Anno XXIX, 1987, Numero 2, Pagina 105
Recenti sviluppi della teoria federalistica
LUCIO LEVI
Il federalismo, nato come teoria di una forma di governo per risolvere i problemi di un caso isolato, la formazione degli Stati Uniti d’America, e poi di altre società marginali rispetto ai centri propulsori della politica mondiale (la Svizzera, il Canada, l’Australia), ha esteso progressivamente la sua portata fino ad assumere i caratteri di un movimento di dimensioni mondiali. E’ sufficiente ricordare che più di un terzo del genere umano vive in Stati che hanno costituzioni che si definiscono federali, che inoltre in tutto il mondo sono in corso movimenti di unificazione continentali, che l’ONU esprime la tendenza del mondo verso l’unità e che nei vecchi Stati nazionali si sono sviluppati movimenti di autonomia regionale e locale. Questi processi sono altrettante manifestazioni della tendenza a superare il modello dello Stato unitario verso l’alto e verso il basso e a creare nuovi livelli di governo supernazionali e infranazionali.
Per conoscere e dominare questi processi, la teoria federalistica si è sviluppata in nuove direzioni, dimostrando di saper dare una nuova interpretazione della storia contemporanea, di fornire criteri per pensare in modo nuovo l’avvenire dell’umanità, di ispirare un nuovo comportamento politico e di offrire una risposta tanto ai problemi di una nuova qualità della vita nell’ambiente urbano e naturale, attraverso la divisione territoriale del potere e la programmazione democratica, globale e articolata, quanto ai problemi della pace e del disarmo generale e controllato attraverso la trasformazione dell’ONU in un sistema di governo federale mondiale. Questi nuovi sviluppi teorici sono maturati in corrispondenza con le trasformazioni avvenute nella società contemporanea nell’epoca delle guerre mondiali e soprattutto nel secondo dopoguerra.
Vediamo alcuni dei cambiamenti più significativi, avvenuti nel mondo contemporaneo, di cui la teoria federalistica, rinnovandosi, si è fatta interprete.
1. L’evoluzione costituzionale delle federazioni.
La necessità di adattare i vecchi meccanismi istituzionali ai cambiamenti politici, economici e sociali della società contemporanea ha messo in luce due tendenze generali verso le quali si stanno sviluppando le costituzioni federali.
La prima è la tendenza all’accentramento del potere nei governi federali, che è la conseguenza della pressione concomitante di un fattore economico-sociale e di un fattore politico. Il fattore economico-sociale è rappresentato dallo sviluppo della Rivoluzione industriale. Esso ha moltiplicato le relazioni di produzione e di scambio al di là dei confini degli Stati-membri, trasformando un insieme di comunità prevalentemente agricole, relativamente isolate le une dalle altre, in un sistema economico-sociale sempre più strettamente interdipendente nelle sue parti. I governi federali hanno preso dovunque la direzione di questo processo, che esige l’estensione della sfera di intervento dello Stato (costruzione e gestione di grandi opere pubbliche, come le ferrovie e le autostrade, politica monetaria, politica sociale, protezione dell’ambiente e così via), sottraendo ampi settori dell’economia e della società al controllo degli Stati-membri.
Il fattore politico è rappresentato dalla crescente pressione centralizzatrice esercitata dalle relazioni internazionali. Dopo le guerre mondiali e la formazione del sistema mondiale degli Stati non esistono più aree politiche isolate al riparo dei rapporti di potenza. La pressione di questo fattore, più sensibile negli Stati Uniti, a causa delle grandi responsabilità politiche e militari che essi si sono assunti dalla seconda guerra mondiale, ma attiva in tutti gli Stati federali, ha determinato la formazione di potenti apparati burocratici e militari al servizio delle esigenze di sicurezza e di potenza dei governi centrali.
L’estensione dell’intervento pubblico nei settori economico-sociale e militare si è tradotto in un poderoso aumento della spesa pubblica, che ha scatenato un’aspra lotta tra i governi federali e i governi regionali per accedere a risorse finanziarie scarse. Questa lotta si è risolta dovunque con il prevalere dei governi federali e con una sensibile riduzione dell’indipendenza finanziaria (e di conseguenza politica) dei governi regionali. Lo strumento politico-istituzionale attraverso il quale ha preso corpo questa tendenza centralizzatrice sono i grants-in-aid, cioè i sussidi, la cui concessione è spesso subordinata al rispetto di determinate condizioni, che i governi federali mettono a disposizione dei governi regionali per programmi di sviluppo economico-sociale.
La seconda tendenza, affermatasi nell’evoluzione delle costituzioni federali, è lo sviluppo della cooperazione tra i due livelli di governo tra i quali è diviso il potere nelle federazioni. Anche questa tendenza è una conseguenza della Rivoluzione industriale, del processo di integrazione economico-sociale tra gli Stati-membri delle federazioni e dell’emergere di nuovi obiettivi nell’azione dello Stato (Stato sociale) e di nuovi strumenti per perseguirli (programmazione).
Essa ha trasformato profondamente il funzionamento degli Stati federali, i quali erano stati concepiti in base al modello dello Stato minimo, uno Stato nel quale i pubblici poteri intervenivano il meno possibile nei processi economico-sociali e scarse erano le relazioni tra i governi regionali e tra questi ultimi e il governo federale. I governi regionali operavano in sfere separate relativamente isolati gli uni dagli altri. E’ una situazione che non esiste più in nessuna società industriale.
Tuttavia l’estensione delle competenze dello Stato non si risolve necessariamente in un incremento delle sole competenze del governo centrale. Negli Stati federali questo processo interessa anche i governi regionali. Per evitare che queste accresciute capacità di intervento dei pubblici poteri generassero conflitti, che avrebbero potuto essere distruttivi per i delicati equilibri costituzionali degli Stati federali, si è imposta dovunque una crescente cooperazione tra il governo federale e i governi regionali. In sostanza, un numero crescente di obiettivi politici richiede un intervento coordinato dei due livelli di governo e un impegno comune nella loro realizzazione. Proprio nei settori nei quali si è sviluppato di più l’intervento pubblico, come il controllo dell’economia e la politica sociale, gli Stati-membri hanno conservato una relativa autonomia politica, partecipando alla realizzazione di programmi comuni con il governo federale.
L’affermazione del federalismo cooperativo segna quindi il passaggio da una distribuzione delle competenze tra i due livelli di governo secondo il criterio prevalente delle competenze esclusive a quello delle competenze concorrenti. Nel federalismo classico la divisione delle competenze era organizzata secondo lo schema enunciato dal decimo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, in base al quale i poteri non espressamente attribuiti al governo federale sono conferiti ai governi degli Stati-membri. In pratica tutte le competenze erano esclusive con la sola eccezione rilevante della competenza fiscale. Con il federalismo cooperativo avviene un tendenziale superamento delle competenze esclusive. Tutte le competenze tendono a diventare concorrenti.
Tra le numerose innovazioni istituzionali, che sono espressione dell’affermazione del federalismo cooperativa, è opportuno ricordare il Loan Council, un istituto di cooperazione obbligatoria inserito nella Costituzione australiana nel 1929. Si tratta di un organo che riunisce un rappresentante del governo federale (che ha due voti) e i rappresentanti dei governi dei sei Stati (che hanno un voto ciascuno), ma è indipendente da entrambi questi centri di potere, in quanto il governo federale ha una posizione forte, ma non dominante. Esso ha il potere di decidere sull’entità del debito dei due livelli di governo e costituisce dunque uno strumento esemplare di coordinamento delle politiche fiscali. Ciò che distingue questo organismo dai numerosi altri enti di cooperazione, che si sono formati in tutte le federazioni, è che esso possiede un reale potere di decisione, mentre gli altri non hanno rilevanza costituzionale e hanno solo poteri consultivi, comprese le conferenze che riuniscono i capi degli esecutivi dei governi federali e dei governi regionali.
2. La diffusione delle costituzioni federali nel Terzo mondo.
Uno degli aspetti più significativi del mondo contemporaneo è la diffusione dei principi del federalismo soprattutto in numerosi paesi del Terzo mondo coinvolti nel movimento di liberazione nazionale. Ai paesi dell’America latina, alcuni dei quali, quando divennero Stati indipendenti nel secolo scorso, subirono l’influenza del modello federale degli Stati Uniti (Messico, Venezuela, Brasile, Argentina), si sono aggiunti nel secondo dopoguerra altri grandi Stati in Asia e in Africa (India, Pakistan, Nigeria). A causa delle grandi dimensioni territoriali e/o delle profonde differenze sociali esistenti sul loro territorio, molti Stati di recente indipendenza hanno adottato nelle loro costituzioni alcuni elementi del sistema federale come una necessità per mantenere l’unità politica.
Per giudicare la struttura di questi Stati è utile la distinzione, proposta da Wheare, tra costituzione federale e governo federale, che non è altro che l’applicazione della distinzione tra costituzione in senso formale e in senso materiale. «Una nazione», egli scrive, «può avere una costituzione federale, ma in pratica attuare tale costituzione in maniera che il governo non rispetti il principio federale; o al contrario un paese dalla costituzione non federale può agire in maniera da offrire un esempio di governo federale».[1] Le federazioni sopra citate appartengono alla prima categoria. Il problema dominante è quello di far prevalere l’autorità dello Stato sulle comunità territoriali e sui gruppi sociali che lo compongono.
Si può quindi ritenere che il federalismo sia considerato in questi paesi come una tappa sulla via della costruzione dello Stato unitario: esattamente come era concepito dagli autori della Costituzione dell’URSS, la quale a giusto titolo può essere considerata come la prima della serie delle federazioni formatesi nel XX secolo nel mondo dei paesi sottosviluppati. D’altra parte, l’evoluzione istituzionale dell’URSS è istruttiva per avere una migliore comprensione del senso del federalismo nel nostro tempo. A settant’anni dalla rivoluzione di ottobre, malgrado gli sforzi di una costante politica centralizzatrice, l’URSS ha un governo «largamente decentralizzato», come ha scritto Wheare[2] e, malgrado l’imperialismo grande-russo, le nazionalità minori dimostrano una straordinaria vitalità.[3]
Sulla base di questa esperienza si può ritenere che la costituzione dello Stato unitario sia imposta dalle esigenze della Rivoluzione industriale e della sicurezza internazionale, anche se l’accentramento del potere resta un obiettivo impossibile da raggiungere negli Stati di grandi dimensioni a carattere multinazionale. E’ quindi ragionevole prevedere che i germi di federalismo presenti in molti degli Stati di recente formazione si potranno sviluppare quando saranno maturate le condizioni interne e internazionali della loro evoluzione.
3. Crisi dello Stato nazionale e nuove tendenze dell’organizzazione statuale e internazionale.
La crisi della formula politica dello Stato nazionale e la tendenza alla formazione di unità politiche multistatali e multinazionali (USA, URSS, Cina, India ecc.) e di organizzazioni internazionali di dimensioni mondiali (ONU) e continentali (Comunità europea, Comecon, Mondo arabo, Africa, Sud-Est asiatico, America latina) sono espressione della direzione generale verso la quale si sta sviluppando nel nostro tempo la costruzione dello Stato e l’organizzazione internazionale, una direzione che è caratterizzata dall’emergere di elementi di federalismo. Essa mostra, da una parte, come i protagonisti della politica mondiale non siano più le nazioni, ma formazioni politiche comprendenti più nazioni, e, d’altra parte, mette in evidenza come nessuno Stato sia in grado di assumere un ruolo determinante nel sistema mondiale degli Stati, formatosi sulle rovine del sistema europeo, senza assumere la dimensione continentale. Questa tendenza, che dipende dall’internazionalizzazione del processo produttivo e dalla formazione del sistema mondiale degli Stati, ha contribuito a diffondere la coscienza che lo Stato nazionale non costituisce più una base sufficiente a garantire nel mondo contemporaneo né lo sviluppo economico, né l’indipendenza politica.
In particolare, la riflessione sul processo di unificazione europea ha portato a maturazione gli sviluppi più profondi della teoria federalistica. La ricerca dell’unità da parte dell’Europa rappresenta infatti il tentativo più consistente di superare la formula politica dello Stato nazionale, la quale ha portato fino alle estreme conseguenze il principio della divisione del genere umano in comunità chiuse, uniformi, ostili e bellicose, un principio radicalmente incompatibile con le esigenze più profonde del mondo contemporaneo. D’altra parte, bisogna considerare le difficoltà che comporta il tentativo di superare le divisioni, finora dimostratesi insormontabili, tra nazioni consolidate da secoli di vita statuale indipendente e l’assoluta novità del tentativo di trovare una formula che assicuri la coesistenza pacifica tra Stati nazionali, un’impresa che non ha precedenti nella storia. Non si può quindi che giungere alla conclusione che il problema dell’unificazione europea esige la creazione di una forma di Stato del tutto nuova con dei contenuti politici e sociali completamente nuovi, di cui le federazioni del passato costituiscono soltanto un pallido antecedente. La ricerca di nuove soluzioni al problema di associare in modo stabile Stati indipendenti rappresenta una sfida per la ragione e un potente stimolo a rinnovare la teoria federalistica.
4. Crisi dello Stato nazionale e autogoverno regionale e locale.
La crisi dello Stato nazionale si manifesta anche in una direzione opposta che si esprime nei movimenti per l’autogoverno regionale e locale, cioè nella tendenza al superamento degli aspetti accentratori e autoritari dello Stato nazionale. Soprattutto nelle società industriali avanzate coinvolte nella Rivoluzione scientifica, la quale crea nuove forme di società e di economia, si stanno creando le condizioni per sviluppare una forma di organizzazione dello Stato pluralistica e decentrata e per rinnovare, in relazione ai problemi della società post-industriale, le strutture del federalismo classico.
5. La crisi del modello istituzionale.
Rispetto ai cambiamenti fin qui sommariamente descritti, la vecchia concezione del federalismo, intesa come teoria puramente istituzionale, si è rivelata del tutto inadeguata.[4] A parte la considerazione che il modello del federalismo classico ha subito un’evoluzione negli Stati dove si è formato, resta il fatto che concepire il federalismo semplicemente come una tecnica di organizzazione del potere politico significa metterlo al servizio dei valori del passato (liberali, democratici o socialisti) e quindi considerarlo come un punto di vista subalterno alle ideologie politiche tradizionali. In realtà il federalismo ha sviluppato una relazione profonda con le trasformazioni in corso nella storia contemporanea e si è arricchito di nuove categorie di analisi. Il suo significato ha subito un’evoluzione e un approfondimento continui per dare una risposta ai sempre nuovi problemi posti dal processo storico. Il senso di questo sviluppo è la progressiva affermazione dell’autonomia teorica del federalismo rispetto alle altre ideologie politiche.
L’obiettivo di questo articolo è di prendere in esame quattro modelli teorici che rappresentano altrettanti tentativi di riformulare, ampliandola, la definizione tradizionale, fondata su un approccio puramente istituzionale, del federalismo.
6. Il nuovo federalismo.
L’espressione «nuovo federalismo» designa un’ampia letteratura, che ha dato un contributo allo studio dei più recenti sviluppi costituzionali degli Stati federali. Abbiamo visto che la tendenza all’accentramento e quella alla cooperazione rappresentano gli sviluppi più significativi delle costituzioni federali contemporanee.
Quanto alla prima tendenza, essa è generalmente riconosciuta dagli studiosi delle istituzioni federali, i quali convergono nel riconoscere tanto le cause economico-sociali, quanto quelle politiche, che l’hanno determinata. Tuttavia è opportuno segnalare che negli Stati Uniti ha avuto fortuna una teoria, formulata da Adolf A. Berle, Jr., secondo la quale la spinta centralizzatrice promossa dal governo federale sarebbe riequilibrata da quella proveniente dalle grandi società per azioni. Si svilupperebbe così una nuova forma di «federalismo economico»,[5] caratterizzato dall’emergere di forti concentrazioni di potere economico al posto del pluralismo politico, in declino a causa della perdita di autonomia degli Stati federati. A questa teoria si deve però obiettare che i gruppi di interesse economici non sono in grado di creare equilibri costituzionali, ma si adeguano agli equilibri esistenti. Essi esercitano la loro pressione sui governi e sui parlamenti per ottenere decisioni a loro favorevoli. E se il potere è accentrato, il loro interesse sarà rivolto soprattutto verso il potere centrale. Lo sviluppo dell’impresa gigante non costituisce dunque un’alternativa all’accentramento negli Stati federali, ma anzi è un fattore che rafforza questa tendenza.[6]
Già nel Federalist[7] troviamo l’affermazione che gli equilibri sociali non sono sufficienti a garantire l’ordine costituzionale, anzi il conflitto tra gli interessi economico-sociali tende a scardinare questo ordine. Infatti, ciascun gruppo di interesse lotta per ottenere dal potere politico la realizzazione completa del contenuto delle proprie domande. Un obiettivo che evidentemente è in contrasto con gli interessi generali. Il ruolo specifico del potere politico è quello di realizzare la mediazione tra le domande provenienti dalla società, facendo prevalere la volontà generale sulle volontà particolari.
Questa teoria ha dunque la funzione di mascherare il vero carattere dei cambiamenti, come la tendenza all’accentramento, che hanno alterato profondamente la natura delle istituzioni federali.
La seconda tendenza che ha cambiato le istituzioni federali è l’affermazione del federalismo cooperativo. La maggior parte degli autori che l’hanno studiata hanno messo in luce che essa coesiste con la tendenza all’accentramento.[8]
L’identificazione di questa tendenza ha portato gli studiosi delle istituzioni federali a distinguere due fasi nella storia di queste istituzioni. Da una parte, il federalismo costituzionale classico ha carattere dualistico, in quanto il governo federale e i governi degli Stati operano in due sfere separate senza reciproche interferenze sulla base di una rigida divisione delle competenze. D’altra parte, con l’estensione dei poteri di intervento dello Stato a seguito dello sviluppo della Rivoluzione industriale si afferma il federalismo cooperativo, i cui caratteri sono definiti dall’aumento delle relazioni tra i due livelli di governo e dall’estensione delle competenze concorrenti. L’affermazione di questa nuova forma di organizzazione dello Stato federale non ha sostanzialmente modificato, secondo gli studiosi, la natura delle istituzioni federali, che, secondo Wheare, è definita dai caratteri dell’indipendenza e della coordinazione tra i due livelli di governo. Se, da una parte, è connaturato con la struttura federale il fatto che nessun livello di governo sia dipendente dall’altro, d’altra parte, l’indipendenza non è incompatibile con una forte interdipendenza tra i due livelli di governo.
L’esperienza del federalismo cooperativo ha fatto prendere coscienza che non è possibile la coesistenza di due livelli di governo separati tra di loro sul territorio dello stesso Stato senza un’adeguata concertazione. In una società industriale, nella quale i compiti dello Stato sono enormemente cresciuti, la cooperazione tra governo federale e governi regionali costituisce un elemento indispensabile del funzionamento delle istituzioni federali.
Da queste considerazioni emerge l’esigenza di una definizione delle istituzioni federali comprensiva delle nozioni di federalismo dualistico e di federalismo cooperativo. Risponde a questo fine la definizione formulata da Maurice J.C. Vile, secondo la quale «il federalismo è un sistema di governo nel quale le autorità centrale e regionali sono legate in una relazione politica reciprocamente interdipendente; in questo sistema viene mantenuto un equilibrio tale che nessuno dei due livelli di governo diventi dominante fino al punto di poter determinare le decisioni dell’altro, ma ciascuno possa influenzare, negoziare e persuadere l’altro».[9]
7. Il federalismo come processo.
Carl J. Friedrich ha elaborato un modello di federalismo inteso come processo. Egli considera infatti riduttiva la definizione puramente istituzionale del federalismo, intesa cioè come la teoria di una forma di Stato. E contrappone all’approccio di tipo istituzionale del federalismo classico — definito «statico e formalistico»[10] — che era interessato soprattutto ai problemi della sovranità, della distribuzione delle competenze e della struttura delle istituzioni, il proprio approccio di tipo dinamico.
Dal punto di vista metodologico Friedrich costruisce la teoria federalistica privilegiando la dimensione del mutamento politico e sociale e dello sviluppo storico delle relazioni federali rispetto alla dimensione strutturale o istituzionale, allo scopo di giungere a una migliore comprensione dell’aspetto dinamico del federalismo. Ogni forma particolare di organizzazione federale rappresenta uno stadio di sviluppo di una realtà politica e sociale in continua evoluzione. Ciò che distingue il federalismo è, secondo Friedrich, l’esigenza di mantenere l’unità nella diversità in un processo di continuo reciproco adattamento dell’organizzazione comune e delle unità componenti, che eviti i pericoli opposti del prevalere delle tendenze centralistiche, che trasformerebbero il sistema federale in uno Stato unitario, o delle tendenze separatistiche, che dissolverebbero la federazione. Occorre aggiungere che Friedrich estende il campo di applicazione del federalismo dall’ambito dello Stato a quello delle organizzazioni non governative, come i partiti, i sindacati, i gruppi di interesse e le chiese.[11]
Egli definisce la federazione come un’unione di gruppi uniti da uno o più obiettivi comuni, radicati in valori, interessi o credenze comuni, ma che mantengono il loro distinto carattere di gruppo per altri scopi.[12] Si tratta di una definizione che si può applicare tanto a uno Stato federale, quanto a un’alleanza tra Stati, a una confederazione o a un’associazione di gruppi. Il federalismo può essere il risultato di due diversi processi: di integrazione o di differenziazione. Nel primo, due o più comunità politiche si uniscono per risolvere insieme dei problemi comuni, mantenendo ciascuna la propria indipendenza. Nel secondo, una comunità politica a struttura unitaria subisce un processo di differenziazione, dando luogo a un insieme di entità politiche indipendenti, che non mettono però in discussione l’unità del quadro politico complessivo.
Ma la vita di ogni federazione è il risultato della permanente tensione tra la tendenza unitaria e quella pluralistica. Tanto nel processo di integrazione, quanto in quello di differenziazione l’obiettivo fondamentale del federalismo è quello di limitare il potere accentrato, dividendolo. Nel primo caso la nascita di un governo federale limita i poteri degli Stati che partecipano al processo federativo, nel secondo caso la formazione di comunità politiche indipendenti in seno a uno Stato unitario limita il potere del governo centrale.
L’obiettivo di Friedrich è quello di costruire la nozione di federalismo come superamento della concezione tradizionale dello Stato sovrano unitario. Il suo approccio dinamico ha infatti lo scopo di sottolineare la tendenza dei processi federativi a superare le strutture tradizionali dello Stato unitario verso l’alto e verso il basso, attraverso la creazione di comunità autonome al di sopra e all’interno di questa formazione politica.
Sviluppando questo ragionamento, l’autore giunge ad affermare che «in un sistema federale non può esistere nessuna sovranità: autonomia e sovranità si escludono l’una con l’altra in un tale ordine politico. Parlare del trasferimento di una parte della sovranità è negare l’idea della sovranità, che da Bodin ha avuto il significato di indivisibilità. Nessuno ha ‘l’ultima parola’. L’idea di un patto è connaturata con il federalismo e il ‘potere costituente’, che fa il patto, prende il posto del sovrano».[13] D’altra parte, la distinzione tra federazione e confederazione è definita la «quintessenza dell’approccio statico e formalistico».[14] Nella prospettiva dinamica proposta da Friedrich, la confederazione è concepita come una tappa del processo federativo e rispetto alla federazione non si presenta come qualcosa di qualitativamente differente, ma semplicemente come una forma di organizzazione politica più debole.[15] Una conclusione errata di questa teoria è la definizione del risultato del processo di trasformazione dell’Impero britannico nel Commonwealth come un esempio di federazione.[16]
Mi pare che la tesi di fondo di Friedrich confermi l’insufficienza dell’approccio puramente istituzionale nello studio del federalismo. Non è infatti possibile conoscere le istituzioni federali senza conoscere i processi storico-sociali che ne alimentano il funzionamento. Quando Friedrich insiste sulle due direzioni del processo federativo, ci offre delle categorie che ci permettono di cogliere dei processi reali che stanno trasformando la società contemporanea: la tendenza al superamento dello Stato nazionale e alla formazione di Stati o di organizzazioni internazionali di dimensioni continentali o subcontinentali e la tendenza al decentramento del potere e all’autogoverno regionale e locale in seno ai vecchi Stati unitari.
Tuttavia egli non è giunto a identificare le radici profonde di questo processo che consistono, come ha messo in luce Mario Albertini, nel superamento degli antagonismi tra le nazioni e tra le classi.[17] Questo elemento permette di spiegare la marginalità delle esperienze federalistiche del passato e l’attualità del federalismo nel mondo contemporaneo e nello stesso tempo di illuminare i caratteri profondi del comportamento sociale federalistico: la dimensione cosmopolitica e la dimensione comunitaria. La prima dimensione mette in luce il nesso che esiste tra i processi di unificazione politica dei continenti e la tendenza a unificare il mondo e a realizzare la pace con la creazione di una Federazione mondiale. La seconda dimensione mette in luce il legame esistente tra i movimenti per l’autogoverno regionale e locale e la tendenza a sperimentare nuove forme di organizzazione politica e sociale in seno alle comunità di base: la democrazia diretta e l’autogestione.
Chiariti i limiti di un approccio puramente istituzionale, appare tuttavia necessaria una riflessione sul rapporto che esiste tra le istituzioni e il processo storico. In termini generali, le istituzioni sono un prodotto del processo storico (per esempio, senza Rivoluzione industriale non è possibile la democrazia rappresentativa). D’altra parte, però, le istituzioni sono una condizione indispensabile di esistenza dello stesso processo storico. Con una metafora si potrebbe affermare che sono gli argini entro i quali scorrono i processi storico-sociali. Non racchiusa entro gli argini, la spinta della corrente si disperderebbe e la storia non avrebbe senso, nella duplice accezione di questo termine: direzione e significato. Le istituzioni sono quindi gli strumenti attraverso i quali gli uomini tentano di controllare la storia. Ciò significa che le istituzioni possiedono una relativa autonomia rispetto al processo storico, tendono cioè a incanalare i nuovi processi nei vecchi alvei, ma «in ultima istanza» sono costrette a piegarsi alla spinta della storia. In altri termini, quando le istituzioni non sono più adatte a contenere i nuovi processi, questi ultimi rompono gli argini e ne creano dei nuovi, per adeguarsi ai cambiamenti avvenuti nella storia.
Sopra ho usato tra virgolette alcune espressioni che si trovano nelle lettere di contenuto metodologico del vecchio Engels, nelle quali si afferma che «secondo la concezione materialistica della storia il fattore che in ultima istanza è determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale».[18] D’altra parte però, «lo Stato, …grazie alla relativa indipendenza[19] che gli è inerente, …reagisce a sua volta sulle condizioni e sul corso della produzione».[20] Ciò significa che, mentre i mutamenti poco rilevanti nel modo di produzione non si ripercuotono sulle istituzioni politiche, i grandi cambiamenti nel modo di produzione sconvolgono la struttura politica e la costringono ad adeguarsi al modo di produzione. Il rapporto tra struttura produttiva e sovrastruttura politica è, secondo la formula di Engels, una «azione reciproca tra due forze ineguali»,[21] in cui il ruolo della sovrastruttura è quello di favorire (quando c’è «corrispondenza» tra base e sovrastruttura) o inceppare (quando non c’è questa «corrispondenza») il progresso storico.
Il punto di vista istituzionale mantiene dunque la sua funzione insostituibile come criterio per valutare natura e tendenze dei processi federativi. Definire la struttura di una federazione è necessario per aiutarci a sapere quando un processo federativo ha prodotto una federazione, per stabilire se il processo abbia carattere federativo e, in caso positivo, per misurare i progressi che sono stati fatti nel senso della creazione di una federazione. La nozione istituzionale di federazione ci permette di affermare per esempio che il Commonwealth non è una federazione, né esistono indicazioni apprezzabili che lo stia diventando.[22] D’altra parte, va sottolineato che la confederazione non è sempre la tappa di un processo che porta alla federazione. La storia illustra innumerevoli esempi di confederazioni che si sono dissolte prima di aver raggiunto il traguardo della federazione.
Non c’è dubbio inoltre che l’organizzazione federale è incompatibile con la concezione tradizionale della sovranità indivisibile. Tuttavia l’esigenza di un’autorità che faccia valere in ultima istanza la propria decisione su tutto il territorio dello Stato è una conquista fondamentale dello Stato moderno. La novità dello Stato federale consiste nel fatto che la distribuzione del potere è organizzata in modo tale che alcuni centri di potere hanno l’ultima parola su certe materie, altri su altre, senza che si stabiliscano relazioni gerarchiche tra i diversi poteri sovrani. Bisogna, d’altra parte, rilevare che in tutte le federazioni è prevista un’autorità alla quale è attribuito il potere di decidere in ultima istanza, in caso di conflitto, tra i governi indipendenti tra i quali è diviso il potere. E’ il giudice, che ha il potere di annullare le leggi non conformi alla costituzione e di piegare tutti i poteri al rispetto del patto costituzionale.
Quanto all’estensione del campo di applicazione del federalismo dall’ambito dello Stato e dell’organizzazione dello Stato a quello delle organizzazioni non governative, come i partiti, i sindacati, i gruppi di interesse e le chiese, va osservato che si tratta di organizzazioni subordinate alla sovranità dello Stato. Sul piano interno, queste organizzazioni tendono a modellarsi sulla struttura dello Stato. E ciò è naturale perché il ruolo dei partiti è quello di controllare il governo e il ruolo degli altri gruppi di pressione è quello di influenzare le decisioni del governo. Di conseguenza, questi gruppi assumeranno una struttura federale solo nel caso in cui lo Stato abbia una struttura federale. Quando operano sul piano internazionale, essi non possono che essere subordinati alla ragion di Stato dello Stato al quale appartengono e subiscono la logica dei rapporti di forza che dominano le relazioni internazionali, come hanno messo in luce le vicende delle internazionali operaie o delle imprese multinazionali.[23]
8. Il federalismo integrale.
Negli anni bui del dominio incontrastato del nazionalismo, attorno alla rivista L’ordre nouveau, pubblicata a Parigi dal 1931 al 1938, si costituì un gruppo federalista, che continuò a essere attivo anche nel secondo dopoguerra soprattutto in Francia, i cui esponenti più rappresentativi erano Robert Aron, Arnaud Dandieu, Alexandre Marc e Denis de Rougemont. Essi elaborarono una concezione «integrale», cioè non soltanto istituzionale, ma anche economica, sociale e filosofica del federalismo.
Il federalismo integrale si presenta come una risposta globale ai problemi del nostro tempo e si fonda su un giudizio complessivo sul mondo contemporaneo: la crisi globale della nostra civiltà. Ciò significa che tutte le istituzioni che governano la nostra società sono antiquate e non sono adeguate a una realtà, come quella del mondo attuale, in rapida trasformazione. L’uomo contemporaneo è dominato e oppresso dalle grandi organizzazioni di massa (le imprese giganti, i partiti, i sindacati, gli apparati burocratici, gli Stati nazionali), nelle quali le relazioni sociali sono spersonalizzate. Alla disgregazione dei rapporti di solidarietà sociale, derivante dalla violenza dello scontro tra le grandi organizzazioni di massa, corrisponde l’anarchia delle sovranità statali sul piano internazionale ed entrambe determinano la crescita abnorme del potere accentrato dello Stato e dei suoi apparati burocratici e militari.
Alla base di questa crisi c’è una cultura di stampo individualistico, che ha le radici nel giacobinismo. Essa determinò l’atomizzazione della società e la dissoluzione di tutti i «corpi intermedi» e gettò le basi dei totalitarismi contemporanei: quello fascista e quello comunista. Sulla scorta delle analisi di Tocqueville e di Proudhon, il federalismo integrale critica il carattere accentratore dello Stato uscito dalla rivoluzione francese, che, non lasciando nessuno spazio alle organizzazioni intermedie tra l’individuo e lo Stato, potenzialmente ha carattere autoritario.
L’alternativa federalista si presenta come il capovolgimento di questa realtà. Aron e Marc definiscono il federalismo come «la concezione politica che permette di conciliare le libertà particolari e le necessità di una organizzazione collettiva» e che «facilita l’esistenza di comunità umane libere, capaci… di associarsi senza perdere per ciò i loro caratteri particolari».[24] In pratica il federalismo sarebbe una forma di organizzazione politica capace di conciliare libertà e autorità, unità e diversità. Definito il federalismo in termini così generici, se ne possono individuare le tracce in ogni epoca, addirittura fin «da quelle origini incerte della storia in cui delle comunità umane… raggruppavano i nostri lontani antenati in unità animate da uno stesso spirito e da una stessa fede, ma ripartite senza sforzo tra tribù e clan indipendenti dalle articolazioni libere».[25] Così Marc trova elementi di federalismo nella Grecia antica, a Roma, nei popoli barbari, nel feudalesimo e nell’età comunale.[26] La lotta tra federalismo e centralismo è già quella che oppose le tribù celtiche all’Impero romano.[27]
Secondo questo punto di vista, il nazionalismo è il frutto di una «scelta sbagliata». Gli Stati europei avrebbero avuto la libertà di organizzarsi tanto in forma federativa, quanto in forma accentrata. Il fatto che abbia trionfato il secondo orientamento mostrerebbe che ha prevalso «la scelta della via più facile».[28]
Ma il federalismo prende coscienza di sé nel XIX secolo. Solo in questa epoca, grazie soprattutto al contributo di Proudhon, il federalismo integrale trova una sua prima formulazione teorica. Si tratta di una dottrina a carattere globale che interessa una sfera più ampia della politica. Secondo Marc, è «una filosofia capace di ristabilire la comunicazione tra l’uomo e la natura, tra l’io, il tu e il noi, tra l’uomo e il suo destino, tra l’uomo e il suo mistero. Filosofia, antropologia, sociologia, diritto, scienza politica: tutto si tiene e il federalismo si rivela capace di ringiovanire e di rinnovare questo ‘tutto’».[29]
Non è possibile in questa sede prendere in esame i principi filosofici del federalismo integrale: il personalismo, una concezione dell’uomo che si propone di conciliare l’autonomia individuale e l’infinita diversità delle vocazioni personali con la solidarietà comunitaria, o la «dialettica dello scatenamento»,[30] una nouva concezione della dialettica aperta, che non sopprime le opposizioni, ma promuove una sintesi che mantiene le tensioni e le polarità. Lascerò da parte gli aspetti filosofici del federalismo integrale e mi limiterò a considerare gli aspetti politici, economici e sociali. Questi ultimi sono infatti suscettibili di un esame fondato sugli schemi concettuali elaborati dalle scienze sociali, che ho impiegato in questo articolo per la ricostruzione del pensiero federalista.
La proposta di edificare una società federalista si fonda, secondo questa scuola, sull’applicazione di quattro principi: autonomia, cooperazione, sussidiarietà e partecipazione.
L’applicazione del principio di autonomia a tutte le comunità territoriali (comuni, regioni ecc.) e funzionali (organizzazioni di base dei partiti, dei sindacati, delle unità produttive delle imprese, ecc.) permette a queste comunità di autogovernarsi, di modo che le decisioni che riguardano la collettività siano prese aderendo ai bisogni concreti degli individui. Il sistema delle autonomie permette così di superare il modello accentrato e autoritario dello Stato unitario.
La cooperazione tra queste comunità permette che esse non restino isolate, ma collaborino tra di loro per risolvere i problemi comuni.
Grazie al principio di sussidiarietà, si realizza una distribuzione del potere tale da consentire di risolvere ogni problema al livello più basso, portando così le decisioni il più vicino possibile agli interessati.
Infine il principio di partecipazione permette di immettere i principi democratici in quella pluralità di collettività autonome, disposte su diversi livelli e coordinate tra di loro, alle quali gli uomini appartengono e di avvicinarsi così all’ideale di una società nella quale gli uomini siano padroni del loro destino.
Da questi quattro principi sono dedotte tutte le soluzioni particolari. In contrapposizione con il modello chiuso e accentrato dello Stato unitario, il federalismo integrale valorizza l’appartenenza degli individui a una pluralità di gruppi sociali, senza che nessuno sia privilegiato a spese degli altri. E in questa prospettiva è sviluppata la critica al centralismo democratico, che consente la partecipazione popolare alla formazione delle decisioni politiche solo al livello del parlamento nazionale, e al regime dei partiti, che pretende di attribuire il monopolio della rappresentanza dell’opinione pubblica ai professionisti della politica, che controllano organizzazioni chiuse, oligarchiche e burocratiche.
Nel sistema federale la partecipazione democratica, svolgendosi prevalentemente nelle comunità di base indipendenti, permette di ridurre il governo centrale a un ruolo secondario. Uno degli aspetti più caratteristici del federalismo integrale è il fatto che la strada del rinnovamento della democrazia è individuata non solo nel sistema della autonomie — i cui aspetti essenziali ho illustrato sopra — ma nell’organizzazione di una nuova forma di rappresentanza di carattere economico-sociale accanto a quella politica a base territoriale e come questa strutturata a tutti i livelli, da quello locale a quello europeo. La riforma del bicameralismo, proposta da Aron e Marc nei Principi del federalismo,[31] attribuisce alla Camera eletta a suffragio universale la funzione di controllo dell’esecutivo, mentre alla seconda Camera, formata dai rappresentanti delle comunità regionali e locali e degli interessi economico-sociali, è conferito il potere legislativo.
Queste considerazioni ci portano a trattare l’aspetto economico-sociale del federalismo integrale. Esso si definisce in opposizione sia al capitalismo sia al collettivismo. Ispirandosi a Proudhon, i federalisti integrali non mettono in discussione il principio della proprietà privata dei mezzi di produzione, anche se ritengono che ne vadano corrette le distorsioni. Non è comunque possibile, né sarebbe desiderabile, abolire la proprietà privata. Essa va semmai generalizzata. In agricoltura sostengono le cooperative, nell’industria la partecipazione operaia alla gestione delle imprese.
Per quanto riguarda poi la pianificazione, essa deve fondarsi sulla partecipazione degli enti regionali e locali, dei sindacati, dei gruppi professionali e delle imprese, anche sul piano finanziario, sulla loro cooperazione contrattuale e su un’articolazione territoriale modellata sullo schema federalistico della distribuzione delle competenze. Inoltre la pianificazione opera con strumenti differenziati: nel settore dei bisogni vitali (industria pesante, agricoltura, edilizia abitativa, infrastrutture di base, abbigliamento, sanità, istruzione) essa ha carattere obbligatorio, mentre ha carattere indicativo nel settore dei beni di consumo e dei servizi non essenziali.
Occorre infine ricordare due proposte volte a favorire la democratizzazione dell’economia. Il «minimo sociale garantito», cioè un reddito minimo, che assicuri a tutti la possibilità di soddisfare i bisogni fondamentali, e il «servizio civile» generale e obbligatorio, che ripartisca tra tutti i lavori meno qualificati e più ingrati non eliminati dall’automazione e permetta di alimentare con risorse adeguate il fondo che assicura il «minimo sociale garantito».
A questo punto è possibile procedere a una valutazione complessiva del federalismo integrale. Pur con i limiti che vedremo, questa scuola ha il merito di aver avviato una critica agli aspetti autoritari della struttura dello Stato nazionale, e dell’ideologia che lo sostiene, e una riflessione di carattere globale sul federalismo come alternativa alla crisi del nostro tempo.
Tuttavia la definizione del federalismo che essa propone è così generica e priva di una sua propria determinazione storica che se ne possono trovare tracce in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Una delle conseguenze inaccettabili di questa impostazione è che, per esempio, l’affermazione del modello politico dello Stato-nazione sarebbe il risultato di un errore e che quindi l’alternativa federalista avrebbe potuto imporsi se gli uomini l’avessero scelta nell’epoca dell’affermazione del principio nazionale. In realtà il centralismo democratico fu lo strumento che consentì ai fautori dell’idea di nazione di liberare gli individui dalle vecchie istituzioni politiche ed economiche locali, nelle quali si annidavano i privilegi delle vecchie classi dominanti nel sistema feudale. Le autonomie provinciali nell’ancien régime non corrispondevano soltanto ai privilegi di notabili locali gelosi delle loro prerogative, ma anche ad interessi parassitari di lavoratori membri delle corporazioni, che costituivano una sopravvivenza del sistema feudale. Rispetto a questo sistema, il centralismo democratico ha rappresentato indubbiamente un progresso e la premessa per ricostruire le autonomie regionali e locali in termini democratici. Mentre invece in quel contesto storico i sostenitori del federalismo (come i Girondini durante la rivoluzione francese) finirono con il confondersi con i difensori dei particolarismi e dei privilegi feudali e svolsero un ruolo oggettivamente controrivoluzionario.
Per quanto riguarda il modello politico-istituzionale, la proposta di trasformare le seconde camere in assemblee economico-sociali rappresentative dei gruppi sociali e degli interessi professionali ha chiari connotati corporativistici, anche se questa definizione è respinta dai federalisti integrali. Un’assemblea che riunisca gli interessi economico-sociali presenti in uno Stato è una somma di volontà particolari, ciascuna delle quali tende a considerare i propri interessi in modo egoistico e unilaterale. Di conseguenza, essa non costituisce un rimedio allo scontro tra gli interessi corporativi, perché non è in grado di realizzare né una mediazione tra gli interessi in conflitto, né una sintesi politica capace di far emergere la volontà generale.
Sul piano economico, il federalismo integrale ha formulato le proposte che oggi appaiono più interessanti e innovative. Esse infatti configurano le linee di fondo di un «terzo modello», un’idea che recentemente ha ricevuto da più parti una crescente attenzione. Però i caratteri del modello, invece di essere definiti in rapporto con le tendenze di sviluppo della storia contemporanea, sono dedotti in modo dottrinario dai principi del federalismo. Di conseguenza, il modo in cui sono presentati impedisce che siano pienamente compresi e recepiti i suoi aspetti innovatori.
Più in generale resta il fatto che il federalismo integrale non ha sviluppato un interesse primario ad elaborare e a perfezionare gli strumenti per l’interpretazione del corso oggettivo della storia. Eppure la politica deve fare i conti con il processo storico e con le strutture sociali, economiche e politiche, intese come l’insieme delle condizioni oggettive nelle quali sono immersi i comportamenti umani, che non dipendono dai nostri desideri, per quanto nobili siano. Un impegno federalista che non si voglia limitare semplicemente alla critica della realtà (alla sua negazione), ma si proponga anche l’obiettivo di riuscire nell’azione concreta di cambiare il mondo, ha l’obbligo di non staccarsi mai dai processi reali, ma deve parteciparvi attivamente al fine di conoscerli e di orientarli. E ciò esige che si definiscano degli obiettivi interni al processo storico in corso e compatibili con le condizioni storiche del nostro tempo.
Per il federalismo integrale vale la stessa critica che Marx ed Engels rivolsero al «socialismo utopistico», il quale, invece di ricercare nel processo storico e nelle sue contraddizioni gli elementi per affermare l’alternativa socialista, si affidava semplicemente alla forza delle idee e alla buona volontà. Scrive Engels nell’Evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza a proposito dei fondatori del socialismo: «La soluzione del problema sociale… doveva essere creata dal cervello. La società offriva unicamente delle incongruenze; eliminare queste incongruenze era il compito della ragione ragionante. Si trattava di escogitare un nuovo più perfetto ordinamento sociale, e di introdurlo nella società dal di fuori, con la propaganda e, ove possibile, con l’aiuto di esperimenti».[32]
In sostanza il limite dell’orientamento politico del federalismo integrale consiste nel concepire l’alternativa federalista come il capovolgimento totale della realtà sociale che combatte. E’ una posizione che si limita alla semplice negazione, all’astratto rifiuto di questa realtà e a contrapporre meccanicamente l’utopia alla realtà. L’obiettivo della rivoluzione federalista, scrive Marc, è «un rifacimento radicale di tutte le strutture [della nostra società], siano esse sociali o politiche, economiche o mentali».[33] Pensare in termini di trasformazione globale della società significa sognare un progetto che non è mai riuscito a nessun gruppo rivoluzionario: distruggere questo mondo mal fatto e ricostruirlo dalle fondamenta.
In una lettera ad Antoine Gauthier, Proudhon, autore al quale peraltro i federalisti integrali si ispirano, aveva scritto: «Tu mi domandi delle spiegazioni sul modo di ricostruire la società… Devi capire che non si tratta ora di immaginare, di combinare nel nostro cervello un sistema che in seguito presenteremo: il mondo non si riforma cosÌ. La società non può correggersi che da se stessa».[34] Il problema è dunque posto in termini chiari. Nessun gruppo politico può pretendere di cambiare la società nel suo insieme, né, del resto, ha il potere di farlo. La società muta attraverso il cambiamento del comportamento di tutti.
Tuttavia la politica è quell’attività umana che ha il compito di realizzare, attraverso l’impiego di due ingredienti (entrambi indispensabili e presenti, sebbene in misura diversa, in ogni società finora esistita), la coercizione e il consenso, l’autocontrollo della società su se stessa. In ogni politica c’è sempre un elemento di imposizione dei pochi (i governanti) sui molti (i governati). Ma l’esperienza storica prova che non si mantiene a lungo il potere senza consenso. In altri termini, non è possibile far prevalere una politica se non corrisponde ai bisogni del popolo. Si può quindi affermare che la politica è la sfera nella quale l’intervento rivoluzionario dell’azione umana può mutare il corso degli eventi. Ma si tratterà semplicemente di adeguare le istituzioni politiche ai mutamenti avvenuti nella società. Ciò significa che l’azione rivoluzionaria non ha mai l’obiettivo di trasformare radicalmente la società, ma di abbattere le istituzioni politiche che ne intralciano lo sviluppo e ostacolano il progresso storico e di creare delle nuove istituzioni capaci di liberare le tendenze maturate nella società verso forme più elevate di convivenza politica.
I federalisti integrali concepivano il loro progetto politico, a causa della situazione storica nella quale all’inizio si sviluppò questo movimento di idee, come un lontano fine ultimo, che restava senza influenza sulle decisioni del momento. E anche quando, con il crollo degli Stati nazionali nella seconda guerra mondiale, maturarono le condizioni dell’unificazione europea, l’obiettivo politico prioritario fu identificato nell’affermazione del federalismo integrale in tutti i suoi aspetti piuttosto che nella lotta per la Federazione europea.
Certo essi si sono battuti per la Federazione europea in seno all’Unione europea dei federalisti, ma il loro obiettivo era soprattutto la trasformazione radicale della società in senso federalistico. Come afferma Marc, «una buona costituzione non potrebbe che accompagnare, esprimere, coronare questa rivoluzione necessaria e non precederla o, ancor meno, sostituirla».[35] Esprimendo il dubbio che non fosse sufficiente limitarsi alla lotta per cambiare le istituzioni politiche e che la Federazione europea avrebbe anche potuto non avere come conseguenza la formazione di una società più libera e più giusta, questa corrente politica non profuse un impegno adeguato nel perseguire l’obiettivo della Federazione europea e non si misurò con l’impegno necessario con i rapporti di potere che occorre modificare, se si vuole far trionfare il progetto federalista. Di fatto essa finì col subire la politica di unificazione europea promossa dai governi, la quale, per definizione, non mette in discussione le sovranità nazionali. Si tratta di un atteggiamento politico ancora largamente diffuso, che non imputa all’organizzazione federalista la responsabilità della costruzione dell’unità europea, ma si aspetta, in definitiva, questo risultato dai poteri costituiti. E questo è un altro tratto comune con il socialismo utopistico.
D’altra parte occorre sottolineare che, sotto il profilo dell’efficacia politica, la definizione del federalismo come filosofia ha avuto un ruolo negativo.[36] Si sono infatti allontanati dall’impegno federalista coloro che, pur condividendo gli obiettivi politici, economici e sociali del federalismo integrale, erano in disaccordo del tutto o in parte con le sue impostazioni filosofiche. Ne consegue che queste ultime dovrebbero essere abbandonate alle libere scelte individuali e non interferire con le posizioni politiche. La maggiore difficoltà dei gruppi politici che hanno adottato la prospettiva del federalismo integrale è sempre stata quella di definire una strategia politica. In definitiva essi non hanno saputo dare una definizione teorica del federalismo capace di far diventare quest’ultimo una posizione di molti e di trasformarlo in una forza, di formare cioè un nucleo di militanti,[37] che costituisse l’ossatura di un’organizzazione politica indipendente, e di dare ai militanti un orientamento teorico capace di guidarli nella lotta politica. E’ merito del federalismo italiano aver superato questi limiti.
9. Il federalismo come ideologia.
Lo sviluppo originale che il pensiero federalistico ha assunto in Italia è rappresentato dalla definizione del federalismo come ideologia.
E’ opportuno, prima di procedere all’esame dei caratteri specifici di questa corrente del pensiero federalistico, fare qualche premessa sulla nozione di ideologia e sulla crisi delle ideologie tradizionali. L’ideologia è uno schema per l’analisi del processo storico al fine di controllarlo e di orientarlo. Più precisamente, è un progetto politico, che mette in luce il senso di una nuova fase della storia attraverso l’affermazione di nuove istituzioni e di nuovi valori. L’ideologia è dunque la forma che assume il pensiero politico attivo. E’ il sistema concettuale che rende possibile la convergenza di pensiero indispensabile alla coesione di un gruppo politico e alla coerenza dei suoi principi di azione. Essa si distingue dal pensiero filosofico e religioso per il suo carattere attivo, cioè per la sua proiezione e per il suo orientamento verso l’azione. Ciò spiega come sia possibile l’adesione alla stessa ideologia di persone che hanno posizioni filosofiche o religiose differenti.
Accanto a questa nozione ne esiste un’altra più specifica, introdotta nella cultura politica da Marx, secondo la quale l’ideologia è il pensiero automistificato. Come ha messo in luce Gustav Bergmann, la mistificazione si produce ogniqualvolta un giudizio di valore è scambiato per un’asserzione di fatto.[38] Si tratta di un fenomeno normale nel campo politico, perché il potere politico è una relazione sociale in presenza della quale la mente spesso, invece di rappresentare la realtà, la occulta o la distorce. Dunque nelle ideologie, intese nella prima accezione del termine, cioè come forme del pensiero politico attivo, sono sempre coesistiti conoscenza ed errore.
Il federalismo, inteso come un’ideologia, si colloca in un rapporto di continuità rispetto ai grandi movimenti rivoluzionari del passato e nello stesso tempo si presenta come uno sviluppo di questi movimenti, in grado di far compiere al genere umano un passo avanti nel processo di emancipazione. La nascita e lo sviluppo delle ideologie liberale, democratica e socialista fu accompagnata dalla convinzione che la storia potesse essere oggetto di comprensione razionale e di controllo consapevole. E’ da sottolineare però che si trattava di una convinzione solo parzialmente fondata, perché, accanto alle capacità tecniche di controllo della realtà sociale, che hanno fatto progredire l’umanità verso forme più elevate di convivenza politica, quelle ideologie contenevano elementi di automistificazione. La loro crisi attuale coincide con la crisi delle categorie tradizionali di analisi storico-sociale e dei modelli politico-istituzionali ereditati dal passato, che si dimostrano sempre più inadeguati a comprendere e a dominare le tendenze di fondo della storia contemporanea. Che ci sia una crisi delle ideologie tradizionali è un fatto generalmente riconosciuto. Tuttavia la natura di questa crisi non diventa chiara se non nell’ambito del pensiero federalistico. Quest’ultimo infatti si colloca da un punto di vista che gli permette di individuare i limiti delle ideologie tradizionali e di proporre criteri di analisi o obiettivi che consentono di superarne la crisi.
La crisi delle ideologie è la crisi del pensiero politico tradizionale, che non sa controllare le forze distruttive (guerre mondiali, rischio di catastrofe nucleare ed ecologica, sfruttamento e sottosviluppo del Terzo mondo, ecc.) suscitate dalle nuove tendenze della storia contemporanea e non sa riconoscere nella possibilità e nella necessità dell’unificazione dell’Europa e del mondo il carattere nuovo della nostra epoca. Il limite delle ideologie tradizionali sta nella loro dipendenza da una posizione di potere legata a una classe e a uno Stato. Infatti la causa delle mistificazioni presenti in quelle concezioni politiche sta nel fatto che hanno fondato la loro interpretazione della realtà sociale sull’esigenza di difendere determinati interessi nazionali o di classe. Poiché considerano la lotta per affermarsi sul piano nazionale come sufficiente alla loro realizzazione, esse si limitano a proporre politiche per migliorare la condizione di ciascun paese, considerato singolarmente. Persino l’obiettivo della pace è concepito come il risultato della somma di politiche nazionali indipendenti.
Con il governo mondiale, ha osservato Mario Albertini, cioè «nel contesto di una politica fatta da tutti per tutti, il potere non potrebbe più coincidere con il vantaggio di alcuni e il danno di altri, ma dovrebbe coincidere con l’interesse di tutti, cioè con qualcosa che può essere accertato solo scientificamente».[39] Cadute le divisioni dell’umanità in classi e in nazioni, potranno essere anche superati quegli interessi particolaristici che oscurano o distorcono la conoscenza e danno origine a quelle mistificazioni, che si producono per la difesa di posizioni di potere di gruppi che rappresentano parti dell’umanità in conflitto tra di loro. Il punto di vista dell’interesse del genere umano e la lotta per la pace, cioè per la costruzione di un governo mondiale, capace di controllare la storia mondiale, danno al federalismo il carattere di un’ideologia che può ridurre al minimo gli errori teorici nei quali sono cadute le altre ideologie a causa del loro punto di vista unilaterale.
Per affrontare i maggiori problemi della società contemporanea, che hanno assunto dimensioni più ampie degli Stati nazionali, bisogna dunque agire per l’interesse comune del genere umano e non solo per quello del proprio paese. Ciò significa che è maturato il tempo in cui deve essere data la priorità all’obiettivo dell’unità dell’Europa e degli altri continenti, nella prospettiva dell’unità di tutto il mondo, rispetto alla finalità del rinnovamento dei singoli Stati considerati separatamente. Il federalismo si presenta come la coscienza teorico-pratica di questa priorità.
Il grande merito di Altiero Spinelli è stato quello di porre le premesse della definizione del federalismo come ideologia, anche se egli ha sempre rifiutato di collocarsi in questa prospettiva culturale.[40]
Queste premesse consistono nell’aver sviluppato il concetto di autonomia teorico-pratica del federalismo più a fondo di quanto avesse mai fatto nessun altro federalista.
Sul piano teorico la riflessione di Spinelli si basa sul federalismo costituzionale anglosassone, che affonda le sue radici nel Federalist e si sviluppa con importanti approfondimenti nell’epoca delle guerre mondiali, prima con gli scritti di Einaudi poi con le opere dei federalisti inglesi di Federal Union.[41]
Il giudizio storico sul quale si fonda l’autonomia teorica di questa tendenza del pensiero federalista si riassume nel concetto di crisi dello Stato nazionale. Questa forma di Stato, non essendo più in grado di controllare le tendenze di fondo del corso storico (internazionalizzazione del processo produttivo, formazione del sistema mondiale degli Stati, dominato da Stati di dimensioni continentali), è diventata il principale ostacolo al rinnovamento della società e condanna al fallimento tutte le alternative nazionali, siano esse liberali, democratiche o socialiste.
Il concetto di crisi dello Stato nazionale si distingue da quello di crisi della civiltà, adottato dai federalisti integrali, per il fatto che fonda l’alternativa federalista sull’analisi delle tendenze prevalenti nella storia contemporanea e individua una contraddizione specifica sulla quale l’azione politica avrebbe dovuto far leva. Così l’idea della priorità della riforma delle istituzioni (il superamento dell’organizzazione dell’Europa in Stati nazionali e la sua trasformazione in senso federale) si contrappone all’idea della riforma globale della società propria del federalismo integrale. Questo punto di vista permette di indicare all’azione federalista un obiettivo chiaro, ben definito, comprensibile a tutti: la Federazione europea, intesa come pilastro europeo della pace mondiale. Pace e federazione sono dunque il fine e il mezzo di questa azione.
Ma sul terreno dell’azione l’opera di Spinelli assume un significato veramente innovatore e rappresenta un punto di svolta nella storia del federalismo. Con il Manifesto di Ventotene[42] comincia infatti un nuovo modo di concepire il federalismo, inteso come teoria che ispira un nuovo comportamento politico e una lotta politica autonoma. Per comprendere la novità della posizione di Spinelli è utile paragonarla con quella dei suoi maestri: Einaudi e i federalisti britannici. Per questi autori il federalismo non divenne mai una scelta politica prioritaria, ma rimase una concezione accessoria al liberalismo o al socialismo. Il senso del disegno politico di Spinelli è condensato in una riflessione che si legge nell’ultima pagina delle sue memorie, dov’è descritto il suo programma dopo la liberazione dal confino: «Nessuna formazione politica esistente mi attendeva… Sarei stato io a suscitare dal nulla un movimento nuovo e diverso per una battaglia nuova e diversa».[43]
Ciò che distingue l’opera di Spinelli fin dal Manifesto di Ventotene da quelle precedenti, che si erano limitate a mettere in evidenza la crisi storica dello Stato nazionale, collocando l’alternativa federalista in un futuro indefinito, è il fatto che esso afferma l’idea dell’«attualità» della Federazione europea. Uso questa espressione, che Lukàcs[44] impiega per definire la visione della rivoluzione proletaria di Lenin e per distinguerla da quella degli altri marxisti, allo scopo di affermare che, secondo Spinelli, non solo è necessario, ma è anche diventato ormai possibile ricostruire l’Europa su basi federali, per aprire la strada all’unificazione del mondo. Secondo gli autori del Manifesto, nel contesto storico nuovo, determinato dalla seconda guerra mondiale, la crisi storica dello Stato nazionale sarebbe diventata crisi politica e avrebbe aperto uno spazio all’iniziativa federalista.
Ancora nel Manifesto di Ventotene troviamo enunciati i principi di azione che ispireranno l’azione federalista nella lotta per l’unità europea, ai quali Spinelli è sempre rimasto fedele. Da una parte si afferma la priorità strategica dell’obiettivo della Federazione europea rispetto a quello del rinnovamento nazionale: «Il problema che in primo luogo va risolto e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in Stati sovrani». Di modo che, «se la lotta restasse domani ristretta nel tradizionale campo nazionale, sarebbe molto difficile sfuggire alle vecchie aporie».[45] La novità dell’atteggiamento federalista consiste nel fatto che rovescia l’ordine delle priorità che ispira la condotta dei partiti, per i quali vale la priorità degli obiettivi nazionali: la libertà e l’uguaglianza si debbono realizzare in ogni singolo paese e ne deriverebbe come conseguenza non solo l’estensione di questi valori sul piano internazionale, ma anche la pace.
Nella prospettiva federalista, le istituzioni federali e la pace rappresentano invece la premessa, e non la conseguenza, della piena realizzazione della libertà e dell’uguaglianza. Se l’obiettivo internazionale rappresenta la premessa di una soluzione positiva di tutti gli altri problemi istituzionali, politici, economici e sociali, così viene individuata la nuova linea di divisione tra le forze del progresso e le forze della conservazione: «La linea di divisione tra partiti progressisti e partiti rivoluzionari cade perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale — e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie lasciando solidificare la lava incandescente delle passioni popolari nel vecchio stampo, e risorgere le vecchie assurdità — e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido Stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopreranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale».[46]
Nell’epoca della crisi dello Stato nazionale il fronte principale della lotta politica che discrimina le forze del progresso da quelle della conservazione non si identifica più nello scontro tra i principi della dittatura e della libertà o tra quelli del capitalismo e del socialismo all’interno degli Stati nazionali ma nello scontro tra nazionalismo e federalismo. Le ideologie tradizionali, nella misura in cui perseguono l’illusione del rinnovamento nazionale, rimangono prigioniere di questa formula politica, ne subiscono la decadenza e restano quindi sul terreno della conservazione.
D’altra parte, la Federazione europea, dando vita a nuove istituzioni corrispondenti nella dimensione e nella forma alle esigenze imposte dall’evoluzione del modo di produrre e dall’organizzazione dello Stato, avrebbe liberato le tendenze maturate nella società verso forme di integrazione supernazionali sempre più vaste e di convivenza più libere e più aperte, nell’ambito delle quali anche la destra avrebbe potuto svolgere un ruolo progressivo.
I federalisti, per poter perseguire i propri obiettivi in modo autonomo dai governi e dai partiti, dovevano disporre di una propria organizzazione. Gli autori del Manifesto di Ventotene ritenevano che questa organizzazione dovesse essere il partito. Si tratta di un errore che fu ben presto corretto. L’organizzazione federalista italiana, la cui fondazione fu promossa da Spinelli a Milano il 27-28 agosto 1943, si costituì in forma di movimento e analoga struttura, anche per influenza degli italiani, si diedero le organizzazioni federalistiche degli altri paesi. La lotta per il potere nazionale avrebbe infatti rafforzato questo potere e, di conseguenza, consolidato la divisione dell’Europa. Mentre l’organizzazione in movimento avrebbe permesso di unire le forze favorevoli all’obiettivo costituzionale europeo non solo al di sopra delle divisioni partitiche, ma anche delle divisioni nazionali. E, in effetti, nel 1946 i movimenti federalisti si unirono nell’Unione europea dei federalisti, la quale all’inizio era una coalizione di movimenti nazionali, ma divenne nel 1973 un vero e proprio movimento sovrannazionale.
Spinelli definì anche la strategia necessaria a raggiungere l’obiettivo della Federazione europea. Quanto alla natura giuridica di questo obiettivo egli mise in luce che esso ha un duplice carattere: da una parte, è un trattato con il quale gli Stati contraenti si impegnano a rinunciare a una parte delle loro prerogative sovrane a favore di un governo sovrannazionale, d’altra parte, è una costituzione che definisce la forma di organizzazione dell’unione degli Stati.
Poiché la natura dell’obiettivo determina il carattere dei mezzi da impiegare, egli trasse la conseguenza che non è possibile progredire sulla via della costruzione della Federazione europea senza il consenso degli Stati, anche se questi ultimi rappresentano il principale ostacolo al trasferimento dei poteri sul piano europeo.
Su questa base egli precisò i caratteri del metodo costituente, la sola procedura possibile per portare a conclusione la costruzione di un potere democratico europeo. Da una parte, un’assemblea costituente europea, rappresentativa dell’insieme dei popoli e delle forze politiche europee, è l’unico organo capace di agire con la forza della legittimazione che gli deriva dal voto ed è quindi dotata dell’autorità necessaria ad elaborare e a proporre la Costituzione. D’altra parte, in un’assemblea parlamentare, le decisioni sono prese pubblicamente e a maggioranza, cioè in base a procedure che permettono di identificare in modo chiaro le responsabilità e di giungere a decisioni democratiche ed efficaci: il contrario del metodo diplomatico, che si fonda sul principio della difesa delle sovranità nazionali e impone compromessi che tengano conto della posizione di tutti gli Stati, perché prescrive di prendere le decisioni in segreto e all’unanimità.
L’impostazione costituzionale si contrapponeva a quella funzionale, scelta dai governi, perché permetteva, attraverso la creazione di comunità specializzate, di prendere decisioni sul piano europeo senza mettere in discussione le sovranità nazionali. Spinelli criticò duramente l’illusione che si potessero realmente unificare settori parziali (economici, militari, ecc.) delle società europee senza creare un governo democratico europeo. E dedicò tutto il suo impegno al tentativo di sfruttare le contraddizioni derivanti dal carattere parziale delle soluzioni proposte dai governi per spingere questi ultimi ad adottare soluzioni costituzionali.[47]
Sulla base di questi principi di azione Spinelli è stato in grado, nel momento in cui si sono presentate le occasioni favorevoli, di mettersi a capo dei due tentativi di costruire lo Stato europeo, che sono stati intrapresi nel corso del secondo dopoguerra.
Il primo maturò nei primi anni Cinquanta in connessione con le iniziative per costruire un’alternativa europea (CECA e CED) alla ricostruzione della Germania. Queste iniziative permisero di mettere in moto, grazie all’intervento di Spinelli, un processo costituente con il conferimento all’Assemblea ad hoc (l’assemblea allargata della CECA) del mandato di elaborare lo statuto della Comunità politica europea, l’organismo politico necessario a controllare l’esercito europeo. Il processo si arrestò, come è noto, con la caduta della CED nel 1954 in conseguenza del voto contrario dell’Assemblea nazionale francese.
Il secondo tentativo è quello per la ratifica del progetto di Trattato di Unione europea, elaborato per iniziativa di Spinelli e approvato dal Parlamento europeo il 14 febbraio 1984. Anche questa volta Spinelli si è trovato nel Parlamento europeo al posto giusto per poter esercitare la sua iniziativa costituzionale. L’occasione è stata offerta dalla contraddizione di un Parlamento eletto a suffragio universale dotato di soli poteri consultivi, che ha permesso di aprire la lotta per attribuire al popolo sovrano, attraverso la sua rappresentanza parlamentare, il potere di fare le leggi e di controllare l’esecutivo. Questo tentativo non è riuscito, ma la contraddizione messa in rilievo ha carattere permanente e quindi altrettanto permanente non può non essere l’azione per superarla. In effetti lo stesso Spinelli, pochi mesi prima di morire, aveva ripreso, in seno al Parlamento europeo, la lotta per l’Unione.
In definitiva il ruolo di Spinelli nella vita politica europea è, per usare una formula hegeliana, quella di un «uomo storico». I grandi uomini storici esprimono le tendenze più profonde di un’epoca e si identificano a tal punto con esse che il fine individuale coincide con il fine universale. Il fine che essi perseguono non è dunque qualcosa di arbitrario, ma corrisponde ai bisogni di una fase della storia e appartiene alle reali possibilità del loro tempo. «Gli individui storico-universali», ha scritto Hegel, «sono quelli che hanno detto per primi ciò che gli uomini vogliono. E’ difficile sapere ciò che si vuole. Si può certo volere questo o quello, ma si resta nel negativo e nello scontento: la coscienza dell’affermativo può benissimo far difetto. Ma quegli individui sanno anche che ciò che vogliono è l’affermativo».[48]
Tuttavia essi hanno una coscienza intuitiva dei problemi della loro epoca. Come ha osservato Hegel, il «concetto è proprio della filosofia. Ma gli individui storico-universali non sono tenuti a conoscerlo, perché sono uomini d’azione. Al contrario essi conoscono e vogliono la loro opera, perché essa corrisponde all’epoca».[49] Ed è singolare la corrispondenza tra questo brano di Hegel con una pagina autobiografica di Spinelli, nella quale egli afferma: «La federazione europea non mi si presentava come un’ideologia… era la risposta che il mio spirito desideroso di azione politica andava cercando».[50]
Il senso dell’intera opera di Spinelli si risolve nell’eroica concentrazione di tutte le energie su un unico scopo: l’azione per la Federazione europea. Con Spinelli prendono corpo per la prima volta, anche se sul solo piano dell’azione politica, i caratteri nuovi del federalismo inteso come comportamento politico autonomo rispetto a quello delle altre forze politiche. Si tratta di una posizione che contiene in germe l’idea del federalismo come ideologia.
La rilevanza dell’elaborazione politica e culturale di Mario Albertini consiste nell’aver approfondito ed esteso la portata del concetto di autonomia politico-organizzativa e teorica del federalismo. Proprio questa concezione dell’autonomia del federalismo, che costituisce l’elemento essenziale di continuità tra l’opera di Spinelli e quella di Albertini, definisce il carattere fondamentale che distingue la linea di sviluppo del movimento federalista in Italia.
Per esaminare nella prospettiva giusta il contributo di Albertini, è necessario situarlo nel contesto storico che l’ha reso possibile. Il contesto è quello della fase dell’unificazione europea che si apre con l’avvio del Mercato comune dopo la caduta della CED, nel corso della quale i governi nazionali sono stati in grado di controllare e di far progredire l’unificazione europea sul piano economico, senza che per molti anni si aprisse di nuovo una possibilità di fondare la Federazione europea. Di fronte a questo nuovo ciclo politico, l’ala più autonoma del federalismo organizzato (in pratica il Movimento federalista in Italia e una parte di quello francese) avviò ciò che Spinelli chiamò un «nuovo corso» di opposizione intransigente al Mercato comune e alla politica europeistica dei governi, fondata sulla rivendicazione della Costituente europea. In corrispondenza con questa scelta politica, matura l’esigenza di fondare su nuove e più solide basi l’autonomia organizzativa e culturale del federalismo.
E’ evidente la profonda differenza tra questo ciclo politico e quello precedente. Finché restò aperta l’alternativa tra la ricostruzione dell’esercito tedesco e la costruzione dell’esercito europeo, imposta dalla guerra fredda, rimase sul tappeto anche la possibilità di giungere alla fondazione dello Stato europeo. Questa situazione, che favoriva la convergenza tra il Movimento federalista europeo e il potere costituito, rendeva possibile mobilitare l’europeismo dei governi, e dei partiti che li sostenevano, sulla posizione costituente. La sostanza politica del Movimento non era molto di più di un centro di coordinamento e di indirizzo dell’europeismo degli uomini di partito e di governo. Per tre motivi il Movimento non poteva essere definito come «una forza politica europea», osservò Spinelli nel 1956: in primo luogo, perché era una semplice «coalizione di movimenti nazionali», poi perché aveva unicamente il ruolo di «suggeritore» delle forze politiche nazionali e infine perché non aveva «sviluppato nel suo seno un nucleo di militanti».[51]
Un movimento di questa natura era diventato manifestamente inadeguato ad affrontare i compiti posti dalla fase dell’unificazione europea che si aprì dopo la caduta della CED. Di qui il dibattito che si sviluppò nel Movimento sulla natura e sui caratteri dell’organizzazione. Le scelte che allora furono compiute rivestono una grande rilevanza per la vita e lo sviluppo del Movimento. La forma dell’organizzazione non è infatti indifferente rispetto agli obiettivi che si vogliono raggiungere: essa è tanto più efficace quanto più è adeguata ai fini che si intendono perseguire. «L’organizzazione», scrive Lukàcs, «è… la forma della mediazione tra la teoria e la prassi».[52] In altri termini, essa è il veicolo attraverso il quale i principi trovano una possibilità di realizzazione, è l’elemento nuovo che svolge la funzione di introdurre il cambiamento nella storia.
La posizione di Albertini che si è affermata in Italia, si distingue per aver definito in modo più profondo e conseguente i requisiti che deve possedere l’organizzazione per essere autonoma. Il problema da risolvere era, secondo Albertini,[53] quello di creare un movimento preparato a condurre una lotta di lunga durata e capace di affrontarla anche in una posizione di isolamento dal resto delle forze politiche e sociali, che non traesse alimento dagli incentivi della lotta per i poteri costituiti (gli interessi di potere o di carattere economico), ma unicamente dalla contraddizione tra valori e fatti.
Albertini definì la figura del militante federalista come un politico di professione, ma non un funzionario stipendiato, come voleva Spinelli. Il militante avrebbe dovuto trarre dal proprio lavoro i mezzi di sussistenza e dedicare al lavoro politico (volontario e gratuito) tutto il restante tempo disponibile. Solo questi requisiti avrebbero potuto assicurare la piena indipendenza del Movimento federalista dai poteri costituiti. Inoltre, l’attività delle sezioni, per non subire condizionamenti esterni, avrebbe dovuto fondarsi sull’autofinanziamento dei militanti. Infine, poiché la cultura federalista non possiede i canali istituzionali di cui dispongono le ideologie tradizionali per la diffusione delle proprie idee, le sezioni, per sopravvivere, avrebbero dovuto dedicare in permanenza una parte della loro attività alla formazione dei militanti. In definitiva, l’autonomia del Movimento federalista avrebbe dovuto fondarsi su rigorosi criteri di selezione. Avrebbe cioè dovuto far leva unicamente su stimoli provenienti dalle sfere della morale e della cultura, in modo da formare dei militanti che si impegnassero nella lotta politica con una passione superiore a quella profusa per la propria vita personale. E’ un compito arduo, ai limiti delle capacità umane, in un mondo nel quale il potere e il denaro tendono a diventare gli incentivi dominanti e quasi esclusivi della lotta politica. Ma la sopravvivenza e il rafforzamento del Movimento federalista sono l’esempio vivente che nella nostra società esiste un serbatoio di energie morali e di capacità intellettuali disponibili a un nuovo e diverso modo di partecipare alla vita politica.
La sezione divenne la cellula di base nella quale si svolge l’attività federalista. Ecco quali sono le tre funzioni fondamentali della sezione, come sono state definite da Albertini:[54] un centro di elaborazione e di dibattito della cultura federalistica e di confronto con gli altri gruppi politici e sociali; un centro di agitazione politica, attraverso prese di posizione che permettano ai federalisti di entrare nel dibattito politico, e azioni di inquadramento dell’opinione pubblica (come il Congresso del popolo europeo o il Censimento volontario del popolo federale europeo), per dare espressione all’europeismo diffuso nella popolazione; un centro di coordinamento delle forze democratiche, la cui unità è necessario attivare per avere il sostegno necessario a prendere una decisione così difficile come quella di trasferire una parte del potere dagli Stati alla Federazione europea.
Va infine ricordato che l’edificio dell’organizzazione federalistica culmina sul piano europeo con una struttura sovrannazionale. La trasformazione del MFE da movimento internazionale in movimento sovrannazionale (1959) permise ai federalisti di avere uno stabile punto di vista europeo, di elaborare una linea politica e di scegliere i dirigenti con decisioni democratiche prese sul piano europeo.
In definitiva, il Movimento federalista si distingue da ogni altra organizzazione che partecipa alla vita politica per il fatto che non fonda il suo potere né sul voto, né sulla violenza, né sulla rappresentanza di interessi. Pur partecipando alla lotta politica, non si batte, come i partiti, per conquistare i poteri esistenti, né per influenzarli, come i gruppi di pressione, ma lotta per costruire un potere nuovo, il potere europeo.
Una lotta politica che prescinda dal potere nazionale e dalle istituzioni nazionali rappresenta una novità assoluta anche rispetto all’esperienza del partito rivoluzionario di ispirazione marxista-leninista. Quest’ultimo pratica infatti un’opposizione di governo e di regime, ma non mette in discussione il quadro politico dello Stato, che vuole trasformare. Mentre invece il Movimento federalista pratica un’opposizione di governo, di regime e di comunità.[55] In altri termini, si propone in più l’obiettivo di cambiare il carattere di comunità esclusive che hanno gli Stati nazionali, unificandoli in una comunità federale e trasformandoli in Stati-membri della Federazione europea, in modo che possano coesistere pacificamente, pur mantenendo la loro autonomia.
Queste scelte organizzative, dove sono state applicate (ed è il caso dell’Italia, rimasto finora isolato, pur con rare eccezioni) hanno contribuito a fare del Movimento federalista un gruppo influente nella vita politica. In conseguenza di queste scelte, i federalisti sono stati in grado di adottare un punto di vista che ha consentito loro di sottrarsi al condizionamento pratico e ideologico degli Stati nazionali, di mantenere la più rigorosa autonomia politica rispetto ai partiti e ai governi, di autoescludersi dalla lotta politica nazionale e di dedicarsi interamente alla preparazione dell’alternativa democratica europea da proporre nel momento della crisi inevitabile degli Stati e della stessa Comunità europea.
A queste considerazioni bisogna però aggiungere che, in ultima analisi, l’autonomia organizzativa e l’influenza politica del Movimento federalista dipendono dall’autonomia culturale, cioè dall’idea che solo la cultura federalistica è in grado di dare una risposta ai maggiori problemi di fronte ai quali si trovano l’Europa e il mondo e che le ideologie tradizionali non sono in grado né di comprendere pienamente, né di dominare. La sopravvivenza e la crescita del Movimento federalista dipendono infatti dalla capacità di comprendere le tendenze di fondo della storia contemporanea e di indicare una soluzione ai maggiori problemi, che sono insolubili sul piano nazionale.
Ricordo, a titolo di esempio, la posizione che i federalisti italiani presero rispetto alla decisione di istituire la Comunità economica europea. Essi non ignoravano certo l’effettività della tendenza all’internazionalizzazione del processo produttivo, che aveva sorretto la scelta del Mercato comune, e anzi ne riconoscevano il carattere progressivo. Ma ciò non implicava che lo dovessero sostenere. Nel settembre 1957 Spinelli aveva pubblicato un articolo intitolato La beffa del Mercato comune,[56] nel quale sosteneva che gli obiettivi del Trattato che istituiva la CEE non erano realizzabili senza un governo europeo. Successivamente Albertini approfondì questa analisi,[57] individuando le condizioni che avevano reso possibile l’avvio del nuovo ciclo dell’unificazione europea e in particolare i fattori politici senza i quali il Mercato comune non avrebbe potuto funzionare: la decadenza delle sovranità nazionali e l’egemonia degli Stati Uniti, che hanno permesso la convergenza tra le ragion di Stato in Europa e la collaborazione tra gli Stati associati nella CEE. Ciò avrebbe consentito di identificare nello stesso tempo i limiti del successo del Mercato comune: esso avrebbe determinato un relativo rafforzamento degli Stati e avrebbe, di conseguenza, messo in crisi sia la loro collaborazione europea, sia l’egemonia degli Stati Uniti. Di qui la previsione che i governi non sarebbero stati in grado di portare a conclusione l’unificazione economica e che il Mercato comune avrebbe solo rinviato il problema del trasferimento della sovranità sul piano europeo: un problema che i governi non sono in grado di risolvere da soli. La crisi del Mercato comune avrebbe creato lo spazio per l’intervento autonomo del Movimento federalista e aperto la via alla lotta per la creazione di un governo europeo.
Questa crisi cominciò a manifestarsi a partire dalla realizzazione dell’unione doganale e del mercato agricolo comune (1968). Da questo momento, per far progredire l’unificazione economica e persino per mantenerla, era necessario puntare sulla creazione di una moneta europea e di un governo democratico europeo. Il Movimento federalista identificò nella lotta per l’elezione diretta del Parlamento europeo l’azione adeguata a questo obiettivo, sulla base della previsione che il Parlamento europeo eletto avrebbe svolto un ruolo costituente. E’ quanto l’Assemblea di Strasburgo ha fatto, approvando il 14 febbraio 1984 il progetto di Trattato di Unione europea, ispirato da Spinelli, e sottoponendolo alla ratifica degli Stati-membri. Certo, l’Unione europea non è ancora la Federazione europea. Essa crea le condizioni per un efficace governo dell’economia europea, ma non dà una risposta al problema della politica estera e della sicurezza dell’Europa. Tuttavia, la vittoria nella lotta per la ratifica del Trattato di Unione rappresenta il presupposto per portare lo scontro tra l’emergente potere europeo e i vecchi e cadenti poteri nazionali su un terreno più avanzato, quello della creazione della Federazione europea.
L’attualità dell’alternativa federalista si giustificava dunque in base all’analisi delle tendenze di fondo della storia contemporanea. L’approfondimento teorico che diede al Movimento federalista la coscienza della propria autonomia culturale fu il risultato di motivazioni di carattere pratico: l’esigenza di affermare in modo più efficace l’alternativa federalista al vecchio regime degli Stati nazionali e di intervenire in modo più incisivo come fattore di progresso nel corso della storia.
L’elaborazione culturale dei federalisti in Italia si distingue da quella dei federalisti integrali per il fatto che si è sviluppata in stretta relazione con le scienze storico-sociali. La linea di fondo dell’impegno di ricerca di Albertini consiste nel tentativo, che si iscrive nella prospettiva dell’unificazione delle scienze sociali, di spingersi verso la definizione di un modello complessivo della realtà storico-sociale.[58] Si tratta di un programma che resta in gran parte ancora da realizzare, almeno per quanto riguarda la sua elaborazione formale. Occorre tuttavia riconoscere che esso fissa un obiettivo necessario per qualsiasi movimento rivoluzionario che si proponga di elaborare i fondamenti di una conoscenza proiettata verso l’azione. «Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario», aveva scritto Lenin.[59]
Il piano di lavoro di Albertini consiste nel tentativo di elaborare un modello che sia il risultato della sintesi di un insieme di apporti teorici provenienti da diverse discipline.
In primo luogo, egli utilizza il materialismo storico, inteso come teoria che considera l’evoluzione del modo di produrre come il fattore determinante in ultima istanza il corso storico e il mutamento sociale. In particolare, la teoria della rivoluzione scientifica della produzione materiale mette in luce, da una parte, che l’integrazione sociale, che si sviluppa al di là delle frontiere degli Stati, crea le condizioni storico-sociali del superamento della divisione del mondo in nazioni antagonistiche e dell’unificazione del genere umano, d’altra parte, che l’automazione, riducendo la quantità di lavoro necessaria alla riproduzione fisica dell’uomo, mentre l’abbondanza dei beni materiali tende costantemente ad aumentare, crea le condizioni del superamento della lotta di classe e dell’affermazione di nuove forme di solidarietà sociale in seno alle comunità.
In secondo luogo, Albertini ricupera la teoria della ragion di Stato, intesa come teoria che definisce la politica internazionale il terreno dei rapporti di forza tra gli Stati non arginati dal diritto. Ne consegue non solo che l’anarchia internazionale costringe ogni Stato a privilegiare la sicurezza rispetto a ogni altro valore, ma anche che la Federazione mondiale, realizzando la pace perpetua, consentirebbe di espellere la violenza come mezzo per la soluzione dei conflitti e permetterebbe di realizzare pienamente la libertà e l’uguaglianza. La teoria della ragion di Stato si presenta dunque come la teoria della politica di una fase determinata della storia: quella dell’anarchia internazionale.
In terzo luogo, Albertini sviluppa la teoria dell’ideologia, intesa come la forma che assume il pensiero nella sfera della politica. Le ideologie, sulla base della loro proiezione verso il futuro e del tentativo, mai pienamente realizzato, di giungere a una conoscenza globale della situazione storica che le ha prodotte (le ideologie hanno sempre riunito conoscenze teoriche e mistificazioni), indicano alla volontà umana un valore da realizzare e i mezzi relativi. Di conseguenza in ogni ideologia si possono individuare tre elementi: un aspetto di valore, un aspetto di struttura e un aspetto storico-sociale. L’identificazione del fine corrisponde alla definizione dell’aspetto di valore. L’aspetto di struttura permette di individuare la forma di organizzazione del potere necessaria al raggiungimento di quel fine. L’aspetto storico-sociale definisce il contesto storico nel quale è possibile realizzare un valore attraverso una struttura adeguata del potere.
Sulla base di questi strumenti teorici, Albertini avviò l’elaborazione di una critica scientifica dell’idea di nazione, che consentisse una negazione radicale del sistema nazionale, e la costruzione di una teoria del federalismo, inteso non più semplicemente come tecnica costituzionale, tale da consentire la coesistenza pacifica di un insieme di governi indipendenti e coordinati, ma come ideologia, che mette in luce il senso nuovo del corso della storia. Si devono ad Albertini i contributi più significativi in queste due direzioni. E va sottolineato che si tratta di due aspetti dello stesso lavoro di elaborazione intellettuale.
Infatti tutte le ideologie hanno definito progressivamente le proprie determinazioni attraverso l’esperienza della negazione dell’ordine costituito, che si presentava manifestamente inadeguato a dominare le profonde trasformazioni avvenute nella realtà sociale. Il primo problema che deve risolvere ogni nuova ideologia è infatti quello di conoscere la vera natura del vecchio ordine e i suoi limiti istituzionali e concettuali. E ciò diventa possibile solo quando il vecchio ordine è al tramonto. Come ha osservato Hegel nella Prefazione alla Filosofia del diritto, i lineamenti di un ordine in declino sono pienamente riconoscibili alla luce del crepuscolo, annunciato dal volo della nottola di Minerva. Questa conoscenza permette di individuare la contraddizione di fondo di un’intera epoca e di formulare un giudizio storico globale su di essa. Come la negazione dell’assolutismo e del capitalismo hanno segnato rispettivamente l’atto di nascita dell’ideologia liberale e dell’ideologia socialista, così la negazione del nazionalismo segna l’atto di nascita del federalismo.
In Lo Stato nazionale Albertini definisce la nazione come il riflesso ideologico dell’appartenenza a un determinato tipo di Stato: lo Stato burocratico accentrato. Questa formazione politica, tipica del continente europeo, esige un’integrazione dei cittadini nello Stato tanto forte quanto accentrato è il potere, in modo da sottoporre al controllo diretto del governo centrale le risorse materiali e ideali del paese. La coscienza nazionale, come fatto diffuso nella popolazione, è dunque la conseguenza (e non la premessa) della formazione dello Stato nazionale e di un preciso programma politico, elaborato per la prima volta dai giacobini durante la rivoluzione francese, che si proponeva di imporre l’unità di lingua, di cultura e di tradizioni su tutto il territorio dello Stato. Ciò comportò la distruzione di tutti i legami con le comunità più piccole e più grandi dello Stato. Così la fusione di Stato e nazione divenne per i governi nazionali la base per esigere dai cittadini un lealismo esclusivo e per sviluppare una politica estera aggressiva.
Il metodo impiegato da Albertini è quello di definire la nazione in base all’osservazione empirica dei comportamenti degli individui. Il comportamento nazionale è un comportamento di fedeltà. Il riferimento oggettivo di questo comportamento è lo Stato, il quale però non è pensato come tale, ma come entità illusoria, alla quale sono collegate esperienze culturali, estetiche, sportive, il cui carattere specifico non è nazionale. Alla base di questo fatto c’è un rapporto di potere. Gli individui, che frequentano scuole nazionali, celebrano feste nazionali, pagano tasse nazionali, fanno il servizio militare nazionale, che li prepara a uccidere e a morire per la nazione, esprimono questi comportamenti in termini di fedeltà a un’entità mitica, la nazione, rappresentazione idealizzata degli Stati burocratici e accentrati. Questa idealizzazione della realtà è il riflesso mentale dei rapporti di potere tra gli individui e lo Stato nazionale.
E’ dunque merito di Albertini avere esteso la nozione di ideologia, che Marx aveva collegato alle posizioni di classe, ai rapporti di potere all’interno dello Stato. Su questa base è possibile demistificare l’idea di nazione, che era nata come idea rivoluzionaria e oggi si è trasformata in un fattore di conservazione. Nella misura in cui raffigura la divisione politica tra le nazioni come giusta e naturale e persino sacra, contrasta la tendenza di fondo della storia contemporanea, l’internazionalizzazione del processo produttivo, che esige che lo Stato si organizzi su vasti spazi politici secondo schemi multinazionali e federali. In effetti, la lotta per il superamento della nazione esclusiva, oggi all’ordine del giorno in Europa, permette di ridare all’azione politica un orientamento che si era perduto nella crisi generale delle ideologie e di fondare sull’opposizione alla comunità nazionale la linea strategica che distingue il comportamento dei federalisti rispetto alle altre forze politiche, che si ispirano alle ideologie tradizionali.
Con questa considerazione siamo passati a prendere in esame il ruolo del federalismo nella società contemporanea, che costituisce l’oggetto di un altro importante libro di Albertini: Il federalismo. Antologia e definizione. L’obiettivo teorico di questo lavoro è di giungere a una definizione rigorosa del federalismo. Innanzitutto Albertini considera riduttiva la definizione del federalismo come teoria dello Stato federale. Basta infatti prendere in considerazione i rapporti di condizionamento reciproco che esistono tra istituzioni politiche e società: se lo Stato federale è uno Stato con caratteri tipici, che lo distinguono dalle altre forme di Stato, bisogna ipotizzare che anche la società abbia delle caratteristiche specifiche, che permettono di far funzionare le istituzioni federali. Nell’elaborare la definizione di federalismo come ideologia, Albertini ha formulato un criterio di analisi valido anche per le altre ideologie (il liberalismo, il socialismo ecc.), secondo il quale in ogni ideologia si possono identificare un aspetto di valore, un aspetto di struttura e un aspetto storico-sociale.
L’aspetto di valore del federalismo è la pace. La relazione che esiste tra il federalismo e la pace è la stessa che esiste tra il liberalismo e la libertà, la democrazia e l’uguaglianza, il socialismo e la giustizia sociale. In questa prospettiva Albertini ricupera la visione politica, giuridica e filosofico-storica di Kant, la cui attualità è messa all’ordine del giorno dalla crisi dello Stato nazionale e dalla crescita al di là delle frontiere degli Stati dell’interdipendenza dell’azione umana, di cui l’unificazione europea è l’espressione più sviluppata. Questi fenomeni vanno intesi come premesse della realizzazione della pace perpetua attraverso la costruzione della Federazione mondiale. Negare, con la Federazione europea, la nazione significa negare «la cultura della divisione politica del genere umano», che legittima il dovere di uccidere per la difesa della nazione, e significa, nello stesso tempo, affermare il diritto di non uccidere nella prospettiva della sua piena realizzazione con la Federazione mondiale. Le guerre mondiali e la scoperta delle armi nucleari sembrano suggerire che si sta avverando la previsione di Kant, secondo la quale solo l’esperienza della distruttività della guerra avrebbe indotto gli Stati a rinunciare alla loro «libertà selvaggia» e a piegarsi a una legge comune.
L’aspetto di struttura del federalismo è lo Stato federale, che permette di superare le strutture chiuse e accentrate dello Stato nazionale verso il basso con la formazione di vere autonomie regionali e locali e verso l’alto con la realizzazione di effettive forme di solidarietà politiche e sociali al di sopra degli Stati nazionali. Come abbiamo visto, si tratta di un aspetto costitutivo della nozione di federalismo, il più studiato, ma da solo insufficiente al fine di giungere a una definizione esaustiva.
L’aspetto storico-sociale del federalismo è la società federale, articolata su diversi livelli, dalla comunità al mondo, che permette la coesistenza del lealismo verso la società complessiva con quello verso le comunità territoriali più piccole, in modo che nessuno prevalga sugli altri. La formazione di questa società è resa possibile dal superamento della divisione del genere umano in classi e in nazioni antagonistiche, già avviato tra i paesi della Comunità europea, ma pensabile e prevedibile anche sul piano mondiale nel contesto dello sviluppo del modo di produzione scientifico. Che questo pluralismo sociale si sia sviluppato parzialmente nelle società federali finora esistite dipende dal fatto che, da una parte, la lotta di classe ha fatto prevalere il senso di appartenenza alla classe su ogni altra forma di solidarietà sociale e ha impedito che si radicassero forti legami di solidarietà nelle comunità regionali e locali e, d’altra parte, la lotta tra gli Stati sul piano internazionale ha determinato il rafforzamento del potere centrale a scapito dei poteri locali. E tutto ciò spiega la marginalità delle esperienze federali del passato (che sono da imputarsi a fortunate circostanze storiche) e la corrispondenza del federalismo con la svolta storica cruciale della nostra epoca.
Sulla base di questa definizione, Albertini ha periodizzato le fasi di sviluppo del pensiero federalistico. La prima fase, che va dalla rivoluzione francese alla prima guerra mondiale, è caratterizzata dall’affermazione, sia pure soltanto sul piano dei principi, della componente comunitaria e cosmopolitica del federalismo contro gli aspetti autoritari e bellicosi dello Stato nazionale. Nella seconda fase, che va dalla prima alla seconda guerra mondiale, i criteri del federalismo furono impiegati per interpretare la crisi dello Stato nazionale e del sistema europeo delle potenze. Nella terza fase, cominciata dopo la seconda guerra mondiale e tuttora in corso, l’impiego degli schemi concettuali e degli strumenti politici e istituzionali del federalismo è necessario per risolvere la crisi dell’Europa.
Dopo l’elezione diretta del Parlamento europeo e la formazione di un’embrionale vita politica europea, Albertini propose delle tesi intitolate Unire l’Europa per unire il mondo,[60] che furono approvate in occasione del decimo congresso del Movimento federalista europeo (Bari, 1980). Con questa svolta politica e culturale la riflessione e l’attività politica dei federalisti italiani si proiettano in una dimensione mondiale e la lotta per l’Unione europea si presenta come una tappa sulla via della piena realizzazione della democrazia internazionale. In questa prospettiva la costruzione della Federazione europea si presenta come l’evento storico cruciale del nostro tempo, la prima affermazione del corso federalistico della storia, che culminerà con la realizzazione della pace attraverso la Federazione mondiale. Il federalismo ha dunque nella nostra epoca un ruolo analogo a quello svolto in passato dalle ideologie liberale, democratica e socialista: attraverso l’elaborazione e l’affermazione della cultura della pace, propone un progetto di società capace di dare una risposta ai maggiori problemi della nostra epoca e riapre la possibilità di pensare l’avvenire, che si era offuscata nell’ambito delle ideologie tradizionali a causa dell’esaurimento della loro spinta rivoluzionaria.
[1] K.C. Wheare, Del governo federale, Milano, Comunità, 1949, p. 45.
[2] Ibid., p. 55. Questo giudizio del 1945 è stato confermato da Wheare nel 1963. Cfr. Some Theoretical Questions About Federalism, International Political Science Association, Oxford Round Table Meeting, 19-24 settembre 1963 (ciclostilato).
[3] Su questo argomento si veda per esempio H. Carrère D’Encausse, L’Empire éclaté, Paris, Flammarion,1978. Sulla natura del federalismo sovietico V.M. Tchikvadze («Soviet Federalism and the Development of the Legal System in the USSR», in Le fédéralisme et le développement des ordres juridiques, a cura dell’Association internationale des sciences juridiques, Bruxelles, Bruylant, 1971, p. 150) osserva che «il carattere distintivo più significativo dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche come federazione è il fatto che non è semplicemente un’unione di Stati indipendenti, ma un’unione di Stati nazionali indipendenti, un’unione di nazioni». E nello stesso testo si legge che queste nazioni sono «più di 130».
[4] Lo studioso che ha formulato nel modo più rigoroso la teoria degli aspetti istituzionali del federalismo è K. C. Wheare, il quale, nel libro Del governo federale (cit.), ha svolto un’analisi comparativa fondata sui quattro esempi classici di federazione (gli USA, la Svizzera, il Canada e l’Australia). Su questa base egli definisce il principio federale come «quel sistema di divisione dei poteri che permette al governo centrale e a quelli regionali di essere, ciascuno in una data sfera, coordinati e indipendenti» (p. 26).
[5] A.A. Berle, Jr., «Evolving Capitalism and Political Federalism» in Federalism Mature and Emergent, a cura di A.W. Macmahon, Garden City, New York, Dobleday and Co., 1955, p. 73.
[6] M. Albertini, F. Rossolillo, «La décadcnce du fédéralisme aux Etats-Unis» in Le Fédéraliste, IV (1962), pp. 242-44.
[7] A. Hamilton, J. Jay, J. Madison, Il Federalista, Pisa, Nistri-Lischi, 1955, n. 10.
[8] Il libro nel quale è sviluppata per la prima volta l’analisi di questa tendenza, che è definita nuovo federalismo, è J.P. Clark, The Rise of a New Federalism, New York, Oxford University Press, 1938. Si vedano inoltre M.J.C. Vile, The Structure of American Federalism, New York, London, Oxford University Press, 1962; D.J. Elazar, The American Partnership, Chicago, Chicago University Press, 1962; M.A. Reagan, The New Federalism, New York, London, Oxford University Press, 1972.
[9] M.J.C. Vile, op. cit., p. 199. Lo stesso K.C. Wheare, in Some Theoretical Questions About Federalism (cit.), pp. 5-6, considera questa definizione più adeguata a descrivere gli aspetti cooperativi messi in luce dall’evoluzione più recente delle istituzioni federali.
[10] C.J. Friedrich, Trends of Federalism in Theory and Practice, London, Pall Mall Press, 1968, p. 82.
[17] M. Albertini, Il federalismo. Antologia e definizione, Bologna, Il Mulino, 1979, pp. 65-67.
[18] K. Marx, F. Engels, «Engels a Joseph Bloch» in Opere scelte, a cura di L. Groppi, Roma, Editori Riuniti, 1966, p. 1242.
[19] Il corsivo è mio.
[20] K. Marx, F. Engels, «Engels a Conrad Schmidt», op. cit., p. 1245.
[22] Com’è noto, l’indipendenza dei Dominions del Commonwealth fu riconosciuta da uno statuto del Parlamento britannico del 1931, nel quale si recepivano i risultati della Conferenza imperiale, svoltasi nel 1926. Nella relazione conclusiva della Conferenza i Dominions erano definiti «comunità autonome, uguali nello status, in nessun modo subordinate l’una all’altra in qualsiasi aspetto dei loro affari esteri o interni, benché unite da una comune lealtà alla Corona e liberamente associate quali membri del Commonwealth delle nazioni britanniche» (E. Barker, Il Commonwealth britannico. Idee e ideali, Firenze, La Nuova Italia, 1951, pp. 99-100). E. McWhinney, uno studioso canadese delle istituzioni federali (in Federal Constitution-Making for a Multi-National World, Leyden, Sijthoff,1966, pp. 106-7), definisce la trasformazione dell’Impero nel Commonwealth «la straordinaria devoluzione dell’autorità politica britannica e in definitiva anche la cessione della sovranità britannica».
[23] Ho sviluppato questa analisi in L. Levi, Crisi dello Stato nazionale, internazionalizzazione del processo produttivo e internazionalismo operaio, Torino, Stampatori, 1976.
[24] R. Aron, A. Marc, Principes du fédéralisme, Paris, Le Portulan, 1948, p. 19.
[26] A. Marc, L’Europe dans le monde, Paris, Payol, 1965, p. 4.
[27] R. Aron, A. Marc, op. cit., pp. 43-44.
[29] A. Marc, L’Europe dans le monde, cit., p. 6.
[30]A. Marc, Dialectique du déchaînement, Paris, Colombe, 1961.
[31] R. Aron, A. Marc, op. cit., p. 108.
[32] F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, Roma, Samonà e Savelli, 1970, p. 47.
[33] A. Marc, L’Europe dans le monde, cit., p. 27.
[34] Cito la lettera da C.-A. Sainte-Beuve, P.-J. Proudhon. Sa vie et sa correspondance, 1838-1848, Paris, A. Costes, 1947, p. 154. Per un commento, che colloca questo testo nella concezione generale della società e della storia di Proudhon si veda M. Albertini, «Proudhon était-il fédéraliste intégral?» in L’Europe en formation, 1965, n. 62, pp. 18-20.
[35] A. Marc, L’Europe dans le monde, cit., p. 27.
[36] Su questo tema si veda M. Albertini, «Pour ou contre la Charte», supplemento al n. 4, V (1963) di Le Fédéraliste.
[37] Il fallimento del federalismo integrale sul terreno del reclutamento e della formazione dei militanti è riconosciuto da F. Kinsky, il quale in «Où en est la stratégie fédéraliste?» (L’Europe en formation, 1984, n. 258, p. 29) afferma: «In Francia ci sono idee…, ma non militanti».
[38] G. Bergmann, The Metaphysics of Logical Positivism, New York, Longmans Green and Co., 1954, p. 310.
[39] M. Albertini, Il federalismo, cit., p. 305.
[40] Si legge in proposito in un articolo del 1957 (A. Spinelli, «Pourquoi je suis européen», Preuves, 1957, n. 81, p. 37): «La mia attenzione non è stata attratta dal fumoso, contorto e assai poco coerente federalismo ideologico di tipo proudhoniano o mazziniano che allignava in Francia e in Italia, ma dal pensiero pulito, preciso e antidottrinario dei federalisti inglesi del decennio precedente la guerra, i quali proponevano di trapiantare in Europa la grande esperienza politica americana. La Federazione europea non mi si presentava come un’ideologia». Spinelli non si è mai discostato da questo modo di pensare, come conferma il fatto che questo brano è ripreso integralmente in L’Europa non cade dal cielo (Bologna, Il Mulino, 1960, p. 15) e parzialmente in Come ho tentato di diventare saggio. Io Ulisse (Bologna, Il Mulino, 1984, p. 309).
[41] Sulle fonti del pensiero federalista di Spinelli si veda Come ho tentato di diventare saggio, cit., p. 307.
[42] A. Spinelli, E. Rossi, Il Manifesto di Ventotene, Napoli, Guida, 1982.
[43] A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, cit., p. 343.
[44] G. Lukàcs, Lenin, teoria e prassi nella personalità di un rivoluzionario, Torino, Einaudi, 1970, pp. 11-16.
[45] A. Spinelli, E. Rossi, op. cit., p. 35.
[47] Sui temi del costituzionalismo e sulla critica del funzionalismo si vedano: A. Spinelli, Dagli Stati sovrani agli Stati Uniti d’Europa, Firenze, La Nuova Italia, 1950 e «Il modello costituzionale americano e i tentativi di unità europea», in La nascita degli Stati Uniti d’America, a cura di L. Bolis, Milano, Comunità, 1957.
[48] G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, Leipzig, F. Meiner, 1917, vol. I , p. 77.
[50] A. Spinelli, Pourquoi je suis européen, cit., pp. 37-38.
[51] A. Spinelli, L’Europa non cade dal cielo, cit., pp. 253-54.
[52] G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, Milano, Sugar, 1971, p. 368.
[53] Si vedano in proposito gli articoli a firma Publius di M. Albertini su Popolo europeo e raccolti successivamente sotto il titolo «Esame tecnico della lotta per l’Europa» in Il Federalista, I (1959), pp. 86-111 e inoltre M. Albertini «Il federalismo militante. Vecchio e nuovo modo di fare politica», in Il dibattito federalista, I (1985), pp. 1-3.
[54] «Le Mouvement Fédéraliste Européen», in Le Fédéraliste, VIII (1966), p. 232.
[55] M. Albertini, «La stratégie de la lutte pour l’Europe», in Le Fédéraliste, VIII (1966), pp. 165-67.
[56] L’articolo è raccolto nel volume di A. Spinelli, L’Europa non cade dal cielo, cit., pp. 282-87.
[57] Cfr. M. Albertini, «La force de dissuasion francese», in Il Federalista, II (1960), pp. 331-37.
[58] Si vedano in proposito M. Albertini, Lo Stato nazionale, Napoli, Guida, 1980, Il federalismo, cit., e Proudhon, Firenze, Vallecchi, 1974.
[59] V.I. Lenin, Che fare?, Roma, Editori Riuniti, 1968, p. 55.