Anno XXVIII, 1986, Numero 2-3, Pagina 146
LUCI E OMBRE DOPO MONTEGO BAY
Nel dicembre del 1982, a Montego Bay (Giamaica), è stata sottoscritta dai rappresentanti diplomatici di 119 paesi una «Convenzione sul diritto del mare». Agli Stati non firmatari è stato concesso un periodo di riflessione di due anni, scaduto il quale i governi che hanno aderito al Trattato sono divenuti 140. Perché la Convenzione entri in vigore non è però sufficiente che essa sia sottoscritta dai rappresentanti diplomatici, ma occorre invece che almeno sessanta Stati la ratifichino con loro leggi. Poiché solo un numero esiguo di Stati ha proceduto a questo atto, la Convenzione non è entrata in vigore ed è davvero difficile prevedere quando questo possa succedere. Alcuni importanti paesi — tra questi gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Repubblica Federale Tedesca — si sono infatti rifiutati non solo di ratificare, ma addirittura di sottoscrivere il testo della Convenzione, e la loro decisione priva fin dall’origine di credibilità politica, e soprattutto dei fondi necessari, gli organismi internazionali previsti dal nuovo Trattato. Molti paesi che, pur aderendo alla Convenzione, non sembrano ansiosi di ratificarla, sono intenzionati a continuare la corsa per la conquista del fondo marino senza ritenersi per ora vincolati al nuovo regime di Montego Bay. È il caso soprattutto dei paesi europei, che anzi si sono fatti promotori di iniziative alternative: in attesa dell’esito delle trattative, già nel 1981 Germania, Francia e Gran Bretagna avevano adottato una disciplina legislativa nazionale unilaterale, mentre il 3 agosto 1984 Belgio, Francia, Germania Federale, Italia, Olanda, Gran Bretagna, Giappone e Stati Uniti raggiungevano, separatamente e in un clima di assoluto riserbo, un accordo sul regime dei fondi marini (Agreement di Ginevra). Dei dodici paesi della CEE, dunque, due non sono neppure firmatari della Convenzione di Montego Bay e gli altri dieci, dopo averlo sottoscritto, non hanno ancora ratificato quel Trattato. La Commissione CEE ha firmato il testo, sia pure solo per le competenze comunitarie, ma non potrà ratificarlo se non dopo che la maggioranza dei partners avrà proceduto ad emanare la propria legge di ratifica. Anche quel giorno sembra lontano.
L’incertezza sui prossimi sviluppi non impedisce comunque di compiere alcuni rilievi sul contenuto della Convenzione. Grazie al continuo perfezionarsi delle tecniche è oggi possibile accedere a risorse fino a ieri inutilizzabili. Basta pensare al Polo sud, con le sue riserve preziose di materie prime, o addirittura allo spazio, che in prospettiva offre quantità immense di risorse di ogni genere. Il mare, in particolare, da sempre fonte di sussistenza grazie al patrimonio ittico, cela nei suoi fondali eccezionali depositi di energia, minerali ed altre sostanze preziose. Il progresso tecnologico offre dunque all’umanità nuove opportunità di crescita e di sviluppo, ponendo al tempo stesso un’alternativa tra due scelte. La prima possibilità è quella che i federalisti hanno già più volte prospettato su questa rivista: si tratta di visualizzare, predisponendo l’uso comune delle nuove risorse disponibili, il passaggio da una cooperazione internazionale ad una cooperazione sovrannazionale, che contiene in sé i germi della futura federazione mondiale. La seconda viene efficacemente definita «nuovo nazionalismo»:[1] gli Stati allargano al massimo le sfere economiche di influenza, espandono fino al largo degli oceani i loro confini e si spartiscono tutte le fette della torta in base ai reciproci rapporti di forza. Le due alternative, fra loro chiaramente antitetiche, si differenziano comunque dal regime anteriore alla Convenzione, ispirato alla «libertà dei mari», per il quale i mari ed i fondali dovrebbero essere utilizzati dai singoli o dagli Stati che per primi riescano a sfruttarli, senza però che sorgano a loro vantaggio diritti territoriali. La dottrina della libertà dei mari è difesa con forza da tutti quei paesi che hanno in pratica il monopolio tecnologico sullo sfruttamento dei fondali marini e ad essa si ispira l’Agreement di Ginevra del 3 agosto 1984. Il controllo dei mari è divenuto però troppo importante perché esso possa essere lasciato dai paesi in via di sviluppo nelle mani delle grandi compagnie occidentali, ed il nuovo Trattato fa infatti completa giustizia del vecchio principio.
Le istanze federaliste in favore di un governo soprannazionale delle risorse marine hanno fatto autorevolmente la loro comparsa durante i negoziati. Nel testo della Convenzione, infatti, vi sono due punti qualificanti che si ispirano al principio che il fondo marino è «patrimonio comune dell’umanità». Il primo punto è la previsione, per la prima volta, di una giurisdizione internazionale obbligatoria e cogente, e dunque non più arbitrale: il modello seguito è quello dell’ordinamento giudiziario della CEE, che si basa su effettive rinunce di sovranità da parte delle giurisdizioni nazionali. Il secondo punto riguarda la costituzione di una «Autorità internazionale dei fondi marini», competente al di là delle aree controllate dai paesi costieri, salutata dai federalisti come «il primo organismo della pianificazione sovrannazionale delle risorse economiche dell’umanità».[2]
Se però osserviamo il contenuto complessivo della Convenzione, non possiamo fare a meno di notare come con essa sia stata attuata in realtà una gigantesca «nazionalizzazione» dei mari. La Convenzione prevede infatti che, per un’area che è compresa tra i limiti esterni delle acque territoriali e 370 chilometri al largo di esse, il controllo esclusivo delle risorse marine sia affidato non all’«Autorità internazionale», ma allo Stato costiero. Si tratta di una fascia che può in determinati casi (insenature, golfi, piattaforma continentale) risultare anche maggiore. Sulle conseguenze dell’applicazione del nuovo regime un esempio risulta certo più chiaro di qualsiasi altro discorso. Per quanto possa sembrare incredibile, la sovranità su un’isoletta di un solo chilometro quadrato al centro di un oceano determina a vantaggio del governo dell’isola il controllo esclusivo delle risorse su un’area di mare e di fondale di ben 430 mila chilometri quadrati, cioè su un territorio ampiamente superiore. all’estensione dell’Italia o della Gran Bretagna o della Repubblica Federale Tedesca. Il 35% dei fondali marini viene così attribuito ai paesi costieri e alle isole: si tratta di un’area che contiene più dell’80% delle risorse ittiche ed il 90% delle riserve di idrocarburi custoditi dai fondali. A ciò si deve aggiungere che il 54% di quest’area di mare «nazionalizzato» viene attribuito a dieci Stati, solo due dei quali possono essere considerati paesi sottosviluppati. Il restante 46% viene disperso tra circa 140 Stati costieri. Vengono infine esclusi dallo sfruttamento di quest’area di mare tutti quei paesi, tra i quali vi sono alcune delle nazioni più povere del mondo, che non hanno alcuno sbocco al mare.[3]
L’applicazione del nuovo regime dei mari ha conseguenze molto preoccupanti soprattutto in alcune zone «calde» del mondo. Una di queste è il Mediterraneo, dove l’allargamento a dismisura delle zone controllate da parte degli Stati costieri ha finito per cancellare qualsiasi area di mare affidata all’«Autorità internazionale». Il Mediterraneo, in altre parole, da mare libero rischia di diventare un «mare chiuso». I territori sotto controllo nazionale vengono tutti a sovrapporsi: si rende perciò necessario disegnare confini sottomarini, sapendo che qualsiasi soluzione possa risultare vantaggiosa per un paese è automaticamente sgradita ai vicini. La situazione che si è venuta a creare è per molti versi davvero preoccupante: dei trentadue accordi bilaterali necessari per disegnare la carta politica del fondale del Mediterraneo, solo quattro sono stati conclusi, mentre altre due vertenze sono state, almeno parzialmente, risolte con sentenza della Corte internazionale di giustizia dell’Aja. Negli altri casi si assiste ad aspre contese, spesso rese più acute da diffidenze ed odi secolari.[4] Non esistono neppure criteri giuridici di sicuro affidamento, dato che ogni Stato tende a sfruttare al massimo la configurazione fisica della costa e ad adottare, di conseguenza, le più diverse regole. Così come il problema dei confini terrestri ha sollevato interminabili conflitti, la spartizione del Mediterraneo in zone economiche sotto il controllo esclusivo degli Stati lascia purtroppo prevedere per il futuro tensioni solo in parte preannunciate dalla questione del golfo della Sirte.
La disciplina dei mari è dunque viziata sia dall’ambiguità degli Stati — primi fra tutti quelli europei — sulla loro reale volontà di ratificare il Trattato, sia dalle vistose contraddizioni contenute nel testo della Convenzione, in cui ad enunciazioni di grandi principi si alternano volgari mistificazioni nazionalistiche. In altre parole, la Convenzione non segna solo l’affermarsi di tendenze che vanno accolte con grande favore, ma anche l’emergere di nuovi, inquietanti fenomeni di nazionalismo, che coinvolgono tutte le aree geografiche e tutti gli schieramenti ideologici. Si tratta di atteggiamenti che debbono essere identificati e combattuti. Al processo costante di nazionalizzazione delle acque dei mari — in atto ormai da decenni — si può porre un correttivo solo costituendo federazioni regionali che rendano possibili uno sfruttamento più equo delle risorse ed una redistribuzione delle ricchezze tra i popoli che vivono sulle coste e quelli dell’interno. Situazioni come quella del Mediterraneo possono a loro volta essere sdrammatizzate solo se avvengono seri progressi nella direzione dell’Unione europea e dell’unità del mondo arabo, che rendano possibile una qualche forma di integrazione euro-africana: da «mare chiuso», il Mediterraneo può e deve diventare un «mare comune».
Si tratta certo di sviluppi non scontati, anzi necessariamente difficili, dell’attuale assetto della comunità internazionale. Ci troviamo di fronte ad una lunga serie di battaglie politiche, alcune a breve termine ed altre di respiro secolare, che debbono comunque essere condotte con la coscienza che il superamento della contraddizione fra la necessità e il bisogno di democrazia a livello internazionale ed il persistere di atteggiamenti grettamente nazionalistici è l’unico modo per garantire al corso della storia uno sviluppo ordinato.
Francesco Mazzaferro
[1] Espressione tratta da Jonathan I. Charney (ed. by), The New Nationalism and the Use of Common Spaces, Totowa, New Jersey, Allenheld, Osmun, 1982, pp. IX-343.
[2] Guido Montani, «Il MFE per il governo sovrannazionale delle risorse marine», in Il Federalista, XXV, 1983, n. 1-2, pp. 28-31.
[3] Dati tratti da: Uwe Jenisch, «The Signing of the Law of the Sea Convention», in Aussenpolitik, vol. 34, n. 2, pp. 171-184.
[4] Conferenza tenuta all’Università di Bologna, il 5 maggio 1986 dal dott. Bastianelli, esperto di diritto internazionale dell’ENI, su Delimitazione dei confini marittimi nel Mediterraneo e problemi petroliferi.