Anno XXVI, 1984, Numero 3, Pagina 297
ALEXANDER HAMILTON
Com’è noto, le colonie inglesi dell’America settentrionale, divenute tredici repubbliche indipendenti dopo la guerra contro la Gran Bretagna, crearono un’Unione senza attribuirle però un potere al di sopra degli Stati. Il principio sul quale si fonda questa forma di organizzazione internazionale, che, secondo una tradizione ormai consolidata nel linguaggio politico, è denominata « confederazione », è la subordinazione degli organi centrali al potere degli Stati. Di conseguenza, il Congresso continentale, nel quale si riunivano i rappresentanti degli Stati, non poteva far altro che registrare le divergenze e i conflitti tra gli Stati, ma non era in grado, in mancanza di un potere proprio, di dominarli.
Se le divisioni non fossero state superate con la creazione di un governo, dotato di poteri limitati, ma reali, il continente nord-americano sarebbe divenuto il terreno delle tensioni internazionali e delle guerre che hanno caratterizzato la storia dell’Europa. La sua unità, e la pace che ne conseguì, non furono il prodotto spontaneo dell’evoluzione storica, ma il risultato della lotta di un gruppo di uomini, che seppero far prevalere una nuova forma di organizzazione politica, mai sperimentata prima nella storia: la federazione. Il teorico più geniale di questa nuova forma di governo fu Alexander Hamilton, autore, con John Jay e James Madison, del Federalist, una raccolta di saggi scritti tra il 1787 e il 1788 per sostenere la ratifica della costituzione federale, approvata dalla Convenzione di Filadelfia il 17 settembre 1787.
Nei brani di Alexander Hamilton, tratti da questa opera, che qui riproduciamo, sono illustrate le strutture fondamentali della federazione.[1] Il principio costituzionale sul quale essa si fonda è la divisione del potere tra due livelli di governo: quello dello Stato federale e quello degli Stati federati. Questi due ordini di poteri sono indipendenti e coordinati tra di loro, in modo tale che al governo federale, competente per l’intero territorio della federazione, sia conferita una quantità minima di poteri indispensabile a garantire l’unità politica ed economica, e ai governi degli Stati federati, competenti ciascuno per il proprio territorio, siano assegnati i poteri residui. L’attribuzione al governo federale del monopolio delle competenze relative alla politica estera e alla difesa permette di eliminare le frontiere militari tra gli Stati, di modo che i rapporti tra gli Stati perdono il carattere violento e acquisiscono un carattere giuridico e tutti i conflitti possono essere composti davanti a un tribunale. Il trasferimento al governo federale di alcune competenze nel campo economico ha lo scopo di eliminare gli ostacoli di natura doganale, fiscale e monetaria, che impediscono l’unificazione del mercato, e di attribuire al governo federale un’autonoma capacità di decisione nel settore della politica economica.
Questa distribuzione del potere su base territoriale è ben più efficace di quella su base funzionale (legislativo, esecutivo e giudiziario) nel garantire il controllo diviso del potere, la principale garanzia della libertà politica, in quanto sia il governo federale sia gli Stati membri possono fondare la propria indipendenza su una distinta base sociale, consentendo nello stesso tempo di ampliare la sfera del governo democratico.
L’equilibrio costituzionale federale, che permette di conciliare il principio dell’unità della comunità politica con quello dell’indipendenza delle sue parti, si riflette nella composizione del potere legislativo, un ramo del quale (la Camera dei rappresentanti) rappresenta il popolo della federazione in misura proporzionale al numero degli elettori, mentre l’altro ramo (il Senato) è composto da due rappresentanti per ogni Stato, indipendentemente dalle differenze di popolazione. Di conseguenza le leggi devono ottenere non solo il consenso della maggioranza dei rappresentanti del popolo della federazione, ma anche quello della maggioranza dei rappresentanti degli Stati.
Quanto al potere esecutivo, esso è affidato a una sola persona: il Presidente. I ministri sono nominati dal Presidente e sono responsabili. verso di lui. Egli riunisce nelle sue mani i poteri di Capo dello Stato e di Capo del Governo, risponde della propria azione non verso il potere legislativo, ma verso il popolo, che lo elegge e gli può confermare o revocare la propria fiducia ogni quattro anni. Nel contesto storico-sociale dell’America all’epoca di Hamilton era corretto affermare che questi requisiti del potere esecutivo gli conferiscono la forza e la stabilità necessarie a svolgere efficacemente la funzione riequilibratrice della vita sociale e a realizzare in modo organico e coerente il programma di governo. In effetti, attribuire il potere esecutivo a un collegio di più persone, da una parte, avrebbe esposto il governo al pericolo di divergenze di opinione e quindi di paralisi, e d’altra parte, avrebbe reso difficile l’identificazione delle responsabilità e incerto il controllo popolare sul governo. Nello stesso tempo, l’attribuzione di un potere indipendente agli Stati federati avrebbe costituito la più solida garanzia contro gli abusi di potere da parte del governo centrale.
D’altra parte, poiché il modello federale attua una divisione del potere su base territoriale, l’equilibrio costituzionale non può mantenersi senza il primato della costituzione su tutti i poteri. Questo obiettivo si realizza con l’attribuzione ai tribunali del potere di annullare le leggi non conformi alla costituzione. In effetti, l’autonomia del modello costituzionale federale si traduce nel fatto che il potere di decidere in concreto, in caso di conflitto, quali siano i limiti che il governo federale e i governi degli Stati non possono oltrepassare non spetta né al potere centrale (come avviene nello Stato unitario, dove le collettività territoriali più piccole hanno un’autonomia delegata) né agli Stati federati (come avviene nel sistema confederale, il quale non limita la sovranità assoluta degli Stati), ma a un’autorità neutrale: il potere giudiziario.
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Federazione e confederazione.*
È ben vero, come si è dianzi osservato, che i fatti, troppo prepotenti per poter essere ribattuti, hanno creato una specie di atmosfera generale di consenso all’astratta asserzione che la nostra struttura nazionale presenta delle manchevolezze, ma l’utilità della concessione, da parte degli antichi avversari di soluzioni a carattere federale, è svuotata di ogni valore dalla loro strenua opposizione ad un possibile rimedio in base a quei principi che potrebbero dare ad esso una qualche speranza di successo. Nel momento stesso in cui essi ammettono che il governo degli Stati Uniti è privo d’ogni energia, essi si oppongono a concedergli quei poteri necessari a dotarlo di tale energia. Essi sembrano ancora tendere a cose che sono tra loro inconciliabili. Ad un’espansione dell’autorità federale che non diminuisca l’autorità statale; ad una sovranità dell’Unione e ad una completa indipendenza dei singoli membri. Per ultimo essi sembrano ancora accarezzare, con cieca devozione, quella mostruosità politica costituita dall’imperium in imperio. Ecco quanto rende indispensabile una particolareggiata descrizione delle principali manchevolezze della Confederazione, perché si possa dimostrare come i mali che oggi subiamo non siano il risultato di piccole e parziali imperfezioni, ma come essi, invece, siano la conseguenza di errori fondamentali in quella che è la struttura stessa dell’edificio, ai quali non si poteva ovviare se non modificando gli stessi principi basilari e le stesse colonne di sostegno della costruzione.
Il difetto grande e sostanziale dell’attuale struttura confederativa è rappresentato dal principio di un potere legislativo da esercitarsi nei confronti di Stati o di Governi in quanto tali, e non riferendosi agli individui che li compongono. Per quanto questo principio non si riferisca a tutti i poteri deferiti all’Unione, pure esso pervade e determina tutti quei poteri da cui dipende l’efficacia dei rimanenti. A parte i criteri della divisione in quote, gli Stati Uniti hanno poteri illimitati per quanto riguarda le requisizioni di uomini e di denaro, ma essi non possono esigere né gli uni né l’altro in base a norme che si applichino direttamente ai singoli cittadini americani. Risultato di questo è che, sebbene i loro deliberati in materia costituiscano, in teoria, delle leggi che impegnano costituzionalmente tutti i membri dell’Unione, in pratica essi si risolvono in pure e semplici raccomandazioni, che i singoli Stati osservano o meno, a loro piacimento.
Ed il fatto che, dopo tutti gli ammonimenti che l’esperienza ci porge al proposito, vi siano ancora coloro che si oppongono alla nuova Costituzione perché si discosta da un principio che si è dimostrato la rovina della Costituzione precedente, un principio in sé stesso evidentemente incompatibile con l’idea di governo, un principio, per farla breve, che, se applicato, deve necessariamente sostituire alla mite azione della magistratura, l’intervento violento e sanguinario della spada – questo fatto costituisce, senza meno, una singolare riprova della stranezza dell’animo umano.
Non v’è nulla di inattuabile o di inconcepibile nell’idea di una lega o di un’alleanza tra delle nazioni indipendenti ai fini di assicurare determinati obbiettivi ben definiti in un trattato che fissi tutti i particolari di tempo, di luogo, di circostanze e di quantità e che non lasci nulla di indeterminato da decidersi in futuro, un trattato che, per la sua attuazione, debba contare sulla buona fede delle parti contraenti. Accordi del genere esistono tra ogni nazione civile e sono soggetti alle normali vicissitudini di pace e di guerra, di osservanza e di inosservanza, determinate dagli interessi e dalle passioni delle parti contraenti.
Nei primi anni di questo secolo, in Europa vi fu una specie di passione epidemica per questo tipo di trattati dai quali gli uomini politici dell’epoca si attendevano, ansiosamente, benefici che non furono mai ottenuti. Nella speranza di costituire un equilibrio di potenze e di instaurare la pace in quella parte del mondo, si esaurirono tutte le risorse della diplomazia, e si strinsero triplici e quadruplici alleanze, ma a malapena erano state formate che esse si spezzavano, con ciò fornendo all’umanità una lezione preziosa quanto triste, e ammonendo che ben poca fede si deve riporre in trattati che non hanno altra garanzia che la reciproca lealtà e che, all’impulso immediato di un interesse o di una passione, oppongono delle considerazioni generiche di pace e di giustizia.
Se i singoli Stati di questo nostro Paese sceglieranno di stringere dei reciproci rapporti di questa fatta e abbandoneranno il progetto di una superiore autorità discrezionale, il risultato sarebbe invero pericoloso e ci attirerebbe sul capo le sventure che si sono elencate poco sopra; ma almeno avrebbe il merito di essere logico ed attuabile. Se si abbandonasse ogni idea di governo federale, ciò ci porterebbe ad una semplice alleanza difensiva ed offensiva, e ci porrebbe nella situazione di divenire, di volta in volta, alleati o nemici nei nostri reciproci confronti, a seconda di quanto ci detteranno le nostre reciproche gelosie o rivalità, fomentate dagli intrighi di potenze straniere.
Ma se noi non vogliamo esser messi in una posizione così precaria, se accettiamo ancora l’idea di un governo nazionale o anche, il che è poi la stessa cosa, quella di un potere superiore, guidato da un’assemblea comune, dobbiamo ben deciderci a incorporare nel nostro progetto tutti quegli elementi che possono costituire le caratteristiche differenti di una lega e di un governo: dovremo estendere l’autorità dell’Unione ai singoli cittadini – che costituiscono l’unico effettivo oggetto dell’attività di governo.
Il governare implica il potere di emanare leggi. Ed è implicito nell’idea stessa di legge, il fatto che essa debba essere accompagnata dalla sanzione, o, in altre parole, da una punizione o pena in caso di inosservanza. Se non si collega alcuna pena alla disobbedienza, allora i deliberati o i comandi che pretendono di essere legge non sono, in effetti, niente di più che consigli o raccomandazioni.
E la pena, qualunque essa sia, può essere inflitta soltanto in due modi: o per mezzo delle corti e dei giudici, o con l’uso della forza militare; con la coazione fatta valere dal magistrato o con la coazione delle armi. La prima può evidentemente soltanto applicarsi agli individui, la seconda si applica invece necessariamente nei riguardi dei governi, o comunità o Stati. È ovvio come non esista procedimento penale che possa, in quest’ultimo caso, imporre il rispetto delle leggi. Si potranno bensì pronunciare sentenze contro gli Stati perché sono venuti meno ai propri doveri, ma l’unico modo di far sì che tali sentenze vengano eseguite è quello di far uso della spada. In un sistema politico in cui l’autorità sia nelle mani degli organi collettivi delle comunità che lo compongono, ogni violazione di legge dovrà significare uno stato di guerra, e il ricorso all’esercito sarà l’unico modo di assicurare il rispetto delle leggi. Un tale stato di cose non è certo degno del nome di governo, e nessun uomo prudente sarebbe mai disposto ad affidare ad esso il proprio benessere e felicità.
Vi fu un tempo in cui ci si diceva che non era da attendersi alcuna infrazione alle leggi federali da parte degli Stati, che il sentimento della comunità d’interessi avrebbe informato la condotta dei singoli membri della Confederazione, imponendo la piena osservanza di quelli che sarebbero stati gli ordini di requisizione dell’Unione emanati secondo la Costituzione. Un simile linguaggio appare oggi stonato, proprio come avverrà per gran parte di quanto andiamo oggi ascoltando da parte delle medesime persone, allorquando noi avremo ricevuto ulteriori lezioni dalla esperienza, il migliore oracolo della saggezza.
Un tal linguaggio ha sempre tradito ignoranza di quelle che sono le fonti più vere delle forze determinanti dell’umana condotta ed ha mistificato le premesse stesse che stanno alla base del potere civile. Perché mai si è istituito un qualunque governo? Perché le passioni degli uomini non si piegheranno dinnanzi a ciò che la ragione o la giustizia impongono, a meno che non ne siano costrette. Si è venuto forse a scoprire che i gruppi di individui agiscono con maggior rettitudine e maggior disinteresse di quanto non avvenga per i singoli? Tutti i più cauti ed accurati osservatori del corso delle umane cose hanno notato il contrario, e tale conclusione si basa su ragioni assai ovvie. Il senso di rispetto per la propria reputazione finisce per avere assai minor peso quando il biasimo per una cattiva azione si rifletta su vari individui, che non quando tale biasimo si appunti su uno solo. La faziosità, che tende a mischiare il suo veleno in tutti i deliberati di gruppi organizzati, spingerà spesso le persone che li compongono a commettere ingiustizie e scorrettezze di cui arrossirebbero nella loro veste di privati cittadini.
Oltre a tutto questo, va aggiunto che il potere sovrano implica, nella propria stessa natura, una certa insofferenza di controlli esterni, per cui coloro che ne sono investiti, non guardano con benevolenza i tentativi compiuti dall’esterno per dirigere o limitare la propria azione. Da ciò deriva che in ogni struttura politica basata sul principio di unire degli enti sovrani per mezzo di un comune interesse, si riscontrerà una spinta eccentrica degli astri di minor grandezza, una spinta che tenderà perennemente a distaccare ciascuno dal centro comune.
Una tendenza, questa, che non è difficile spiegare. Essa ha origine nell’amore per il potere. Una potenza controllata o limitata è sempre nemica e rivale di chi la controlla o la limita. Questa semplice affermazione ci insegnerà come ci si possa attendere ben poco che coloro, cui è demandata la cura degli affari dei singoli Stati-membri di una confederazione, siano sempre, ad ogni istante, disposti, con perfetta buona volontà e assoluto rispetto del bene di tutti, ad eseguire decreti e deliberati dell’autorità centrale. È proprio della natura dell’uomo che avvenga, invece, esattamente il contrario.
Se, pertanto, le misure della confederazione, per essere attuate, avranno bisogno della mediazione delle singole amministrazioni, esse non avranno troppe probabilità di attuazione.
I governanti dei singoli Stati-membri, cominceranno ad entrare nel merito delle misure stesse e a giudicarle, sia che ne abbiano diritto da un punto di vista costituzionale, sia che non lo abbiano. Essi vorranno considerare la questione che viene loro proposta o imposta alla luce dei propri immediati interessi e dei propri scopi particolari, ed alla luce dei vantaggi o degli svantaggi contingenti che sarebbero determinati dall’adozione del provvedimento. Tutto ciò avverrebbe in uno spirito di egoistica e sospettosa inquisizione, senza quella conoscenza delle circostanze d’indole nazionale o delle ragioni di Stato che sarebbero essenziali ad un equo giudizio, e con quella particolare attenzione, invece, alle questioni di carattere locale che non può fare ameno di sviare la decisione. Lo stesso modo di vedere si ripeterà per ogni membro componente la Confederazione suddetta, onde la esecuzione dei provvedimenti, elaborati dalle assemblee generali, sarà sempre alla mercé delle opinioni prevenute o male informate di ciascuna parte. Coloro che ben conoscono i procedimenti delle assemblee popolari, che hanno visto come sia spesso difficile, allorché non sussista una qualche situazione oggettivamente impellente, che esse giungano ad accordarsi su deliberazioni relative ad argomenti di capitale importanza – comprenderanno assai facilmente come debba essere del tutto impossibile il riuscire a far sì che un certo numero di assemblee del genere, che operano e deliberano in luoghi ben distanti l’uno dall’altro ed in momenti diversi e sotto la spinta di diverse impressioni, possano cooperare a lungo in una unanimità di intenti e di principi.
Nel nostro caso occorre che ben tredici volontà sovrane e separate si trovino d’accordo, in seno alla Confederazione, perché si possa dar corso ad un provvedimento di qualche importanza che venga deciso dall’Unione.
In effetti è avvenuto proprio quel che si sarebbe dovuto prevedere. I deliberati dell’Unione non sono stati eseguiti, la disubbidienza degli Stati, poco per volta, è giunta a tali estremi da finir per inceppare completamente le ruote del governo centrale, riducendole in condizioni miserevoli. Il Congresso, nell’attuale momento, possiede a malapena i mezzi per mantenere una evanescente amministrazione, fino a che gli Stati non avranno avuto tempo di mettersi d’accordo, per sostituire, nel modo più efficace, quello che attualmente è l’ombra di un governo federale.
Né le cose sono giunte a simili estremi tutte in una volta. Le cause di cui ci siamo occupati dettagliatamente, in un primo tempo, hanno solo determinato delle disparità e delle sproporzioni nell’ubbidienza agli ordini di requisizione dell’Unione, da parte degli Stati. Le più grandi mancanze di alcuni Stati servirono di pretesto agli interessi degli Stati ubbidienti, o meno disubbidienti. Perché mai dovremmo fare, in proporzione, più di quanto viene fatto da coloro che ci sono compagni nel nostro viaggio politico? Perché dovremmo mai consentire a caricarci di una soma più pesante del comune fardello che ci spetterebbe?
Questi erano suggerimenti a cui l’egoismo umano non poteva resistere e che non potevano essere combattuti senza esitazioni, nemmeno da coloro che erano abituati a pensare ed a proporsi problemi di conseguenze remote. Ciascuno Stato, obbedendo alla voce persuasiva del proprio interesse o del proprio vantaggio contingente, ha, poco per volta, smesso di pagare le proprie quote fino a che, oramai, l’edificio fragile e tremolante è sul punto di cadere sulle nostre teste e di travolgerei nelle sue rovine.
Il governo dell’Unione e il governo degli Stati.**
Gli scopi principali che un’Unione è chiamata ad assolvere sono i seguenti: la comune difesa dei suoi membri, il mantenimento della pace pubblica, sia nei confronti di attacchi esterni, sia nei riguardi di possibili rivolte interne, la regolamentazione del commercio con gli altri paesi ed anche tra Stato e Stato, il controllo generale di tutte le nostre relazioni politiche o commerciali con paesi stranieri.
L’autorità necessaria a garantire una comune difesa comprende: possibilità di reclutare un esercito, di costruire e di armare delle flotte, di emanare delle norme per regolare le operazioni, l’attività di entrambi e curarne il sostentamento. Questi poteri non dovranno essere in alcun modo limitati, dacché è assolutamente impossibile prevedere o definire quale possa essere la entità o la varietà delle esigenze nazionali, o le corrispondenti entità e varietà di mezzi necessari a soddisfarle. Le circostanze che possono compromettere seriamente la sicurezza di un determinato paese sono infinite, e, proprio per questa ragione, a norma di logica non si potranno imporre vincoli costituzionali di sorta all’autorità cui la salvaguardia di tale sicurezza è commessa.
Questo potere dovrà essere in grado di fronteggiare qualsiasi evento o concomitanza di simili circostanze e dovrà essere detenuto dai medesimi organi chiamati a presiedere alla comune difesa.
Quanto abbiamo affermato, rappresenta una di quelle verità che sono di per sé stesse evidenti a menti sane e scevre da pregiudizi, e l’argomentarvi o il ragionarvi sopra, lungi dal renderla più chiara, non farebbe che oscurarla. Tale verità si basa su assiomi semplici quanto universali, che i mezzi debbono essere proporzionati al fine, e che coloro ai quali è demandato il conseguimento di un qualsivoglia fine devono possedere i mezzi per farlo.
Si può sempre discutere, in linea preliminare, se debba esistere un governo federale incaricato di assicurare la comune difesa, ma una volta che si decida in senso affermativo, ne conseguirà, naturalmente, che tale governo dovrà essere investito di tutti i poteri necessari a portare a termine il proprio compito. E se non si dimostra che le circostanze, che possono mettere a repentaglio la sicurezza pubblica, sono riducibili in certi determinati limiti, e non si trova il modo di confutare in maniera onesta e ragionevole la tesi opposta a questa, si dovrà anche ammettere, come conseguenza diretta e necessaria, che non si possono configurare delle remore all’autorità chiamata a proteggere ed a difendere la comunità, in tutte quelle funzioni che sono determinanti per la sua stessa esistenza – vale a dire in tutto quanto è essenziale alla formazione, alla direzione ed al mantenimento di forze armate nazionali.
Per quanto l’attuale Costituzione possa essere dimostrata inadeguata, pure appare ovvio come coloro che la stesero avessero condiviso appieno questo principio, anche se essi non presero i provvedimenti adeguati ed adatti ad assicurarne l’applicazione. Il Congresso ha piena facoltà discrezionale per il reclutamento di uomini e per l’imposizione di contributi in denaro, per il comando dell’esercito e della marina, e per la direzione delle loro operazioni.
E dato che le requisizioni da esso ordinate sono rese costituzionalmente obbligatorie per i singoli Stati, i quali sono, in effetti, impegnati, in maniera assoluta e solenne, a fornire le quote richieste, l’intenzione doveva essere, evidentemente, che gli Stati Uniti potessero imporre la consegna di tutte le risorse che essi ritenessero necessarie alla « difesa comune ed al benessere generale ».
Si presumeva, dunque, che una considerazione dei propri più veri interessi, ed un certo riguardo ai principi della buona fede sarebbero stati ritenuti garanzie sufficienti, perché i vari membri adempissero, puntualmente, ai propri obblighi nei riguardi del governo federale.
L’esperienza ha, tuttavia, dimostrato come questa supposizione fosse, ad un tempo, illusoria e destituita di ogni fondamento; mentre le osservazioni che abbiamo fatto poco sopra, avranno, almeno spero, sufficientemente convinto ogni lettore, imparziale e ragionevole, dell’assoluta necessità di provvedere ad un cambiamento radicale di quelli che sono i principi informatori dell’attuale sistema. Infatti, se noi pensiamo seriamente di fare dell’Unione uno strumento energico e duraturo, dovremo tralasciare il folle progetto di governare gli Stati in quanto tali o dovremo indirizzare ad ogni singolo cittadino d’America le leggi confederali; e dovremo eliminare, infine, il sistema delle quote e delle requisizioni come, a un tempo, ingiusto e di impossibile attuazione. Come risultato di queste radicali riforme, l’Unione dovrebbe essere investita di pieni poteri per il reclutamento delle truppe, per la costruzione e l’armamento delle navi, e per l’esazione delle imposte necessarie a costituire e a mantenere un esercito ed una marina, nei modi tradizionali che sono comunemente praticati dagli altri governi.
Se la situazione obbiettiva del nostro paese è tale da richiedere l’esistenza di un governo composto piuttosto che semplice, di tipo confederale, più che unitario, il punto che rimarrà sempre essenziale accertare, sarà quello di individuare, per quanto sarà possibile, quali siano le competenze dei vari ordinamenti tra i quali il potere è suddiviso, lasciando che ciascuno di essi possa usufruire, per il conseguimento di quanto viene adesso demandato, della più ampia autorità. Vogliamo fare dell’Unione la salvaguardia della comune sicurezza? Le flotte e gli eserciti e le imposte sono sufficienti a garantire ciò? Allora, il governo dell’Unione deve essere anche in grado di fare tutte le leggi e di formulare tutti i regolamenti che si riferiscono a quei settori.
Lo stesso si dica per il commercio e per ogni altro campo al quale gli fosse permesso di estendere la propria giurisdizione. I governi locali continuano a rimanere gli enti cui spetta l’amministrazione della giustizia tra i cittadini di un medesimo Stato? Essi devono, allora, essere in possesso di tutti i poteri che si riferiscono a questa funzione, oltre a quelli che si riferiscono ad ogni altro eventuale compito, che fosse lasciato alla loro particolare preparazione e direzione.
Il non conferire, in ogni caso specifico, l’autorità adeguata al compito che si è prefisso, significherebbe violare le regole più elementari della prudenza e della ragionevolezza, e significherebbe affidare, stoltamente, i grandi interessi della nazione in mani inadatte a trattarli con vigore e successo.
Chi altro sarà in grado di adottare misure utili alla pubblica difesa, se non quell’organo che è stato eletto guardiano della sicurezza nazionale, che, per le sue caratteristiche di centro verso cui convergono le informazioni, sarà, meglio di ogni altro, idoneo ad intendere l’entità e l’urgenza di eventuali pericoli che ci possano minacciare, e che, quale rappresentante del tutto, si sentirà interessato, nella maggior misura, alla salvaguardia di ogni parte? E chi, se non quell’organo, per la responsabilità stessa inerente al compito affidatogli, sarà più particolarmente sensibile ad esigenze di adeguate misure fiscali, ed, infine, estendendo attraverso tutti gli Stati la propria autorità, potrà costituire l’unico mezzo atto a garantire la necessaria uniformità ed armonia nei piani e nelle misure con i quali si tutela la comune sicurezza?
Non v’è forse una ovvia incongruenza nell’affidare il compito della comune difesa al governo federale, lasciando poi nelle mani dei governi statali tutti i poteri effettivi, indispensabili a questo scopo?
Non è forse vero che la mancanza di cooperazione rappresenterebbe una diretta conseguenza di un sistema del genere? Ed elementi naturalmente ed inevitabilmente concomitanti, non sarebbero il disordine, la debolezza interna, una sperequazione nella distribuzione dei carichi e dei disastri portati dalla guerra, nonché un aumento della spesa pubblica addirittura intollerabile?
Non abbiamo forse potuto sperimentare, e in maniera inequivocabile, le conseguenze durante il corso della Rivoluzione da cui stiamo appena uscendo?
Sotto qualsiasi punto di vista noi intendiamo considerare l’argomento, purché con animo onesto, alla ricerca del vero, dobbiamo convincerci di come sia insieme stolto e pericoloso il negare al governo confederale i più ampi poteri, per quanto riguarda tutte le materie che ad esso sono affidate.
La divisione del potere tra Stati e Federazione e la libertà.***
Gli ostacoli alla tirannide e le possibilità di resistenza aumentano, invece, con l’ingrandirsi dello Stato, se i cittadini comprendono quali sono i propri diritti e se sono disposti a difenderli. La forza naturale del popolo, rispetto a quella artificiale del governo, è di gran lunga maggiore nelle grandi comunità anziché nelle piccole, ed è naturalmente più idonea a lottare contro l’eventuale tirannia di un governo.
In una confederazione, poi, si può dire, senza tema di esagerare, che il popolo è effettivamente e pienamente padrone del proprio destino. Dato che un potere è sempre avverso ad un altro potere, il governo centrale sarà sempre pronto a contenere l’eccesso di potere dei governi statali, mentre questi, dal canto loro, terranno un identico comportamento nei riguardi del governo centrale.
Il popolo, gettandosi dall’una o dall’altra parte della bilancia, ne determinerà, poi, la preponderanza. Se poi i suoi diritti verranno negletti da uno dei due poteri, esso potrà sempre contare sull’altro come strumento di restaurazione dell’ordine. Esso si dimostrerà ben saggio se, appoggiando l’Unione, saprà conservarsi un vantaggio che non potrà mai essere troppo apprezzato!
Si può senz’altro considerare come assiomatico, nel nostro sistema politico, che i governi statali offriranno, in ogni possibile evenienza, una garanzia assoluta contro gli eventuali attentati alla pubblica libertà perpetrati dal governo nazionale. Le macchinazioni degli usurpatori potranno, forse, essere nascoste sotto pretesti tali che potrebbero sfuggire al popolo preso nel suo insieme, ma non alla penetrante sorveglianza delle assemblee composte di uomini selezionati. Gli organi legislativi potranno contare su più efficaci mezzi d’informazione. Essi potranno individuare, sin dall’inizio, il pericolo, e, controllando tutti gli organi che esercitano il potere civile, forti della fiducia popolare, potranno senza indugi adottare un vero e proprio piano di resistenza, in cui vengano coordinate tutte le risorse della comunità. Essi avranno i mezzi per comunicare rapidamente gli uni con gli altri nei diversi Stati e potranno unire le forze comuni a salvaguardia delle comuni libertà.
Il potere legislativo.****
Se infatti è giusto che in uno Stato unitario, ciascun distretto, in cui il paese si divide, debba avere una partecipazione proporzionale nella formazione del governo, e che, invece, tra Stati indipendenti e sovrani, organizzati tra loro in una semplice lega, le varie parti, anche se di diversa entità, debbano avere una rappresentanza paritetica in seno ai comuni consessi, – non appare senza fondamento che in una repubblica mista, che unisce in sé caratteristiche unitarie e federali, il governo debba fondarsi su di una combinazione dei principi di rappresentanza paritetica e proporzionale.
Ma è superfluo mettere in discussione col metro della pura teoria una parte della Costituzione che tutti ammettono essere il risultato non di logiche e conseguenti premesse teoriche, bensì « di quello spirito di amicizia e di quel mutuo rispetto e arrendevolezza che era reso indispensabile dalla peculiarità stessa della nostra situazione politica ». Un governo centrale, con prerogative adeguate ai propri compiti, è richiesto a gran voce dal popolo americano e ancor più dalla nostra situazione politica.
È difficile che gli Stati minori accettino un governo che si basi sui principi più vicini ai desideri degli Stati più grandi. Per i primi, pertanto, l’unica alternativa possibile è tra il governo che ci viene proposto ed uno che potrebbe essere ancora più discutibile. In questa alternativa la prudenza insegna ad abbracciare il male minore, considerando i risultati positivi che potrebbero giustificare il sacrificio, piuttosto che perdersi in una sterile previsione dei possibili danni che da esso potrebbero provenire.
In questo spirito si dovrà notare come l’aver concesso voto paritetico a ciascuno Stato rappresenti, ad un tempo, il riconoscimento costituzionale di quella sovranità di cui è ancora investito il singolo Stato, e la garanzia e lo strumento per cui questa parte di sovranità potrà essere ulteriormente preservata. Fin qui la pariteticità non dovrebbe, dunque, essere meno accettabile ai grandi che ai piccoli Stati, ché essi non sono meno solleciti a premunirsi, in qualunque modo, contro l’eventuale illegale consolidarsi degli Stati in una repubblica unitaria.
Altro vantaggio offerto da questo elemento che interverrebbe nella costituzione del Senato, è quello che esso dovrà rappresentare un’ulteriore garanzia contro eventuali soprusi degli organi legislativi.
Non potrà, d’ora innanzi, passare legge o deliberazione alcuna che non abbia, dapprima, l’assenso della maggioranza del popolo, e, poi, quello della maggioranza degli Stati. Si deve riconoscere che questo laborioso sistema di controllo dell’operato degli organi legislativi può apportar danni, oltre che benefici, e che anche la particolarissima garanzia offerta in questo modo agli Stati minori, sarebbe più razionale e giustificata qualora, in mancanza di essa, venisse a correre serio pericolo un interesse ad essi comune ed invece estraneo agli altri Stati.
Ma dacché gli Stati più grandi saranno sempre in grado, a causa del potere in materia di stanziamenti, di rintuzzare eventuali abusi di questa prerogativa da parte degli Stati minori, e dacché la tendenza a legiferare con facilità ed oltre il necessario, sembra essere il male cui i nostri governi sono più esposti, non è poi impossibile che questa parte della Costituzione debba riscontrarsi, in pratica, più conveniente di quanto non parrebbe a molti che la esaminano sul piano puramente teorico.
Bisogna poi occuparci del numero dei senatori e della durata del loro mandato. Ma per poter giudicare seriamente di questi due punti, occorrerà indagare su quelle che sono le funzioni alle quali un Senato dovrebbe adempiere: e per accertarci di tali compiti sarà bene esaminare gli inconvenienti cui una repubblica potrebbe andare incontro per l’assenza di un simile istituto.
Può sfortunatamente avvenire, anche in regime di governo repubblicano, pur se in misura minore di quanto non avvenga in diversi regimi, che coloro cui è demandata l’amministrazione della cosa pubblica dimentichino i doveri che essi hanno nei riguardi dei propri elettori, tradendo l’alto compito loro affidato. Da questo punto di vista, l’esistenza di un Senato, una delle due branche in cui si articola l’assemblea legislativa, e che con l’altra condivide il potere pur rimanendo da essa separata e distinta, deve comunque rappresentare una garanzia di controllo sull’azione di governo.
Essa raddoppia le .garanzie offerte al popolo dacché fa sì che debba verificarsi l’accordo di due corpi diversi per la perpetrazione di scopi tirannici e perfidi, laddove, altrimenti, potrebbe bastare l’ambizione o la corruzione di uno solo.
Il potere esecutivo.*****
Esiste indubbiamente l’idea, e coloro che l’abbracciano non son pochi, che un forte Esecutivo possa essere in contrasto con lo spirito della Costituzione repubblicana. Gli illuminati fautori di questo tipo di governo devono quanto meno sperare che tale supposizione sia destituita d’ogni fondamento; giacché essi non potrebbero mai ammettere la sua validità senza condannare, al medesimo tempo, anche i propri principî.
L’energia dell’Esecutivo rappresenta una caratteristica principale di buon governo. Essa è qualità essenziale a proteggere la comunità da attacchi dall’esterno; ed altrettanto essenziale a garantire una costante ed uniforme applicazione delle leggi; a proteggere la proprietà contro i tirannici complotti che intralciano talora il corso regolare della giustizia; a salvaguardare la libertà contro le macchinazioni e gli attacchi dell’ambizione, della fazione e dell’anarchia. Chiunque conosca, anche superficialmente, la storia romana sa come quella Repubblica fosse spesso costretta a trovare scampo nel potere assoluto di un solo individuo, che assumeva il formidabile titolo di dittatore, per difendersi cosi dagli intrighi di ambiziosi che aspiravano alla tirannide, come dalle ribellioni di intere classi della comunità la cui condotta insidiava l’esistenza stessa dello Stato, come dalle invasioni di nemici esterni che minacciavano la conquista e la distruzione di Roma.
Non può essere, tuttavia, necessario continuare a svolgere argomenti e portare esempi su questa materia. Un Esecutivo debole implica azione di governo parimenti debole. E debole azione di governo non è che un altro nome per cattiva azione di governo; e un governo che si conduca male, sarà, in pratica, comunque esso possa essere in teoria, un cattivo governo.
Dando dunque per assunto che tutti gli uomini di buon senso si trovino d’accordo nell’auspicare un Esecutivo energico, rimarrà solo da chiedersi: quali sono gli elementi che costituiscono questa forza, in che modo e fino a qual punto essi potranno combinarsi con tutti gli altri elementi che, in un regime repubblicano, implicano garanzia di libertà? E fino a qual punto, infine, il progetto che la Convenzione ci ha presentato è caratterizzato da una simile combinazione?
Gli elementi che costituiscono la forza dell’Esecutivo sono i seguenti: primo, unità; secondo, durata; terzo, sufficiente autonomia di appannaggi; quarto, poteri adeguati.
Gli elementi che costituiscono garanzia di libertà repubblicana sono: primo, una giusta dose di sottomissione ai voleri del popolo; secondo, un giusto senso di responsabilità!
Tutti gli uomini politici e gli statisti che, per la saggezza dei principi da loro propugnati, e la giustezza delle loro opinioni si son coperti di maggior fama e gloria, si sono espressi in favore di un potere esecutivo affidato alle mani di una sola persona, e di una numerosa assemblea legislativa. Essi, bene a ragione, hanno ritenuto che l’energia e la decisione fossero gli attributi più essenziali del primo, attributi che meglio avrebbero potuto riscontrarsi, qualora il potere fosse concentrato nelle mani di una sola persona; mentre, altrettanto ragionevolmente, essi hanno considerato che la seconda fosse più idonea a prendere ponderate deliberazioni, e più atta ad attirarsi la fiducia del popolo, nonché a difenderne i privilegi e gli interessi.
Che l’unicità della persona rappresenti un elemento di garanzia di energia, non è cosa da essere troppo discussa. Le azioni di un unico individuo saranno generalmente caratterizzate da maggiore decisione, efficienza, segretezza e rapidità che non quelle di un più numeroso gruppo di persone; anzi tali qualità tendono a diminuire in ragione inversamente proporzionale all’aumento del numero delle persone in questione...
Ovunque esistano due o più persone impegnate in un compito e in un’impresa comuni, esiste sempre il pericolo di una divergenza di opinioni. Qualora poi si tratti di carica o ufficio pubblico, per cui essi siano investiti di pari dignità ed autorità, sopravviene l’ulteriore pericolo dell’emulazione e perfino dell’animosità personali. I dissensi più amari ed atroci potranno nascere da una di queste cause, ovvero da un insieme di queste cause.
Ogniqualvolta simili dissensi si verifichino, potranno diminuire il rispetto, indebolire l’autorità e sconvolgere i piani e l’attività di coloro che ne sono divisi. E se, sfortunatamente, una simile eventualità si dovesse verificare nella suprema carica dello Stato, quando essa fosse affidata a più di una persona, ciò varrebbe a paralizzare o a frustrare le più importanti misure di governo nelle situazioni più critiche di emergenza del paese. E ciò che è peggio potrebbe dividere la comunità nelle fazioni più violente ed irreconciliabili, che si schiererebbero, una contro l’altra, a fianco dei vari individui ai quali sarebbe affidato l’ufficio della magistratura suprema.
Gli uomini, spesso, si oppongono a qualcosa, soltanto perché non è stata proposta da loro ovvero perché potrebbe essere stata proposta da persone che essi non amano. Ma qualora essi siano stati consultati ed abbiano espresso parere negativo, allora l’opporsi diviene per loro un sacro dovere di auto-rispetto. Essi sembrano ritenersi obbligati, sul proprio onore, da tutti i vincoli dell’infallibilità personale, a negare il successo di misure che siano state adottate in dispregio dei loro sentimenti. Persone di carattere equilibrato e sereno hanno avuto spesso agio di rilevare, e con orrore, a quali terribili estremi venga talora portata una tal tendenza, e quanto spesso i più alti interessi della comunità siano sacrificati alla vanità, alle stranezze ed alla ostinazione di individui che hanno, purtroppo, sufficiente credito da rendere importanti per l’umanità tutta i propri capricci e le proprie passioni. Forse la questione stessa di cui oggi si tratta può, nei suoi risultati ultimi, fornire le tristi prove degli effetti di tanta fragilità, o meglio di così detestabile pecca nell’umana natura.
In base ai principi che informano un governo democratico, nel costituire gli organi legislativi si devono necessariamente subire tutti gli inconvenienti che si sono or ora citati, ma è perfettamente superfluo, e come tale dannoso, introdurli anche nella formazione dell’Esecutivo.
È qui, inoltre, che essi divengono più dannosi. In seno alle assemblee legislative, infatti, la prontezza di decisione è più spesso un male che un bene. Le differenze d’opinione ed i conflitti dei partiti in seno a quel settore del sistema costituzionale, anche se talora intralciano l’attuazione di piani preziosi, più spesso favoriscono decisioni ponderate e circospette, e servono ad esercitare un freno sugli eccessi della maggioranza. Allorché si giunge ad una risoluzione, dovrà anche cadere ogni opposizione. Quella decisione è, infatti, legge, ed il resistervi espone a punizioni. Ma non esistono circostanze favorevoli a controbilanciare o sminuire gli svantaggi del dissenso in seno all’Esecutivo. Essi, in questo caso, sono assolutamente allo stato puro. Non v’è un certo limite, oltre il quale il loro effetto si arresti. La discordia non può che intralciare ed indebolire l’attuazione del progetto o della misura su cui è sorta, dal primo all’ultimo istante. Essa non può che contrapporsi a tutte quelle qualità dell’Esecutivo che ne rappresentano gli elementi più essenziali – vale a dire forza e speditezza – senza per questo presentare alcun vantaggio.
Ad esempio nella condotta di una guerra, laddove un forte Esecutivo rappresenterebbe in modo particolarissimo il baluardo della sicurezza del paese, si potrebbe temere ogni cosa se questo dovesse essere formato da più di una persona...
Comunque una delle più forti obbiezioni sollevate contro un Esecutivo composto da più di una persona, e tale da applicarsi con ugual forza così all’uno come all’altro caso, è che tale pluralità tende a nascondere gli errori e a distruggere la responsabilità personale. La responsabilità è di due tipi: quella che espone a semplici censure e quella che può esporre a punizione. La prima è anche la più importante, specie quando si tratti di cariche elettive. Un individuo che ricopra una carica del genere potrà più facilmente agire in maniera tale da perdere la fiducia di chi lo ha eletto, che non in modo da esporsi ad una condanna legale. La pluralità nell’Esecutivo rende, comunque, in entrambi i casi, assai difficile l’identificazione delle responsabilità.
Diviene spesso impossibile, in mezzo alla ridda di reciproche accuse, determinare a chi debba imputarsi una decisione dannosa, ovvero una serie di tali decisioni, o chi debba essere, per esse, punito. La responsabilità viene rimbalzata dall’uno all’altro con tanta destrezza e tanta plausibilità, che l’opinione pubblica rimane incerta circa l’identità del responsabile.
Le circostanze che possono condurre a qualche calamità nazionale, sono talora così complicate che ove esistano un certo numero di persone che abbiano, sia pure in vario modo, contribuito all’errore, diviene praticamente impossibile additare colui o coloro ai quali si può effettivamente far risalire il danno in cui si sia incorsi, anche se, nel complesso, si può chiaramente individuare il gruppo degli atti governativi che hanno danneggiato la nazione.
« Sono stato posto in minoranza dal consiglio. Il consiglio era così diviso che è stato impossibile ottenere una migliore decisione in materia ». Questi ed altri analoghi pretesti sono sempre a portata di mano, veri o falsi che siano. E chi vorrà prendere la pena o rischiare gli odi per indagare più dappresso, nelle fonti segrete dell’affare? Anche qualora si potesse trovare un cittadino così zelante e volenteroso da accingersi all’ingrato compito, come sarebbe facile, qualora esistesse complicità tra le varie parti in causa, rivestire le circostanze ed i particolari di tanta nebulosa ambiguità, da lasciare completamente all’oscuro quale sia stata l’esatta linea di condotta seguita da ciascuno in tutta la faccenda!
Abbiamo, del resto, visto, all’atto pratico, il verificarsi di tutte queste tristi conseguenze, nell’unico caso in cui, nel nostro Stato, all’azione del Governatore si affianca quella di un Consiglio, vale a dire nella questione delle nomine.
Si sono effettuate delle nomine addirittura scandalose per cariche di primo piano. Taluni casi sono stati, anzi, così manifesti che tutti i partiti hanno gridato allo scandalo. Al momento dell’indagine, il Governatore ha gettato la colpa sui membri del Consiglio, i quali, a loro volta, l’hanno fatta ricadere tutta sulla scelta da lui effettuata; cosicché il popolo non è in grado di conoscere chi sia responsabile del fatto che i propri interessi siano stati affidati a mani così incapaci e manifestamente inadatte al compito. Per uno spirito di carità nei confronti di determinate persone, evito di scendere in particolari.
È, dunque, ovvio, e ciò appare dalle considerazioni fin qui fatte, che una pluralità di membri nell’Esecutivo tende a privare il popolo delle due grandi garanzie sulle quali esso può contare per assicurarsi un fedele esercizio di qualsivoglia potere delegato; vale a dire, da una parte, il controllo della pubblica opinione che verrà a perdere la sua efficacia, sia perché il biasimo per le misure inopportune dovrà essere diviso tra un certo numero di persone, sia perché rimarrà sempre nel vago chi siano coloro sui quali tale biasimo dovrà cadere; dall’altra, la possibilità di scoprire facilmente e chiaramente la cattiva condotta di persone che godano della sua fiducia, così da poter provvedere vuoi a rimuoverle dalla loro carica, vuoi addirittura a punirle, qualora questo sia il caso...
Mi trovo perfettamente d’accordo con quanto è affermato da un autore che il famoso Junius non esita a definire « profondo, solido, abile », vale a dire che « Il potere esecutivo può essere delimitato più facilmente quando sia nelle mani di una sola persona »;[2] è molto meno pericoloso che esista un solo oggetto su cui punti tutta la guardinga sorveglianza dell’opinione pubblica, e, in poche parole, ogni moltiplicazione dell’Esecutivo si tramuta piuttosto in un pericolo che in una garanzia di libertà.
Basterà pensare appena un poco per convincersi che il tipo di sicurezza che si cercherebbe di raggiungere ponendo il potere esecutivo in molte mani, non è, in effetti, raggiungibile. I gruppi di più persone dovrebbero essere tanto numerosi da escludere o da render difficile l’intrigo e la manovra, altrimenti essi si rivelano piuttosto dei potenziali pericoli. Allorché, pertanto, il potere sia affidato ad un numero così ristretto di individui che i loro interessi possano venire amalgamati da un qualche abile manovratore allo scopo di attuare un’impresa comune, esso diviene più soggetto ad abusi, e qualora ciò avvenga, diviene fonte di più gravi pericoli che non qualora esso sia riposto nelle mani di un unico individuo, il quale, per il solo fatto d’esser solo, potrà essere sorvegliato più da vicino e sarà, più facilmente, guardingo, e che, poi, non potrà raggiungere tutta la popolarità e l’influenza che raggiungerebbe, qualora si unisse ad altri.
Il potere giudiziario.******
Chiunque consideri attentamente i vari settori dei pubblici poteri dovrà accorgersi che in una costituzione in cui essi siano rigorosamente separati l’uno dall’altro il meno pericoloso per i diritti politici sanciti dalla Costituzione sarà sempre quello giudiziario, per la natura stessa delle funzioni da esso svolte, giacché esso avrà le minori possibilità di ostacolarli e colpirli. L’Esecutivo, infatti, non solo dispensa gli onori, ma impugna anche la spada. Il Legislativo non soltanto governa la borsa ma, addirittura, stabilisce le norme che fissano i diritti e i doveri di ciascun cittadino.
Il Giudiziario, invece, non può influire né sulla spada né sulla borsa, non può dirigere né la forza né la ricchezza della società e non può addivenire ad alcuna decisione veramente risolutiva. Si può, a ragione, dire che esso non ha forza né volontà, ma soltanto giudizio e dovrà ricorrere all’aiuto del governo perfino per dare esecuzione ai propri giudizi.
Questa semplice impostazione della questione suggerisce parecchie conseguenze di non trascurabile rilievo. Essa prova infatti, in modo incontestabile, che il potere giudiziario è, senza paragone alcuno, il più debole dei tre poteri dello Stato;[3] che esso non potrà mai attaccare con qualche successo uno degli altri due; che è invece necessario prendere ogni possibile precauzione affinché esso sia messo in grado di difendersi contro i loro possibili attacchi. Ne discende inoltre che, anche se talora le Corti di Giustizia potessero ledere i diritti di singoli cittadini, esse non potrebbero mai, comunque, mettere a repentaglio la libertà del popolo tutto. Naturalmente mi limito a parlare del caso in cui il potere giudiziario riesca a rimanere completamente distinto da quello legislativo ed esecutivo. Dacché io sono d’accordo che « non potrà esservi libertà se il potere giudiziario non sarà separato da quello legislativo e da quello esecutivo ».[4]
E prova, infine, che, se è vero che la libertà non avrà nulla a che temere dal solo potere giudiziario (essa avrebbe invece da temere fortemente qualora esso si unisca con uno degli altri due organi); se è vero che gli effetti di una tale unione dipenderanno da una possibile soggezione del primo ai secondi, nonostante una separazione puramente nominale e apparente; se è vero che il potere giudiziario per la sua stessa intrinseca debolezza corre continuamente il pericolo di venire intimorito, costretto o influenzato dai due poteri gemelli; e se è vero, inoltre, che nulla più della inamovibilità delle cariche può contribuire a garantirne la fermezza e l’indipendenza, – allora questo requisito dovrà essere considerato un elemento giustamente indispensabile della sua Costituzione e addirittura quasi la cittadella della giustizia e della sicurezza di tutti.
Una Costituzione rigida richiede in modo particolarissimo che la Corti di Giustizia siano indipendenti in maniera assoluta. Per Costituzione rigida intendo riferirmi a quel tipo di Costituzione che prevede delle specifiche limitazioni al potere legislativo quali, ad esempio, che esso non possa deliberare bills of attainder[5] né leggi ex post facto[6] ed altre consimili.
Le limitazioni del genere non possono in pratica ottenersi che facendo uso delle Corti di Giustizia, il cui compito sarà quello di dichiarare nulli tutti gli atti contrari all’evidente intendimento della Costituzione. Senza di ciò tutte le riserve di particolari diritti o privilegi non avrebbero più alcun valore. Si è voluto riguardare, con qualche dubbio, questa attribuzione delle Corti di dichiarare nulli gli atti legislativi in quanto essi siano contrari alla Costituzione, a causa di una immaginaria supposizione che una tal dottrina implicherebbe una superiorità del potere giudiziario su quello legislativo. Si sostiene, infatti, che un’autorità in grado di dichiarare nulli i deliberati di altra autorità dovrà essere necessariamente superiore a quella le cui decisioni possono venire cosi infirmate. Dacché, tuttavia, questa dottrina è di particolare importanza per le costituzioni vigenti in America, non sarà forse del tutto inutile discutere brevemente dei motivi che la informano.
Non esiste, infatti, affermazione alcuna che discenda da più ovvi presupposti, di quella che sostiene come ogni deliberato di un’autorità delegata, che sia contrario allo spirito dell’atto di delega in virtù del quale essa viene esercitata, è nullo. Pertanto, nessun atto legislativo contrario alla Costituzione può essere valido. Il negarlo varrebbe ad affermare che colui che è delegato a determinate funzioni ha maggiore importanza di chi lo delega, che il servitore è al di sopra del padrone, che i rappresentanti del popolo sono superiori al popolo stesso; che, infine, coloro che deliberino in virtù di determinati poteri non solo possono fare ciò che non è autorizzato da questi poteri, ma addirittura ciò che sarebbe da essi proibito.
Se poi si decidesse che gli organi legislativi sono essi stessi i giudici costituzionali dei propri poteri e che pertanto la interpretazione data da loro dovrà essere risolutiva rispetto agli altri organi statali, si potrà rispondere che questa presunzione non può essere quella più ovvia e naturale, perché non la si può trarre da alcun articolo specifico della Costituzione. Né è d’altronde possibile supporre che la Costituzione intendesse mettere i rappresentanti del popolo in grado di sostituire la loro volontà a quella dei propri elettori. È assai più ragionevole supporre che le Corti siano state designate ad essere un organo intermedio tra il popolo ed il corpo legislativo al fine, tra l’altro, di mantenere quest’ultimo nei limiti imposti al suo potere.
L’interpretazione delle leggi è compito preciso e specifico delle Corti. Una costituzione è, in effetti, e così deve essere considerata dai giudici, una legge fondamentale. Spetta pertanto a loro precisarne i veri significati, così come le conseguenze specifiche di ogni atto che provenga dagli organi legislativi. Qualora dovesse verificarsi discordanza insanabile fra la legge costituzionale e quella ordinaria, si dovrà, naturalmente, dar preferenza a quella verso cui siamo legati da obblighi maggiori: in altre parole alla legge ordinaria si dovrà preferire la Costituzione, ai voleri dei delegati del popolo quelli del popolo stesso.
Né, d’altronde, una conclusione siffatta implica comunque una superiorità del potere giudiziario rispetto a quello legislativo. Essa presuppone soltanto che i poteri del popolo siano superiori ad ambedue; e che laddove la volontà del Legislativo, manifestatasi nelle leggi, dovesse contrastare quella del popolo, espressa nella Costituzione, i giudici dovranno essere ossequienti a questa ultima piuttosto che alla prima.
Essi dovranno basare le proprie decisioni sulle leggi fondamentali e non su quelle che non sono fondamentali...
Non esiste una sola sillaba in tutto il progetto di Costituzione che autorizzi esplicitamente le corti nazionali a interpretare le leggi alla luce della Costituzione, e che comunque conferisca loro, sotto questo aspetto, un’autorità maggiore di quella di cui godono le varie corti dei singoli Stati.
Naturalmente, ammetto senz’altro che la Costituzione debba essere il canone di interpretazione delle leggi e che, ovunque possa esistere un contrasto tra queste e quella, essa abbia diritto di precedenza assoluta. Ma questa convinzione non si trae da alcuna circostanza o caratteristica tipica del progetto, costituzionale, ma dal principio fondamentale della Costituzione rigida, e, in quanto sia ritenuta valida, dovrà applicarsi anche alla maggior parte se non a tutti i sistemi costituzionali statali.
Non potrà, dunque, esistere alcuna obbiezione, in proposito, contro la magistratura federale che non possa essere mossa anche contro la magistratura dei singoli Stati in genere, e che non possa servire a condannare qualsiasi Costituzione che imponga limiti alla discrezionalità degli organi legislativi.
[1]Come il lettore potrà notare, nel Federalist i termini « federazione » e « confederazione » sono usati in modo promiscuo, anche se la distinzione tra le due forme di organizzazione politica è netta.
[2]De Lolme. Publius. (N.d.A.)
[3]Il Montesquieu parlandone, dice: « Dei tre poteri che si sono menzionati poc’anzi quello giudiziario è quasi nullo », Lo spirito delle Leggi, vol. I, p. 186. – Publius. (N.d.A.)
[5]Leggi restrittive dei diritti civili. (N.d.T.)
[6]Leggi retroattive. (N.d.T.)