IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LIX, 2017, Numero 3, Pagina 238

 

 

Albertini scienziato della politica:
le lezioni sul materialismo storico,
la filosofia della politica di Kant e la ragion di Stato
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LUISA TRUMELLINI

 

 

Questa relazione, come già i due saggi pubblicati su Il Federalista nel n.1-2008 e nel n.2-2009, si basa sulla trascrizione del ciclo di lezioni tenuto da Albertini per lo svolgimento del suo corso di Filosofia della politica nell’anno accademico 1979-80.

Dati i tempi richiesti dal convegno e la vastità della materia, non potrà essere nulla di più che un tentativo di far emergere lo schema che si ricava dalla lunga esposizione di Albertini. Si tratta quindi solo di un omaggio ad una parte fondamentale della riflessione di Albertini che rimane ancora nascosta al pubblico; in realtà il vero obiettivo che, con l’occasione del convegno, si vuole riprendere e rilanciare è quello di cercare di rendere fruibili, anche per gli studiosi, oltre che per chi è impegnato nella battaglia politica, i risultati di questo lungo lavoro di elaborazione affinata da Albertini per decenni, e che è rimasto sempre limitato alla trattazione orale. Per questo si cercherà di avviare un lavoro di sistemazione che possa rendere le lezioni pubblicabili.

Nella mia sintetica presentazione non si potrà quindi dare spazio neanche lontanamente adeguato alla ricchezza delle analisi di Albertini, né rendere conto dell’esperienza vissuta dagli studenti cui si aprivano ogni volta nuove finestre su mondi di conoscenza che illuminavano squarci di realtà. Proprio questa è la ragione del progetto, unico modo per rendere giustizia alla profondità e alla ricchezza — e al contributo alla scienza della politica — di questa parte del pensiero di Albertini, qui solo richiamato.

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Albertini ha rielaborato fino almeno alla fine degli anni Ottanta, con una riflessione sviluppata nell’arco di oltre 30 anni, sia la revisione critica del materialismo storico, sia l’indagine sul corso della storia e sulla specificità della politica. Le primissime esposizioni sul tema (generalmente conservate grazie alle registrazioni e alle conseguenti trascrizioni) risalgono all’inizio degli anni Sessanta — quando Albertini ha elaborato le basi del federalismo europeo come pensiero politico attivo, ossia come pensiero in grado di orientare l’azione sulla base di un’interpretazione del processo storico e di una proposta politico-istituzionale originali. Sono gli anni in cui Albertini ha individuato — con 30 anni di anticipo — la crisi delle ideologie tradizionali, proprio a partire dall’intuizione di Spinelli della nuova linea di divisione tra progresso e reazione individuata nel Manifesto.

Sulla base di questo nuovo orientamento politico, uno dei primi problemi che Albertini si è posto nel pensare la natura della battaglia per la Federazione europea — e anche per individuarne con chiarezza la strategia — ha riguardato proprio la riflessione sul corso della storia e sul rapporto tra determinismo e libertà. In gioco è la possibilità di un controllo razionale dei processi storico-politici. Per Albertini era una necessità inderogabile cercare di capire, da un lato, se effettivamente è una prospettiva all’interno della quale la politica può tornare ad essere l’ambito in cui si comprende il presente e si progetta il futuro, e, dall’altro, se questa prospettiva ha effettivamente una rispondenza nei processi reali e se quindi fornisce strumenti di comprensione da cui possono derivare possibilità di intervento sulla realtà.

Albertini era convinto che questa fosse la sfida fondamentale cui la cultura filosofico-politica del nostro tempo doveva cercare di rispondere e che fosse cruciale, sotto questo profilo, la prosecuzione del tentativo, avviato in particolare da Marx e da Max Weber, di porre le basi di una solida scienza della politica. In questa ottica dedicò una grandissima parte della sua riflessione a questa tematica, concentrandosi soprattutto sull’analisi dell’evoluzione del processo storico per cercare di individuarne le leggi fondamentali e fornire così un fondamento oggettivo alla scienza della politica. Ai suoi occhi, questa era anche la condizione per riuscire a definire la specificità della politica come ambito dell’agire umano.

Fu in questo quadro che rielaborò criticamente il materialismo storico di Marx.

Già in una conferenza svolta in uno stage di formazione federalista a Pavia nel 1964 Albertini aveva posto con chiarezza questo problema di fondo del rapporto tra politica, libertà e processo storico e aveva individuato nella rielaborazione del materialismo storico di Marx uno strumento da cui ricavare alcune categorie basilari: “E’ molto diffusa una concezione arbitraria della storia secondo la quale l’uomo è libero e padrone del suo destino come individuo. Ma questo uomo libero, che fa le sue scelte, che progetta il suo destino, che è il suo progetto stesso, in realtà non è niente, perché la storia si pone e lo pone in una prospettiva del tutto diversa. Questi uomini liberi, quando sono insieme, si trovano a raggiungere dei risultati che appaiono come del tutto casuali rispetto alle loro scelte. In realtà l’uomo è libero e progetta la sua esistenza, ma la sua esistenza è mescolata con quella di tutti gli altri e il risultato che si impone è al di là di ogni possibile conoscenza, volontà o decisione. Se dunque ci si limita, da una lato a riconoscere il determinismo storico, e, dall’altro, a rivendicare semplicemente la libertà della coscienza, la conseguenza inevitabile è l’irrazionalismo. Per superare questa contraddizione bisogna cercare di costruire una visione, una teoria con la quale si possano mettere in evidenza i rapporti che esistono tra la libertà degli individui (che è una esperienza reale, e deve dunque avere un fondamento), e il corso della storia, anch’esso un’esperienza reale che non si può trascurare ogni volta che si cerca di comprendere lo sviluppo delle vicende umane.”[1]

Albertini era spinto innanzitutto dall’esigenza pratica di chi è impegnato in prima persona in un’azione politica radicalmente nuova — rivoluzionaria — e deve orientarsi laddove le categorie del pensiero già condiviso e utilizzato nelle battaglie precedenti non riescono più ad aiutare, ossia a fornire la comprensione dei processi in corso. L’esigenza teorica nel suo caso deriva dunque dalla necessità di dare un fondamento scientifico a questo orientamento dell’azione. Si tratta di una necessità vitale per chi, come Albertini, sta conducendo una nuova forma di lotta politica finalizzata al conseguimento di un obiettivo che non ha precedenti nella storia; una lotta che solo un movimento di avanguardia può perseguire, e che non può esistere e resistere senza un fondamento teorico solidissimo, grazie al quale i federalisti riescono a comprendere la natura profonda dei processi in corso e delle sfide che si presentano, possono sviluppare la coscienza del ruolo che sono chiamati a svolgere e individuare concretamente il loro margine di intervento politico.

Questa riflessione sviluppata da Albertini e approfondita nel corso dei decenni è imperniata intorno a quattro aspetti: lo statuto epistemologico delle scienze sociali; la dottrina del materialismo storico; la filosofia della storia di Kant; la comprensione di che cos’è la politica e quali sono i suoi margini di autonomia, stretta tra i determinismi messi in luce dalla teoria del modo di produzione e le leggi della ragion di potere.

 

Lo statuto epistemologico delle scienze sociali.

Albertini ha riflettuto molto a fondo sui problemi epistemologici legati alla conoscenza scientifica, e lo ha fatto in un momento in cui il pensiero filosofico metteva in crisi l’idea che la conoscenza scientifica potesse approdare a conoscenze certe e condivisibili. Era un convinto sostenitore del fatto che invece la conoscenza scientifica dei fenomeni naturali grazie al metodo proprio di queste scienze, è un processo di avvicinamento alla verità, sempre asintotico, ma non per questo meno valido, grazie al fatto che la scienza è in grado di stabilire una corrispondenza tra teoria e fatti verificabili, ed è un processo cumulabile a livello di comunità scientifica — e addirittura di comunità umana — capace di riconoscere ed eliminare l’errore al proprio interno.

 Anche per le scienze sociali, con le ovvie differenze legate al diverso oggetto della conoscenza, la questione fondamentale resta la possibilità della conquista di una metodologia capace di ottenere risultati tali da rendere possibile una conoscenza controllata e condivisa. Anche in campo sociale la capacità di elaborare modelli che permettano di identificare le “tecnologie” adeguate per gestire i fenomeni politici e sociali è la condizione necessaria per il progresso dell’umanità.

 Le ideologie del passato hanno in parte saputo svolgere questa funzione, dando risposte istituzionali grosso modo capaci di governare alcuni dei processi che derivavano dalla nascita della nuova società industriale. Ma la loro impotenza di fronte al cambio di paradigma necessario per comprendere e agire a seguito della crescente interdipendenza frutto della società post-industriale è una delle ragioni dello stallo della politica, incapace di confrontarsi con i problemi globali perché confinata nel quadro di comunità statuali parcellizzate, prigioniere del dogma della sovranità esclusiva in ambito nazionale. Temi oggi in larga parte condivisi, ma in cui Albertini ha precorso i tempi, iniziando a parlarne quasi sessanta anni fa.

Ciò detto, secondo Albertini, la scienza politica non esaurisce la politica, che è non solo analisi oggettiva di ciò che è osservabile (presente e passato), e che come tale può essere oggetto di indagine scientifica. La politica è anche identificazione delle potenzialità presenti nel processo e progettazione del futuro. Come tale si basa su valori e obiettivi politico-istituzionali in senso lato che ancora non sono dati, e che emergono sulla base del pensiero ideologico, che in politica resta ineliminabile (benché esso debba evolvere e diventare più controllato e coerente). Egli intende con questo termine un pensiero capace di identificare gli obiettivi istituzionali adeguati rispetto alle condizioni oggettive create dal processo storico-sociale e capaci di affermare storicamente quel valore politico che emerge come prioritario per sanare le contraddizioni in atto.

 E’ la prospettiva che si spalanca sul futuro che fornisce il quadro per orientare l’azione politica e individuare gli ambiti prioritari di intervento. La politica proprio per questo ha il carattere di un pensiero collettivo, che in ultima istanza può essere condiviso da tutti e rendere possibile quel controllo di tutti su tutti ipotizzato da Rousseau nel concetto della volontà generale. Se si limitasse ad indagare ciò che è stato e ciò che è, e fosse esclusivamente una scienza, sarebbe materia solo per gli specialisti, per studiosi in grado di decidere per tutti sulla base delle conoscenze raggiunte.

 Questo non sminuisce ovviamente la necessità e il valore di una vera scienza della politica, ma, viceversa, permette di definirne con rigore l’ambito e i compiti. Questa articolazione rispecchia la complessità della condizione dell’uomo in quanto essere dotato di ragione e chiamato a costruirsi il proprio mondo; e rispecchia anche il conseguente rapporto che esiste a livello generale tra la scienza e la filosofia, dove quest’ultima rimane un’esigenza insopprimibile della ragione che lo sviluppo delle scienze non intacca, perché infinite sono le domande di senso che la conoscenza razionale del reale, lungi dall’esaurire la conoscenza tout-court, lascia aperte, in campo ontologico, gnoseologico, epistemologico, pratico. Su questo delicato crinale si pone anche il problema generale dello statuto epistemologico delle scienze sociali.

 Per l’elaborazione di una metodologia in campo sociale che permetta di procedere per cause, Albertini si riallaccia a Max Weber e alla sua teoria dell’Idealtypus, a partire innanzitutto dalla sua indicazione circa la specificità dell’oggetto delle scienze sociali rispetto a quello delle scienze naturali (l’oggetto non è mai un dato puramente osservabile ma è sempre un mezzo rispetto ad uno scopo). Nelle scienze sociali, pertanto, il punto di partenza è dato da una relazione di valore: il primo atto è quello di isolare e separare, nel continuum infinito dei fatti storici, quelli che sembrano avere significato rispetto agli obiettivi dell’indagine che si persegue. Quella che si compie, dunque, è una scelta, sulla base dell’interesse dello studioso (vale a dire sulla base del valore che egli attribuisce a determinati fatti/avvenimenti) che permette di costituire un insieme significativo, che abbia un senso rispetto all’indagine che si vuole compiere.

 Questo è quanto avviene sempre nell’operare concreto degli storici, dei sociologici, ecc. Ora, il punto è che tanto più questo modo di operare è consapevole, tanto più è possibile controllarlo. E la prima cosa da fare è rendere il più chiara possibile la scelta che si compie (cioè la relazione di valore che la ha guidata) e trattare poi l’insieme significativo isolato come un’ipotesi da verificare sulla base della corrispondenza con i fatti concreti. Se questa operazione è fatta con lucidità e senza automistificazioni, permette di costruire un tipo ideale (uno schema) coerente in base al quale diventano comprensibili i nessi di causa ed effetto tra gli avvenimenti e si può acquisire una conoscenza controllata di un determinato processo. A questo stadio infatti diventa possibile l’operazione dei «se» e si può verificare, eliminando determinati fatti, quali sono quelli che, una volta tolti, insieme agli altri ad essi connessi, interrompono la catena che porta al punto di arrivo e costituiscono quindi un anello indispensabile: vale a dire, si possono identificare quelle che Weber chiama le «causazioni adeguate» del fatto storico.

 Albertini è consapevole delle critiche e dei dubbi che la teoria dell’Idealtypussuscita, ma anche convinto che Weber abbia innanzitutto posto il problema giusto, e cioè che anche in campo storico-sociale l’unica conoscenza controllata può essere quella basata sullo studio per cause; e pensa che questo tipo di impostazione sia cruciale per inquadrare anche il materialismo storico marxiano, che ha una valenza effettiva solo se è pensato come una tipologia molto generale per la conoscenza della storia.

 

La dottrina del materialismo storico.

 Lo studio e la rielaborazione da parte di Albertini del materialismo storico si basa su un lavoro filologico accuratissimo — in particolare svolto sull’Ideologia tedesca dopo aver scartato criticamente altri passi di scritti di Marx dove il tema è ripreso —, che lo porta ad isolare il nucleo della teoria marxiana, eliminando le “incrostazioni” del marxismo successivo e identificando le intuizioni innovative, proto-scientifiche, che restano valide, separandole dalle contraddizioni e dal “non pensato” dello stesso Marx, e quindi facendo quel lavoro accurato di verifica nel confronto tra i fatti e la teoria del materialismo storico che Marx stesso non aveva potuto fare — per ragioni storiche e personali.

 Ne resta un nocciolo che permette di identificare, secondo Albertini, il meccanismo più basilare in assoluto che determina il processo storico e la sua evoluzione. Si tratta dell’idea che gli uomini producono indirettamente la loro vita e quindi fanno la loro storia a partire dalla produzione dei loro mezzi di sopravvivenza. L’intera società è quindi descrivibile sotto forma di articolazione di quello che egli definisce il modo di produzione.

 Sappiamo che in Marx il modo di produzione determina innanzitutto la divisione del lavoro e che le funzioni necessarie alla produzione sono definite come le forze di produzione.

 Analogamente emergono i rapporti di produzione che sono anch’essi il prodotto della divisione del lavoro: a diverse specializzazioni corrispondono diversi ruoli nella società, che devono essere coordinati e codificati affinché sia garantito lo svolgimento ordinato delle funzioni di ciascuno.

 Ci sono poi gli strumenti di produzione, che sono sia gli strumenti fisici che quelli mentali: dalla pietra scheggiata alle più sofisticate apparecchiature elettroniche nel primo caso, a tutte le conoscenze necessarie a garantire i diversi stadi della produzione nel secondo caso. Per cui sono strumenti di produzione le scienze, senza le quali non si possono fare determinate produzioni, ma lo è anche la concezione che l’uomo ha di se stesso, che deve essere compatibile con i rapporti di produzione; le stesse concezioni filosofiche, politiche, religiose sono dunque da annoverare tra gli strumenti di produzione.

 E’ a livello degli strumenti di produzione che emerge, tra gli altri aspetti, anche la duplice natura del pensiero: sia ideologico,automistificato, nel senso di asservito a dare un significato ai rapporti sociali — e ai relativi rapporti di potere — in essere, necessari per il mantenimento del sistema che garantisce la sopravvivenza della comunità; sia, in certi casi, libero (ossia non ideologico, né automistificato). La realtà del pensiero come attività libera e innovatrice è un’esperienza fattuale, innegabile nella storia — ed è cruciale per capire uno dei meccanismi di evoluzione della storia. Il fatto che in Marx vinca invece la tendenza a ridurre tutto il pensiero ad ideologia, ossia a pensiero riflesso della situazione di potere, lo porta a negare così uno dei meccanismi evolutivi del processo; si tratta di un errore che ha profonde implicazioni nello sviluppo della sua teoria — e che si rifletterà pesantemente sulla tradizione marxista.

 L’operazione che Albertini compie, viceversa, proprio partendo dalla rilevazione della duplice natura del pensiero, gli permette di definire chiaramente il campo di indagine della teoria del materialismo storico. Per definizione, si tratta di una teoria che non può includere nel suo campo di indagine la libertà e l’innovazione, ma è in grado di illuminare (esclusivamente) i determinismi che sottendono la realtà storico-sociale dell’uomo. E’ pertanto un modello che dà conto di una dimensione dell’esistenza umana, quella storico-sociale, ma non può pretendere in questo modo di esaurire la totalità dell’esistenza umana.

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 Nell’ultimo concetto isolato da Marx riguardo al modo di produzione, ossia quello dei bisogni di produzione si palesa anche il meccanismo deterministico basilare che provoca l’evoluzione della realtà storico-sociale dell’uomo. Ciò che distingue gli uomini dagli animali è che nell’uomo, ai bisogni biologici primari, si affiancano quelli storico-sociali che l’uomo stesso crea introducendo la dimensione della produzione. Questi bisogni sono appunto il frutto delle modificazioni dei comportamenti umani introdotte dagli strumenti di produzione; e il rapporto tra l’introduzione di uno strumento e la nascita di un nuovo bisogno si può dire che sia una costante del processo. Questa dialettica è uno dei fattori fondamentali del cambiamento nella storia, che delinea i meccanismi di base del dinamismo storico.

 Prima, le ragioni per cui la storia avanzava, si “muoveva”, risultavano oscure. Di fatto si davano spiegazioni ideologiche o idealistiche che non chiarivano i meccanismi profondi. Con Marx invece questi meccanismi diventano comprensibili a partire dalla constatazione che i cambiamenti nel modo di produrre creano nuovi bisogni: quando si inserisce un nuovo strumento di produzione, questo opera una trasformazione a livello dei comportamenti, del modo di pensare, e questo fatto a sua volta crea nuovi bisogni a livello della sfera storico-sociale; i nuovi bisogni a loro volta agiscono sul sistema, modificandolo, ed è sicuramente plausibile pensare che il cumulo dei nuovi bisogni che man mano si creano e delle risposte che questi ingenerano arrivino fino al punto di far cambiare il modo di produzione. Si può pensare, come esempio, a come il modo di produzione agricolo abbia via via creato nuovi bisogni, per rispondere ai quali il sistema si è complicato, si è esteso, si è rafforzato, in tutti i settori: in quello della conoscenza (fino ad arrivare alla nascita della scienza moderna), in quello della tecnologia, in quello dell’artigianato, in quello dell’economia, ecc.. C’è una crescita complessiva della società ed un progressivo trapasso che può — come si è di fatto verificato — ad un certo punto sfociare in un salto brusco, in un cambiamento profondo che porta ad un nuovo modo di produzione.

 E’ fondamentale osservare che il determinismo del movimento dinamico della storia che viene così messo in luce è sempre ex post. Questo modello permette infatti di individuare i nessi causali alla radice delle trasformazioni storico-sociali, e quindi di comprenderle e di spiegarle; ma non pretende al tempo stesso di prevederle. Non è infatti anticipabile né spiegabile esclusivamente sulla base di questo criterio, data la sua natura libera l’innovazione, ossia l’introduzione del nuovo strumento fisico di produzione che avvia il generarsi dei nuovi bisogni e che può essere a sua volta la risposta ad esigenze profonde, oppure, invece, una soluzione geniale a problemi secondari. Non è neppure prevedibile automaticamente il tipo di bisogni che ne conseguirà, perché essi dipendono dalle condizioni concrete della società, e neppure la risposta che ad essi, nel momento in cui sorgono, verrà data; e infine non sono automatici i cambiamenti che si generano in seguito all’attivarsi di questo meccanismo. Solo ex post questo schema che parte dal punto di vista della produzione permette di capire sia perché certe trasformazioni di fondo della vita sociale si sono verificate, sia perché non si sono verificate. Nella storia infatti non c’è solo il mutamento continuo, c’è anche la stasi, la fine delle civiltà, il crollo degli imperi.

 La storia procede quindi per grandi tappe, perché, finché un modo di produzione perdura nelle sue caratteristiche essenziali, alcune macro-variabili della vita storico-sociale mantengono le stesse caratteristiche di fondo. Come appariva chiaro dall’analisi dell’articolazione del concetto di produzione, la quantità della popolazione è determinata (nella sua forbice di variabilità) dal modo di produzione; lo stesso vale per la composizione sociale della popolazione e per il tipo di cultura, di esperienza e di mentalità diffuse. Non in modo rigido e assolutamente univoco, ovviamente,ma all’interno di una possibilità di opzioni limitate e determinate.

 Il modo di produzione stabilisce dunque sia il tipo di interdipendenza che si viene a creare fra gli uomini, nel senso della tipologia dei ruoli sociali, sia i limiti della dimensione dei gruppi che si possono formare e avere una vita autonoma. La distribuzione dei ruoli nella società è fissa: nessuno l’ha voluta, nessuno può opporsi. Il gruppo stesso, infatti, è un mezzo di produzione.

 Questo punto di vista consente pertanto di capire sia le radici ultime degli aspetti dinamici della storia, sia le ragioni per cui, quando si è all’interno di un sistema produttivo stabile, i cambiamenti che si possono manifestare nella società — compatibilmente con il quadro determinato dal modo di produrre — sono da imputare ai processi che maturano attraverso la politica, il diritto, l’economia, la scienza, la religione, ecc.. Solo quando avviene il passaggio ad un diverso modo di produzione le trasformazioni che subentrano vanno imputate in prima istanza a questo passaggio.

 Questo criterio estremamente generale di approccio all’indagine si rivela decisivo per una corretta comprensione dei processi avvenuti in una data epoca nella società. Il modello del materialismo storico così chiarito permette di distinguere tra cambiamenti “epocali” — ossia cambiamenti che derivano dall’affermarsi di un nuovo modo di produzione e che pertanto stabiliscono nuove condizioni per lo sviluppo demografico della popolazione, per la distribuzione dei ruoli sociali, per il grado di interdipendenza e la possibilità di autonomia delle comunità umane — e cambiamenti che si producono all’interno dello stesso modo di produzione, e che quindi: a) devono essere compatibili con le variabili di cui sopra, su cui non possono incidere, se non in maniera molto limitata (ininfluente nella sostanza); b) si verificano negli ambiti delle diverse sfere dell’agire umano (politica, conoscenza, economia, società, ecc.) e sono quindi indagabili in riferimento a questi ambiti specifici.

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 Un ultimo punto che è necessario accennare in questa ricostruzione, riguarda le ulteriori oscillazioni di Marx (e, di conseguenza, del marxismo) che Albertini identifica e denuncia, con l’obiettivo di poter far emergere l’intuizione proto-scientifica contenuta nel materialismo storico ed espungere gli errori dottrinari che hanno provocato deviazioni teoriche gravi.

 Uno di essi riguarda la riduzione del modo di produrre al concetto di economia.L’economia acquisisce in questa ottica lo status di struttura, che determinerebbe gli altri piani dell’attività umana (la politica, il diritto, la religione, la filosofia, l’arte ecc.), declassati così al rango di sovrastruttura. Questa formulazione ha permesso di far passare il cliché, diffusissimo — quasi un dogma anche oggi che il marxismo è aspramente criticato — che l’economia ha un primato sulle altre attività umane. La si trova, particolarmente chiara, nella prefazione all’opera Per la critica dell’economia politica, dove la concezione del materialismo storico è esposta, pur con riferimento alla terminologia legata alla produzione, a partire dal punto di vista prioritario che “l’insieme dei rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale”.In realtà si tratta di un’asserzione che contrasta radicalmente con le ipotesi di partenza della stessa analisi marxiana.Marx, infatti, nelle sue prime formulazioni nell’Ideologia tedesca relative al modo di produzione, aveva oscillato da quella più riduttiva, che parlava solo di riproduzione indiretta della vita — e che era parsa la più adeguata — a quella che addirittura imputava alla produzione tutta la vita degli uomini, arrivando persino a negare qualsiasi realtà al di fuori della produzione (sia quella biologica, nonostante i suoi determinismi esulino chiaramente dai meccanismi di produzione, sia quella dell’innovazione e del pensiero libero). Questa ambiguità di esposizione, cui si è già fatto riferimento, se da un lato ha provocato una situazione di incertezza teorica che ha contribuito alla difficoltà di mantenere stabili sia i termini che i concetti, dall’altro va evidentemente in una direzione ben precisa, che mantiene il riferimento alla totalità dell’agire umano. Il fatto di identificare ad un certo punto dell’analisi il concetto di produzione con quello di economia, cioè con una delle tante parti di questo insieme complessivo che dovrebbe essere la produzione della dimensione storico-sociale della vita dell’uomo, non ha quindi nessun fondamento. E’ evidente anche in questo caso che si è verificato un sovrapporsi di piani che hanno provocato uno slittamento teorico reso apparentemente accettabile dalle oscurità delle precedenti enunciazioni e dal mescolarsi degli elementi utopistici.

 Sempre nella prefazione alla Critica, si ritrova un secondo errore di Marx che si è tramandato, riguardo alla teoria delle cause del dinamismo storico. In questo testo emerge come quadro di riferimento la storia concepita come lotta di classe basata sulla proprietà. In questa ottica il meccanismo che muove la storia è individuato non più nella creazione di nuovi bisogni che derivano dall’introduzione degli strumenti di produzione, ma dalla contraddizione che si viene a creare tra i rapporti di produzione e le forze di produzione man mano che queste si espandono. Finché all’interno di un dato modo di produzione lo sviluppo delle forze produttive non si è esaurito completamente, “la formazione sociale non perisce” e i nuovi rapporti di produzione non possono subentrare. Solo quando il vecchio sistema si trova completamente bloccato si verifica il cambiamento rivoluzionario.

 Questa formulazione ha avuto un successo straordinario, sia perché ha un forte impatto emotivo, sia perché contiene un determinismo che permette di indicare come oggettivo il progresso, che diventa un frutto ineluttabile del processo storico, fino all’avvento dello stadio finale della storia, il comunismo.Il problema è che questo determinismo è insostenibile. Il fatto che di fronte ad una impasse del sistema si passi automaticamente allo stadio successivo non è vero dal punto di vista fattuale ed è contraddittorio sul piano teorico. Dal punto di vista fattuale esso non riesce a spiegare la stasi e la crisi irreversibile, che è invece il caso più frequente nella storia. Sul piano teorico, poi, nel momento in cui introduce un determinismo assoluto, nega, ancora una volta, la possibilità della innovazione e dell’atto libero che sono invece il presupposto implicito di tutta la costruzione. Di fatto, questa teoria della contraddizione che si viene a creare tra i rapporti di produzione e le forze di produzione man mano che queste si espandono è utile nella misura in cui la si utilizza in un modello circoscritto per individuare gli antagonismi concreti all’interno della società; ma non funziona, anzi è deviante, nella misura in cui si pretende che sia un criterio assoluto.

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 Da Marx, Albertini ricava dunque uno schema concettuale, ossia un modello, che in quanto tale permette di analizzare alcuni processi fondamentali, ma non descrive la realtà. Sotto questo profilo il materialismo storico è inquadrabile come un Idealtypus. Albertini, come abbiamo già visto, riteneva che questa ipotesi di Weber fosse illuminante dal punto di vista della metodologia delle scienze sociali. A suo parere si poteva integrarla con una sorta di gerarchia dei tipi ideali, a partire appunto dal materialismo storico, che sarebbe il più generale perché spiega il meccanismo di base del processo storico e contiene i criteri più universali e meno specifici. A partire da esso si possono inserire gli altri tipi ideali, via via più precisi nell’inquadrare l’evoluzione dei fatti storici e i comportamenti umani (uno dei primi è quello della ragion di Stato, o meglio della ragion di potere, che è, nell’ipotesi di Albertini, la base della scienza della politica perché permette di spiegare il comportamento politico) fino ad arrivare alle tipologie più particolari e infine all’individuale, cioè al fatto realmente accaduto, che è l’oggetto della conoscenza e che deve esser raccontato nella sua specificità.

 

La filosofia della storia di Kant.

 In questa concezione profondamente riveduta del materialismo storico, inteso come un modello per indagare esclusivamente,edex post, i determinismi della dimensione storico-sociale dell’uomo, rimangono alcune lacune teoriche che dimostrano la necessità di integrarla specificamente sotto tre punti di vista: i) innanzitutto rimane priva di spiegazione l’ipotesi di un corso deterministico della storia che porta l’umanità verso una situazione di piena libertà ed uguaglianza; ii) in secondo luogo non sono chiariti i meccanismi che provocano il costante dinamismo anche all’interno del modo di produzione (il materialismo storico illumina solo il trapasso da un modo di produzione all’altro) ossia a cosa sono imputabili il continuo insorgere di nuovi bisogni e i cambiamenti che questi provocano nel sistema; iii) infine non si indagano le radici del concetto di ideologia.

 i) L’ipotesi di un corso deterministico della storia, destinata a sfociare in uno stadio finale in cui l’umanità sarà libera ed uguale, è una sorta di postulato che Marx stabilisce come condizione necessaria di tutta la sua analisi, e che, proprio in quanto postulato, egli non spiega ulteriormente. Se la base storico-sociale di questo determinismo è l’evoluzione del modo di produrre, quest’ultimo però non è in grado di spiegare come nasce e come si manifesta l’idea di libertà, e rimane quindi oscuro come possa essere il fine della storia. In Marx, dunque, il passaggio finale resta ancora inspiegato ed inspiegabile perché la sua plausibilità dipende dall’identificazione del meccanismo che porta alla sua realizzazione e dall’indicazione di come si caratterizzerà il “regno della libertà”; non è quindi un caso il fatto che Marx si sia rifiutato anche solo di definire le condizioni necessarie all’attuazione dello stadio finale della storia e che lo abbia lasciato in una sorta di limbo utopico.

 ii) Se il materialismo storico rivisitato mette in luce con efficacia i determinismi del trapasso da un modo di produzione all’altro, chiarendo le ragioni del profondo mutamento globale che si verifica sia relativamente alla dinamica demografica della popolazione, sia alla sua composizione sociale e alle conseguenti trasformazioni sul piano delle istituzioni, del diritto, delle concezioni filosofiche e religiose, ecc. (anche se non si tratta mai di cambiamenti rigidamente determinati ma piuttosto tali da portare gli strumenti di produzione ad essere compatibili, entro un ventaglio di possibilità, con il nuovo modo di produzione), esso non spiega, tuttavia, la natura dei cambiamenti concreti che portano alla trasformazione complessiva.

 Ora, il fatto di aver colto un meccanismo necessario nei trapassi epocali, ma di non riuscire ad indagare la necessità in tutti gli altri momenti del processo storico, mina tutto l’edificio teorico del materialismo storico, proprio per il fatto che esso si fonda sull’ipotesi di un determinismo che resta indefinito nella maggior parte dei passaggi. Ciò ha dato adito a molte oscillazioni sia in Marx sia nei suoi successori, aprendo la strada, tra l’altro, al successo della versione della concezione materialistica in cui si confonde il modo di produzione con l’economia, trasformata così nella “struttura” che determina la “sovrastruttura”.

 Il materialismo storico è una teoria che non spiega la maggior parte delle trasformazioni sociali e politiche che scorrono sotto i nostri occhi, ma si limita a fornire il quadro generale in cui si deve collocare la spiegazione di ciò che avviene nel corso dei lunghissimi intervalli che separano i passaggi da un modo di produzione all’altro.

 iii) Il concetto di ideologia, invece, rappresenta una scoperta fondamentale nel campo delle scienze umane perché mette in luce la dimensione passiva del pensiero. L’ideologia corrisponde all’automistificazione con cui gli uomini giustificano, e rendono accettabili a se stessi, i rapporti di dominio e subordinazione su cui si basa la società e che, in qualche modo, riflettono il grado di possibilità concreta di realizzazione dell’interesse generale nel quadro di un dato sistema produttivo. Infatti, nella misura in cui le diseguaglianze sociali corrispondono a ruoli determinanti per il mantenimento del meccanismo produttivo da cui dipende la sopravvivenza della collettività, la loro accettazione coincide di fatto con l’interesse generale di quella particolare società. Questo implica che, tendenzialmente, gli uomini non sanno quello che stanno facendo e che, spesso, nel perseguire il proprio interesse egoistico o nell’accettare come naturali i rapporti di potere esistenti, essi sono in realtà pedine di un meccanismo di cui non sono consapevoli che produce risultati non coincidenti con le singole volontà. A partire da questa considerazione cruciale restano però sia il problema di chiarire l’origine di questo fenomeno, e cioè il fatto che gli uomini hanno bisogno di mascherare la realtà delle diseguaglianze, giustificandole o negandole con false teorie, sia la relazione che esiste tra il pensiero passivo e quello attivo, vale a dire come sia possibile la compresenza di un uso regressivo e di uno positivo della ragione.

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 Albertini ha provato a cercare le risposte a queste carenze dell’edificio marxiano nella filosofia della storia di Kant e, con un lavoro di compenetrazione e di reciproca integrazione del pensiero dei due autori, è riuscito a sviluppare alcuni elementi teorici di grande interesse che costituiscono sicuramente un contributo importante nella prospettiva dell’elaborazione di una teoria scientifica della politica, di cui la riflessione sul corso della storia è parte integrante.

 I testi di Kant su cui Albertini ha lavorato sono in particolare: Congetture sull’origine della storia, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico e Per la pace perpetua. Progetto filosofico.

 Anche Kant, come Marx, ipotizza che la storia proceda verso la libertà, ma che gli uomini siano in qualche modo eterodiretti e portati a loro insaputa verso questa condizione; la storia è pertanto ancora necessitata, una sorta di preistoria, analogamente a quanto pensava Marx: ciò che accade è da imputare principalmente a determinismi che i singoli non controllano — pur avendo gli individui la facoltà di esercitare degli spazi di libertà —, ma al tempo stesso non si è in presenza di un accadere puramente meccanico dei fatti, predeterminato e stabilito a priori. La «preistoria» è piuttosto mossa dalla dialettica tra questi meccanicismi ancora da indagare e quel poco di libertà che è già attiva negli uomini, ed è per questo già storia, pur distinguendosi dalla storia intesa come storia della libertà, che è ancora da venire.

 A partire da questo assunto di fondo, Kant sviluppa — sul piano filosofico del dover essere, della riflessione sulla forma dei processi, e mai del loro contenuto — alcune ipotesi e dei modelli che possono fornire criteri per pensare i fatti, ma che ancora non li spiegano direttamente: piuttosto consentono una chiarezza dei termini e dei concetti che è proprio quella che permette di illuminare ed integrare i presupposti del materialismo storico.

 Molto schematicamente, Kant spiega la storia come processo attraverso il quale la ragione si costruisce lentamente e faticosamente nel tempo, creando da sé le condizioni che le permettano di manifestarsi pienamente. La storia, dal punto di vista logico, inizia con il primo atto della ragione, quello con cui rifiuta di agire solo sulla base dei suoi istinti animali e manifesta il suo primo atto di libertà (richiamato da Kant nei termini allegorici dell’episodio della Genesi che racconta il peccato originale). Le conseguenze innescate da questo primo gesto portano in nuce già l’intero programma della ragione, su cui Kant si sofferma, evidenziandolo. Gli uomini si scontrano infatti immediatamente con la constatazione che essi non sono uguali, ma, per il fatto di riconoscersi in un’identità comune che deriva dal loro “essere altro” rispetto al mondo puramente naturale, essi capiscono anche che devono essere uguali. E’ questo il senso dello svolgimento della storia, del cammino che porta l’uomo dalla preistoria alla storia: la ragione è libertà ed uguaglianza, e il senso della storia è questo lento affermarsi delle condizioni in cui libertà ed uguaglianza possono essere sempre più rispettate; quando lo saranno pienamente anche la ragione potrà manifestarsi pienamente. Si spiegano così i motivi per cui la società e la condizione umana sono e saranno, fino al raggiungimento dello stadio finale della storia, caratterizzate dalla mescolanza di ragione e violenza (e perché l’incapacità di eliminare quest’ultima non significhi l’assenza della ragione dalla realtà); e si spiega anche il fatto che la ragione, in quanto facoltà naturale dispiegata nella vita, è parte costitutiva della natura dell’uomo e non è pertanto riducibile semplicemente ai suoi prodotti (come tanta teoria cerca di fare, confondendola con la logica, o con la scienza, ecc.).

 Rispetto alle lacune del materialismo storico evidenziate da Albertini, la filosofia kantiana spiega innanzitutto cos’è ontologicamente l’uomo. Marx lo aveva caratterizzato empiricamente, cogliendo l’azione tramite cui si distingue dagli animali (la produzione dei propri mezzi di sussistenza, con cui l’uomo rompe le leggi meccaniche della natura e inizia a costruirsi la propria vita), ma si era basato su un idealtipo di uomo rimasto implicito e non chiarito, e che, proprio per questo, non è valutabile e difficilmente rimane stabile, nel senso che se ne usano accezioni diverse in contesti differenti. In effetti, gli errori fondamentali di Marx nascono proprio dalle oscillazioni sulla natura dell’uomo, che in certi punti, facendo completamente scomparire gli elementi della libertà e dell’innovazione (e con loro anche la possibilità di spiegare quel primo atto con cui l’uomo rompe la logica della natura), viene indicato come interamente determinato dal meccanismo produttivo e dalla sua logica ineluttabile, mentre in altri contesti si lascia intendere che la produzione non esaurisce la vita umana. La teoria kantiana dell’uomo e della ragione elimina questa ambiguità, e permette di non cadere nei tranelli in cui è scivolata la concezione materialistica di Marx. L’esempio più evidente è fornito dal concetto di ideologia: Kant spiega, e addirittura anticipa implicitamente in certi passaggi, l’origine della necessità per gli uomini di nascondersi il permanere della diseguaglianza, mascherandola con false teorie.

 La complementarietà del pensiero di Kant e di Marx, come viene messa in luce da Albertini, è molto feconda. Kant chiarisce il quadro teorico e permette di riconoscere lo spazio e il ruolo della ragione nella storia — e di evitare così le contraddizioni che annullano la validità dell’analisi — e Marx, a sua volta, illumina i meccanismi empirici che vincolano lo sviluppo della ragione: la sopravvivenza della società è innanzitutto legata al mantenimento del modo di produzione di cui è espressione, e i rapporti di produzione (sede primaria della diseguaglianza) possono evolvere solo nella misura in cui sono compatibili con la possibilità di preservare il meccanismo produttivo; il passaggio ad un successivo sistema che sia compatibile con una maggiore libertà non è volontaristico, ma dipende da uno sviluppo regolato a sua volta da leggi deterministiche; e solo quando si affermerà un modo di produzione che non prevede più la necessità di mantenere rapporti di subordinazione e sopraffazione si potrà concretamente porre la questione della realizzazione della libertà e dell’uguaglianza.

 Vi è quindi nelle azioni umane una coincidenza di libertà e necessità che si spiega solo se si chiarisce, come Kant fa, che la libertà dell’uomo è la libertà di divenire ciò che è: la sua costituzione biologica di animale dotato di ragione determina le possibilità del suo sviluppo che è sorretto dalla dialettica tra istinto — determinato in ultima analisi dall’impulso di autoconservazione — e ragione, la quale invece lo porta a sviluppare la solidarietà verso gli altri esseri umani e a considerarli come fini, e a ricavarsi degli spazi di autonomia pur nell’ambito di un processo in larga parte sorretto da determinismi che egli subisce. E la ragione, a sua volta, nell’uomo poggia su due pilastri: quello individuale, perché sono i singoli i vettori concreti — coloro che effettivamente pensano e agiscono — e quello sociale, ossia l’insieme delle istituzioni (in primis il linguaggio) in cui si deposita tutto ciò che la ragione negli uomini ha prodotto fino a quel momento, in modo che l’intero patrimonio diventa trasmissibile e in ogni individuo vive la ragione che la specie ha già sviluppato.

 La precisazione della natura sociale della ragione è fondamentale, sia perché è la sola che spiega la realtà di questa facoltà umana, sia perché solo evitando l’ingenuità di identificare la ragione esclusivamente con il singolo individuo si può pensare la convivenza di necessità e libertà nella storia. Tale convivenza si manifesta infatti proprio nella dimensione sociale, in mancanza della quale l’ipotesi che il processo si svolga sulla base di leggi naturali diventa incompatibile con la libertà individuale e diviene pertanto inevitabile pensare che l’unico motore dello sviluppo storico sia il caso (e rinunciare così a comprendere la realtà). Marx, prigioniero di questa ingenuità, dovendo scegliere, aveva optato per l’identificazione di una legge necessaria, ma in questo modo era arrivato ad escludere completamente la libertà dalla storia.

 Infine Marx pur riuscendo ad identificare gli antagonismi concreti all’interno della società (il contrasto tra forze di produzione e rapporti di produzione), che sono effettivamente portatori di cambiamenti, non è però riuscito a inquadrare tali cambiamenti in una teoria generale che spieghi, al di là dei richiami evocativi, come l’affermazione di una classe, che agisce sulla base dei propri interessi specifici, possa coincidere con la realizzazione di valori universali. Kant invece su questo punto è illuminante: spiega l’emergere dei valori nel corso della storia (e il loro concretizzarsi in istituzioni che ne universalizzano l’affermazione), nonostante l’agire egoistico degli uomini, sulla base del fatto che, nel momento in cui gli uomini, stremati dai mali che si procurano vicendevolmente, cercano di porre fine a questa situazione di miseria che essi stessi si procurano, gli unici strumenti che hanno a disposizione sono quelli della ragione, ossia i valori, che sono l’espressione concreta della ragione.

Con Kant, inoltre, si chiarisce, anche rispetto a Marx, l’obiettivo verso cui la storia avanza, suo malgrado. Non si tratta, come in Marx, di evocare semplicemente il passaggio che proietta l’uomo nel regno della libertà, ma piuttosto di definire le condizioni che realizzano questa possibilità: la costruzione di una società civile che faccia valere universalmente il diritto. In questo modo si chiariscono molti punti che in Marx erano rimasti oscuri. Nella misura in cui la teoria marxiana non riesce a precisare né come possa configurarsi lo stadio finale né quale sia l’elemento caratterizzante che, presente sin dall’inizio del processo, ne indica la direzione di marcia, è costretta a presupporre che il salto finale coincida non con un cambiamento nei comportamenti degli uomini, ma con una vera e propria trasformazione della natura dell’uomo che smetterebbe di essere malvagio ed egoista e non cercherebbe più di prevaricare sugli altri, rendendo così possibile l’uguaglianza e la libertà di tutti. In Marx non c’era la teorizzazione di questa situazione, ma per molti suoi seguaci si è trattato di un’ovvia conseguenza delle sue indicazioni; nel pensiero comunista questa utopia di trasformare l’uomo ha avuto un ruolo importante, e spiega molte campagne perseguite dai regimi comunisti e giustificate su questa base.

 Questa analisi di Kant è ancora una volta complementare rispetto a quella di Marx, perché il materialismo storico ci permette di capire che la precondizione, che precede e condiziona addirittura la possibilità della piena realizzazione dei requisiti chiariti da Kant, è che l’umanità sia arrivata ad uno stadio del modo di produzione che, oltre ad avere posto le basi dell’interdipendenza globale, non necessita più di rapporti di produzione necessariamente — per la loro stessa natura — fondati sulla diseguaglianza, e quindi di un’ideologia mistificatrice che teorizza i rapporti di potere esistenti all’interno della società; viceversa deve aver raggiunto uno stadio in cui il modo di produzione sia compatibile con l’uguaglianza di tutti gli uomini e in cui la cultura possa avere la trasparenza della ragione ed educare al rispetto di tutti verso tutti.

Inoltre, rispetto alla scoperta marxiana, il modello di Kant ha il pregio di identificare il terreno sul quale si prepara il salto finale, che avviene nella sfera delle istituzioni e della politica, sotto la spinta delle contraddizioni della politica internazionale.

* * *

 Marx mette dunque in luce il meccanismo di base dell’incessante evoluzione del modo di produrre e svela che l’incompatibilità tra forze di produzione e rapporti di produzione è alla radice dei passaggi rivoluzionari; ma la soluzione finale spetta poi alla politica, che sotto questo profilo ha una sua autonomia relativa e risponde a logiche proprie che diventano comprensibili solo facendo riferimento alla teoria della ragion di Stato.

 

La politica.

 Albertini ha pubblicato sin dagli anni Sessanta alcuni saggi fondamentali sulla politica. Si tratta pertanto di un tema che ha sviluppato in modo approfondito sin dalle prime fasi del suo lavoro teorico e che è conosciuto. Nelle lezioni viene ripreso e inquadrato in rapporto ai determinismi a gli spazi di autonomia che la filosofia di Kant e il materialismo storico delineano. Di fatto questa parte conclusiva — cui in realtà Albertini dedica molto spazio e che in questo schema viene sacrificata per ragioni legate ai tempi di esposizione — è quella che giustifica l’intero edificio richiamato sinora, costruito proprio per comprendere il rapporto tra volizione e accadimento, come si spiegava inizialmente, ossia per capire le basi su cui deve poggiare l’azione politica per essere efficace e non velleitaria.

 La base del potere, ossia gli spazi di manovra della politica, sono tracciati dai rapporti di produzione. Perché questi ultimi siano garantiti, servono regole, gerarchie; e la politica si occupa di questo. Lo fa conquistando innanzitutto il potere di fare, ossia il consenso (il mandato) per governare. In questa ricerca e in questa attività convivono autonomia ed eteronomia. I rapporti di produzione e le regole insite nel modo di produzione disegnano (determinano) i confini dell’autonomia della politica. All’interno di questi confini della sfera di autonomia della politica, questa si svolge in base alla sua specificissima legge di riferimento: quella della ragion di potere, il cui principio imprescindibile deriva dal fatto che il fare (politico) è sempre subordinato alla conquista del potere di fare.

 

La ragion di Stato, e la sua articolazione nella ragion del potere politico, che è il potere di fare, è pertanto la base della scienza della politica.

 Facendosi carico di tutte le condotte umane, dei valori, delle situazioni, dei problemi che presentano un aspetto di potere (e che in quanto tali diventano materia della politica) la politica svolge dunque una funzione evolutiva del processo storico, in cui quella sfera dei valori delineata da Kant svolge una funzione orientativa man mano più importante, e dove sempre maggiore è lo spazio che si libera per l’agire morale — nel senso della morale della responsabilità weberiana. Indispensabile a questo proposito è il secondo tipo di comportamento politico, che è distinto da quello del politico che si occupa del potere di fare, ed è di quella parte di società che si occupa di ciò che deve fare il potere per far funzionare al meglio la società, per migliorarla, per renderla più giusta: è in questo settore che si sviluppano anche le ideologie in senso positivo come spinta al cambiamento delle condizione della società.

 


* Si tratta del testo dell’intervento presentato al convegno Il federalismo europeo e la politica del XXI secolo: l’attualità del pensiero di Mario Albertini, tenutosi all’Università di Pavia il 16 novembre 2017.

[1] Da Mario Albertini, Il corso della storia, in Mario Albertini, Tutti gli scritti, a cura di N. Mosconi, Bologna, Il Mulino, 1964, vol. IV, pp. 715-741. Il corsivo è mio.

 

 

 

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