Anno XXX, 1988, Numero 1, Pagina 52
1. Alcuni elementi di base del problema.
Come è noto, le rivoluzioni industriali hanno provocato innumerevoli trasformazioni nelle società moderne. L’impatto di questo cambiamento sempre più veloce, senza precedenti nella storia, manifesta nello stesso tempo aspetti positivi e negativi. Accanto al progresso sociale e materiale, si osservano nuove forme di alienazione e di disordine, che toccano in diverso grado i gruppi sociali e le regioni all’interno degli Stati. L’opposizione tra il centro e la periferia si manifesta anche su scala internazionale, palesando un rapporto di disparità che si è tentati di paragonare alla lotta di classe, con la differenza che in questo caso sono paesi o gruppi di paesi a fronteggiarsi. I fini di queste lotte sono principalmente di ordine economico, ma il sistema politico permette una migliore identificazione degli attori e dà loro un minimo di inquadramento.
I fenomeni di alienazione, di sfruttamento, di dominio e di cooperazione più o meno armoniosa fra paesi hanno in comune la caratteristica di contribuire al rafforzamento del potere degli Stati, e questo sia nel caso di una grande potenza che rafforza il suo apparato statale per salvaguardare o estendere il suo dominio economico, sia nel caso, all’estremo opposto, del piccolo paese che cerca di procurarsi a qualsiasi costo un minimo di strumenti per assicurare la propria protezione.
Si può constatare che, sia nei paesi del Terzo mondo, sia nei cosiddetti paesi capitalisti o comunisti, e dunque con ideologie spesso diametralmente opposte, laddove esistono più livelli di governo, è sempre il governo centrale che riesce a trarre un qualche vantaggio dall’accrescimento dei poteri pubblici. Volendo schematizzare le cose, restano ben poche scelte sull’evoluzione futura degli Stati federali che operano in questo contesto. O si accetta la tendenza all’accentramento, con il rischio di cadere in nuove forme di totalitarismo e di concentrazione del potere nelle mani di pochi uomini, o si frena questa tendenza e l’insieme del sistema finisce per essere paralizzato dalla confusione e dall’anarchia.
In realtà situazioni estreme come quelle descritte sono difficilmente pensabili nei paesi industrializzati dell’Occidente. Anche là dove l’accentramento del potere politico sembra molto forte, la complessità dei problemi e la specializzazione delle funzioni che ne consegue frammentano necessariamente in una certa misura il potere decisionale. In quale misura? Questo è uno dei punti che vogliamo indagare. Per parlare della dinamica dell’accentramento all’interno di uno Stato, bisogna studiare i rapporti di questo non solo con gli Stati vicini, ma anche con l’insieme del sistema politico ed economico internazionale.
Abbiamo appena sottolineato quali siano i limiti del potere decisionale all’interno di uno Stato, ma il margine di manovra, anche quello delle grandi potenze, viene ulteriormente ridotto dal sistema politico ed economico internazionale. Per fare subito un esempio concreto, le imprese multinazionali agiscono in uno spazio che trascende i limiti territoriali degli Stati e, a maggior ragione, quelli delle regioni all’interno degli Stati. La forza di penetrazione di questi attori privati merita peraltro di essere analizzata, perché pone un problema che comporta una scelta di tipo sistematico. In effetti, nei rapporti con queste imprese, dotate di mezzi estremamente potenti, il governo centrale di un dato Stato dovrà, di volta in volta, o spesso simultaneamente, resistere, cedere o collaborare, in varia misura, secondo le circostanze e i rapporti di forza. Ora, il meno che si possa dire è che, in questo scontro o in questa cooperazione (libera o forzata), il governo in questione avrà bisogno di tutte le sue risorse, e sarà dunque poco incline a dividere i suoi poteri con i livelli di governo inferiori o intermedi, soprattutto quando ritenga di correre il rischio che questi ultimi scavalchino o comunque ostacolino le politiche da esso intraprese nel confronto con le multinazionali. Aggiungiamo che, per complicare le cose, le multinazionali possono talvolta tentare di dividere fra di loro le diverse istanze governative o i diversi livelli di governo (basta pensare al gioco al ribasso di province e regioni per ottenere investimenti esteri).
Poste in una prospettiva di questo genere, le frontiere territoriali e politiche di alcuni Stati, e delle loro entità costitutive, sembrano piuttosto aleatorie. Nel caso di Stati di debole potenza, la penetrazione economica straniera è tale che queste frontiere non hanno più significato. D’altra parte, in certi casi e con livelli variabili, questa penetrazione può essere soggetta a fluttuazioni. Ed è in questo caso che acquista rilievo l’esistenza di una struttura statale o di un’altra per lo sviluppo di un paese o di una regione. Fra il tutto e il niente in materia di dominio c’è una zona intermedia assai vasta.
In una simile prospettiva lo strumento statale, utilizzando bene i margini di manovra, rimane, in mancanza di meglio, un elemento non trascurabile. Ma quale sarà allora il ruolo dei semi-Stati, quali possono considerarsi un certo numero di province, Länder, ecc., nelle relazioni, da una parte, con il governo centrale e, dall’altra, con attori economici stranieri?
2. L’accentramento politico, contrappeso del capitalismo?
In un articolo divenuto celebre, «The Obsolescence of Federalism»,[1] Laski sembra essere condizionato dalle realizzazioni del New Deal negli Stati Uniti, in un momento in cui l’accentramento dei poteri conosce un’accelerazione senza precedenti in tempi di pace. Il teorico del movimento laburista è nel medesimo tempo assai preoccupato dallo sviluppo delle imprese multinazionali, costituite principalmente con capitali americani. Per lui quanto succede in quel momento (durante la grande crisi) in un paese come gli Stati Uniti costituisce una prefigurazione del destino del federalismo negli altri paesi industrializzati d’Occidente. Di fronte alla tendenza all’accentramento politico (governo centrale degli Stati Uniti) e alla concentrazione economica (imprese private), egli trae alcune conclusioni sulle linee direttrici che parecchi Stati federali potrebbero seguire per giustificare l’accrescimento dei loro poteri e delle loro funzioni.[2] Infatti questi Stati affronteranno una lotta ancora più ineguale con le imprese private nazionali e soprattutto con quelle controllate dall’estero. Limitandosi, per il momento, al caso americano, Laski afferma che un decentramento amministrativo è auspicabile, ma insiste sull’imperiosa necessità di concentrare i poteri politici a vantaggio del governo centrale. L’indebolimento di quest’ultimo per mezzo della divisione dei poteri (divisione orizzontale) e per mezzo del federalismo (divisione verticale) non corrisponderebbe più ai bisogni di una società industrializzata.
Secondo questo autore e numerosi altri, preoccupati di «salvare la democrazia», se si vuole opporsi al capitalismo monopolistico e alla concentrazione del potere economico nelle mani di pochi piccoli gruppi particolarmente omogenei ed efficienti, bisogna a qualunque costo avviarsi verso un accentramento parallelo del potere politico, affidato ai rappresentanti democraticamente eletti. Il governo nazionale non dovrà più preoccuparsi dei limiti posti dai corpi politici che potrebbero paralizzare la sua azione. Al contrario, svolgerà un ruolo che i governi intermedi non sono più in grado di svolgere adeguatamente.
Secondo coloro che si riconoscono in questa tesi,[3] l’accentramento politico permetterà specificamente di stabilire un minimo di standards nazionali in materia di sanità, educazione, previdenza sociale, condizioni di lavoro, ambiente, organizzazione sindacale, imposta progressiva sul reddito, trasporti, energia, lavori pubblici, ecc. Lasciando invece queste competenze ai governi di livello inferiore, si rischierebbe che questi non intervengano, che si facciano concorrenza, o giochino al ribasso per ottenere investimenti stranieri o altri vantaggi a breve termine. Essi rappresentano dunque una facile preda per le grandi imprese internazionali che ne controllano già la maggior parte. Inoltre, questi governi non sono dotati né di uomini né di risorse materiali adeguate per affrontare i compiti essenziali sopra ricordati, né tantomeno a predisporre un minimo di pianificazione economica. In una tale ottica risulta chiaramente che, in definitiva, i governi degli Stati membri costituiscono un ostacolo al progresso sociale, alla razionalizzazione, all’efficacia che deve caratterizzare una società moderna e democratica. Bisogna aggiungere che, nel momento in cui Laski e i suoi seguaci enunciavano queste idee, la situazione esistente soprattutto in alcuni degli Stati del Sud degli USA, non era di natura tale da incoraggiarli a favorire un movimento di decentramento.
Da un punto di vista più generale, il governo centrale (nel suo funzionamento ideale) sarebbe una valida alternativa, almeno per certi aspetti, per il capitalismo nella fase che possiamo definire Contracting Capitalism, in opposizione al capitalismo selvaggio del secolo scorso. Secondo questa interpretazione, il capitalismo attuale ha bisogno di un quadro che permetta la libera circolazione dei beni e delle persone e, diceva Laski in un altro documento, i governi intermedi possono più o meno ostacolarla. Il capitalismo ha bisogno di un quadro legislativo uniforme, di un interlocutore credibile, rapido ed efficace, che possa parlare in nome dell’insieme dei cittadini del paese. Questo tipo di capitalismo nuovo ed evoluto «non può più permettersi il lusso del federalismo». Bisogna dunque opporsi a una politica che consentirebbe al capitalismo di dominare l’insieme dei poteri pubblici. Il nuovo modello proposto viene ritenuto utile nello stesso tempo ai cittadini, alle imprese economiche e alla democrazia, ma la sua natura è tale da condurre automaticamente al declino degli Stati membri in quanto entità che dispongono ancora di una certa autonomia.
Assai curiosamente, tuttavia, Laski respinge il concetto di sovranità per lo Stato federale,[4] così come per lo Stato unitario, perché «un tale concetto non permette di descrivere la condotta e gli obiettivi dello Stato nelle sue relazioni interne ed esterne», e sostituisce l’idea di associazione come base costitutiva dello Stato moderno, perché, secondo lui, l’autorità dello Stato non ha in fin dei conti altra garanzia che le «volontà» dei suoi membri.
Osserviamo, per terminare, che un tale schema non manca di logica, se se ne accettano le premesse. Alla condizione, tuttavia, che il governo centrale sia sufficientemente indipendente dagli attori economici in questione. E questo non è assolutamente il caso, in particolare negli Stati Uniti, ove è a tutti noto a qual punto il governo centrale sia condizionato da rappresentanti dei più potenti gruppi economici. Questa ingerenza viene giustificata, d’altra parte, in nome dell’osmosi che deve sussistere fra il settore pubblico e quello privato se si vogliono raggiungere obiettivi di razionalità, efficacia e rendimento economico.[5] Essa fa parte della logica di un sistema nel quale si cerca innanzitutto di esercitare pressioni nelle posizioni strategiche. Se il potere politico è accentrato nelle mani del governo nazionale, gli sforzi verranno concentrati su quest’ultimo. E invece di divenire un arbitro o un interlocutore indipendente, questo rischia di essere più o meno manipolato. Ma questo è un altro problema che non andrebbe trattato troppo semplicisticamente, giacché, nella sola capitale federale, esiste una pletora di agenzie e di commissioni, dipendenti tanto dal Congresso quanto dal governo, che certamente complica il gioco degli interessi in causa.
A questo punto della nostra trattazione, ci limitiamo a registrare il fatto che, qualunque sia l’esito delle relazioni fra il potere pubblico e le imprese private, le istituzioni centrali sono divenute il luogo d’incontro privilegiato di questi attori. Orbene, questa situazione ha conseguenze incalcolabili per il sistema internazionale e i rapporti di forza all’interno degli Stati, se si considera il potere congiunto degli attori pubblici e privati americani. E inoltre, lo Stato federale americano è tuttora considerato, se non un modello da imitare, per lo meno un prototipo di federalismo in una società post-industriale (per il meglio e per il peggio).
3. Governi centrali e sistema internazionale.
In un saggio intitolato National Autonomy and Economic Development, il sociologo americano Peter Evans[6] affronta indirettamente il problema che ci interessa, studiando l’impatto degli investimenti nelle industrie estrattive e manifatturiere, nonché le strategie delle imprese multinazionali in tema d’importazioni. Questo studio si riferisce ad un certo numero di paesi relativamente deboli e caratterizzati da stretti rapporti con imprese americane. La prima conclusione tratta stupirà ben poche persone, confermando che, meno un paese è sviluppato, più la sua industrializzazione è dipendente dalle imprese straniere «se si lasciano circolare liberamente i beni e le persone». In queste condizioni, le piccole e medie imprese sono raramente in grado di competere validamente con quelle dominanti. Il loro interesse immediato e a breve termine le spinge dunque a cercare forme di cooperazione con le grandi imprese. Ma questa cooperazione si realizza al prezzo di un rapporto subalterno, dipendendo il più delle volte da decisioni prese in una sede sociale situata in altro paese. Essendo stranieri la direzione e i principali azionisti, la loro sensibilità ai problemi del paese nel quale hanno interessi economici sembra assai tenue. Comunque, come sottolinea l’autore, «se rapporti del genere coinvolgessero imprese pubbliche, i paesi in questione sarebbero chiamati colonie».[7] Poiché gli attori economici sono privati, la perdita di sovranità nazionale non è sempre visibile. Ma la capacità dello Stato-nazione, in quanto collettività, di prendere decisioni concernenti il suo avvenire politico ed economico tende a diminuire.
Quando, per esempio, si parla di paesi come il Canada o la Svizzera, nelle loro relazioni con questi attori economici esterni, il grado di dipendenza è certo variabile e non paragonabile a prima vista con quello dei paesi meno sviluppati. Ciò non toglie che il problema si ponga in termini che si potrebbero riassumere come segue. La valutazione del ruolo dell’autonomia nazionale nel perseguimento del progresso economico dipende, anche qui, dalla valutazione che si dà dell’impatto degli investimenti stranieri, per esempio, nelle industrie estrattive, nelle imprese di trasformazione o in qualunque attività del settore terziario. Se si ritiene che questi investimenti siano benefici per il paese (e questo dipende evidentemente dai criteri utilizzati) si tende a considerare come irrazionale ogni ostacolo alla libera circolazione dei capitali stranieri. Si condannerà dunque, in nome del liberalismo economico e del libero-scambismo, lo sciovinismo dei nazionalisti che vorrebbero erigere barriere che, allontanando le imprese straniere, rischierebbero di bloccare lo sviluppo economico del paese. Se invece si ritiene che le multinazionali in questione siano prima di tutto delle imprese che hanno in vista esclusivamente il loro proprio profitto, si adotterà un atteggiamento del tutto differente, soprattutto se si constatano gli effetti negativi a più o meno lungo termine che una simile subordinazione comporta.
A livello internazionale si sottolinea appunto l’accentuazione delle disparità fra paesi e, all’interno degli Stati, le disparità regionali. La valutazione oscillerà dunque fra queste due tendenze e si riferirà a punti precisi, ad esempio sapere in che misura gli investimenti stranieri contribuiscano allo sviluppo tecnologico dei paesi ove sono fatti. Si tenterà di calcolarne le ricadute in termini di numero e qualità di posti di lavoro, di effetti di trascinamento in altri settori di produzione, ecc.
In sintesi, la natura e il grado di dipendenza, come i loro effetti, potranno variare anche considerevolmente da un paese all’altro. Dipenderanno anche dall’infrastruttura economica e politica di questi ultimi, in breve, tra i due approcci estremi sussiste un vasto numero di approcci intermedi che complicano singolarmente il compito di coloro che vogliono approfittare del margine di manovra esistente. Ma quali saranno gli strumenti che, appunto, permetteranno alla «comunità nazionale» di sfruttarlo? Qui si deve prendere atto di una situazione a prima vista paradossale: in certi paesi con forte presenza di capitale straniero, la debolezza della classe degli imprenditori locali, alla ricerca di un maggior grado di protezione, spinge la classe dirigente a elaborare forme di organizzazione economica più socialista, anche se avrebbe preferito favorire l’impresa privata. Per i paesi più poveri non sembra esserci alternativa allo Stato. Lo Stato è il solo strumento che in teoria la popolazione dovrebbe poter controllare e utilizzare per assicurare nello stesso tempo il proprio sviluppo e la propria protezione; anche se troppo spesso si deve constatare che anche lo Stato può diventare uno strumento controllato da una élite sempre più lontana dalla massa dei cittadini. E soprattutto, cosa più grave, questa élite, specialmente nei paesi meno sviluppati, è troppo permeabile e troppo legata agli interessi economici che dominano la loro infrastruttura.
In conclusione, quale che sia il nuovo modello cui richiamarsi per risolvere questo problema cruciale, coloro che più si preoccupano di salvaguardare un minimo di autonomia in questi paesi, sono indotti a credere che uno Stato nazionale e democratico costituisca il principale, se non il solo, atout di cui essi dispongono. Non perché lo Stato sia direttamente produttore di beni, ma perché esso dovrebbe permettere una migliore utilizzazione delle risorse materiali e umane. Nei paesi poveri o in crisi acuta (come gli Stati industrializzati nel corso degli anni Trenta), si parlerà persino di mobilitazione economica e si giungerà a conferire quasi «i pieni poteri» al governo centrale.
Si dirà che questa constatazione si applica soprattutto ai paesi poco sviluppati o alle prese con una crisi eccezionale. In realtà nei paesi industrializzati (anche in quelli nei quali si pretende ancora di ispirarsi al liberalismo classico) i bisogni sono sempre più complessi e l’intervento dello Stato non accenna a diminuire. Al contrario, il numero dei compiti è in crescendo, per lo più come risultato della divisione internazionale del lavoro. Anche quando si vorrebbe che il governo centrale intervenisse il meno possibile, questo è indotto a svolgere numerosi compiti di coordinamento, o di arbitrato rispetto a conflitti interni, spesso causati dall’intersecarsi di interessi nazionali e regionali nel sistema economico internazionale.
Nel mondo degli affari, perlomeno quando si discute di economia con preoccupazioni democratiche, si utilizza spesso l’argomento secondo il quale l’estensione delle relazioni economiche internazionali contribuisce, alla lunga, a democratizzare il processo decisionale all’interno dei paesi impegnati negli scambi. La forza del progresso in un mondo sempre più interdipendente contribuirebbe a una «multinazionalizzazione» di attività che, per lungo tempo, erano rimaste limitate in ambiti regionali o nazionali.[8] Per quanto ci riguarda, noi ci limiteremo a constatare che questa innegabile trasformazione, profonda e improvvisa per molti paesi, ha radicalmente mutato la natura del processo decisionale al loro interno. In verità, mentre nel secolo scorso, almeno fino alla seconda rivoluzione industriale, la maggior parte delle decisioni della vita quotidiana veniva presa localmente, oggi quasi ogni aspetto dell’attività dei cittadini di uno Stato dipende da comportamenti e decisioni prese all’esterno di esso, sulle quali si ha scarsa influenza. In questo quadro non c’è da stupirsi se il governo centrale, per esempio nello Stato federale, cerca di assicurare almeno una funzione di articolazione fra le forze esogene e le forze interne, regionali o locali. Le prime, infatti, rischiano di sommergere, se non controllate, la comunità nazionale, e le seconde sono considerate sempre più anemiche e internamente divise.
Negli Stati Uniti lo spostamento del baricentro delle principali attività politiche, e dunque del potere, è tutto a favore del governo centrale. Poco più di un secolo fa competeva soprattutto agli Stati e ai governi locali la maggior parte delle seguenti funzioni: pubblica istruzione, sanità, proprietà privata, produzione e distribuzione di beni, credito, trasporti, servizi pubblici, diritti civili, amministrazione della giustizia, ecc. All’inizio di questo secolo, al governo centrale competeva un solo terzo della spesa pubblica globale, mentre il resto era di pertinenza degli altri livelli di governo. Da allora la tendenza si è capovolta. Questi indicatori verranno ripresi in esame e discussi in una prossima parte di questo studio. Li citiamo ora perché essi mostrano almeno come uno degli Stati più liberali e più decentrati non sia sfuggito al processo di accentramento e di nazionalizzazione[9] denunciato oggi dai sostenitori della «multinazionalizzazione dell’economia». In realtà nessun altro paese dispone oggi di una simile concentrazione di risorse materiali e umane in seno a quello che tuttora viene chiamato «l’esecutivo», come ai tempi di Montesquieu e di Jefferson.
Finora noi abbiamo considerato l’accentramento del potere all’interno degli Stati in una prospettiva verticale, che ci mostra il governo di uno Stato unitario o di uno Stato federale alle prese con le forze esterne. Dobbiamo anche constatare a qual punto teorie come quella della separazione dei tre poteri (o della dimensione orizzontale) siano in crisi in tutti gli Stati. Ovunque si constata che i due poteri «legislativo e giudiziario» si sono indeboliti a vantaggio dell’esecutivo o del governo,[10] nel senso ristretto del termine. Anche su questo tema esiste una vasta letteratura. Negli Stati Uniti si parla dell’estensione se non dell’imperialismo della presidenza; in Francia la trasformazione delle istituzioni politiche nel 1958 non ha fatto che consacrare ufficialmente un mutamento[11] osservabile in tutti i paesi industrializzati.
Qui, a proposito del sistema internazionale, ci interessa constatare che quest’ultimo ha contribuito a rafforzare i poteri dell’esecutivo a danno dei due altri poteri «classici», accentuando così l’accentramento non soltanto nei confronti degli altri livelli di governo, ma anche nei confronti del giudiziario e del legislativo. Gli studi sulla presidenza degli Stati Uniti ci mostrano infatti come questa istituzione abbia potuto accrescere i suoi poteri basandosi sulle sue competenze di politica estera e di difesa. Più gli Stati Uniti vengono coinvolti, nonostante la loro tendenza a un certo isolazionismo, nel sistema internazionale, più la presidenza tende a rafforzarsi in termini di potere, di influenza e di prestigio. Non stupisce perciò che la presidenza, e soprattutto l’apparato burocratico che le sta intorno, siano sottoposti al tiro incrociato dei livelli di governo «inferiori» e delle altre due «branche del potere», soprattutto quando il sistema dà luogo ad abusi particolarmente vistosi.
Limitando il loro esame a determinati aspetti dei fattori esogeni sopra menzionati, fra i quali quello dell’interdipendenza crescente, molti autori prevedono al contrario la fine dello Stato nazionale, la moltiplicazione e la suddivisione delle responsabilità, la frammentazione del lealismo (fragmenting loyalties), ecc. James Rosenau parla di comunità orizzontali e verticali, interne ed esterne, con scavalcamenti reciproci tali che «il lealismo degli individui trascende sempre più i limiti degli Stati nei quali essi vivono».[12]
4. Chiusura dello spazio, nazionalismo e accentramento politico.
Si può dunque scegliere di mettere l’accento sul fenomeno dell’interdipendenza e sui mutamenti avvenuti nello Stato-nazione classico, a causa di due cambiamenti dei quali tratteremo in un prossimo studio, e cioè l’emergere di certe regioni e il declino dell’efficacia dei governi centrali nella gestione di competenze che questi ultimi si sono venuti via via riservando. Da questo punto di vista l’attore Stato nazionale è sottoposto alle pressioni nascenti della base intraterritoriale, mentre resta avviluppato in un fascio di relazioni internazionali sempre più stretto.
D’altra parte non si sottolineerà mai abbastanza quanto i mezzi di difesa di uno Stato nazionale possano variare da un paese all’altro. E se è vero che nell’attuale contesto internazionale il potere decisionale di molti governi si va indebolendo nei confronti di fattori esogeni, per altri le cose sono assai diverse. Proprio nel caso dei governi che si sentono più minacciati (e la sensazione comporta evidentemente una presa di coscienza) emerge il nazionalismo più netto, accompagnato di solito dalla più ferma volontà di consolidare i propri poteri, specie nei rapporti con gli attori politici ed economici stranieri. «Il nazionalismo economico è dunque una risposta alle forze economiche del mercato, che creano una divisione internazionale del lavoro fra i grandi centri industriali e tecnologici e la periferia, costituita dalle industrie a basso contenuto tecnologico o dalla sola produzione di materie prime».[13]
Questo tipo di nazionalismo economico è in parte la conseguenza e il riflesso di una volontà politica precisa. Esso ha origine in determinati Stati della «periferia» che vogliono anch’essi approfittare dello sviluppo industriale, perseguendo la trasformazione sul posto di almeno una parte delle loro materie prime. Il loro obiettivo consiste anche nell’attenuare la dipendenza del paese nei confronti delle forze transnazionali, il che può ottenersi solo creando uno o più centri industriali più autonomi. E’ facile, lo sottolineiamo ancora, classificare come desueti o retrogradi, in nome delle leggi del mercato e dell’internazionalismo, i comportamenti che ne conseguono, mentre in molti casi si tratta di una reazione di difesa da parte di una comunità che si sente minacciata nella sua sopravvivenza come entità distinta.
Per convincersi che questo atteggiamento riposa su seri fondamenti è interessante analizzare le condizioni nelle quali avviene l’integrazione di grandi insiemi economici. Chi integra? Come sono ripartiti i frutti dell’integrazione? Le disparità fra paesi si attenuano, ecc.? François Perroux, in uno studio che resta un classico del genere, ci ha mostrato quanto poco armonica possa essere la crescita quando gli attori economici siano di forze troppo ineguali, soprattutto se non esistono veri meccanismi di correzione o di ripartizione. Questi effetti disarmonici si manifestano al livello delle regioni (alcune possono essere emarginate mentre altre divengono dei centri di sviluppo), al livello delle attività (capacità industriale inutilizzata o sovrautilizzata), al livello dei gruppi sociali (manodopera favorita o sfavorita a seconda dell’appartenenza a questa o quella industria), ecc. Né il prezzo né il mercato operano la migliore allocazione di risorse dal punto di vista nazionale. Orbene, nessuna nazione accetta il diktat del prezzo e del mercato, nemmeno gli Stati Uniti, se consideriamo, per esempio, i loro rapporti con la Comunità economica europea.
In conseguenza di tutto ciò, lo Stato-nazione moderno è divenuto una sorta di compromesso fra le influenze del mercato e le esigenze politiche interne. I governi centrali tentano dunque di facilitare la creazione di strutture economiche e la pratica di politiche tali da garantire una produzione nazionale vantaggiosa per il paese, tenuto conto dei vincoli esterni e delle pressioni interne, esercitate, queste, dai gruppi sociali e, sempre più spesso, dalle regioni. Più l’integrazione economica è accettata, in quanto i suoi risultati siano giudicati equi dalle differenti parti, meno essa richiede l’intervento di un potere pubblico, e questo sia nel quadro di relazioni internazionali sia all’interno di uno Stato. Nell’insieme, tuttavia, alla domanda «chi integra?» si risponderà che è lo Stato o un’organizzazione che gli assomiglia.
Utilizzando il concetto di integrazione economica nell’ottica di Perroux,[14] di fronte ai grandi insiemi economici, si arriva alla conclusione che è anzitutto necessario assicurare l’integrazione e la solidità interna dei vari paesi, in condizioni che sono sempre più difficili, a causa degli squilibri che esistono fra di essi nell’attuale sistema. L’integrazione nazionale sarà allora «la risultante di azioni contraddittorie: le azioni di disintegrazione dei sotto-insiemi (industrie, regioni, gruppi sociali) implicite in ogni crescita, e le azioni di integrazione decise dai pubblici poteri per mantenere la coesione nazionale. L’integrazione nazionale discende da un progetto collettivo». L’autore aggiunge più oltre: «E’ il momento di non dimenticare che il libero scambio fra paesi di sviluppo industriale troppo diverso favorisce i più forti e che se non è accompagnato da politiche compensatrici, discrimina i più deboli o disintegra e indebolisce i più favoriti fra di essi».[15]
Se gli Stati così minacciati sono raggruppati in un insieme come il Mercato comune europeo, si può sperare che «lo spirito comunitario» sia un giorno sufficientemente sviluppato per stabilire meccanismi che permettano di elaborare le politiche «compensatrici» di cui parla Perroux, politiche che richiedono che si vada almeno in parte controcorrente rispetto al libero-scambismo. Simili politiche non sono comunque possibili senza un rafforzamento delle istituzioni centrali. D’altra parte, uno Stato abbandonato a se stesso, di fronte alla stessa minaccia, tenderà a ricorrere, una volta ancora, al rafforzamento dell’apparato statale. Questo ricorso si tradurrà in misure «nazionaliste» e nazionalizzanti, e accentuerà ulteriormente l’accentramento del potere nei confronti delle regioni che costituiscono il paese.
5. Reazioni interne.
Più sopra, a proposito delle relazioni fra Stati, abbiamo constatato quanto queste potessero essere ineguali, date le enormi differenze che li contraddistinguono in termini di potere politico ed economico. Se ora scendiamo a un livello inferiore, all’interno dei paesi in questione, constatiamo che, in gradi diversi, vi sono elementi di squilibrio che, fatte salve le proporzioni, producono gli stessi effetti. In parecchi Stati federali occidentali (fra cui il Canada), nonostante essi appartengano al novero dei paesi sviluppati, si osservano disparità economiche fra le regioni; si parla di relazioni fra il centro e la periferia, di regioni centrali, di spostamento dell’asse dello sviluppo economico a favore di uno o più nuovi centri. Alcuni autori si spingono fino a parlare di colonialismo interno.[16]
Bisogna tuttavia osservare che le reazioni interne contro il governo centrale non sono necessariamente una caratteristica delle regioni più povere. A questo proposito, il caso del Biafra nello Stato federale della Nigeria, dell’Ucraina in URSS, della Slovenia e della Croazia in Jugoslavia, sembrano indicare il contrario. Bisognerebbe tentare di gettare più luce sulle forze che sostengono i movimenti che si oppongono all’accentramento del potere, sia in generale sia in particolare in certi Stati federali. Questi movimenti possono spingersi fino ad esigere la separazione o almeno una ristrutturazione radicale dello Stato nel cui quadro si sentono minacciati.
E’ certo che quasi ovunque si osservano reazioni contro l’accentramento politico. Queste reazioni assumono aspetti diversi, come i movimenti regionalisti in Francia, in Belgio, in Gran Bretagna o in Spagna. In Africa si qualificherebbero spesso erroneamente come tribali movimenti che cercano di correggere il carattere arbitrario dei confini coloniali. Altrove sono le minoranze etniche a ribellarsi. Questa opposizione può combattere contro aspetti particolari dell’accentramento, come, ad esempio, la burocratizzazione crescente, magari alleandosi con una «rivolta dei cittadini che pagano le tasse», come negli Stati Uniti.
Ovunque si osservano reazioni che, se fossero sincronizzate e «orchestrate», potrebbero costituire una temibile forza contro i governi centrali. Una internazionale di questo tipo non può evidentemente nascere, data la varietà delle esigenze formulate, che hanno sì come nemico comune il «governo centrale», ma un governo centrale che non è mondiale.
In tal modo lo stesso sistema internazionale costituisce un considerevole freno per questi movimenti, nella misura in cui essi vorrebbero rimetterlo in discussione, per esempio creando Stati nuovi a partire da Stati riconosciuti da diverso tempo. Il sistema internazionale, tranne che all’epoca della decolonizzazione, sembra restio ad andare in questa direzione, anche quando certe grandi potenze considererebbero di loro interesse ridisegnare la mappa del mondo. Il diritto internazionale pubblico consacra questo stato di fatto (status quo), non riconoscendo che un solo governo legittimato a parlare in nome di ogni Stato membro della comunità internazionale. Perfino negli Stati federali a forte decentramento i «governi intermedi» devono, in un modo o in un altro, tener conto dell’«ombrello federale».
Ritornando al sistema economico internazionale, abbiamo visto sopra come gli Stati si sforzino di rafforzare il loro apparato e dunque i poteri del governo centrale, allo scopo di meglio proteggersi. Lo stesso argomento potrebbe essere invocato dai governi intermedi di fronte a una duplice minaccia, quella proveniente dall’esterno e quella incarnata da un governo centrale che non risponda, o non risponda abbastanza, alle loro esigenze. A loro volta tali governi, provinciali o altri, potrebbero essere indotti a procedere a un accentramento di potere, scontrandosi così frontalmente con il governo nazionale. Finché questo duello non tocca l’ordine internazionale, così come lo intendono soprattutto le grandi potenze più direttamente interessate, sarà considerato come una questione interna e, in ultima istanza, ancora una volta di competenza del governo nazionale. Seguendo questo ragionamento fino in fondo, sul piano del diritto quest’ultimo risulta ogni volta vincitore.
In realtà le cose sono molto più complesse, anche se questo schema mantiene una certa validità. Il diritto si evolve, lascia spiragli aperti, gli Stati stessi si trasformano, non esiste un ordine internazionale immutabile. Nel corso della storia la carta del mondo è stata incessantemente alterata, sulla base dei rapporti di forza, ma la preoccupazione di mantenere l’ordine attuale deriva soprattutto dalla cura dei governi nel proteggersi contro gli sconvolgimenti esterni ed interni che li riguardano più direttamente.
Se si aggiungono queste considerazioni, che hanno a che fare col sistema internazionale, agli altri elementi, analizzati più sopra, sembra che le regioni, le province e altre entità politiche, si trovino in una situazione difficile quando si impegnino a fondo nella lotta per la difesa della loro autonomia politica. Quest’ultima può tuttavia rivelarsi legittima e possibile, anche se dovesse condurre alla creazione di un nuovo Stato sovrano. Ciò dipende da una quantità di variabili che non possiamo esaminare qui, sia di ordine interno sia di ordine esterno. Sono variabili che dipendono dal potere della comunità che chiede (risorse materiali ed umane, posizione geografica, ecc.), dalla sua coesione sociale e politica, dall’intensità della sua motivazione, dalla sua capacità di trovare appoggi nelle altre parti del paese e all’estero, ecc. Quella che qui va sottolineata è l’importanza essenziale di un arrangiamento pacifico, che non tocchi più di tanto le altre regioni del paese oggetto di questa trasformazione e, di conseguenza, il sistema internazionale medesimo.
Quanto al governo centrale di uno Stato federale, finché non si trovi di fronte a rivendicazioni che tocchino i suoi poteri, può mettere l’accento sulla cooperazione, il decentramento amministrativo e altre soluzioni più o meno efficaci. Se invece sente che sono minacciati i suoi poteri essenziali, sarà spinto a utilizzare mezzi coercitivi in un crescendo di misure preventive e repressive. E queste, a loro volta, possono condurre a uno scontro diretto, o a un’esplosione del paese, che questa volta coinvolgerà il sistema internazionale in ben altro modo e in condizioni sovente più sfavorevoli per tutte le parti più o meno direttamente interessate.
E’ ovvio che gli Stati federali moderni (giacché è di questi che si parla in questo studio) si sforzino di evitare conflitti che possano degenerare in modo così disastroso. Tuttavia, se le esigenze di una comunità risultano particolarmente sostenute nel tempo e nello spazio, saranno costretti, presto o tardi, a procedere a cospicui rimaneggiamenti delle loro strutture. E, a meno di procedere come è stato fatto nei confronti delle rivendicazioni dell’Ucraina o del Biafra, non si potrà fare a meno di discutere il problema della divisione dei poteri. Ma fin dove può spingersi su questa via lo Stato federale, come è stato finora concepito?
Edmond Orban
* In questa rubrica vengono ospitati interventi che la redazione ritiene interessanti per il lettore, ma che non riflettono necessariamente l’orientamento della rivista.
[1] Cfr. Harold Laski in New Republic, maggio 1939.
[2] Si vedano in particolare il Nuovo partito democratico in Canada e i socialdemocratici nella Repubblica Federale Tedesca.
[3] Harold Laski, A Grammar of Politics, Londra 1930. Si veda anche William Ebenstein, Today’s Isms, communism, fascism, capitalism, socialism, New York, Prentice-Hall, 1973, cap. 3.
[4] Si vedano in particolare The Foundation of Sovereignty and Other Essays, New Haven, 1921 e Jacques Maritain, «The Concept of Sovereignty», in American Political Science Review, giugno 1950, pp. 343-357.
[5] Su questo tema esiste negli Stati Uniti una letteratura assai abbondante. A solo titolo di esempio e fra moltissimi altri scritti si veda il nostro La Présidence moderne aux Etats-Unis, personnalité et institutionnalisation, cap. I, «Quelques variables et constantes dans le choix des conseillers présidentiels», Montréal, Presses de l’Université du Québec, 1974.
[6] Peter Evans, National Autonomy and Economic Development. Critical Perspectives on Multinational Corporations in Poor Countries.
[7] Si può citare a questo proposito una vastissima letteratura consacrata al neo-colonialismo, alle relazioni fra il centro e la periferia, all’imperialismo, ecc. (cfr. in particolare Harry Magdoff, Paul Baran, Gunder Frank, ecc.) che si applica anche alle relazioni con il Terzo mondo.
[8] H. Kaiser, «Transnational Relations and the Democratic Process», in International Organization, vol. XXV, n. 3, 1971, p. 370.
[9] Con nazionalizzazione noi non intendiamo qui collettivizzazione dei mezzi di produzione, situazione che del resto negli Stati Uniti è quasi del tutto inesistente.
[10] Quando parliamo di governo centrale nel senso più generale del termine, questo comprende le istituzioni legislative, giudiziarie ed esecutive.
[11] Il celebre discorso di Charles de Gaulle a Bayeux (1945) esprime in modo rigoroso la necessità di un rafforzamento dell’esecutivo. Questa preoccupazione si rispecchia nella Costituzione della V Repubblica del 1958.
[12] James Rosenau, The Scientific Study of Foreign Policy, Londra, Frances Pinter, 1980.
[13] R. Gilpin, «Integration and Disintegration on the North American Continent», in International Organization, vol. XXVIII, n. 4, 1974, p. 265.
[14] François Perroux, L’Europe sans visages, Parigi, Presses universitaires de France, 1958, in particolare il VI capitolo «Intégration économique, qui intègre? Au bénéfice de qui s’opère l’intégration?».
[15] François Perroux, op. cit., pp. 633 e 646.
[16] Per una discussione di queste teorie e un’analisi empirica si veda soprattutto Michael Hechter, lnternational Colonialism, Berkeley, University of California Press, 1977. Uno dei fondatori del RIN (Rassemblement pour l’indépendance nationale) ha descritto la situazione del Québec come quella di una colonia all’interno del Canada. Si veda la sua opera: André D’Allemagne, Le colonialisme au Québec, Montréal, Les Editions RB, 1966. Pierre Vallières, parlando dei cittadini francofoni in Canada, in Nègres blancs d’Amérique, li considera anch’egli da questo punto di vista, ma lo schema d’analisi è marxista.