Anno XXVII, 1985, Numero 3, Pagina 197
VERSO UNA UNIONE MONETARIA PRE·FEDERALE IN EUROPA*
L’organizzazione monetaria di uno Stato federale è un argomento non ancora approfondito per cui risulta tuttora difficile definire con chiarezza le istituzioni ed i meccanismi che devono essere adottati per dotare l’Unione europea della necessaria competenza in materia monetaria.
Nel settore della politica fiscale e di bilancio, invece, la conoscenza e la riflessione hanno raggiunto un punto più avanzato, sicché si parla correntemente di «federalismo fiscale» e l’analisi del suo funzionamento nell’ambito delle federazioni esistenti, ed in primo luogo degli Stati Uniti d’America e della Germania Federale, risulta quanto mai utile anche per delineare le competenze dell’Unione europea.
1. L’organizzazione monetaria degli Stati federali esistenti.
Il fatto che il «federalismo monetario», a differenza di quello fiscale, sia tuttora una teoria allo stato embrionale è certamente dovuto alla circostanza che negli Stati federali esistenti l’organizzazione monetaria non si distingue, nella sostanza, da quella degli Stati a struttura non federale.
Di fatto mentre in materia fiscale esiste, anche se in gradi diversi, una competenza concorrente del governo federale e degli Stati membri della federazione, in campo monetario tale competenza è attribuita interamente al livello federale.
Sia negli USA che in Germania Federale e in Svizzera esiste una sola moneta, la cui emissione è monopolio di un’unica banca centrale, a somiglianza pertanto — come accennato — di quanto avviene negli Stati non federali.
Si nota solamente, nelle tre esperienze, una particolare struttura della banca centrale — che assume nella sua stessa denominazione anche un riferimento al federalismo (Deutsche Bundesbank e Federal Reserve System) — caratterizzata, nel caso tedesco, da una presenza, accanto alla banca centrale federale, di banche centrali dei Länder, che non hanno però potere alcuno sull’emissione delle monete ma solo un diritto di rappresentanza nell’organo decisionale della banca federale, ove anzi i rappresentanti locali detengono la maggioranza.[1]
Mentre la situazione della Svizzera è analoga a quella tedesca, il sistema americano presenta minori caratteri federali, in quanto i dodici distretti del Federal Reserve System non hanno alcun rapporto istituzionale con gli Stati membri della Federazione americana.
Un elemento emerge tuttavia a caratterizzare l’organizzazione monetaria dei tre Stati federali citati: si tratta di una «forte» autonomia della banca centrale nei confronti delle istituzioni dello Stato (governo e parlamento), che assimila, in un certo modo, la banca alla «corte federale». Nei fatti l’autonomia deriva, nel caso tedesco e svizzero, dalla ricordata predominanza dei Länder (o dei cantoni) nell’organo decisionale della banca centrale, mentre nel caso americano sono più gli elementi «privatistici» che caratterizzano i dodici distretti, e la lunga durata del mandato dei membri del Federal Reserve Board — l’organo supremo del sistema — che garantiscono l’autonomia della banca rispetto al governo.
2. I tentativi di unificazione monetaria in Europa.
La situazione descritta in precedenza spiega, a mio avviso, come tutti i tentativi di unificazione monetaria attuati in Europa dopo la creazione della Comunità europea si basassero sull’idea di un’unica moneta — o su più monete legate però tra di loro da un cambio fisso — e necessitassero di un forte accentramento del potere monetario.
La formale adozione del Piano Werner, con l’avvio della prima fase e l’istituzione del Fondo europeo di cooperazione monetaria non fu però sufficiente per raggiungere l’obiettivo, in quanto non solo non furono attuate le tappe successive — previste esplicitamente nelle deliberazioni — ma il sistema stesso vide la «secessione» di numerosi Stati sino a svanire di fatto.
Con il varo, nel dicembre del 1978, del Sistema monetario europeo fu adottato un approccio più flessibile, in quanto il sistema si basava su «cambi fissi ma aggiustabili»: un particolare importante, nel caso dello SME, fu l’adozione dell’ECU come punto di riferimento del sistema ed infatti l’oscillazione delle monete nazionali è rapportata a tale unità ed è in ECU che sono espresse le disponibilità detenute dalle banche centrali nazionali presso il FECOM in contropartita dell’apporto del 20% delle proprie riserve di oro e dollari.
Il passaggio alla seconda fase dello SME prevedeva il mantenimento della possibilità di variare il tasso di cambio delle singole monete nazionali con l’ECU (e quindi con le altre monete nazionali) e si caratterizzava invece per la creazione di una istituzione, il Fondo monetario europeo, che doveva assumere alcuni compiti nella gestione delle riserve comuni e nella concessione dei crediti — previsti dal sistema — alle singole banche centrali.
3. Una unione monetaria pre-federale in Europa.[2]
L’Europa deve dotarsi di un’adeguata organizzazione monetaria comune se vuole garantire la permanenza dell’unione doganale e della politica agricola comune; questa esigenza è ancora più pressante se si vuole veramente realizzare un «mercato interno» ed affrontare i problemi posti dalla ripresa dello sviluppo, dall’evoluzione dei rapporti economici internazionali, dalla sfida dell’evoluzione scientifica e tecnologica.
Possiamo definire questo obiettivo come la realizzazione di un Sistema monetario europeo pre-federale, che garantisca il conseguimento di due obiettivi fondamentali: a) la piena convertibilità delle monete comunitarie tra di loro; b) una «stabilità» dei tassi di cambio che consenta il calcolo economico necessario per garantire il funzionamento del «mercato interno» e, soprattutto, impedisca il ricorso a mutamenti delle parità monetarie per penalizzare gli operatori economici di altri paesi.
Analogamente a quanto avviene per una unione doganale, il problema vero è assicurare che le due condizioni prima ricordate siano assicurate indipendentemente dalla volontà degli Stati membri: come il Trattato istitutivo della Comunità europea impone che i dazi doganali non possano essere reintrodotti e dà mandato ad una istituzione comune (la Commissione) di vigilare che questo impegno «irreversibile» sia rispettato, così è necessario, sul terreno monetario, che la convertibilità della moneta e la «stabilità» dei tassi di cambio siano tutelate da una istituzione comune, che possa prevenire azioni unilaterali da parte dei singoli Stati destinate a vanificare gli impegni assunti.
Il vero problema di una unione doganale non è l’eliminazione dei dazi doganali, ma l’evitare la reintroduzione degli stessi — sotto forma anche «mascherata» — da parte di uno Stato membro in momenti di crisi e di difficoltà. Sul terreno monetario le esigenze sono analoghe: evitare che in una fase di crisi uno Stato vanifichi la convertibilità della propria moneta o ricorra a svalutazioni «competitive»; solo la presenza di una istituzione monetaria comune incaricata di garantire la permanenza di queste due condizioni e dotata degli strumenti atti a consentire il superamento della crisi assicura il conseguimento dell’obiettivo.
4. Lineamenti della fase pre-federale dell’unione monetaria.
La convertibilità della moneta implica la libertà, per i cittadini residenti nei diversi paesi dell’Unione, di cambiare le proprie disponibilità in valuta nazionale, nelle valute degli altri Stati o, quanto meno, nella valuta comune dell’Unione.
L’istituzione monetaria comune deve quindi assicurare: la permanenza della convertibilità tra le monete nazionali e la valuta comune; che la modifica del tasso di cambio tra una moneta nazionale e la moneta comune non turbi il «mercato interno».
Essa deve, di conseguenza, disporre della capacità di: intervenire sul mercato dei cambi per assicurare, in ogni momento, la convertibilità; decidere sulla modifica del tasso di cambio.
Ma questo non è possibile se: non controlla la quantità di «moneta comune» emessa; non garantisce, all’esterno dell’area, il valore della moneta comune (politica nei confronti delle valute esterne all’area); non può «condizionare» il credito concesso alle banche centrali che hanno difficoltà a mantenere la convertibilità della propria moneta con quella comune.
Anche se l’analisi condotta in precedenza necessita di molti approfondimenti, appaiono delineati con sufficiente precisione i compiti da affidare al Fondo monetario europeo se si vuole veramente fare dello SME lo strumento monetario capace di garantire l’esistenza in Europa di un mercato interno dei prodotti agricoli ed industriali.
5. Lo 5ME e l’ECU.
Con l’istituzione del Sistema monetario europeo si è affrontato solo il problema del rapporto del tasso di cambio con la moneta comune, mentre è rimasto completamente irrisolto il problema della convertibilità delle singole monete nazionali, dato che i cittadini europei, residenti in numerosi paesi membri, non possono liberamente scambiare la loro moneta con quella circolante in altri Stati.
La necessità di una piena convertibilità delle monete europee — o meglio ancora l’esistenza di una moneta comune — si è tuttavia imposta nel corso dei primi anni di funzionamento dello SME e l’apparire, su iniziativa degli operatori, dell’ECU, ha reso più acute le contraddizioni tra un unico mercato dei prodotti agricoli ed industriali e la segmentazione monetaria.
L’ECU ha assunto, progressivamente, le classiche funzioni della moneta: riserva di valore (obbligazioni e depositi sono stati stilati in ECU); unità di conto (bilanci, contratti, fatture sono espressi in ECU); mezzo di regolamento (bonifici, assegni, assegni turistici e cosi via).
Gli Stati membri della Comunità sono stati pertanto costretti a compiere passi successivi sulla strada della convertibilità della loro moneta nazionale almeno con la moneta comune europea.
Dal punto di vista istituzionale con lo SME non si sono create nuove istituzioni ma ci si è limitati a rivitalizzare quelle esistenti, create negli anni precedenti in occasione dei passati tentativi di unificazione ed ormai praticamente inattive.
Il Fondo europeo di cooperazione monetaria, in particolare, è divenuto competente per deliberare sulle modifiche del tasso di cambio delle monete nazionali con l’ECU, nonché sulla composizione dell’ECU: il parere vincolante del FECOM è infatti richiesto per l’emanazione, da parte del Consiglio dei Ministri della Comunità europea, dei relativi regolamenti.
6. Gli sviluppi recenti.
L’impetuoso sviluppo dell’uso, da parte degli operatori privati, dell’ECU ha imposto l’assunzione di provvedimenti che consentissero, in qualche modo, di evitare che le banche centrali nazionali fossero escluse dal controllo di questo fenomeno.
Con gli accordi di Palermo dell’aprile scorso si è provveduto a dare all’ECU «ufficiale» emesso dal FECOM maggiori caratteristiche di liquidità, tale da renderlo nuovamente competitivo nei confronti di quello emesso dalle banche private e si è inoltre provveduto ad attuare una circolazione esterna alla Comunità europea della moneta comune emessa dal FECOM, che può ormai essere detenuta, a determinate condizioni, da altre banche centrali ed istituzioni monetarie internazionali, in particolare la Banca dei regolamenti internazionali.
L’attuazione di un sistema di clearing delle transazioni private, con agente la già citata BRI, consentirà inoltre di sottrarre al cosiddetto «euromercato» la gestione dell’ECU, ponendo così le premesse per garantire non solo la liquidità dello strumento ma anche la stabilità del sistema bancario che lo gestisce.
7. Le misure da adottare.
Il FECOM ha assunto, in questi anni, competenze embrionali ma suscettibili di ampliamento nella modifica dei tassi di cambio e nella gestione delle attività in ECU (direttamente per l’ECU «ufficiale» ed indirettamente per quello «privato») senza avere invece avuto il mandato di essere il «garante» della libertà dei cittadini europei di convertire liberamente la loro moneta nella moneta comune.
Una espansione ulteriore delle attività espresse in ECU (sia « private» che «ufficiali») comporterà per il FECOM necessità crescenti di interventi di stabilizzazione ed in particolare l’assunzione di decisioni su iniziativa europea, anziché nazionale: in altre parole un mercato internazionale dell’ECU di ampie dimensioni non potrà sempre «subire» le iniziative nazionali senza compromettere il valore e la stabilità dell’ECU.
Gli sviluppi sulle principali piazze internazionali e, in specie a New York e Tokyo, di scambi — a pronti ed a termine — tra l’ECU e il dollaro e lo Yen porranno presto un problema di «credibilità» finanziaria dell’Europa che avrà riflessi anche sulle singole monete nazionali.
L’Europa potrà disporre di una organizzazione monetaria adeguata al livello raggiunto dall’interpenetrazione economica qualora siano adottati, nell’ambito del Sistema monetario europeo, provvedimenti che garantiscano la libertà di scelta, per i cittadini, tra moneta nazionale ed ECU e diano al FECOM adeguate capacità di iniziativa, prevedendo, in alcuni casi, il voto a maggioranza nell’assunzione delle decisioni relative al valore ed alla circolazione dell’ECU.
Sono questi gli obiettivi, limitati ma indispensabili, che devono accompagnare, sul terreno monetario, la creazione della Unione europea.
8. Può esistere un «federalismo monetario»?
Le funzioni attribuite al Fondo europeo di cooperazione monetaria in questo schema coincidono sostanzialmente con le indicazioni che James Meade ha dato per il suo Supranational Exchange Equalisation System, nel quale sono previsti, accanto al mantenimento delle possibilità di variazioni nei tassi di cambio — per assicurare l’equilibrio di lungo periodo nelle bilance dei pagamenti — gli interventi di una Supranational Equalisation Authority per garantire il controllo delle fluttuazioni di breve periodo.[3]
L’indicazione fondamentale a cui riferirsi è però dovuta a Lionel Robbins che, con l’idea della «moneta internazionale» e l’attribuzione all’autorità monetaria federale del potere di variare il tasso di cambio delle singole monete con la moneta comune, ci ha consegnato forse, quasi mezzo secolo fa, la soluzione al difficile problema di rendere stabile il Sistema monetario europeo.[4]
È difficile invece rispondere alla domanda se esiste, sulla base delle intuizioni di Robbins, anche sul terreno monetario una soluzione «federalista» con una ripartizione delle competenze tra livello federale e livello statale (ed eventualmente livelli inferiori) o se invece la sola possibilità di organizzazione efficiente della moneta è quella dell’emissione di un unico segno monetario; in quest’ultima ipotesi il solo elemento «federalistico» sarebbe dato dalla particolare struttura assunta dalla banca centrale, come si può osservare nel caso tedesco.
Porsi la domanda se esiste, anche nel campo monetario, un contributo originario del federalismo non è più una questione oziosa: la battaglia per dotare l’Europa di una moneta comune richiede che almeno i federalisti sappiano riflettere su questi temi senza essere vincolati dal modello di organizzazione monetaria che ha caratterizzato gli Stati nazionali accentrati.
Alfonso Jozzo
* Si tratta del rapporto tenuto al Seminario organizzato dall’UEF a Canterbury il 14 settembre 1985.
[1] Alcune considerazioni aggiuntive su questo tema sono svolte in: A. Jozzo e D. Velo, «L’autonomia della banca centrale in Italia ed in Europa», pubblicato in Moneta e Credito, giugno 1981.
[2] Il ricorso alla terminologia «unione monetaria pre-federale» può giustificarsi in analogia a quanto proposto dal noto Rapporto MacDougall (Report of the Study Group on the Role of Public Finance in European Integration) dell’aprile 1977.
[3] James Meade, «The Various Forms of Exchange-rate Flexibility», in International Payments Problems, Washington D.C. 1966.
[4] Lionel Robbins, «Economic Aspects of Federation», in Federal Union, London 1941, ora in Il federalismo e l’ordine economico internazionale, Bologna 1985.