichiara di rifiutare in blocco l’idealismo hegeliano (perché questo è il vero avversario con cui si confronta), per il fatto che esso stabilisce che cos’è l’oggetto del suo studio prima ancora di averlo iniziato a studiare, in quello stesso momento egli si pone il problema di dover partire da zero. La sua elaborazione teorica non può basarsi su conoscenze precostituite; quello che Marx può e deve fare è esclusivamente formulare un’ipotesi e stabilire un presupposto. Qualsiasi altra idea egli mantenga in qualche modo per avviare la sua analisi lo porta a cadere nel processo di automistificazione. Questo è quindi il primo punto da verificare nel riesame della sua teoria.
Marx riesce a compiere questa operazione del partire da zero, estremamente complessa e faticosa — e per lui impossibile da individuare con piena consapevolezza, proprio per il fatto che egli apre una strada completamente nuova — portandosi effettivamente su un terreno che coincide con quello della scienza. Il suo punto di partenza è un presupposto, l’uomo,[15] che egli non postula come entità, ma che pone in modo da doverlo ancora definire empiricamente. E dal punto di vista empirico quello che si può constatare è che l’uomo si differenzia dagli altri animali a partire dal momento in cui inizia a produrre i propri mezzi di sussistenza.
A partire da questa prima osservazione si possono trarre una serie di conseguenze. La prima, testuale in Marx, è che se questo è vero, allora gli uomini in questo modo «producono indirettamente la loro stessa vita».[16] Questa prima indicazione, che sembra pienamente coerente, permette di circoscrivere con precisione la dimensione determinata dal modo di produrre. Se, infatti, si parla di produzione indiretta si lascia da parte, senza pretendere di spiegarlo, il fattore biologico, che riguarda sia la riproduzione in senso fisico (la riproduzione che si può definire diretta della vita) sia il pensiero (qui inteso come pensiero libero e attivo, anch’esso riferibile alla sfera della biologia). Entrambi gli elementi sono, infatti, fuori dall’ambito indicato da questa osservazione.
Il problema nasce quando Marx non riesce a tenere fermo questo quadro. Sin dalle righe successive, dopo una serie di passaggi arriva infatti a sostenere che ciò che gli individui sono «coincide dunque con la loro produzione, tanto con ciò che producono quanto col modo come producono. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della loro produzione».[17] Questa seconda affermazione è completamente rovesciata rispetto alla prima: mentre là si mette in evidenza il fatto che gli uomini producono indirettamente la loro vita (tramite gli strumenti di produzione) — e quindi questi strumenti si spiegano per il fatto che gli uomini li producono —, nell’ultimo passaggio si dice che gli uomini sono ciò che sono in base alla produzione, e quindi sono gli uomini che si spiegano in base agli strumenti di produzione. In questo circolo vizioso che si apre cade anche la delimitazione precisa del campo di indagine. Sempre nel primo caso, come si faceva già notare, il pensiero non viene incluso, nel senso che non si pretende di spiegarlo a partire dalla produzione: anzi, il fatto che gli uomini producano, che creino strumenti di produzione, presuppone l’atto creativo, frutto del pensiero libero. Viceversa nella seconda ipotesi, oltre al fatto che si include implicitamente anche la biologia (quando si dice vita, senza specificazioni particolari, è difficile pensare di poter escludere la sfera biologica), si pretende di spiegare anche il pensiero, riducendolo in tal modo esclusivamente ad ideologia.[18]
Questo è il punto inaccettabile, che introduce sin dall’inizio un’ambiguità pericolosa, che, oltre a preparare le condizioni perché trovino giustificazione le interpretazioni più arbitrarie, impedisce che la teoria si chiarisca fino al punto da diventare un vero strumento di conoscenza. Purtroppo analizzando con attenzione i passi si nota come egli continui a cadere in questo errore e come questo sia il vizio di origine di molte formulazioni fuorvianti. La radice di questo errore, per Albertini, è da imputare, oltre alla difficoltà oggettiva di aprire una strada completamente nuova, al fatto che nei processi mentali di Marx, nello sforzo di dare un fondamento al comunismo, si continuavano a mescolare due diverse sfere di analisi, quella filosofica e quella scientifica. Se si sta riflettendo sul piano filosofico si deve cercare di andare alla radice dell’essere, in ultima istanza, e quindi si deve cercare di spiegare la totalità dell’uomo. Fermarsi ad una dimensione che non esaurisce la realtà dell’oggetto del nostro studio, sul piano filosofico è inconcepibile. Sul piano scientifico, invece, è proprio la definizione del contesto della ricerca (e quindi la rinuncia a priori all’indagine sulla totalità) che rende possibile il successo.
Un esempio solo apparentemente banale aiuta a vedere questo fatto. Nel parlare della divisione del lavoro Marx sostiene che la prima manifestazione è data dal rapporto uomo-donna nella procreazione,[19] in cui già si stabilirebbero dei rapporti di sopraffazione e di dominio. Ora, nella misura in cui il presupposto era proprio quello di studiare ciò che distingue l’uomo dalle bestie, è chiaro che il piano del discorso non è corretto. Qui siamo in realtà a livello di biologia, in cui gli uomini hanno molto in comune con i mammiferi. Se si deve parlare di un elemento di divisione del lavoro riferendosi al rapporto uomo-donna si deve piuttosto andare ad esaminare il modo in cui si sono differenziati i ruoli sociali, e quindi spostarsi dal piano della procreazione, che riguarda esclusivamente la sfera biologica, a quello storico-sociale. Un errore di questo tipo da parte di Marx diventa facilmente comprensibile se si considera il fatto che in lui convivono queste due tendenze contraddittorie e che, nel momento in cui il suo controllo mentale si allenta, la tendenza filosofica a cercare di spiegare tutto prende il sopravvento.
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Proseguendo l’analisi del testo si trovano, come si è già anticipato in più occasioni, intervallate le une agli altri, ulteriori concettualizzazioni e i primi abbozzi di storia, in cui compare la questione della proprietà,[20] e solo dopo qualche pagina si trovano le indicazioni relative all’articolazione della produzione, dai rapporti di produzione fino ai bisogni,[21] e compaiono gli elementi che permettono di ipotizzare i meccanismi del dinamismo storico. Ancora una volta questo piano confuso dell’esposizione tende a fuorviare e può far apparire fondata l’ipotesi di uno schizzo di storia a partire dalle forme della proprietà privata. Ora, il punto è che, mentre la terminologia relativa alla produzione permette di fissare in modo preciso e univoco le caratteristiche costanti di tutte le tappe del processo storico — e in modo adeguato rispetto al livello di teorizzazione raggiunto sinora perché non introduce elementi non ancora giustificati — la proprietà entra in gioco, invece, come fatto non ancora teorizzato, che ha come unico collegamento con la teoria il fatto di essere un prodotto della divisione del lavoro, e diventa immediatamente il perno di una concezione generale che include la transizione dal capitalismo al comunismo. La cosa, a parere di Albertini, non regge. Nel momento in cui si parte dall’obiettivo di elaborare una visione generale della storia e quindi si cerca di stabilire i primi aspetti generali della situazione umana storico-sociale e di osservarne i tratti costanti, non dovrebbe emergere come centrale un fenomeno che interviene solo in momenti già avanzati della storia. L’idea della proprietà come filo conduttore del processo storico quindi, in questo contesto e a queste condizioni, non funziona e il fatto di porlo sullo stesso piano del concetto di produzione, a questo livello dell’indagine, è profondamente contraddittorio: mentre la produzione emerge da una constatazione empirica a partire dal presupposto della vita degli uomini, lo stesso non vale per la proprietà. Ancora una volta, la ragione per cui è plausibile che Marx faccia questa confusione, è spiegabile solo se si ipotizza che l’ideologia comunista, che in qualche modo si era fissata nella sua mente, tendeva a sovrapporsi alla sua indagine portandolo su elementi precostituiti che non potevano avere, in quel contesto, legittimità teorica (e non è un caso che la proprietà sia uno degli elementi fondamentali dei Manoscritti).
Molte delle formulazioni del materialismo storico, che tra l’altro sono quelle per certi aspetti che più hanno avuto successo (e mi riferisco qui anche a quelle contenute nelle pagine della prefazione a Per la critica dell’economia politica), hanno questa origine e questo vizio teorico. Ad una teoria che illumina i tratti costanti della storia, come constatazioni di fatto, si mescola un’idea della storia interpretata con i canoni del comunismo utopistico. Anche l’idea della lotta di classe deriva da questa ambiguità, ed infatti pretende di essere una teoria generale quando è evidente che si riferisce a situazioni storico-sociali che non sono costanti nel e del processo, ma fatti che compaiono a partire da un determinato stadio, e che addirittura sono particolarmente evidenti esclusivamente nella società industriale. Sono, perciò, tutt’al più, griglie di lettura della realtà contemporanea (non si pone neanche la questione qui se giuste o sbagliate sotto questo aspetto), ma diventano fuorvianti nella misura in cui viene loro attribuito carattere generale.
L’errore, comunque, forse più grave dal punto di vista teorico che si rileva nella formulazione di Marx del materialismo storico riguarda però la riduzione del modo di produrre al concetto di economia.[22] Analizzando le prime formulazioni di Marx relative al modo di produzione, si era visto che queste oscillavano da quella più riduttiva, che parlava solo di riproduzione indiretta della vita — e che era parsa la più adeguata — a quella che addirittura imputava alla produzione tutta la vita degli uomini, arrivando persino a negare qualsiasi realtà al di fuori della produzione. Ora, se questa ambiguità di esposizione tende a provocare una situazione di incertezza teorica che contribuisce alla difficoltà di mantenere stabili sia i termini che i concetti, è anche vero che essa va in una direzione ben precisa. Il fatto di identificare ad un certo punto dell’analisi il concetto di produzione con quello di economia, cioè con una delle tante parti di questo insieme complessivo che dovrebbe essere la produzione della dimensione storico-sociale della vita dell’uomo, non ha quindi nessun fondamento. E’ evidente anche in questo caso che si è verificato un sovrapporsi di piani che hanno provocato uno slittamento teorico reso apparentemente accettabile dalle oscurità delle precedenti enunciazioni e dal mescolarsi degli elementi utopistici. In base a questa riduzione, l’economia acquisisce lo status di «struttura», che determinerebbe gli altri piani dell’attività umana (la politica, il diritto, la religione, la filosofia, l’arte ecc.), declassati così al rango di «sovrastruttura». Questa formulazione ha permesso di far passare il cliché, diffusissimo — quasi un dogma anche oggi che il marxismo è aspramente criticato — che l’economia ha un primato sulle altre attività umane; ma soprattutto ha invalidato tutte le ipotesi di partenza dell’analisi marxiana, che invece hanno dimostrato di poter avere una portata innovativa di grande valore. L’errore di dividere l’attività umana in economica, religiosa, ecc. stabilendo poi una gerarchia tra le diverse sfere, non regge di fronte alla realtà, che, banalmente, vede molto più spesso il primato della politica sull’economia che non viceversa; oppure basti pensare a tutti i casi in cui il processo produttivo è dipendente dalla tecnologia, la quale a sua volta esiste nella misura in cui si è sviluppata la scienza. Ma è soprattutto sul piano teorico che le contraddizioni introdotte da questa interpretazione riduttiva diventano gravissime. Infatti, o la produzione coincide con l’intera dimensione storico-sociale della vita dell’uomo, come Marx ha più volte indicato nelle sue ipotesi di partenza, e allora costituisce un punto di vista che spiega la totalità dei determinismi in questo ambito (e la loro interdipendenza), e chiarisce effettivamente i meccanismi di base di tali processi, oppure diventa un concetto semplicemente confuso, in cui una parte dell’attività umana — di fatto limitata e dipendente a sua volta da altri tipi di attività — verrebbe a determinare tutto, ovviamente incluso il pensiero libero e la sfera biologica.
Eppure questo è un dogma che ha avuto un successo enorme, che ha permesso in qualche modo una semplificazione (e volgarizzazione) del marxismo, insieme alle altre enunciazioni sulla lotta di classe e sulla proprietà, utile a fini propagandistici (perché efficaci nell’individuare alcune caratteristiche della fase industriale e mobilitanti anche a livello di masse), ma devastanti dal punto di vista della reale comprensione dei processi generali e quindi della validità nel tempo della teoria. Basti ricordare che in questa ottica le istituzioni sono diventate una sovrastruttura priva di autonomia rispetto ai processi economici, e addirittura lo Stato è stato interpretato come un’espressione di rapporti di dominio che sarebbe stata abolita insieme a questi ultimi.
Un’ ultima osservazione riguarda la teoria delle cause del dinamismo storico che emerge dalla prefazione alla Critica, in cui la concezione del materialismo storico è esposta, pur con riferimento alla terminologia legata alla produzione, a partire dal punto di vista prioritario che «l’insieme dei rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale».[23] Siamo cioè sul terreno in cui il quadro di riferimento è la storia concepita come lotta di classe basata sulla proprietà. In questa ottica il meccanismo che muove la storia è individuato non più nella creazione di nuovi bisogni che derivano dall’introduzione degli strumenti di produzione, ma dalla contraddizione che si viene a creare tra i rapporti di produzione e le forze di produzione man mano che queste si espandono. Finché all’interno di un dato modo di produzione lo sviluppo delle forze produttive non si è esaurito completamente, «la formazione sociale non perisce» e i nuovi rapporti di produzione non possono subentrare.[24] Solo quando il vecchio sistema si trova completamente bloccato si verifica il cambiamento rivoluzionario. E poi Marx conclude indicando il fatto che i rapporti di produzione borghese sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale perché le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per il superamento di questo antagonismo; di modo che con questa formazione sociale si chiude la preistoria della società umana.[25]
Anche questa formulazione ha avuto un successo straordinario, sia perché ha un forte impatto emotivo, sia perché contiene un determinismo che permette di indicare come inevitabile il progresso e anche come oggettivo e come frutto ineluttabile del processo storico, l’avvento dello stadio finale della storia, il comunismo.[26] Il problema è che questo determinismo è insostenibile. Il fatto che di fronte ad una impasse del sistema si passi automaticamente allo stadio successivo non è vero dal punto di vista fattuale ed è contraddittorio sul piano teorico. Dal punto di vista fattuale esso non riesce a spiegare la stasi e la crisi irreversibile, che è invece il caso più frequente nella storia; l’unico esempio di processo continuo, di sviluppo progressivo che non si è mai interrotto in modo definitivo, infatti, è quello europeo. Questo schema è dunque efficace se lo si usa in riferimento a questo caso specifico, se lo si tratta come la descrizione di un fatto; ma se il riferimento è alla storia nella sua generalità, allora semplicemente non funziona. Sul piano teorico, poi, nel momento in cui introduce un determinismo assoluto nega, ancora una volta, la possibilità della innovazione e dell’atto libero che sono invece il presupposto implicito di tutta la costruzione. La teoria dei bisogni, sotto questo profilo, riesce invece a tenerne conto in modo soddisfacente, e non crea determinismi, come già si vedeva. Esso dimostra che se si inserisce un elemento nuovo nel sistema, questo va a modificarlo, e questo avviene molto spesso in risposta alla nascita di bisogni, ma non dice che a fronte di un bisogno nuovo automaticamente ci sarà una risposta evolutiva, e quindi non pretende di prevedere ciò che non può essere previsto.
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Riassumendo, queste ambiguità evidenziate sono quelle che devono essere eliminate dalla teoria del materialismo storico perché possa diventare uno strumento di conoscenza efficace, in ipotesi il primo passo per una fondazione delle scienze storico-sociali. Esse si riferiscono innanzitutto alla pretesa che tutto ciò che riguarda la vita umana sia determinato — e quindi non solo nei grandi numeri, statisticamente, si può constatare la ripetitività dei comportamenti umani, e quindi in ultima istanza la passività; ma questo vale anche a livello dei singoli. La libertà è quindi un fattore che viene escluso totalmente. Contro questa impostazione si è cercato di dimostrare invece che la teoria funziona solo se è concepita come una sorta di sistema aperto che funziona proprio sulla base delle varianti introdotte dall’esterno: in questo caso dalla sfera della biologia e soprattutto da quella del pensiero libero. Il fatto che la teoria non possa spiegare i comportamenti liberi, ma si limiti a esplicitare i determinismi dei meccanismi storici e sociali, e quindi non si occupi della libertà che in questo quadro può effettivamente venire accantonata (l’oggetto della sua indagine sono infatti i comportamenti collettivi, mai quelli individuali), non significa infatti che possa, né tanto meno che debba, escluderne l’esistenza.
Questa è la ragione per cui non si può mai anticipare in senso deterministico lo sviluppo del processo storico. Questo schema concettuale non può infatti prevedere ciò che accadrà, può semmai permettere di interpretare certi aspetti generali dei processi passati e delle tendenze in atto, perché individua alcune leggi generali che vincolano lo sviluppo sociale; conoscerle rende possibile per l’umanità agire in modo consapevole. Viceversa, sperare in un’evoluzione certa e spontanea che traghetti l’umanità, ineluttabilmente, verso il regno della libertà è sostanzialmente un mito.
Vi è infine un ultimo punto cruciale per inquadrare il materialismo storico nella prospettiva corretta e riguarda il fatto che questo non deve mai essere confuso con una descrizione effettiva dei processi storici concreti, come è spesso invece successo. Il farlo provoca una confusione che, ancora una volta, nasconde la realtà, invece di aiutare a capirla. Del resto, Marx stesso, anche se a volte ha oscillato, sembra essere stato consapevole del fatto di aver elaborato schemi di comprensione della storia che non coincidevano con una conoscenza effettiva dei fatti, ma fornivano gli strumenti teorici per andarli ad indagare e comprenderli. Ci sono molte osservazioni a questo proposito che si ritrovano nel testo e tra questi in particolare Albertini citava degli appunti, poi cancellati, riportati solo nelle edizioni critiche, in cui Marx era particolarmente chiaro sul fatto che la conoscenza si ricava direttamente dalla storia.
Questo schema concettuale quindi è, per definizione, un modello, che in quanto tale permette di analizzare alcuni processi fondamentali, ma non descrive la realtà. Sotto questo profilo il materialismo storico è inquadrabile come un Idealtypus. Albertini, come abbiamo già visto, riteneva che questa ipotesi di Weber fosse illuminante dal punto di vista della metodologia delle scienze sociali. A suo parere si poteva integrarla con una sorta di gerarchia dei tipi ideali, a partire appunto dal materialismo storico, che sarebbe il più generale perché spiega il meccanismo di base del processo storico e contiene i criteri più universali e meno specifici. A partire da esso si possono inserire gli altri tipi ideali, via via più precisi nell’inquadrare l’evoluzione dei fatti storici e i comportamenti umani (uno dei primi è quello della ragion di Stato, o meglio della ragion di potere, che è, nell’ipotesi di Albertini, la base della scienza della politica perché permette di spiegare il comportamento politico) fino ad arrivare alle tipologie più particolari e infine all’individuale, cioè al fatto realmente accaduto, che è l’oggetto della conoscenza e che deve esser raccontato nella sua specificità.[27]
Una volta rielaborata, la concezione materialistica della storia — si potrebbe anche dire, una volta riportata questa concezione al progetto originario di Marx, che non ha potuto portare fino in fondo il lavoro, perché nelle sue condizioni nessuno avrebbe potuto evitare di confondere i due piani, quello della natura del comunismo e quello della natura della storia, che si accavallavano — una volta rifinita, dunque, la concezione materialistica della storia si rivela uno strumento potentissimo che ci permette di controllare qualunque conoscenza storica particolare. I nessi causali che essa ci ha permesso di evidenziare (in particolare relativamente alla quantità della popolazione e alla sua composizione sociale) sono delle costanti del processo da cui nessuna indagine specifica può prescindere.
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In questa analisi complessa, Albertini — che ha sostanzialmente ricostruito, quasi dalle fondamenta, il materialismo storico — ha utilizzato la traccia di Marx al tempo stesso con il rigore del filologo, con la pazienza minuziosa e rigorosa dello scienziato che sta procedendo su un terreno ancora sconosciuto e con la passione dell’uomo di azione che sente l’urgenza di conoscere per capire il proprio tempo e per valutare le possibilità di far vivere un progetto politico che lasci all’umanità la possibilità di progettare il futuro. Senza questa fortissima tensione morale che in qualche modo lo accomunava a Marx e che gli ha permesso di provare (io credo con successo) ad «entrare nella sua testa» — come diceva lui stesso —, non sarebbe stato possibile conseguire risultati così ampi e innovativi, che meriterebbero di essere ripresi dal dibattito storico e sociale, per essere discussi e anche criticati, ma senza eludere le grandissime questioni che sollevano.
Se quanto ha rielaborato Albertini ha un fondamento, il materialismo storico così concepito è uno strumento poderoso per studiare proprio i momenti di trapasso nella storia, le fasi in cui si sta verificando la nascita di un nuovo modo di produzione. Esso assume quindi un rilievo decisivo nella misura in cui il mondo oggi sta vivendo un’evoluzione dal modo di produzione industriale a quello post-industriale (o scientifico, come si preferiva chiamarlo nel dibattito degli anni Sessanta e Settanta). Questo cambiamento offre enormi possibilità all’umanità e al tempo stesso presenta rischi terribili e sfide di immensa portata. Non dimentichiamo che se quanto abbiamo ipotizzato finora è valido, e se effettivamente siamo di fronte non ad una semplice estensione del modo di produzione industriale, ma ad una transizione verso il suo possibile superamento, questo necessiterà e comporterà enormi cambiamenti nella cultura e nella politica, cambiamenti che non saranno né semplici né indolori perché si scontreranno con l’inerzia dei poteri costituiti e avranno bisogno di essere pensati con strumenti intellettuali adeguati.
Albertini aveva iniziato a ragionare su questi processi quando questi erano ancora agli albori, ma la rapidità delle trasformazioni che si susseguono dimostra che egli aveva saputo anticipare scenari che si stanno almeno in larga parte verificando.
[1] Oggi le prime dieci lezioni sono pubblicata in formato audio mp3 sul sito della Fondazione Mario e Valeria Albertini, www.fondazionealbertini.org, e, a breve, dovrebbe essere disponibile l’intero ciclo.
[2] Willard V.O. Quine, «Two Dogmas of Empiricism», in From a Logical Point of View, Cambridge, Harvard University Press, 1953.
[3] Albertini ricordava spesso come la conoscenza scientifica richieda a chi operi in questo campo un’obiettività assoluta, che implica la libertà da ogni volontà di potere e da ogni ambizione personalistica. Sotto questo profilo la scienza costituisce anche un grande insegnamento etico e si può definire come un lavoro morale collettivo. Questo abito mentale che la caratterizza e che implica che la critica razionale debba sempre essere accolta con favore e che si accetti di verificare costantemente i risultati acquisiti dovrebbe essere da esempio in ogni sfera dell’agire umano, soprattutto laddove si vogliono migliorare le conoscenze e la vita degli uomini, perché corrisponde al modo di procedere della ragione stessa.
[4] Per una definizione precisa di Albertini del concetto di ideologia politica vedi Mario Albertini, Il federalismo, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 91 (nota 3).
[5] Max Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino, Einaudi, 2003.
[6] Questa definizione rendeva conto anche del fatto che nella corrente marxista convivevano posizioni spesso contraddittorie le une rispetto alle altre. Verso la fine degli anni Settanta questi diversi approcci portavano addirittura a declinare al plurale il termine marxismo e a parlare di «marxismi», di cui si scriveva, in questi termini, la storia. Per Albertini era la dimostrazione dell’impossibilità di identificare una teoria precisa dietro a questa definizione, proprio perché nella misura in cui si pretendeva di sussumere sotto una stessa etichetta interpretazioni e teorie diverse e, per fare in qualche modo quadrare il cerchio, si arrivava a parlare di marxismi al plurale, si negava, di fatto, l’esistenza stessa del marxismo come pensiero. Se attribuiamo al marxismo versione A un dato significato, a quello versione B un secondo e diverso significato, e così via, alla fine abbiamo semplicemente un nome privo di un significato chiaro perché si riferisce ad oggetti diversi.
[7] Questo passaggio è spiegabile proprio con la reazione morale che dovette derivare in lui dalla presa di coscienza (risalente alle sue indagini per il Rheinische Zeitung) dei problemi drammatici che la maggior parte delle classi povere si trovava a vivere.
[8] Secondo Albertini questo tentativo di Marx, nei Manoscritti, di fondare sul piano filosofico una teoria precisa del comunismo, rientra in realtà ancora nella sfera del pensiero utopico, almeno nel senso più generale che indica un pensiero che non ha un collegamento preciso con il processo storico. La convivenza tra questa tendenza a teorizzare il comunismo sul piano della filosofia — nel senso utopistico che si spiegava prima — e quella di porre le basi per un pensiero scientifico dura a lungo nella testa di Marx, ed è soprattutto ad essa che sono imputabili molte oscillazioni nelle formulazioni, che impediscono di sviluppare con coerenza la teoria. Riprenderemo questa breve anticipazione nel prossimo paragrafo in cui si analizza il testo dell’Ideologia.
[9] Marx stesso, in altre occasioni, in particolare in alcune lettere (vedi in particolare Lettere a Kugelmann, Roma, Ed. Rinascita, 1950), sottolinea il fatto di non aver scoperto niente di nuovo, di aver trovato in realtà tutti gli elementi che compongono la sua nuova concezione nel pensiero già affermato — dalla lotta di classe, al problema delle patologie sociali legate alla proprietà privata, all’idea della sua abolizione, all’idea stessa del socialismo. Il suo merito, che egli stesso rivendica, sarebbe stato solo quello di collegare questi elementi frammentari in una visione unitaria che li legava al processo storico, trasformandoli da denunce morali, di carattere utopistico, e da verità parziali, incapaci di incidere sulla realtà, in parti di una teoria scientifica, che svelava il fatto che il processo storico andava proprio nella direzione dell’avvento del socialismo.
[10] E’ da notare che si tratta di un tipo di lavoro che comporta veramente uno sforzo titanico, perché bisogna ridefinire daccapo tutto ciò che è accaduto e tutto ciò che è sedimentato nella nostra coscienza; non si tratta, quindi di un’operazione meccanica, ma si procede per ogni singolo caso; ed è al tempo stesso un lavoro indispensabile perché se non lo si fa una parte della vecchia concezione sopravvive ed impedisce di arrivare alla chiarezza necessaria per una vera conoscenza.
[11] In particolare le Lettere a Kugelmann, op. cit.
[12] Marx usa in qualche punto anche il termine di forza di produzione al singolare; il significato, in questo caso, è però diverso e si riferisce alla capacità produttiva globale di una società. In questo momento tralasciamo questa formulazione perché risulta poco utile in questo contesto di analisi.
[13] Questa constatazione era alla base della critica di Albertini a molte illusioni del marxismo relative alla possibilità di realizzare il progetto comunista in una società caratterizzata ancora dal modo di produzione industriale. Lo stesso esperimento in Unione sovietica, che aveva chiaramente prodotto una società in cui permanevano le differenze di potere e i rapporti di subordinazione dei lavoratori rispetto ad una classe dirigente che, benché formalmente non proprietaria dei mezzi di produzione, controllava comunque la produzione — e questo era un altro elemento di polemica, che ritroveremo più avanti nell’esposizione, che riguardava la possibilità di abolire la proprietà privata nei termini previsti dal marxismo — questo stesso esperimento, dicevamo, era inficiato oltre che dalle specifiche condizioni storiche del paese, anche e principalmente dal fatto che in una società industriale permangono necessariamente differenze di ruoli e di potere. L’idea di Albertini era che solo un modo di produzione come quello scientifico, di cui tra gli anni Sessanta e Settanta si cominciava a ragionare, che sostituisse le macchine al lavoro umano ripetitivo e che trasformasse tutti i lavoratori in tecnici qualificati, avrebbe permesso effettivamente di istituzionalizzare il controllo di tutti su tutti, cioè la libertà e l’uguaglianza.
[14] Karl Marx, Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1958, in particolare pp. 13-14.
[18] Un altro esempio delle contraddizioni anche interne alla teoria marxiana introdotte da questa formulazione che vuole ridurre tutto l’uomo alla dimensione della produzione si può fare a proposito del problema della libertà. E’ noto che Marx parlava dell’avvento del comunismo come del passaggio dal regno della necessità a quello della libertà. Ora, la libertà è compatibile con l’affermazione che l’uomo produce indirettamente la sua vita, nel senso che ciò che è determinato dai rapporti di produzione è la sua vita storico-sociale; e poiché questa non coincide con tutta intera la vita umana e non include la biologia e quindi il pensiero, a partire da quest’ultimo la possibilità — per quanto spesso non colta — della libertà diventa spiegabile; e così pure la sua realizzazione in concomitanza con l’avvento di un modo di produzione che rende possibile una società fondata sull’uguaglianza. Ma se l’uomo è limitato alla sfera della produzione, cioè è totalmente determinato, come si spiega che all’improvviso possa diventare libero? Da dove nascerebbe questa possibilità?
[22] Una formulazione chiarissima di questa identificazione del modo di produzione con l’economia si trova in Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 5.
[23] Ibidem, p. 5. E’ da notare come questo passo, se analizzato con attenzione, mostri chiaramente la contraddizione della formulazione. I rapporti di produzione costituiscono la «struttura» economica della società, ma anche quella spirituale, quella tecnologica, e così via: su quale base viene separata, e posta come determinante, la «struttura» economica rispetto al resto, che ha una funzione del tutto analoga per quanto riguarda il processo globale della produzione, che lo stesso Marx mantiene, anche in questo contesto specifico, come punto di riferimento?
[26] Se questo determinismo fosse vero, sarebbe impossibile capire, tra le altre cose, il senso di una forza rivoluzionaria che si batte perché un obiettivo già previsto dalla storia si realizzi. Anche se si attribuisce ad una tale forza la possibilità di accelerare il processo, resta il fatto che il suo ruolo rimane del tutto marginale in una prospettiva di questo tipo. Inoltre vorrebbe dire che si può conoscere la storia prima ancora che i fatti si verifichino, e questo è assurdo.
[27] La storia, spiegava Albertini, nella sua ultima cellula costitutiva è storia di scelte, di atti liberi; per cui la conoscenza storica è racconto. Ma il racconto — la conoscenza — può corrispondere alla realtà solo se questa è indagata a partire da un quadro tipologico, che permette di inserire le azioni dei singoli nel quadro generale della storia, che, in quanto tale, sfugge ai singoli.