IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LXV, 2023, Numero 2-3, Pagina 67

L’Europa e il problema della sicurezza.
I limiti del contesto politico contemporaneo e
la necessità di riformare l’Europa

CARLO MARIA PALERMO
GABRIELE FELICE MASCHERPA
FILIPPO BAGNARA
GIOVANNI SALPIETRO

Introduzione

L’invasione russa dell’Ucraina, con le sue conseguenze politiche ed economiche, ha riaperto una nuova stagione di instabilità nel continente europeo, in un contesto internazionale in cui molte sono le tensioni dall’Indo-Pacifico al Medio Oriente, in cui si è riaperto il conflitto israelo-palestinese con effetti ancora da quantificare sul Mediterraneo e sulla stessa Europa.[1]

Ad essere in discussione è l’intero assetto strategico: il quadro di Helsinki appare definitivamente compromesso, ma ad essere messa in dubbio è la stessa assicurazione dell’assistenza americana, elemento centrale dell’Alleanza atlantica e non solo per le affermazioni del candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti,[2] ma anche per l’evoluzione degli interessi strategici degli Stati Uniti nell’Asia-Pacifico.[3]

La tensione sul tema della Difesa e della Politica estera e il linguaggio utilizzato nelle dichiarazioni ufficiali dei diversi leader europei[4] pongono il problema degli strumenti istituzionali, interni ed esterni all’Unione Europea, necessari per fronteggiare tale situazione. Alla luce di questo profilo appare evidente come il quadro stabilito dal Trattato di Lisbona, non sia sufficiente per rispondere alle sfide derivanti dal cambiamento del contesto internazionale ed agli impegni che derivano dalle crisi internazionali in Europa e nel Mediterraneo.[5] Tra le varie fasi dell’integrazione europea, quella attuale qualifica, più di altre occasioni, l’urgenza del superamento del quadro istituzionale esistente e, con esso, l’esigenza di approfondire l’integrazione politica nel campo della difesa e della politica estera.

Questo saggio prova ad evidenziare le contraddizioni del contesto politico internazionale e la posizione dell’Europa nel contesto internazionale contemporaneo. Cercheremo di comprendere qual è il contesto in cui si trova l’Europa dalla fine della Guerra fredda e le emergenze che l’Unione europea è chiamata a gestire. In primis, si rifletterà sul significato dell’unipolarismo e sul multipolarismo in formazione, per comprendere le conseguenze sull’Europa della crescente competizione internazionale da parte delle grandi potenze continentali, nonché sulla necessità di fornire una risposta europea al disimpegno americano. Proveremo poi ad inquadrare alcuni degli strumenti dell’Unione Europea nel campo della difesa e della sicurezza, evidenziando dove si configura una dipendenza dell’Europa da attori esterni.

Altro elemento di interesse, è il contesto dell’industria della difesa europea alla luce degli ultimi eventi e delle iniziative degli stessi Stati membri.

Infine, proveremo a fornire un quadro dello scenario attuale delle politiche relative alla Politica estera e di sicurezza comune (CFSP/CSDP), con particolare riferimento alla Difesa nel quadro esistente e della necessità di riformare i trattati. Non si tratta, infatti, di analizzare il dibattito politico e scientifico su ogni parte della politica di difesa e sicurezza comune, ma di approfondirlo, a partire dalla necessità di costruire un contesto politico e istituzionale nuovo possibile solamente con una seria riforma dei trattati dell’Unione Europea.

2. Le relazioni internazionali dalla fine della Guerra Fredda

Dalla fine della Guerra Fredda e del crollo del sistema bipolare, gli Stati europei si sono trovati contemporaneamente più e meno liberi (da costrizioni politiche e strategiche) e meno rilevanti agli occhi dell’attore uscito vincente dal confronto, gli Stati Uniti d’America.

L’inizio della fase unipolare ha visto la ridefinizione dell’assetto continentale europeo con il crollo del sistema egemonico sovietico in Europa centrale e l’implosione della stessa Unione sovietica. L’allargamento della Nato e dell’Unione europea sono la diretta conseguenza della forza di attrazione, in primo luogo, della protezione statunitense e in secondo dei benefici del mercato comune europeo. Questi eventi si sono concretizzati nella volontaria adesione di Stati sovrani, che percepivano una forte minaccia alla propria sicurezza in un contesto mutevole e insicuro, a due sistemi intergovernativi sovrapposti, l’uno fornitore di sicurezza, l’Organizzazione dell’Alleanza atlantica, l’altro di sviluppo economico, l’allora neonata Unione europea.

L’allargamento dell’Unione Europea, accompagnato da una lunga fase di tentativi di riforme miranti al rafforzamento interno, solo parzialmente realizzato, in mancanza di un reale centro di potere europeo, è stata l’unica alternativa praticabile all’instabilità regionale diffusa e alle iniziative revansciste. La tragedia della Jugoslavia rende l’idea, in piccola scala, dei rischi che ha corso una buona parte del continente.

Mentre gli Usa rafforzavano la propria posizione di unica superpotenza e imponevano un ordine mondiale del quale erano fornitore globale di risorse di sicurezza e garanti dell’economia e del commercio, la Federazione Russa, Stato erede e al contempo residuo del potere sovietico, lottava contro il rischio di implosione.

In questa fase il concetto di difesa dell’Europa si riassumeva nel mantenimento della stabilità dei rapporti tra Stati all’interno della comunità a guida Usa e nel contenimento ed eventuale neutralizzazione delle potenziali minacce provenienti da attori regionali in prossimità.

L’11 settembre 2001, pur senza cambiare radicalmente la struttura del sistema internazionale, ha reso evidente che le minacce nel mondo unipolare provenivano da attori statali e non statali esclusi dal sistema.[6]

In questa fase la Federazione Russa si poneva come partner strategico degli Usa e degli Stati alleati nella Guerra globale al terrore lanciata dal presidente Bush. Si tratta di una fase storica in cui gli Stati Uniti cercano, in tutti i modi, di prolungare la loro situazione di supremazia. Una condizione di egemonia[7] percepita come tale più che dagli alleati, ma da vasti strati del mondo extra-europeo. Con la fine della presidenza Bush jr., le conseguenze delle controverse politiche in Medio Oriente hanno condotto ad una crisi dell’egemonia americana ed al conseguente disimpegno dalle zone di crisi. Costante della presidenza Obama, ad esempio, è stato il sostegno al multilateralismo come fattore di condivisione delle responsabilità internazionali. Pensiamo ai negoziati per il nucleare iraniano. È ovvio che, in quel caso, gli Stati Uniti si pongono come facilitatore di un’impresa politica che vede coinvolte le maggiori potenze Cina, Russia, Unione Europea (attraverso l’Alto rappresentante) quali comuni garanti di un accordo di portata generale. Il sostegno al multipolarismo risponde anche all’esigenza di rassicurare la comunità internazionale e i grandi attori regionali che non è più intenzione degli Stati Uniti essere portatori di instabilità, ma è, come è chiaro, l’inizio del disimpegno da parte degli Stati Uniti che, dopo due presidenze “interventiste” nelle relazioni internazionali, come la presidenza Clinton e, ancora di più, la presidenza Bush jr., iniziano voler condividere l’onere della sicurezza in molte regioni e in molte situazioni di crisi.[8]
 

L’emergere di un contesto internazionale multipolare.

Il contesto attuale, anche a valle del ritiro strategico degli Stati Uniti, vede una fase di transizione al multipolarismo. Un elemento, questo, foriero di cambiamenti per la vita internazionale. Si tratta di una fase in cui le relazioni internazionali vedono da un lato l’emergere di potenze continentali che, in realtà, costituiscono un sistema internazionale multipolare, competitivo perché in fase di consolidamento, in cui le grandi potenze continentali iniziano ad avere un ruolo.

Interessante da questo punto di vista l’evoluzione del ruolo della Federazione Russa, partita da una situazione di disillusione[9] con una fase di diminutio strategica e politica, culminata con la crisi degli anni Novanta e dei primi anni Duemila, che l’ha vista arretrare nel suo spazio strategico, subendo la pressione dell’Allenza atlantica. Ma da allora, fino al 2022, essa è stata capace di ricostruire e rimodernare la sua capacità militare e di agire, in reazione alla crisi degli anni 2000, nel contesto ex-sovietico (nell’estero vicino) sia dal punto di vista militare (con la guerra di aggressione alla Georgia), sia dal punto di vista diplomatico, con la costituzione della CSTO e della Comunità euroasiatica,[10] con la presenza nel Gruppo di Shanghai e nei BRICS. La Guerra in Siria determina e anche l’intervento in Libia; l’intervento di destabilizzazione in vaste aree dell’Africa[11] dimostra la capacità di agire anche al di fuori del suo contesto di riferimento, rinforzando le sue ambizioni di “super-potenza” e non solamente di grande potenza regionale.

Dal febbraio 2022, con la guerra di aggressione all’Ucraina (ma già con il suo intervento di destabilizzazione del 2014) la Russia segna una nuova fase nella stessa storia europea: dà, forse, il colpo finale al sistema di Helsinki che, dal 1975, ha garantito la sicurezza in Europa, ma invia un segnale chiaro in merito alle proprie ambizioni e al contesto internazionale generale.

Diversa è l’azione della Cina, che, nei fatti, dopo la crescita ininterrotta degli anni Ottanta e Novanta, nel nuovo secolo, ha intrapreso la fase del consolidamento economico e ha iniziato a dare corpo alle proprie ambizioni strategiche. Se già negli anni Novanta, assieme alla Federazione Russa, inizia – costantemente – a criticare l’impostazione unipolare del sistema internazionale dimostrandosi sicuramente più favorevole ad una struttura pluripolare della convivenza internazionale,[12] è dagli anni Duemila che inizia, principalmente con il soft power, ad entrare in diversi contesti.

Sicuramente condivide con la Russia l’adesione a contesti multilaterali “alternativi” come il gruppo di Shangai e i BRICS, ma è capace, sempre attraverso i mezzi del multilateralismo, di costruire un progetto con finalità geopolitiche come la Belt and Road Initiative,[13] coadiuvato da un tessuto diplomatico intenso che va dall’Asia all’Europa, passando per l’Africa, altresì da organizzazioni internazionali ad hoc, come la Asian Infrastructure Investments Bank (AIIB).[14]

In Africa, inoltre, la potenza cinese ha avviato un estensivo programma di investimenti, capace di creare conseguenze dirette nello sviluppo di tali paesi,[15] e una vera e propria organizzazione internazionale ad hoc il Forum on China-Africa Cooperation (FOCAC) che, se ha come compito principale l’attività di indirizzo dei finanziamenti (e dell’influenza cinese), inizia ad avere anche compiti di natura militare, seppure legati agli approvvigionamenti e, quindi, al mercato.

Interessante è anche la linea di politica estera della Cina in relazione alla invasione russa dell’Ucraina in cui riafferma “l’intangibilità dei confini degli Stati sovrani”, ma anche l’”ammissibilità delle ambizioni russe”,[16] Si tratta di una posizione ambigua che, se da un lato ammette implicitamente le violazioni russe (senza pur condannarle) anche per ragioni interne, non può interrompere l’alleanza con il vicino russo.

Questi sono i principali attori legati al processo di transizione verso il contesto multipolare, gli attori che maggiormente hanno un’influenza sull’Europa sotto il piano strategico che economico. Tuttavia, la stessa India, paesi asiatici, come la Malaysia e l’Indonesia, il Sudafrica e il Brasile, e i paesi del Golfo, iniziano ad assumere ruoli importanti, ciascuno secondo il proprio rango e nel proprio contesto di riferimento e a contestare il ruolo di primazia dell’Occidente nelle relazioni internazionali. Si tratta di un passaggio importante per comprendere la natura delle sfide dell’Europa nei prossimi anni.
 

L’Europa nell’era dell’insicurezza.

Siamo, dunque, in una situazione critica per la convivenza internazionale contemporanea e, a maggior ragione, per l’Unione Europea, caratterizzata da una fase di transizione dal momento unipolare al multipolarismo, che porta con sé diverse conseguenze per la sicurezza internazionale.

Anzitutto, è evidente come il tasso di competizione tra le principali potenze costituisca un elemento centrale nella convivenza internazionale. Basti pensare alla competizione in Europa dopo il conflitto in Ucraina, alla competizione posta in essere dagli Stati Uniti e dalla Cina nel Pacifico.

Una seconda conseguenza è la crescente securitization dei diversi contesti regionali, in ossequio anche al fenomeno della frammentazione internazionale.[17] In buona sostanza, si vanno a consolidare sistemi internazionali regionali con logiche interne. Pensiamo, ad esempio, a ciò che stava accadendo in Medio Oriente fino al 7 ottobre 2023, con la costruzione di un equilibrio di potenza regionale, fondato su una “distensione” tra Arabia Saudita e Iran,[18] con il beneplacito di Israele il quale, con gli Accordi di Abramo[19] ha tentato di normalizzare le proprie relazioni con i paesi arabi. Pensiamo anche a ciò che accade nel Sud Est asiatico con la creazione di AUKUS tra Australia, Stati Uniti e Regno Unito in funzione anti-cinese.

Si tratta dunque di una situazione in fieri meritevole di interesse da parte degli Europei, anche in relazione alle ripercussioni che la competizione internazionale può avere sulla globalizzazione e sugli scambi internazionali, fondamentali per gli Stati membri dell’Unione europea.

Una terza conseguenza è la tendenza al riarmo degli attori. In particolare, le grandi potenze, come Cina e Federazione Russa, hanno accelerato questo processo, ma anche altre medie potenze regionali, come l’Arabia Saudita, ad esempio, hanno drasticamente aumentato le proprie capacità militari.[20]

Si tratta di elementi di fondo della convivenza internazionale che l’Europa, sia l’Unione che gli Stati membri, sono chiamati a valutare assieme alle crisi internazionali contemporanee, in primis, la crisi ucraina, ma anche le tensioni vissute dal Medio Oriente dopo il 7 ottobre 2023.
 

3. Politiche di sicurezza e di difesa comune, limiti e prospettive

L’Unione europea, dopo la sanguinosa parentesi delle guerre in Iugoslavia.[21] e durante la guerra in Kosovo, con la Dichiarazione di Saint-Malo afferma che è “necessario costruire un’autonoma capacità di azione e un credibile strumento militare per l’Unione Europea”.[22] Da allora, l’Europa è stata capace di raggiungere alcuni importanti obiettivi in tal senso. Ne citiamo solo alcuni: la costruzione dell’Agenzia Europea della Difesa (EDA), la creazione del Comitato politico e di sicurezza (PSC), l’istituzionalizzazione dell’Alto Rappresentante della Politica Estera e di Difesa Comune che assume, a partire dal Trattato di Lisbona, il rango di Vicepresidente della Commissione.

Nell’ambito della CSDP, fino al 2016, contiamo 37 missioni internazionali, di cui 18 in Africa, 7 nei Balcani e 10 in altre regioni, di cui le prime tre (le uniche completamente militari), hanno avuto un ruolo centrale nella stabilizzazione dei Balcani, in coerenza con gli impegni presi dall’Unione nel decennio precedente.[23]

Le restanti missioni hanno avuto carattere civile-militare, con preponderanza di personale civile ed hanno svolto un ruolo prezioso in relazione alle esigenze di peace-enforcing in aree delicate come la Somalia, la Repubblica Democratica del Congo, il Chad, la Palestina (Gaza e Cisgiordania), il Mali e la Libia. Si tratta di azioni importanti per la stabilizzazione di tali regioni, capaci di ottenere anche risultati ragguardevoli.[24] Importanti sono state anche le missioni sul fianco orientale dell’Unione, in Ucraina,[25] ad esempio, e la missione EUNAVFOR Med, a tutela dei traffici marittimi.[26]

Tuttavia, esse non rispondono alle complicate necessità che l’Europa e chiamata ad affrontare in questa delicata fase storica: esse si sviluppano in ossequio all’articolo 43 (1) TUE che assegna alle missioni CSDP un determinato perimetro operativo.[27]

Un maggiore spazio di manovra può essere concepito nell’ambito delle emergenze di natura militare stabilito dall’articolo 42 TUE, ma rimangono due limiti importanti: il primo è certamente l’unanimità, che rende (soprattutto nella prospettiva dell’allargamento a trentacinque paesi) difficile pervenire ad un accordo tra gli Stati membri; il secondo è l’aspetto del finanziamento che, stando al quadro istituzionale dell’Unione, non permette sufficiente libertà di manovra per finanziare una politica estera e di sicurezza comune rinnovata, nel quadro delle priorità che la nuova fase storica e l’epoca dell’insicurezza europea impone.
 

Dipendenza dell’UE da attori esterni.

Come abbiamo avuto modo di analizzare nei paragrafi precedenti, l’Europa ha dovuto riconsiderare il proprio assetto strategico a causa della fine della Guerra Fredda. Una riconsiderazione che ha dovuto tenere conto anche del cambiamento di natura del sistema internazionale, da bipolare a unipolare.

In un tale quadro, l’Europa ha vissuto gli effetti delle guerre in Jugoslavia, l’emergere di minacce transnazionali nuove portate da attori non statuali, come nel caso dell’11 settembre. L’allargamento dell’Unione Europea, ma ancora di più, dell’Alleanza atlantica ha costituito l’elemento più tangibile della modificazione del contesto internazionale.

Nella NATO, le forze armate degli Stati europei già membri o degli Stati confluiti dall’organizzazione rivale, il Patto di Varsavia, si sono dovute ristrutturare per adeguare i propri standard a una serie di compiti derivanti dal nuovo scenario: sicurezza interna, antiterrorismo, peace enforcement e peacekeeping, mentre le risorse di sicurezza “pesanti” (deterrenza strategica, proiezione del potere) venivano fornite a basso prezzo dagli USA.

La difficoltà di questi ultimi in vari teatri, e l’allargamento dell’area su cui combattere la Guerra al terrore hanno portato a una svolta.

Il 2008 ha visto, dopo la crisi del sistema economico globale, una nuova amministrazione americana con l’elezione di Obama e contemporaneamente il primo intervento fuori dal proprio territorio delle forze armate russe (invasione della Georgia). Nello stesso arco temporale aumentava l’instabilità nel Nord Africa e Medio Oriente (primavere arabe) e si rafforzava la Cina come sfidante nell’area Asia Pacifico e potenzialmente come egemone globale.

L’ultima fase dell’unipolarismo ha visto, contestualmente all’emergere di Cina e Russia, l’elezione alla Casa Bianca di Donald Trump, che ha posto il disimpegno degli Stati Uniti come un punto forte del proprio programma. L’invasione dell’Ucraina ha mostrato il ritorno della guerra su scala estesa nel continente europeo e la fragilità degli apparati di sicurezza degli Europei, pensati per un sistema che era già mutato, e fortemente subordinati a quelli statunitensi.

L’Europa del 2024 si trova di fronte a due enormi sfide di sicurezza che ne determinano il destino e cambieranno gli equilibri mondiali.

La prima è il ruolo degli Stati Uniti d’America come fornitori di risorse di sicurezza a costo zero per l’Europa, con il rischio della fine della convergenza strategica tra Stati Uniti ed Europa: tanto le dichiarazioni all’inizio della campagna elettorale quanto l’esperienza della precedente amministrazione Trump pongono in maniera concreta la diminuzione, sotto varie forme, dell’impegno statunitense nella NATO, che si tradurrebbe sia in termini di diminuzione della deterrenza, sia in una sostanziale diminuzione della capacità operativa dell’alleanza. Trump ha denunciato gli Stati “delinquenti” che si approfittano delle risorse di sicurezza della NATO, cioè degli Usa, senza sostenere oneri finanziari, umani e materiali.

Gli scenari che si aprono con un secondo mandato di Trump e l’attuazione delle sue minacce sono molteplici: possiamo ritenere plausibile una riduzione degli USA in Europa senza modifiche formali al quadro organizzativo dell’alleanza, oppure, un ritiro degli USA dalla struttura militare senza l’abbandono dell’Alleanza atlantica (sul modello del precedente del ritiro francese dalla solo organizzazione nel 1966). Da ultimo — improbabile ma non impossibile — un ritiro sostanziale e formale degli USA dalla NATO, che ne decreterebbe la fine immediata.

In qualsiasi degli scenari precedenti, il problema che si pone tanto agli Stati europei, quanto all’Unione Europea è la costruzione di un’alternativa strategica con funzioni di deterrenza e operative credibili, sia sul piano delle relazioni internazionali, sia su quello militare, convenzionale e nucleare.

La seconda sfida di sicurezza è posta dall’allarmante pressione esercitata dalla Federazione Russa nei confronti dei paesi europei confinanti, in particolare gli Stati nordici, i paesi Baltici e la Polonia. Diversi analisti hanno riscontrato l’incremento delle forze russe e la preparazione in vista di un conflitto che coinvolga gli europei e la NATO. Nello specifico la minaccia riguarda l’integrità territoriale delle repubbliche Baltiche, particolarmente svantaggiate in quanto dal fatto di essere incuneate tra la fortezza russa dell’oblast di Kaliningrad, la Bielorussia e la Russia stessa.

L’eventualità di un attacco sul fronte orientale è subordinata all’andamento della guerra in corso in Ucraina e all’evolversi della situazione politica negli USA, ma la Russia potrebbe rischiare e scommettere sulla frammentazione della risposta: un attacco a uno o più paesi può scatenare una reazione collettiva massiccia oppure limitata e, in caso di disinteresse statunitense, spetterebbe ai soli europei con le proprie forze reagire. Quest’ultima evenienza vedrebbe gli europei in posizione di netto svantaggio in quanto le linee di approvvigionamento sono estremamente scarse, mentre gli arsenali sono stati svuotati per armare l’Ucraina.

Si ripresenterebbero scenari già ampiamente descritti dagli autori del Federalist a proposito della Guerra d’Indipendenza americana, quando la percezione della minaccia era talmente diversa tra gli Stati legati dal vincolo confederale che quelli in posizione più distante dal conflitto evitavano di fornire le forze militari richieste dal Congresso continentale.

Nel caso in esame, invece, l’Unione europea si rivela una confederazione estremamente avanzata con aspetti mutuati dalle unioni federali (la moneta), ma meno coesa e organizzata dal punto di vista della difesa in quanto gli Stati sono già inquadrati in un’Alleanza difensiva con un egemone esterno e contemporaneamente rimangono estremamente gelosi della sovranità militare.
 

4. L’industria della Difesa

L’autonomia strategica dell’UE non può prescindere da quella della propria industria della difesa, e l’inizio del più grande conflitto simmetrico su suolo europeo dalla fine della Seconda guerra mondiale ha messo a nudo l’inadeguatezza del nostro apparato militare-industriale. Basta guardare i numeri per rendersene conto: nel 2023 l’insieme di tutti gli Stati membri ha prodotto circa 500.000 munizioni d’artiglieria[28] (perlopiù proiettili da 155 mm), quando secondo l’International Institute for Strategic Studies[29] l’Ucraina nel 2024 necessiterà, a seconda dello sforzo offensivo, tra le 75.000 e le 250.000 munizioni al mese. Sono i numeri tipici di un conflitto ad alta intensità, che sono però più che sufficienti ad erodere gli stock di munizioni di un paese come la Francia “nel giro di poche settimane”, secondo la commissione parlamentare per la difesa dell’Assemblée Nationale.[30] Un tale livello d’impreparazione, che non riguarda certo solo i proiettili d’artiglieria, è frutto di una sistematica delegazione della politica di sicurezza europea agli Stati Uniti d’America. Inoltre, la fine della guerra fredda e più di vent’anni di conflitti asimmetrici hanno portato ad una modifica delle dottrine d’impiego della maggior parte dei paesi NATO: nessun contingente in Afghanistan od in Iraq ha mai avuto bisogno di grandi volumi di fuoco d’artiglieria, di fronteggiare altri MBTs o di difendersi da missili cruise e droni. Conseguentemente, nessuno ha mai più pensato a prepararsi per un conflitto simmetrico in cui le forze in campo posseggono numeri e tecnologie paragonabili.

A completare il quadro vi è stata, e continua ad esserci, una completa avversione da parte di buona parte della classe politica europea a sviluppare una cultura della difesa, specialmente in Italia: impossibile non menzionare il caso dei primi rendering dei nuovi PPA (Pattugliatori Polivalenti d’Altura), navi da guerra da 4.500 tonnellate a vuoto destinate alla Marina, che all’epoca dell’approvazione del Programma navale del 2014 includevano dei container della Croce Rossa sulle fiancate. Il motivo? Convincere i nostri decisori politici che fregate di seconda linea come i PPA fossero sostanzialmente uno strumento d’assistenza alla popolazione civile in caso di calamità naturali,[31] dotate però di capacità belliche.

Tale contesto storico e politico ci ha lasciato in eredità un’industria della difesa europea frammentata, inefficiente e vittima dei più beceri nazionalismi. La nuova strategia per l’industria della difesa europea della Commissione EU (marzo 2024) è un ottimo punto di partenza per capire cosa non stia funzionando, e cosa vada fatto per preparare gli Stati membri a costruire una deterrenza credibile almeno dal punto di vista tecnologico e produttivo.

All’EU non manca di certo una base industriale, tutt’altro. Il problema è la cronica mancanza di cooperazione quando si tratta di sviluppare nuovi equipaggiamenti, unita alle modeste dimensioni delle aziende operanti nel settore. Nessuno tra i primi dieci produttori di sistemi d’arma al mondo è europeo[32] (escludendo l’inglese BAE Systems), e quando si tenta di fondere realtà di diversi stati membri per meglio competere con i colossi americani e cinesi, i consueti egoismi nazionali tendono quasi sempre a prevalere. Un esempio è il fallito merger tra Fincantieri e STX Europe (Chantiers de l’Atlantique), due dei tre più grandi cantieri navali europei: in breve, dopo aver nazionalizzato STX nel 2017 e in seguito ad estenuanti trattative, il governo francese fece comunque saltare l’accordo nel 2021 per salvare il proprio campione nazionale dalle grinfie italiche.[33] Si perse quindi l’opportunità di creare un player dalle ambizioni globali, concentrando know-how, assets (come gli enormi bacini di carenaggio di STX) e capitali. Alla luce di molte di queste scelte dettate dal nazionalismo (e dalle numerose barriere burocratiche), non sorprende che in UE tra il 2021 e il 2022 solo il 18% degli investimenti in nuovo equipaggiamento siano stati di natura collaborativa[34]. Ancor più masochistica è la mancanza di cooperazione per sviluppare nuovi sistemi d’arma a fronte di requisiti simili: un esempio è il dualismo dei programmi GCAP[35] (Global Combat Air Programme) e FCAS[36] (Future Combat Air System). Le principali aeronautiche europee — Francia, Germania, Italia e Spagna — nei prossimi 10/15 anni dovranno sostituire i propri Eurofighter Typhoon (Italia, Germania e Spagna) e Dassault Rafale (Francia), entrambi caccia di quarta generazione avanzata, con un veicolo di sesta generazione. Sviluppare tale sistema d’arma è fondamentale per mantenere la superiorità tecnologica su Cina e Russia, ed essendo straordinariamente costoso e complesso, richiede di combinare le risorse ed il know-how di più paesi. In particolare, per sviluppare un caccia di sesta generazione è consigliabile avere a bordo un paese ampiamente coinvolto nel programma F-35 (unico veicolo occidentale di quinta generazione assemblato in paesi diversi dagli USA) come l’Italia, in modo da colmare più agevolmente il divario tra la quarta e la sesta generazione. Invece, Francia, Spagna e Germania hanno deciso di procedere con FCAS, mentre l’Italia partecipa a GCAP con Regno Unito e Giappone, anch’essi paesi dotati di un tesoretto di significative esperienze con veicoli di quinta generazione (F-35 e F-X giapponese). Inutile dire che i pronostici per la buona riuscita di FCAS non siano particolarmente felici.

Questa frammentazione, oltre ad un minor livello tecnologico raggiunto e alla duplicazione dei sistemi d’arma, comporta anche una produzione più contenuta rispetto alle controparti americane ed asiatiche, portando quindi ad alti costi per unità e a lunghi tempi di consegna. Questo vale per quasi tutti i sistemi d’arma e le munizioni made in EU. Il risultato? Tra l’inizio dell’invasione russa e giugno 2023, più del 75% degli acquisti di equipaggiamento militare da parte degli Stati membri è avvenuto al di fuori dell’UE (di cui il 63% negli Stati Uniti).[37] Di questi tempi, un altro conflitto simmetrico ad alta intensità in Europa è una concreta possibilità: non stupisce quindi che un paese come la Polonia preferisca affidarsi a Stati Uniti e Sud Korea, rispetto a rischiare d’invischiarsi nelle inefficienze industriali europee.

La strategia della Commissione UE mira ad aumentare le capacità dell’industria della difesa europea attraverso investimenti, ricerca, sviluppo, produzione e approvvigionamento collaborativi all’interno dell’Unione. Secondo la strategia, gli Stati membri dovrebbero iniziare ad acquistare armi insieme, e soprattutto a farlo in Europa: entro il 2030 almeno il 50% del budget per l’acquisto d’equipaggiamento militare degli Stati membri (il 60% entro il 2035) dovrà andare a fornitori con sede nell’UE, e almeno il 40% degli acquisti dovrà avvenire in modo collaborativo.[38] Nel concreto, la Commissione vuole implementare un nuovo meccanismo di acquisizioni militari europee, ispirato al Foreign Military Sales (FMS) program,[39] attraverso cui Washington firma contratti direttamente con altri governi. Ovviamente il Regno Unito è escluso dell’equazione, per la gioia dei vertici di GCAP e della nostra Leonardo, che ha una forte presenza in UK.

La strategia si scontra con diversi problemi, primo tra tutti un budget risibile da 1,5 mld che dipende dalle negoziazioni tra parlamento EU e Stati membri (legato all’European Defense Fund); quest’ultimi, inoltre, parlano già d’ingerenze della Commissione tali da danneggiare la propria sovranità nazionale proprio su un tema delicato come la difesa. Insomma, i desiderata della Commissione paiono scontrarsi con i consueti limiti del modello intergovernativo, e l’industria della difesa europea ne continuerà a soffrire.

5. La Difesa: il quadro istituzionale europeo 

L’autonomia strategica.

La difesa dell’Unione (intesa come organizzazione) e la difesa degli Stati membri insieme non fanno la difesa europea.

Nei decenni precedenti, qualsiasi iniziativa di “difesa” ideata dagli Stati e, in rari casi, portata a compimento, non era finalizzata alla difesa dell’Europa bensì al contributo da apportare a un sistema in cui la sicurezza era già garantita dall’esterno. Queste iniziative, limitate nei mezzi e nelle ambizioni, sono state elaborate nel momento in cui la sicurezza generale era garantita dall’egemone unipolare; la Russia anziché competitor si poneva come partner severo ma generoso e le minacce si concretizzavano nel terrorismo e nelle crisi minori per cui l’intervento militare assumeva la forma del peace enforcement, peace keeping e polizia internazionale.

Le missioni militari all’estero degli Stati membri (segnatamente Francia, Regno Unito, Italia, Spagna) si sono svolte in maniera complementare ad altre missioni multilaterali sotto il cappello dell’Unione europea o della NATO o di altre collaborazioni multilaterali ed erano tutte finalizzate a compiti di sicurezza limitati, succedanei delle politiche estere degli Stati partecipanti. Le missioni di stabilizzazione nell’area della ex-Jugoslavia sono state tutte possibili solo in un quadro definito dall’intervento massiccio dell’attore egemone.

Tutti gli strumenti a disposizione l’Unione, teoricamente utilizzabili una volta superato lo scoglio del voto unanime del Consiglio, sono obsoleti e quantitativamente e qualitativamente insufficienti di fronte all’emergere del rischio di una guerra su vasta scala (convenzionale, ibrida e nucleare) che minaccia, in modi diversi, tanto gli Stati membri quanto la tenuta della stessa Unione.

La European Rapid Operational Force (EUROFOR), creata nel 1995 e dismessa nel 2012, con 12.000 effettivi, non avrebbe potuto adempiere da sola ai compiti di peace enforcement e peace keeping previsti dal mandato assegnatole, sia in termini numerici (per la missione Nato in Kosovo nel 1999 furono necessari 60.000 effettivi), sia per apporto logistico.[40]

I gruppi da battaglia dell’UE (European Battlegroups), sono stati progettati per adempiere, in prospettiva, a specifici compiti militari identificati dal Consiglio, mimando quelli che sono gli strumenti integrati dell’Alleanza Atlantica. Tuttavia questo tipo di forze in primo luogo rispondono a logiche d’impiego derivanti dall’essere forze messe a disposizione da una coalizione in un quadro di cooperazione interstatale e in secondo luogo sono vittime dell’acefalia politica e strategica dell’Unione.

Lo Stato Maggiore dell’Unione (EUMS, Military Staff of the European Union), creato formalmente dal Trattato di Nizza del 2003 modificando precedenti strutture nate nell’alveo della’UEO (Unione dell’Europa Occidentale), imita lo stato maggiore dell’Alleanza Atlantica senza averne le dimensioni, in termini di risorse e personale impiegato, e senza la guida politica della Nato.

Paradossalmente, gli Stati europei elaborano e attuano una politica di difesa nell’ambito dell’Alleanza atlantica, di fatto non assumendosi responsabilità in quanto membri dell’Unione. Varie iniziative, in ambito NATO o multilaterale, derivano la propria forza sia dall’impegno politico volontario degli Stati partecipanti, sia dalla volontà di questi ultimi di adempiere agli impegni presi. In uno scenario in cui la minaccia arrivi a ledere le fondamenta dell’esistenza di uno Stato, è ben difficile sperare nella buona volontà degli alleati meno minacciati.

Allo stato dei fatti, gli Europei si trovano carenti in diversi settori per i quali dipendono direttamente dal proprio alleato, gli USA, e in misura minore da altri attori come gli Stati asiatici fornitori di apparecchiature elettroniche e componentistica, o dai paesi del Golfo per le forniture energetiche.

Per quanto l’Unione tenga il passo per il trasporto di merci e persone nel proprio territorio e sia dotata di hub importanti per il commercio mondiale, si trova drammaticamente esposta per quanto riguarda la capacità di movimentare grandi unità militari, per portarle nello scenario di operazione e per rifornirle per il tempo necessario all’espletamento della missione. Per questi compiti è fondamentale l’apporto in termini sostanziali (mezzi e infrastrutture) e organizzativo (comando) degli USA. Persino per interventi limitati su un territorio circoscritto nel cuore dell’Europa (Bosnia, Kosovo, Macedonia) le strutture degli USA sono state fondamentali per l’avvio e il completamento dell’operazione.

Un aspetto vitale per l’Europa (intesa tanto quanto Unione, mercato comune e Stati membri) è la protezione delle proprie rotte marittime di approvvigionamento e commerciali. L’esperienza dell’incidente che ha bloccato del canale di Suez nel 2021 e il problema posto dall’instabilità politica e dalla pirateria nel Mar Rosso e Corno d’Africa rendono evidente la vulnerabilità dell’economia europea legata alla dipendenza dal traffico navale.

Attualmente anche la protezione degli spazi marittimi europei è affidata agli stati membri con parziale coordinamento nel quadro della NATO. A titolo di esempio, la missione navale EUNAVFOR Aspides,[41] promossa dall’UE, che giustamente ritiene cruciale la tutela delle rotte marittime nel Mar Rosso, è possibile solo perché nella stessa area insiste la missione multilaterale a guida USA, Prosperity Guardian, che utilizza in un quadro più ampio le stesse risorse, le stesse unità navali e lo stesso personale di quella UE.

Nel caso gli Stati Uniti d’America decidessero, in maniera unilaterale e confacente alla propria ragion di Stato, di spostare le proprie forze navali di stanza permanentemente a protezione dell’Europa, in Asia, gli Europei si troverebbero immediatamente privi di uno strumento formidabile di protezione e proiezione del potere, che non potrà essere sostituito dallo sforzo congiunto delle marine nazionali, progettate o in un’ottica di protezione dell’interesse nazionale o per l’uso in ambito multilaterale e complementare a quello dell’Alleanza atlantica.

Degli Stati europei, dopo la Brexit, solo uno è dotato di sottomarini nucleari strategici (4 operativi) e solo due sono dotati di portaerei. Il paragone con le diverse flotte USA e con la struttura dei gruppi da battaglia della US Navy incentrati sulle portaerei, è impietoso.

Il recente conflitto ucraino rende evidenti i punti vulnerabili per la tenuta di una comunità politica organizzata e per la vita dei propri cittadini. Infrastrutture energetiche e infrastrutture di comunicazione sono fondamentali e devono essere protette con priorità assoluta per garantire il funzionamento degli altri apparati. L’Europa già adotta politiche sottodimensionate in tempo di pace per tutelare queste risorse fondamentali e non adotta strumenti per la difesa in tempo di guerra. La difesa del territorio degli Stati è lasciata agli stessi dal trattato Ue, altri spazi, come lo spazio extra atmosferico sono lasciati a un uso civile e l’iniziativa dei singoli Stati. In questo sia l’alleato americano, sia gli sfidanti russi e cinesi mostrano più lungimiranza e, in un contesto che vede forzatamente la militarizzazione dello spazio, cercano di adottare strumenti adeguati.

Gli europei sono irrilevanti nella dimensione militare del comando, del controllo e intelligence (C3I), per la quale gli Stati Uniti hanno investito in maniera massiccia negli ultimi 25 anni. Ad oggi, i centri di intercettazione, di controllo satellitare, le stesse reti satellitari sono appannaggio degli Stati Uniti, eventualmente in collaborazione con propri alleati (Gran Bretagna, Australia). Mancano anche strutture europee autonome per la raccolta e l’elaborazione dei dati, senza contare la frammentazione dell’intelligence tra le varie componenti nazionali.

Gli scenari di guerra contemporanea ad alto tasso di digitalizzazione e automazione sono particolarmente sfavorevoli agli europei che rimangono sguarniti in questo settore.
 

La necessità di una riforma istituzionale.

Il tempo e il contesto internazionale giocano a sfavore degli Europei. In caso di una crisi importante, gli unici strumenti su cui fare affidamento sono quelli tradizionali degli Stati membri e del loro sistema di alleanze, in quanto i poteri e le risorse di difesa sono pienamente in mano agli Stati, con tutti i limiti che questo comporta.

La creazione di strumenti alternativi richiede un cambiamento dell’assetto istituzionale dell’Unione, parziale o complessivo.

Anche la proposta minimale del “28° esercito” avanzata dal gruppo parlamentare tedesco dell’SPD (rimasta poi lettera morta), che prevedeva la creazione di uno strumento militare limitato, indipendente da quello degli Stati e sottoposto agli ordini di Commissione e Consiglio sotto il controllo del Parlamento europeo, era comunque subordinato a una modifica dei Trattati.

Il tema che si pone per fornire una risposta a tutte le sfide poste alla sicurezza collettiva del continente, è quindi quello istituzionale, senza il quale qualunque soluzione proposta sarà sottoposta a limitazioni insormontabili.

Paradossalmente, anziché creare subito un “Esercito Europeo” parallelo a quelli degli Stati, ma privo di direzione politica e finanziamento proprio, un’Unione europea dotata di strumenti federali quali un governo con responsabilità politica e la leva fiscale potrebbe guidare in maniera efficiente le forze armate dei 27 Stati membri, durante la fase transitoria verso la costruzione di un sistema di difesa unificato.

Come è ovvio, la strutturazione nel dettaglio di un’ipotetica difesa europea esula dai compiti di questo testo, pertanto, in quanto legato a doppio filo con la riforma dei Trattati e con i nodi già emersi in occasione del rapporto finale della Conferenza sul futuro dell’Europa, il tema della difesa deve entrare nel dibattito della futura Convenzione previste dall’articolo 48 del TEU.
 

Conclusioni

Il quadro politico che l’Unione si trova ad affrontare è quello della insicurezza europea e si trova nell’urgenza, oggi più che in altri contesti, di provvedere autonomamente alla propria sicurezza.

Permangono la guerra in Ucraina, con l’esigenza di sostenere politicamente e militarmente lo sforzo ucraino, nonché le conseguenze di altre crisi, a partire dalle tensioni in Medio Oriente e nel Golfo di Aden. Le difficoltà, tuttavia, non insistono solo sulla valutazione del contesto regionale, ma sulle capacità tecniche dell’Unione Europea e dei singoli Stati membri nel campo della Difesa.

I nazionalismi, e gli interessi di bandiera hanno condizionato le capacità militari dell’Unione Europea e creato notevoli limiti all’interoperabilità dei sistemi d’arma. Sebbene l’Unione si sia dotata di strumenti in potenza utili come il EDF[42], la propensione allo sviluppo congiunto di tecnologie militari è stata largamente inferiore alle aspettative ponendo gli Stati europei in una posizione di straordinaria debolezza, non solo nell’ambito della convivenza internazionale, ma anche nell’ambito delle sfide regionali, a cominciare dalla sopravvivenza dell’Ucraina per finire alla sicurezza delle catene di approvvigionamento.

Altro tema aperto è quello della deterrenza: la fine del contesto di sicurezza legato ai trattati di disarmo e il conflitto in corso con una potenza nucleare ripropongono il problema della dell’autonomia strategica e della deterrenza. Con la Brexit, la Francia rimane l’unico Stato membro dell’Unione dotato di capacità nucleare propria, mentre altri partecipano ai programmi di nuclear sharing con gli USA. A oggi gli scenari che si aprono impongono una riflessione su una deterrenza autonoma europeo e sul controllo sovrano di un tale dispositivo.

Le riforme istituzionali necessarie per consentire all’Unione di dotarsi di strumenti di sicurezza credibili, esulano dal coordinamento intergovernativo o dal metodo comunitario in quanto vanno a toccare i nodi della sovranità, segnatamente la legittimità, il potere coercitivo, il potere fiscale che sono le fondamenta della statualità. Per raggiungere tale obiettivo, è indispensabile andare verso un cambiamento dei Trattati che tenga conto dei nodi posti dal nuovo nascente contesto internazionale e della necessità di fornire una guida politica alla politica di sicurezza e di difesa comune, soprattutto oggi in cui le certezze sia della Guerra fredda, sia dell’era dell’unipolarismo americano sono venute meno.


[1] Si pensa, ovvimente, agli effetti dovuti alla crisi degli approvigionamenti dovuta al persistere della minaccia degli attachi Houthi alla flotta mercantile. Vedi Duci, G., Mar Rosso: porti mediterranei a rischio bypass, ISPI/Commentary, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/mar-rosso-porti-mediterranei-a-rischio-bypass-165404.

[2] Sanger, E., NATO Weighs Isolation After Trump Outburst, The New York Times, February, 12, 2024, Section A, p.1.

[3] Tra gli altri suggeriamo: Obama, B., Speech by President Obama to the Australian parliament, Office of the Press Secretary, 2011, https://obamawhitehouse.archives.gov/the-press-office/2011/11/17/remarks-president-obama-australian-parliament;  Jackson, V., Relational Peace versus pacific primacy: configuring US strategy for Asia’s regional order, Asian Politics & Policy, https://doi.org/10.1111/aspp.12675.

[4] Remarks by Executive Vice-President Vestager, High Representative/Vice-President Borrell, and Commissioner Breton at the press conference on the European Defence Industrial Strategy and the European Defence Industry Programme, https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/speech_24_1327; Calcutt, C., Macron stands by remarks about sending troops to Ukraine, Politico, https://www.politico.eu/article/emmanuel-macron-ukraine-western-troops-remarks; Nubert, K., German SPD’s lead EU candidate sparks debate on EU nuclear warheads, Euractiv, 24 febbraio 2024 (aggiornato il 16 febbraio 2024), https://www.euractiv.com/section/elections/news/german-spds-lead-eu-candidate-sparks-debate-on-eu-nuclear-warheads/.

[5]   Pirozzi, N., A Treaty Change for the European Defence Union , IAI Commentaries,  21 Aprile 2023.

[6] Barnett, T.P.M., War and Peace in the twenty-first century, London, Routledge, 2014.

[7] Dehio, L., Equilibrio o Egemonia, Bologna, Il Mulino, 1988.

[8] Gates, R. M. (2010), Helping Others Defend Themselves: The Future of U.S. Security Assistance, Foreign Affairs, 89, n.), pp. 2-6.

[9] Turner, S., Russia, China and Multipolar World Order: the danger in the undefined, Asian Perspective, 33 n. 1 (2009), pp. 159-184.

[10] Nikitin, A. (2008), Russian Foreign Policy in the Fragmented Post-Soviet Space, International Journal on World Peace, 25 n. 2 (2008), pp. 7–31.

[11] Gopaldas, R., Will the Invasion of Ukraine Change Russia-Africa Relations?, Carnegie Endowment for International Peace, 2023, pp. 11-15, https://carnegieendowment.org/2023/04/26/will-invasion-of-ukraine-change-russia-africa-relations-pub-89596; Ramani, S., Russia and China in Africa: Prospective Partners or Asymmetric Rivals?, South African Institute of International Affairs, 2021.

[12] Turner, S., Russia, China and Multipolar World Order…, op. cit., pp. 159-184.

[13] Palermo, C.M. (2018), Belt and Road Initiative, la politica estera cinese e le opportunità per l’Europa, Il Federalista, 60 n. 1 (2018), pp. 43-50.

[14] Ibidem.

[15] Shinn D.H., Eisenman, J., China’s Relations with Africa, New York, Columbia University Press, 2023.

[16] Ministry of Foreign Affairs of the People’s Republic of China, China’s Position on the Political Settlement of the Ukraine Crisis, 2023, https://www.fmprc.gov.cn/mfa_eng/zxxx_662805/202302/t20230224_11030713.html.

[17] Clark, I., Globalizzazione e Frammentazione, Bologna, Il Mulino, 1991.

[18] Palermo, C.M., Accordo Arabia Saudita-Iran, L’Unità Europea, n. 2, 2023.

[19] Vakil, S., Quilliam, N., The Abraham Accords and Israel–UAE normalization, Chatham House Research Papers, 2023, https://www.doi.org/10.55317/9781784135584.

[20] Dataset SIPRI, Rapporto SIPRI 2022, https://www.sipri.org/yearbook/2022.

[21] Di Nolfo, E., Storia delle Relazioni Internazionali, Roma-Bari, Laterza, 2015.

[22] Dichiarazione di Saint-Malo, 4 dicembre 1998, https://www.cvce.eu/obj/franco_british_st_malo_declaration_4_december_1998-en-f3cd16fb-fc37-4d52-936f-c8e9bc80f24f.html.

[23] Howorth, J., The European Union’s Security and Defence Policy: The Quest for Purpose, in Hill, C., Smith, M., Vanhoonacker, S., (eds.) International Relations of the European Union, Oxford, Oxford University Press, 2017.

[24] Zandee, D., Hoebeke, H., Merket, H., Meijnders, M., The EU as a security actor in Africa, Cligendael Monitor, 2016, https://www.clingendael.org/pub/2015/clingendael_monitor_2016_en/2_the_eu_as_a_security_actor_in_africa/.

[25] Rieppola, M., The EU Advisory mission Ukraine: Normative or Strategic Objectives?, EU Diplomacy Papers, College of Europe, 2017.

[26] Cfr. Operation IRINI, EUNAVFOR MED Website, https://www.operationirini.eu.

[27] Cfr. Art. 42.1 e 43.1 TUE cfr. Trattato sull’Unione Europea (Versione Consolidata) https://eur-lex.europa.eu/resource.html?uri=cellar:2bf140bf-a3f8-4ab2-b506-fd71826e6da6.0017.02/DOC_1&format=PDF

[28] Deutsch, A., Lopakta, J., Inside Europe’s drive to get ammunition to Ukraine as Russia advances, https://www.reuters.com/world/europe/inside-europes-drive-get-ammunition-ukraine-russia-advances-2024-03-06/.

[29] Gady, F.-S., Kofman, N., Making Attrition Work: A Viable Theory of Victory for Ukraine, International Institute for Strategic Studies, https://www.iiss.org/globalassets/media-library---content--migration/files/online-analysis/survival-online/2024/01/66-1-gady-and-kofman.pdf.

[30] Pietralunga, C., French military lacks ammunition for high-intensity conflict, Le Monde, 23 aprile 2024, https://www.lemonde.fr/en/politics/article/2023/02/18/french-military-lacks-ammunition-for-high-intensity-conflict_6016329_5.html.

[31] Ministero della Difesa, Marina militare, Programma navale 2014, https://www.marina.difesa.it/noi-siamo-la-marina/mezzi/nuoviprogetti/Pagine/programma_navale.aspx.

[32] Stokolm International Peace Research Institute, The SIPRI Top 100 arms-producing and military services companies in the world, 2022,https://www.sipri.org/visualizations/2023/sipri-top-100-arms-producing-and-military-services-companies-world-2022.

[33] Zanon, M., Ai cantieri di Saint-Nazaire non vogliono più gli italiani, Il Foglio, 29 dicembre 2020, https://www.ilfoglio.it/esteri/2020/12/29/news/ai-cantieri-di-saint-nazaire-non-vogliono-piu-gli-italiani-1608837/.

[34] Besch, S., Understanding the EU’s New Defense Industrial Strategy, Carnegie Endowment for International Peace, 8 March 2024, https://carnegieendowment.org/2024/03/08/understanding-eu-s-new-defense-industrial-strategy-pub-91937.

[35] An ambitious timetable to deliver the newest world’s fighter jet, Finacial Times, https://www.ft.com/content/aca4f3f0-f9bd-4d96-9928-febb13da6513.

[36] Airbus, Future Combat Air System (FCAS), https://www.airbus.com/en/products-services/defence/multi-domain-superiority/future-combat-air-system-fcas.

[37] Besch, S., Understanding the EU’s New Defense Industrial Strategy, op. cit..

[38] Ibidem.

[39] Defense Security Cooperation Agency, Foreign Military Sales (FMS), https://www.dsca.mil/foreign-military-sales-fms.

[40] Clementi, M., L’Europa e il mondo. La politica estera, di sicurezza e di difesa europea, Bologna, Il Mulino, 2004.

[41] Cfr. SEAE Aspides mission page, https://www.eeas.europa.eu/eeas/eunavfor-operation-aspides_en.

[42] Clementi, M., L’Europa e il mondo. La politica estera, di sicurezza e di difesa europea, Bologna, Il Mulino, 2004.

[43] Cfr. SEAE Aspides mission page, https://www.eeas.europa.eu/eeas/eunavfor-operation-aspides_en.

[44] European Defense Fund.

 

 

 

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