IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXIX, 1987, Numero 1, Pagina 45

 

 

L’EUROPA E IL PROBLEMA ENERGETICO DOPO CHERNOBYL
 
 
Dopo il grave incidente di Chernobyl e l’allarmata reazione dell’opinione pubblica, si è avviata in tutti i paesi europei una salutare riflessione sul problema energetico. Ha fatto in particolare clamore la decisione presa dal Congresso di Norimberga della SPD di «uscire dal nucleare», attraverso un programma decennale che prevede il graduale ricorso a risorse alternative, in primo luogo il carbone. La risoluzione politica approvata dal Congresso di Norimberga recepisce la relazione intitolata «Transizione verso un approvvigionamento energetico sicuro senza l’uso di energia nucleare», preparata dalla apposita Commissione istituita presso la Direzione. Chi volesse tuttavia approfondire le conseguenze politiche di questo programma energetico non potrebbe fare a meno di rilevare alcune ambiguità. La Germania (e forse la Gran Bretagna) può certamente contare sulle sue riserve nazionali di carbone. Non altrettanto possono fare gli altri paesi europei, che vedrebbero così aumentare la loro dipendenza esterna se ne volessero seguire passivamente le orme. Si ammette inoltre che il ricorso ad un uso accresciuto del carbone aumenterà l’inquinamento — di anidride solforosa e di ossido di carbonio — di almeno il 20% in più rispetto al tasso attuale. Ma si arresterà ai confini della Germania quest’aria inquinata? E cosa accadrebbe se tutti i paesi europei adottassero la stessa politica?
In verità, l’incidente di Chernobyl non sembra aver insegnato molto ai partiti europei. Il primo e fondamentale fatto da cui occorre prendere le mosse per avviare un serio dibattito sulle politiche energetiche del futuro è che l’inquinamento non ha frontiere. Ogni piano energetico nazionale che non rappresenti l’articolazione di un coerente piano energetico europeo — e al limite mondiale — è destinato all’insuccesso. Nessuno Stato europeo può oggi garantire ai suoi cittadini la sicurezza degli approvvigionamenti, una protezione adeguata dell’ambiente e un ammontare sufficiente di risorse per lo sviluppo, indipendentemente dagli altri paesi della Comunità.
Ma quando si prendono in considerazione gli aspetti europei del programma energetico della SPD le perplessità aumentano. La SPD mette in discussione il Trattato dell’Euratom, a cui, secondo i socialdemocratici tedeschi, si dovrebbe far ricorso solo per impedire agli altri paesi europei ulteriori aumenti nell’uso di energia nucleare e «per garantire la protezione della salute». Nulla viene, tuttavia, detto sulla necessità di giungere ad una vera politica energetica comunitaria e sui mezzi per realizzarla. Il futuro resta così nel vago.
Non è difficile prevedere, sulla base dell’esperienza già fatta, quale sarà il risultato di questo modo di impostare il problema energetico. Data l’attuale incapacità d’azione della Comunità i programmi energetici nazionali continueranno a far premio su qualsiasi predica degli organi europei: Commissione e Parlamento. In definitiva, l’incidente di Chernobyl ha scosso l’opinione pubblica internazionale che ha preso coscienza della dimensione nuova del problema energetico, ma in mancanza di un governo europeo che manifesti una decisa volontà di realizzare una efficace politica europea paradossalmente riprendono forza i piani nazionali. L’Europa dell’energia continuerà ad andare alla deriva come sinora ha fatto.
 
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Prima di prendere in considerazione le politiche che si potrebbero sviluppare a livello europeo con strumenti adeguati di governo, è bene ripercorrere brevemente il cammino che ha condotto la Comunità alla attuale situazione di stallo. Pochi ricordano che la Comunità è nata proprio per risolvere il problema della gestione in comune di alcune fonti di energia e materie prime strategiche per lo sviluppo e la sicurezza degli Europei. Nel 1951 è stata, infatti, istituita la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) allo scopo di creare un mercato comune europeo in alcuni settori allora cruciali per la ripresa economica postbellica: agli inizi degli anni Cinquanta il carbone rappresentava il 75% dei consumi di energia della Comunità. Inoltre, nel 1957, insieme al Mercato comune, è stato istituito l’Euratom al fine di consentire una gestione comune dell’energia nucleare a scopi pacifici. L’Euratom era giustificato dal fatto che il carbone era ormai diventato un combustibile eccessivamente costoso (in specie, per le dannose conseguenze sociali dei processi di estrazione) ed inquinante, così che conveniva avviare la sua sostituzione radicale per i successivi decenni. Il Trattato dell’Euratom prevedeva tutti gli strumenti necessari alla realizzazione di una efficace politica europea per l’energia nucleare, ed avrebbe anche potuto — se i governi europei lo avessero voluto — venir esteso facilmente alle altre fonti di energia. Fra l’altro, nel Trattato si prevedeva che l’Euratom poteva «esercitare il diritto di proprietà sui materiali fissili speciali». Pertanto, grazie al monopolio riconosciuto su tutti i prodotti nucleari importati e circolanti all’interno della Comunità, l’Euratom aveva il potere di decidere la loro ripartizione per paese, i tassi di accrescimento delle risorse e delle nuove centrali, oltre che standards comuni di sicurezza. Nei fatti, tuttavia, il Trattato dell’Euratom non venne mai applicato integralmente, tanto meno nelle parti che avrebbero implicato una forte limitazione delle sovranità nazionali.
Gli Stati europei potevano in quegli anni ancora illudersi sul loro futuro. L’abbondanza ed il basso prezzo del petrolio consentirono di diluire nel tempo, o di rimandare del tutto, il ricorso alle tecnologie nucleari. I piani energetici nazionali furono impostati in funzione della ricchezza o scarsità interna di risorse naturali e delle rispettive esigenze di sicurezza. E nella misura in cui si delineava una forte divaricazione fra le scelte energetiche dei differenti paesi, diventava anche evidente il vizio di fondo di tutto l’edificio comunitario: una Comunità senza legittimità democratica non poteva pretendere di fare scelte decisive per il benessere e la sicurezza dei cittadini europei.
La crisi del 1973 ha mostrato che erano ormai mutati alcuni dati strutturali del problema energetico sia al livello europeo, sia a quello mondiale. Il petrolio aveva ormai sostituito il carbone come principale fonte di energia della Comunità, ma a differenza del carbone veniva quasi interamente importato. Rispetto agli anni della CECA, pertanto, la dipendenza esterna della Comunità si era enormemente aggravata ed essa aveva perso ogni potere di controllare sia i prezzi che i rifornimenti delle materie prime energetiche. In questa situazione di accresciuta dipendenza, l’Europa doveva inoltre affrontare nuove sfide internazionali. Il Terzo mondo rivendicava vigorosamente una più giusta distribuzione mondiale delle risorse e del reddito. Le richieste del Terzo mondo erano e sono comprensibili: i paesi industrializzati, in cui risiede il 22% della popolazione, consumano circa il 60% dell’energia mondiale disponibile. E poiché vi è una stretta correlazione tra reddito pro-capite e consumo pro-capite di energia, almeno fra paesi che attraversano stadi differenti di sviluppo, la crescita industriale del Terzo mondo è impensabile senza una maggiore disponibilità di risorse energetiche. Infine, le tensioni si sono accresciute anche fra paesi ricchi. Le esigenze di crescita dei paesi di più antica industrializzazione, proiettati ormai verso la cosiddetta società post-industriale, in cui diventa possibile una progressiva riduzione dell’orario di lavoro grazie ad una più elevata produttività, impongono un maggior consumo di energia (energia è lavoro potenziale). È noto, infatti, che la società post-industriale è caratterizzata da una alta percentuale della popolazione attiva impegnata nel settore dei servizi, dove il consumo di energia pro-capite è mediamente più elevato che nel resto dell’economia. In questo nuovo mondo, in lotta per l’accaparramento di risorse scarse, l’Europa non ha saputo dare alcuna risposta unitaria e coerente. Ciascun paese ha seguito logiche differenti. Francia e Germania hanno puntato sull’energia nucleare, la Gran Bretagna sul petrolio del Mare del Nord, l’Italia sul petrolio dei paesi arabi.
 
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Dopo questi mutamenti strutturali, e dopo il fallimento delle precedenti politiche comunitarie, è ormai indispensabile affrontare il problema energetico in termini nuovi. Non è possibile impostare una seria politica energetica per la Comunità europea senza una attiva partecipazione delle forze politiche e sociali e senza un controllo costante del Parlamento europeo, unico legittimo rappresentante dei cittadini europei, sull’esecutivo europeo.
Il progetto di Trattato per l’Unione europea, approvato dal Parlamento europeo il 14 febbraio 1984, se fosse stato accettato dai governi europei, avrebbe potuto consentire la necessaria trasformazione della Comunità in una federazione, con poteri effettivi in materia di moneta, economia, energia e sicurezza ambientale. Per quanto riguarda la politica energetica, l’art. 53, f) del progetto di Trattato recita infatti: «Nel campo dell’energia, l’intervento dell’Unione mira a garantire la sicurezza degli approvvigionamenti, la stabilità del mercato dell’Unione e, nella misura in cui vi sia una regolamentazione dei prezzi, una politica armonizzata dei prezzi stessi, compatibile con una concorrenza leale. Essa mira parimenti a promuovere lo sviluppo delle energie alternative e rinnovabili, a introdurre norme tecniche comuni in materia di efficienza, di sicurezza e di protezione della popolazione e dell’ambiente, e a incoraggiare l’utilizzazione delle fonti europee di energia».
Su questa base, un governo europeo avrebbe potuto affrontare i differenti aspetti del problema energetico nel modo seguente:
a) Sicurezza degli approvvigionamenti. È un problema decisivo per l’Europa che dipende per circa il 45% dei suoi fabbisogni di energia da fonti esterne (ma alcuni paesi, come l’Italia, hanno una dipendenza che giunge al1’85%). È anche per mettersi al riparo da eventuali ricatti in materia di rifornimenti che alcuni Stati europei, come la Francia, hanno decisamente orientato le loro politiche nella direzione dell’energia nucleare. Per l’Europa il problema della sicurezza degli approvvigionamenti coincide in gran parte con la sua capacità di affrontare il dialogo Nord-Sud, cioè di impostare una seria politica di cooperazione con i paesi del Terzo mondo. In proposito, i federalisti non possono fare a meno di ricordare che da anni sostengono la proposta che la Comunità si faccia promotrice di un grande piano Marshall europeo per l’Africa ed il Medio Oriente, che si proponga come obiettivo prioritario lo sviluppo economico, industriale e sociale di questi popoli nell’arco di qualche decennio. L’Unione europea (che potrebbe utilizzare l’ECU come moneta internazionale) avrebbe la capacità finanziaria, tecnologica e politica di realizzare questa storica impresa che garantirebbe una progressiva stabilizzazione e pacificazione della regione mediterranea, medio-orientale ed africana.
b) Ricerca di energie alternative. L’Europa è la macroregione del mondo di maggiore densità industriale e di popolazione. Per questo, l’utilizzazione di energie «sporche», come le centrali a carbone o quelle a fissione, provoca danni o rischi di contaminazioni dell’ambiente in misura molto più elevata rispetto a paesi come URSS e USA dove la dispersione della popolazione e dell’industria sul territorio è maggiore. La ricerca di fonti energetiche alternative «pulite» è dunque di importanza vitale per l’Europa. Ma a questo proposito la divisione politica dell’Europa ha giocato un ruolo nefasto. Gli Stati membri spesso finanziano progetti in concorrenza fra di loro, contribuendo così allo spreco di risorse, perché nessuno Stato nazionale ha ormai più una autonoma capacità di sostenere la ricerca su grande scala di tecnologie d’avanguardia. Le risorse dedicate dalla Comunità alla ricerca e allo sviluppo nei settori dell’energia solare e della fusione nucleare, le energie «pulite» del futuro, raggiungono a mala pena un terzo in termini di addetti e di capacità di bilancio rispetto agli sforzi di URSS e USA.
c) Sicurezza e ambiente. E’ ormai evidente — come dimostra eloquentemente l’esempio di Cattenom, oltre che di Chernobyl — che non ha senso una scelta di standards di sicurezza e di rispetto dell’ambiente nell’angusto quadro nazionale. Solo un governo europeo, con poteri effettivi e responsabile di fronte al Parlamento europeo, sostenuto dalle forze politiche e dall’opinione pubblica, potrà progressivamente imporre, anche ai paesi più riluttanti, misure adeguate ed uniformi in tutta la Comunità.
d) Energia e difesa. Qualsiasi programma europeo dell’energia è destinato, nel lungo periodo, al fallimento se non viene affrontato esplicitamente il problema della difesa comune dell’Europa. La Francia si è sottratta alla disciplina comunitaria dell’Euratom quando ha incominciato a costruire la sua force de frappe autonoma. Più in generale, va osservato che i confini fra nucleare civile e nucleare militare sono spesso imprecisi e che la difesa della propria indipendenza è praticamente impossibile senza un controllo assoluto delle fonti energetiche strategiche.
La scelta contenuta nel progetto di Trattato per l’Unione europea è quella di prevedere un periodo transitorio. Il Parlamento europeo, una volta istituita l’Unione economico-monetaria, si assumerà l’incarico di fare proposte concrete sulle tappe e sulle modalità per la realizzazione di una difesa comune europea.
e) La transizione all’energia «pulita». Sin dagli anni Cinquanta, il ricorso all’energia da fissione nucleare è stato concepito come un programma di transizione, per sopperire ai bisogni crescenti di energia delle società industrializzate, in vista dell’adozione di energie «pulite», che si prevedeva di poter introdurre prima del 2000. Ma questa «transizione» rischia di diventare una scelta definitiva a causa della esiguità di risorse umane e finanziarie dedicate, nel mondo intero, alla ricerca di energie alternative. Le superpotenze hanno preferito concentrare i loro sforzi al potenziamento degli arsenali militari e l’Europa si è mostrata del tutto incapace di affrontare il problema. L’esperienza successiva alla crisi del 1973 ha mostrato che i paesi industrializzati riescono a mantenere un grado costante di sviluppo e di benessere solo a spese del Terzo mondo — dato il loro più elevato potere d’acquisto — oppure ricorrendo ad un uso crescente e forsennato dell’energia nucleare «sporca». Chernobyl ha minato definitivamente le certezze che stavano alla base della vecchia politica energetica.
Un governo europeo potrebbe anche prendere la coraggiosa decisione di «uscire dal nucleare», cioè di affrontare senza il ricorso alla energia nucleare da fissione i problemi della transizione, a tre condizioni: 1) di chiarire senza equivoci ai cittadini europei i costi in termini di inquinamento — allo stato attuale, la sola alternativa praticabile è un maggior uso di carbone e di petrolio — e di mancato sviluppo economico; 2) di varare un efficace piano per la ricerca di energie «pulite e rinnovabili»; 3) di pretendere dai paesi dell’Est europeo e dall’URSS misure analoghe di contenimento nell’uso dell’energia nucleare oppure standards comuni di sicurezza (l’Inghilterra e l’Ucraina sono ugualmente distanti, in linea d’aria, da Roma).
f) L’Europa e la pace. Il programma di transizione all’energia pulita e rinnovabile potrebbe venire enormemente accelerato se ad esso potessero essere dedicati molti più denari e talenti di quanto si faccia oggi, in un mondo dominato dal confronto Est-Ovest. Ad esempio, negli Stati Uniti i fondi per la ricerca sono per più del 70% destinati a progetti di natura militare. Il programma per la fusione nucleare assorbe solo il 3,5% delle risorse che si vorrebbero destinare alle guerre stellari (SDI). La riconversione delle risorse, oggi destinate alla ricerca di nuovi armamenti, verso fini di pace diventerà possibile solo nella misura in cui l’Europa saprà realizzare politiche efficaci per superare l’attuale bipolarismo politico-militare.
In questa prospettiva, il governo europeo dovrebbe allora assumersi il compito di operare all’interno dell’ONU affinché venga riconosciuto il problema della transizione alle energie pulite e rinnovabili come di vitale importanza per il genere umano: dalla sua soluzione dipendono infatti lo sviluppo pulito dei paesi più prosperi e le speranze di industrializzazione dei paesi più poveri. L’ONU dovrebbe dunque varare un grande piano mondiale di ricerca per le fonti energetiche rinnovabili (energia solare e fusione nucleare), finanziato da tutti i paesi in proporzione al loro reddito ed a cui dovrebbero partecipare gli scienziati di ogni nazione. I risultati di questo sforzo collettivo saranno messi a disposizione del mondo intero.
 
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I tentativi che i governi, caparbiamente arroccati in difesa delle sovranità nazionali e ciechi di fronte ai problemi del nuovo mondo postindustriale, stanno facendo per varare accordi internazionali e formule di cooperazione per garantire standards uniformi di sicurezza delle centrali atomiche vanno denunciati come un volgare inganno dell’opinione pubblica. Senza un potere sovrannazionale che possa imporre il rispetto dei patti nessun governo sarà tenuto, al momento decisivo, al loro rispetto. L’esperienza dell’Euratom dovrebbe costituire la cartina di tornasole per valutare la portata e l’efficacia di ogni accordo internazionale: qualsiasi politica energetica proposta potrà diventare realtà solo sulla base di istituzioni più — e non meno — sovrannazionali di quelle comunitarie.
In conclusione, senza l’Unione europea è impossibile affrontare adeguatamente, in Europa, il problema energetico e porre le basi per una sua soluzione a livello mondiale. A chi obietta che l’Unione è ancora un obiettivo lontano, vale la pena di ricordare che se il Consiglio europeo di Lussemburgo (dicembre 1985) avesse deciso altrimenti, in questo momento l’Europa, al posto di recriminare sulla sua impotenza, sarebbe già in grado di discutere le modalità di attuazione di una efficace politica energetica. Dopo Chernobyl, vi sono dunque ulteriori ragioni per riprendere senza esitazioni il cammino verso l’Unione europea.
 
Guido Montani

 

 

 

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