Anno XXIII, 1981, Numero 3-4, Pagina 149
LUIGI EINAUDI
E IL PROBLEMA DELLA DIFESA EUROPEA
Come è noto Luigi Einaudi, dopo aver intitolato Prediche una raccolta di scritti brevi, chiamò addirittura Prediche inutili una serie di pubblicazioni periodiche a dispense iniziata alla fine del 1955. Egli stesso diceva di essersi accorto che delle «centinaia e forse migliaia» di articoli usciti dalla sua penna non era rimasto alcun ricordo. E si potrebbe quasi pensare che non aveva torto a mettere l’accento sulla «inutilità» delle sue riflessioni, se non fosse vero che prima o poi le idee giuste si fanno comunque strada, anche se troppo lentamente per la brevità della vita umana, e anche se non è facile capire come riescano a circolare nel silenzio e nel buio, lontano dalle luci della ribalta, fino a che tutti, d’improvviso le riconoscono e le accettano.
In ogni caso, per il mondo politico-culturale italiano ed europeo è ancora una predica inutile l’intero insegnamento federalistico di Einaudi; e in particolare quello, oggi così attuale, contenuto nella breve nota dello Scrittoio del presidente dal titolo «Sul tempo della ratifica della CED». È una nota che i federalisti continuano a riproporre all’attenzione di tutti, e che tutti, regolarmente, dimenticano. Si tratta di una constatazione, non di una affermazione polemica. Con questa nota — suggeritagli dal timore di una mancata ratifica della CED — Einaudi illustrò con chiarezza lapidaria i termini reali del problema della difesa dell'Europa. Orbene, oggi c’è in Europa un grande dibattito a questo riguardo, ma perfino in Italia il punto di vista di Einaudi non è stato ricordato da nessuno.
Il primo marzo 1954 Einaudi scriveva: «Nella vita delle nazioni di solito l’errore di non saper cogliere l’attimo fuggente è irreparabile. La necessità di unificare l’Europa è evidente. Gli Stati esistenti sono polvere senza sostanza. Nessuno di essi è in grado di sopportare il costo di una difesa autonoma. Solo l’unione può farli durare». Si faccia attenzione: Einaudi diceva che può farli durare l’unione, non la protezione americana.
Nel pensiero di Einaudi, lucidamente anticipato, sotto il profilo storico, nel memorabile discorso a favore della ratifica del trattato di pace pronunciato il 29 luglio 1947 all’Assemblea costituente, la protezione era un fatto contingente, non una scelta definitiva. La politica atlantica, resa necessaria dall'estrema debolezza dell’Italia e degli altri Stati dell’Europa occidentale, era la premessa indispensabile per l’unificazione europea; e l’unificazione europea doveva servire proprio per ricuperare a livello soprannazionale l’indipendenza perduta per sempre a livello nazionale. Allora non era solo Einaudi, del resto, a pensare così. La sua concezione del Patto atlantico era in effetti condivisa non solo da tutti i grandi statisti che hanno messo in cantiere la costruzione dell’Europa, ma anche da molti americani lungimiranti, che non pensavano in termini di primato americano, ma di collaborazione tra eguali con l’Europa da unire.
Della protezione americana come scelta definitiva Einaudi diceva: «Il tempo propizio per l’unione europea è ora soltanto quello durante il quale dureranno nell’Europa occidentale i medesimi ideali di libertà. Siamo sicuri che i fattori avversi agli ideali di libertà non acquistino inopinatamente forza sufficiente per impedire l’unione, facendo cadere gli uni nell’orbita nord-americana e gli altri in quella russa? Esisterà ancora un territorio italiano; non più una nazione, destinata a vivere come unità spirituale e morale solo a patto di rinunciare ad una assurda indipendenza militare ed economica».
La ragione non ha altro da dire. Queste osservazioni di Einaudi sono la verità nella sua evidenza semplice e severa. Non c’è libertà senza indipendenza. Se ci si rassegna alla perdita dell’indipendenza ci si rassegna alla perdita della libertà, cioè si diventa servi. Dunque accettano ora la servitù, sia pure inconsapevolmente, tutti coloro che, per la sola forza dell’inerzia, per non avere mai sottoposto il fatto alla ragione, sono stati tratti, dalla pura e semplice abitudine, a considerare normale una situazione come quella che tuttora perdura, nella quale la protezione è inevitabile, sino al punto da non fare, del superamento di questo stato di necessità, il compito prioritario della loro azione politica.
Questo è il senso della protezione, della «caduta nell’orbita nord-americana». E va detto che con questo commento non si forza affatto il pensiero di Einaudi. Per non lasciare nulla nella oscurità egli paragonava, nella stessa nota, la situazione attuale dell’Europa a quella dell’Italia alla fine del Quattrocento con queste parole: «Il problema non è tra l’indipendenza e l'unione; è fra l’esistere uniti e lo scomparire. Le esitazioni e le discordie degli Stati italiani alla fine del quattrocento costarono agli italiani la perdita dell’indipendenza lungo tre secoli, e il tempo della decisione, allora, durò forse pochi mesi». Secondo Einaudi sono dunque i secoli della servitù italiana — con la loro triste eredità non ancora sradicata dal costume nazionale — a stabilire quali sarebbero le conseguenze della protezione come necessità, cioè della servitù.
Ci sono compromessi politici che si possono accettare, e compromessi politici che non si possono accettare. Einaudi non accettava la scelta della servitù, come non accettava la prospettiva della guerra nucleare. Per questo sin dal 1918, e con convinzione ancora maggiore dopo la comparsa delle armi nucleari, egli non smise mai di indicare nella sovranità assoluta degli Stati la vera causa della guerra, e nella federazione europea — come primo passo verso la federazione mondiale — la via della pace e del disarmo universale.
Ci vogliono uomini come Einaudi per fare, con la sola forza della ragione, il primo tratto di un cammino contro le opinioni di tutti i «realisti», che invece di scegliere il futuro lo «precedono», cioè si tirano da parte. Per noi, che dobbiamo solo seguire il suo esempio, il compito è più facile. La costruzione dell'Europa è giunta ormai ad un punto nel quale il Parlamento europeo ha potuto, con la votazione del 9 luglio, prendere la decisione di elaborare la costituzione dell’Unione europea, e di sottoporla alla ratifica dei Parlamenti nazionali dopo un ampio dibattito al quale tutti, se lo vorranno, potranno partecipare. E ciò significa che l'avvenire dell'Europa non sta più nelle mani dei governi nazionali ma in quelle dei partiti, perché sono i partiti, e ad uno ad uno i singoli parlamentari, che fanno le maggioranze nei Parlamenti, in quelli nazionali come in quello europeo.
Il disegno di Einaudi può dunque essere portato a compimento; e l'Italia ha, a questo riguardo, una speciale responsabilità. L’Italia è il solo paese nel quale non ci sono, nei partiti, gruppi ostili all’unità europea. Deve dunque partire dall'Italia l'azione per mettere all’ordine del giorno — in seno ai congressi europei dei partiti come in ogni altra sede — il problema delle maggioranze a favore della vera unione, la federazione europea. Solo così i partiti potranno riscattarsi, e far tornare i tempi della ragione.
Mario Albertini
(novembre 1981)