Anno XLVIII, 2006, Numero 1, Pagina 65
Elezione europea, governo europeo e Stato europeo[*]
MARIO ALBERTINI
I. L’elezione europea, e il corrispondente rafforzamento del Parlamento europeo, pongono il problema del rafforzamento della capacità di decisione della Comunità. Sono in questione la funzione parlamentare e la funzione esecutiva, cioè problemi che possono essere esaminati solo nel contesto del pensiero costituzionale. Si riaffaccia così nell’orizzonte della vita politica il tema della costituzione europea, che riporta noi vecchi militanti all’inizio del processo di integrazione europea, e al dibattito nel quale presero forma le aspirazioni dei pionieri quando l’integrazione europea era solo un progetto, ed aveva solo la forza delle idee per affermarsi, per inserirsi nella realtà storica. Si tratta del dibattito tra la tesi del costituzionalismo, che in Italia ci riconduce a Luigi Einaudi, e la tesi funzionalistica di Jean Monnet, che, se non è bastata a portare a compimento la costruzione dell’Europa, ha tuttavia permesso di avviare il processo di unificazione e di svilupparlo sino ad un punto nel quale il problema dell’Unione si pone intermini concreti.
Per riesaminare oggi la tesi costituzionale, bisogna fare nel contempo un esercizio di fantasia e di realismo. Non dico «realismo» a caso. So bene che molti, che i più, ritengono che non sia realistico pensare, sin da ora, alla creazione di uno Stato europeo. Ma a volte non sono realisti proprio coloro che fanno professione di realismo. A questo riguardo, e anche allo scopo di predisporre l’attenzione all’argomento, forse è opportuno un ricordo storico tratto dal nostro Risorgimento, che comportava anch’esso, come l’integrazione europea, la fondazione di uno Stato nuovo su un’area coperta da molti Stati. Non si dice mai, nei manuali di storia, che lo Stato italiano è giunto improvviso e inaspettato. Ancora nel 1857 Cavour, nel Parlamento subalpino, diceva, riferendosi ai progetti dei mazziniani, che era una «corbelleria» pensare lo Stato italiano come una realtà possibile e prossima, come un obiettivo concreto del processo politico in corso. Ma era proprio questa «corbelleria» a rispecchiare la realtà. Nel 1860 lo Stato italiano era nato. E si deve dire, a ben vedere, che si trattava di un esito possibile della lotta politica a partire dal momento in cui i mazziniani ragionevoli avevano deciso di agire di concerto con i moderati ragionevoli.
In effetti, la fondazione dello Stato italiano non si spiega se non si tiene presente la formazione della società nazionale. Ma la riflessione politica normale non coglieva il senso di questo aspetto della realtà perché pensava disgiuntamente il moto unitario e la creazione dello Stato e perciò, quando pensava l’unificazione, non pensava lo Stato (proiettato in un futuro lontano e indefinito, come accade ora per lo Stato europeo). E come nel Risorgimento per l’Italia, anche oggi per l’Europa questa congiunzione — che comporta il pensare l’integrazione europea come processo di creazione di uno Stato — è difficile. I motivi di questa difficoltà sono pratici, e si potrebbe pertanto evocare, a questo riguardo, la crociana «natura pratica dell’errore teorico». In ogni modo, l’errore c’è e va identificato. Se si bada alle critiche di semplicismo che sono sempre state rivolte ai federalisti, sembra che si possa dire che si scarta l’idea dell’integrazione europea come processo di creazione dello Stato europeo con un sofisma, quello secondo il quale questa idea pretenderebbe di fornire in anticipo la conoscenza del processo, mentre essa è, ovviamente, solo una idea regolativa, grosso modo un criterio per valutare i fatti, l’unico, del resto, che consenta di esaminarli in tutta la loro complessità. In effetti, se non si applica questo criterio non ci si pone mai la domanda circa le possibilità della fondazione dello Stato europeo, e ciò equivale a dire che se si manifestano nella realtà storica possibilità di questo genere il pensiero non le coglie; e siccome non le coglie, le nega. Nel caso dell’integrazione europea sarebbe in ogni caso opportuno ricordare che l’Europa occidentale è già stata, tra il 1951 e il 1954, sulla soglia della fondazione dello Stato europeo.
II. La tesi costituzionalista è, nel suo fondamento, molto semplice. È banale dire che per fare uno Stato occorre convocare una Assemblea costituente. Forse è meno banale ricordare che l’unificazione europea varcherà la soglia della irreversibilità (spesso data per raggiunta) solo con l’acquisizione della statualità. Ma più difficile, e per questo mi scuso sin da ora se ciò che sto per dire potrà sembrare avventato, è tenere sotto osservazione il «grado costituente», per così dire, del processo di integrazione; e tanto più se si conclude che questo «grado costituente» è ormai avanzato, tanto avanzato da rendere possibili i primi passi sulla via dello Stato europeo. In questo caso non siamo più nel campo della dottrina, e quindi della conoscenza a priori delle relazioni che esistono fra lo Stato e il potere costituente, o delle relazioni che esistono rispettivamente tra federazione e unità irreversibile, e confederazione e unità precaria, nel quadro delle associazioni fra gli Stati. Siamo invece di fronte a un fatto storico che stiamo vivendo, la fase attuale dell’integrazione europea, e cerchiamo di identificarne il senso, il carattere, la direzione. A questo riguardo è così facile sbagliare che converrebbe tacere. Ma la prudenza in questi casi equivale alla rinuncia, politicamente alla dimissione. L’azione politica, se non si limita al quotidiano, richiede che, in qualche misura, si accerti il senso, il corso della storia; e per accertarlo non c’è altra via all’infuori del dialogo, a patto che almeno qualcuno sia disposto a formulare idee nette, in modo che l’errore sia facilmente riconoscibile, e si possa, attraverso la correzione degli errori, approssimarsi alla verità.
Nulla che sia già presente in forma compiuta nel dibattito politico permette di affermare che l’Europa sarebbe di nuovo, per la seconda volta, sulla soglia dello Stato europeo. E tutti gli attori e gli osservatori prudenti lo escludono. Io penso, al contrario, che si possa dire che è iniziata la fase politica — per definizione costituente — del processo di integrazione europea. E mi spiego: non dico ciò perché la Costituente sarebbe, in teoria, necessaria; ma perché sarebbe concretamente possibile in conseguenza del carattere assunto dai fatti, dalla situazione di potere. Posso anche dire che noi federalisti avevamo previsto questa possibilità, che nel nostro linguaggio aveva preso il nome di «piano inclinato» per identificare una situazione creata più dalle cose che dalla volontà delle forze politiche. Dopo la caduta della CED, e quando il Mercato comune era nella fase iniziale, abbiamo tentato di capire lo svolgimento dell’integrazione europea così come era venuto pigliando corpo, e ci parve allora di poter dire che l’integrazione europea, dopo aver compiuto la prima fase — che chiamammo «psicologica» perché era autonoma solo a livello delle aspirazioni e dei sentimenti, che pur contano, come mostrano la fondazione del Consiglio d’Europa (un simbolo, appunto) e soprattutto il Patto atlantico con la sua forte spinta verso l’unità europea — avrebbe compiuto una fase «economica» col Mercato comune (economica non perché si potrebbe raggiungere l’unità economica solo sul piano economico, ma perché negava l’autonomia della politica e si limitava all’autonomia dell’economico, che, come i fatti hanno mostrato, non sostiene nemmeno sé stesso) e sarebbe giunta, per la logica stessa di questo sviluppo, alla fase politica, statuale, costituzionale.
III. Oggi, comunque, possiamo occuparci dei fatti, e non solo delle previsioni. Conviene tuttavia rimuovere prima un ostacolo. Una difficoltà che può impedire di prendere in esame la questione della Costituente europea sta nel fatto che la fondazione costituzionale dell’Europa non può in ogni caso avere lo stesso carattere delle opere costituenti del passato. Esse avevano in comune un carattere che non si manifesta nel caso europeo, e che consisteva nel compito di dare una forma costituzionale ad uno Stato già esistente con i lavori di una Assemblea costituente. Per questo, in qualche misura, le costituzioni del passato sono tutte octroyées, almeno dalla classe politica ai cittadini, se non dal re ai sudditi; e ciò ha avuto naturalmente delle conseguenze dirette non solo sul piano politico, ma anche su quelli teorico e culturale, in pratica sul modo con il quale riconosciamo e pensiamo i fatti in questione.
Ma in questo modo noi non potremmo né identificare né pensare il caso costituzionale europeo. Per la sua stessa natura l’opera costituente europea non potrà coincidere con i lavori di una Assemblea costituente che nel giro di qualche mese debba redigere una costituzione definitiva. In Europa uno Stato europeo cui dare una forma costituzionale non c’è. In Europa lo Stato si tratta davvero di farlo, nel senso letterale del termine; e per questo bisogna attribuire ad un potere il compito di farlo. E la cosa che i fatti dell’integrazione europea dovrebbero averci ormai insegnato è che solo con una prima forma di Stato europeo (da istituire con un atto costituente ad hoc) si può avviare il processo di formazione dello Stato europeo per così dire definitivo. Il paradosso di «fare uno Stato per fare lo Stato» non dovrebbe preoccuparci. Kant si trovò di fronte ad un paradosso simile (uno Stato di Stati), ma ciò non gli impedì di impostare, proprio con questo paradosso, il problema della pace perpetua.
Dovremmo invece tener presente che l’integrazione europea ci ha messo di fronte ad un caso di questo genere con la questione della moneta europea e dell’unione economica, che in effetti non può essere veramente pensata fino a che non venga pensata come la creazione di uno degli aspetti essenziali dello Stato europeo, la sovranità economica, e fino a che non si tenga presente che questa creazione: a) non si esaurisce con un atto; b) richiede un processo; c) può manifestarsi in forma compiuta solo alla fine del processo (con il raggiungimento della sovranità militare e di un assetto costituzionale definitivo); ma, d) pur avendo lo Stato alla fine, deve averlo, in altro modo, anche all’inizio, perché non si può avviare un processo di questo genere senza un potere di livello statuale.
Non si tratta di disquisizioni sottili. Sono in causa, per un verso, lo stadio raggiunto dall’integrazione economica (che alla fine del periodo transitorio del Mercato comune può proseguire solo sul terreno dell’Unione economico-monetaria); e per l’altro, il fallimento del piano Werner, fallimento dovuto al fatto che aveva messo il carro davanti ai buoi, collocando solo alla fine di un nuovo periodo transitorio, e non anche all’inizio, il «centro di decisione» indispensabile.
In effetti il problema della moneta europea illustra perfettamente la tesi che ho esposto. Non si può avere una moneta senza un governo perché solo a questo livello, il livello statuale, si dispone del potere indispensabile per emettere una moneta, regolarne la quantità, controllarle le conseguenze economiche delle scelte monetarie, ecc. Moneta e governo sono in realtà due facce di una cosa sola, la sovranità: una moneta dunque o è nazionale o è europea, come un governo è nazionale o europeo. Non ci sono vie di mezzo: una moneta un po’ nazionale e un po’ europea, un governo un po’ nazionale e un po’ europeo. Ne segue che fino a che non ci sia una moneta europea, restano nazionali, con le monete, anche i fattori — a cominciare dalle bilance dei pagamenti — che obbligano i governi a privilegiare gli aspetti nazionali dell’economia rispetto a quelli europei, ed impediscono loro di fare la politica economica comune o coordinata che sarebbe in ipotesi necessaria per avviare e sviluppare l’Unione economica.
Queste considerazioni non mettono ovviamente in questione la gradualità, ma la escludono per un singolo punto, la moneta europea, che non si può fare con uno sviluppo graduale ma con un solo atto, e che deve essere fatta all’inizio del processo dell’Unione economica per togliere di mezzo gli ostacoli che lo impediscono. La conclusione è dunque che bisogna fare sin dall’inizio un governo europeo per avere la moneta europea. Ma ciò non basta. Fatta la moneta, si tratta di sviluppare gradualmente la Unione economica, e ciò comporta proprio la partenza con uno Stato (iniziale) per giungere, con questo mezzo di potere e la sua politica, ad un altro Stato, quello finale. È evidente infatti che il progresso sulla via dell’Unione economica richiede nel contempo sia la costruzione graduale, e via via pari al grado di unione raggiunto, di un apparato politico e amministrativo europeo, sia la coordinazione graduale di questo apparato con quelli nazionali, e che questo processo, stante la connessione dei problemi della difesa con quelli dell’economia, si può in teoria considerare finito solo quando lo Stato iniziale europeo (con sovranità monetaria, ma non in materia di difesa) si sia trasformato nello Stato europeo definitivo, con tutte le competenze necessarie per l’azione di un governo federale normale.
IV. Queste considerazioni precisano — beninteso se sono attendibili — la natura del fatto da accertare. Per giudicare se la creazione di uno Stato europeo è possibile, non si tratta dunque di vedere se è possibile convocare un’Assemblea costituente nel senso tradizionale del termine, ma di accertare se un processo come quello che ho illustrato, che dovrebbe consistere di singoli atti costituenti che rafforzano il grado costituente del processo rendendo possibili ulteriori atti costituenti e così via (con un Parlamento europeo che assumerebbe effettivamente il carattere di «Costituente permanente» secondo l’espressione di Willy Brandt), sta per avere inizio o ha già avuto inizio. Bisogna dunque, con questo punto di vista, prendere in esame la situazione attuale dell’integrazione europea.
Da alcuni anni l’integrazione europea presenta tre temi costanti: quello dell’elezione europea, quello dell’Unione europea e quello dell’Unione economico-monetaria. Va tuttavia osservato che questi tre temi si manifestano più nell’azione dei governi che nell’azione e nella coscienza dei partiti, dei sindacati, delle forze sociali e della stampa (giornalisti, uomini di cultura, esperti e via dicendo). Per l’elezione europea è stata stabilita la data. Il problema dell’Unione europea resta aperto, ed ha fatto, con la missione affidata al Primo ministro Tindemans, che prevedeva anche la consultazione degli ambienti rappresentativi dell’opinione pubblica, i primi timidi passi verso un dibattito aperto ai partiti, alle forze sociali, ai cittadini. E per l’Unione economico-monetaria si dovrebbe veramente dire che i fatti la rendono necessaria se i governi, nonostante il fallimento del piano Werner, e l’abbandono delle parità fisse, invece di non parlarne più, non smettono di ribadire che è ancora un obiettivo da perseguire.
Ho già parlato dell’Unione economica e monetaria perché essa illustra il modo con il quale si può fare lo Stato europeo. Devo riparlarne perché essa illustra anche il punto cui sono giunti sia l’Europa sia gli Stati, un punto al di là del quale c’è un crocevia. Da anni l’Europa resta sulla soglia di questo crocevia, quello dell’unità o della divisione, ma la cosa non può durare in eterno. Bisognerà riprendere la via dell’unità, che è anche quella dello sviluppo dell’economia, della società e della democrazia, o non si potrà fare a meno di ricascare nella divisione irreversibile del passato, con le conseguenze prevedibili per la libertà, il benessere e la giustizia sociale. Una terza via (una buona Italia senza una buona Europa) non c’è, è soltanto un sogno generato dalla pigrizia mentale o morale. E l’unità, l’unità dopo la fine del periodo transitorio del Mercato comune, cioè dopo la creazione dell’unione doganale e dell’unione agricola, non può stare che nell’Unione economico-monetaria e nel suo presupposto politico: un governo iniziale per avviare e portare a termine il nuovo periodo europeo transitorio, durante il quale ciò che dovrà essere integrato sono ormai le forze politiche e sociali.
Stando così le cose non è un caso che si parli dell’Europa a due velocità, e non è nemmeno un caso che l’Europa a due velocità, non appena si manifesta, tende a trasformarsi nell’Europa a molte velocità, al limite tante quante sono le nazioni. Il fatto è che allo stadio attuale di sviluppo dell’integrazione europea, come delle relazioni politiche ed economiche internazionali, l’Unione economico-monetaria è la condizione indispensabile per l’unità europea. E senza l’unità non c’è che la divisione per nazioni. La divisione in due Europe, come si è già visto con l’uscita del franco dal serpente, non sarebbe che una stazione di passaggio verso la sola divisione che potrebbe consolidarsi, quella nazionale.
V. Devo ora illustrare un aspetto singolare di questa situazione, che tutto sommato è più riconosciuta nel suo effettivo carattere dai governi che dalle forze politiche, sociali e culturali, cioè dalle forze che producono il dibattito politico. È per questo che nel dibattito politico i singoli aspetti di questa situazione sono presi in considerazione, ma non è mai considerata la situazione in quanto tale, come il terreno sul quale operare le grandi scelte, come il quadro delle alternative cui si tratta di fare fronte. Faccio degli esempi. Se ci si occupa dell’Italia, del «caso italiano», non si pensa affatto che una soluzione del caso italiano (la migliore) sta nel compimento dell’integrazione europea, cioè nella trasformazione dell’Italia in uno Stato membro della Federazione europea (in margine osservo che ciò comporta l’abbandono della sovranità esclusiva ma non quello della sovranità effettiva, anche se limitata quanto alla estensione delle competenze; ed osservo anche che la sovranità è una cosa, l’autonomia un’altra: l’Italia ha sovranità militare e monetaria, ma non certo autonomia militare e monetaria). E per la stessa ragione (la riduzione della questione delle alternative al quadro italiano nonostante l’integrazione europea) si pensa d’altro canto il problema della sinistra italiana come se i termini di questo problema fossero stabiliti dal rapporto di forze tra socialisti e comunisti in Italia e non anche da quello che si manifesterà tra due anni nel quadro parlamentare europeo con l’elezione europea, e che, considerato che sia sin da ora oppure no, in ogni caso condizionerà fortemente la situazione italiana.
Questa singolare cecità, e il fatto che i governi siano meno ciechi dei partiti e delle forze culturali, si spiegano. I partiti, e sulla loro scia le forze sociali e quelle culturali, si occupano prevalentemente della lotta politica e sociale. È in questo campo, con la fortuna o la sfortuna di questa o quella dottrina politica, che l’azione politica acquisisce la sua dimensione culturale. Il dibattito politico riflette questo angolo visuale, che mette a fuoco il processo delle forze (in qualche modo la «storia»), ma non le decisioni da prendere sui problemi immediati e concreti, che in questo contesto non sono seguiti e studiati con pari interesse.
I governi, invece, devono occuparsi soprattutto dei problemi immediati e concreti. È a questo riguardo, e non rispetto a questioni ideologiche come il dibattito sulla democrazia e il socialismo, o come la previsione sullo scontro, il confronto o l’accordo tra cristianesimo e marxismo, e via dicendo, che il comportamento dei governi si precisa. E la realtà si rispecchia meglio nell’azione dei governi che in quella dei partiti proprio perché si manifesta più nei problemi che nei processi. Non è in questione una priorità dei problemi sui processi ma: a) il fatto che la contraddizione maggiore del nostro tempo non sta nei conflitti di classe (o di ceto o di potere) all’interno delle nazioni ma nell’ineguale distribuzione del potere e della ricchezza fra le nazioni, e la sua conseguenza: la dimensione sopranazionale dei maggiori problemi economici e politici; b) il fatto che ci si scontra con questa realtà quando si tratta di decisioni su problemi per la contraddizione tra dimensione supernazionale dei problemi e dimensione nazionale dei centri di decisione, mentre si evita il confronto pieno con questa realtà (ridotta al livello della politica estera), e si privilegiano le contraddizioni minori, cioè i conflitti interni alle singole nazioni, quando si pigliano decisioni sulla direzione dei processi politici (incanalati dalle istituzioni nel quadro nazionale). E in margine va comunque detto che in ultima istanza la contraddizione è tra il processo storico effettivo, ormai compiutamente mondiale, e i processi politici come fatto di conoscenza e di volontà, che sono ancora confinati dalle istituzioni nazionali nelle nazioni; e va anche detto che l’integrazione europea, altrimenti inspiegabile, non è che la manifestazione più avanzata di questa contraddizione.
Come contraddizione tra dimensione dei problemi e dimensione dei centri di decisione questa realtà è universalmente ammessa, anche se all’ammissione non fa quasi mai seguito il tentativo di adeguare il proprio pensiero (con il riferimento al processo storico come processo mondiale e non come somma di processi nazionali) e la propria azione, a questo aspetto nuovo della storia. Per gli uomini di governo, invece, le cose stanno diversamente. Per gli uomini di governo non si tratta tanto di pensare la realtà quanto di confrontarsi con la realtà, con i problemi posti dal reale processo storico. Per costoro la contraddizione tra dimensione dei problemi e dimensione dei centri di decisione è una esperienza personale, quotidiana, e spesso ingrata. Ne segue un paradosso: forzati dalla dimensione supernazionale delle cose, e condizionati dal punto cui è giunta la integrazione europea, i governi si occupano dell’Unione economico-monetaria, dell’elezione europea e dell’Unione europea, proprio come i federalisti, che sono dunque più realisti dei partiti, che occupano il potere ma non sanno dove indirizzarlo perché scelgono scopi (tutti inclusi nell’idea di un’Italia migliore come Stato nazionale italiano perfezionato) non realizzabili, e mobilitano così le energie sociali per il raggiungimento di certi fini (in teoria buoni) mentre, di fatto, giungono a risultati opposti, a risultati non solo inaspettati (ultimo, in Italia, il fallimento del centro-sinistra), ma anche cattivi, e talvolta pericolosi.
Questo paradosso è tuttavia il segno di un fatto patologico da eliminare. I governi hanno identificato gli obiettivi europei da perseguire, ma ciò non basta perché essi non hanno né la piena conoscenza del loro significato (che può venire solo dal dibattito politico), né forza sufficiente per perseguirli sino in fondo, beninteso allo stato dei fatti, cioè fino a che non siano sorretti o stimolati da una più efficace volontà europea dei partiti, e da un vero dibattito europeo. A ciò provvederà, con la forza delle cose, l’elezione europea; ma intanto, e anche per preparare bene l’elezione europea, bisogna esaminare gli obiettivi europei comuni ai governi e ai federalisti per introdurne sin da ora la valutazione nel dibattito politico. Nel filo del mio discorso ciò servirà anche per constatare se l’integrazione europea è giunta davvero alla fase costituente.
VI. Considerati ad uno ad uno, i tre obiettivi in questione sono privi di significato o contraddittori. È contraddittorio, come si è detto e come risulta dal fallimento del piano Werner, il proposito di giungere ad una moneta europea prima di aver creato il potere europeo capace di avviare una politica economica europea. È priva di significato l’elezione europea per un Parlamento europeo privo di poteri, come è priva di significato una Unione che non si esprima con un vero e proprio governo europeo.
Ma ciò che è sbagliato è considerare questi tre temi ad uno ad uno. Essi si riferiscono in realtà allo stesso stato di cose: lo stadio attuale dell’integrazione europea. Essi costituiscono, nel loro insieme, la piattaforma del rilancio europeo. E c’è di più. Solo nel loro insieme essi acquisiscono la loro natura e svelano il loro significato. Per sé stesso, il diritto di voto è un diritto costituzionale, il tratto distintivo dell’esistenza di un popolo democratico. Con l’elezione europea dobbiamo dunque parlare del popolo europeo, e più precisamente del popolo delle nazioni europee. E con l’elezione possiamo anche stabilire il senso dell’Unione. È un fatto che una Unione nella quale sia già stato riconosciuto il diritto di voto per l’Unione, e non solo per gli Stati, praticamente è una federazione, cioè un sistema costituzionale che determina l’esistenza di un popolo. D’altra parte, su questa base, cioè sulla via della creazione di una federazione, cessa di essere contraddittorio il proposito di creare una moneta europea e una vera e propria economia europea.
Dovrò tornare su ciascuno di questi temi. Ma intanto vorrei osservare che con questo punto di vista, che collegandoli ne stabilisce il significato, si può in effetti dire che con la decisione sulla data dell’elezione europea è stato compiuto il primo atto costituente formale. La prova, del resto, sta nel fatto che questa decisione «formale» ha provocato le seguenti conseguenze «materiali»: annuncio della candidatura europea da parte di grandi personalità; formazione già compiuta (democristiani e liberali), o in corso, di partiti europei; dibattito per l’elaborazione di programmi europei. Si tratta di fatti che non possono essere compresi, né descritti, se non in termini di rafforzamento del carattere (o grado) costituente del processo di integrazione europea, rafforzamento che prelude a nuovi, e più avanzati, atti costituzionali formali, e dunque ad un ulteriore rafforzamento del grado costituente del processo e così via.
Si può dunque dire che il processo costituente europeo è già iniziato. Ciò non significa che esso sarà senz’altro portato a termine. Nessun processo storico, e nessun atto umano nel suo farsi, presenta questo carattere meccanico. Ciò significa però che ormai è dato agli uomini agire per arrestarlo, o per impedire che si arresti e per portarlo a compimento. Vorrei ancora osservare che non basta più, a questo scopo, perseguire la costruzione dell’Europa come se si trattasse di un compito politico particolare, entro certi limiti separato dalla politica vera e propria. Sino a qualche tempo fa la costruzione dell’Europa è stata in effetti confinata in un settore marginale della lotta politica, come un fiore in una serra, ma ciò non è più possibile perché ormai non c’è fatto politico od economico che non abbia, tra le sue conseguenze, anche quella del rafforzamento della divisione o della unità dell’Europa. Qualunque politica nazionale è ormai anche una politica europea e viceversa. Ne segue che o si progettano insieme la politica nazionale e la politica europea come una sola politica, o di fatto si sceglie, anche se spesso senza saperlo, la peggiore politica europea, quella della divisione. È per questo che la divisione dell’Europa è ridiventata, per la prima volta nel dopoguerra, pericolosamente attiva.
Questo è il senso di ciò che accade e che tutti rilevano. Nella Comunità non ci sono più parità fisse, e non c’è nemmeno alcuna possibilità di tornare alle parità fisse con le attuali politiche nazionali e la attuale politica europea. Il caos monetario europeo mina il mercato agricolo europeo, e rende sempre più fragile l’unione doganale nel settore industriale. In sostanza, abbiamo ancora il Mercato comune, ma per quanto tempo? Farlo sopravvivere diventa sempre più difficile. Ciò che si vede è che la politica monetaria, che era europea con le parità fisse, è ridiventata nazionalistica. Ciò che dovremmo sapere è che conservando le monete nazionali la cosa è inevitabile perché le divergenze di sviluppo — che si manifestano ovviamente fra gli Stati come si manifestano tra le regioni di qualunque Stato (e possono essere corrette solo dal potere politico, che l’Europa non ha ancora) — si riflettono sulla bilancia dei pagamenti provocando la subordinazione dell’orientamento europeo agli orientamenti nazionali e protezionistici. Per questo, da quando la crisi ha colpito in modo diverso i paesi europei, ogni provvedimento — e non solo, come una volta, l’indirizzo politico globale — ha conseguenze dirette e immediate sull’unità o la divisione dell’Europa. Bisogna dunque tener presente che, come siamo vicini al punto nel quale l’unità diventerebbe irreversibile con il rafforzamento del processo costituente e l’intervento diretto del popolo nella politica europea, così siamo anche pericolosamente vicini al punto nel quale potrebbe diventare irreversibile la divisione perché il nazionalismo monetario, se non verrà fermato in tempo, non potrà non estendersi prima al settore dell’economia e poi a quello della politica.
Per ora le due tendenze si bilanciano, con un senso di falsa sicurezza per quanto riguarda la minaccia del nazionalismo, ma ciò non può durare in eterno. O si reagisce subito, preparando bene l’elezione europea e sfruttando la mobilitazione dell’elettorato europeo per ottenere una prima forma di governo europeo e il rilancio dell’Unione economico-monetaria, o prevarrà fatalmente la tendenza nazionalistica perché i problemi non aspettano, e in mancanza di risposte europee bisogna dare risposte sempre più nazionali, avvicinando così il punto nel quale il nazionalismo, prima ancora di aver guastato tutto, avrebbe già vinto. Quanto ho detto sinora mostra che nei fatti è già avvenuta la saldatura fra costruzione (o distruzione) dell’Europa, politica europea e politica nazionale; e da ciò consegue che le scelte di oggi sono tali da determinare il carattere di un intero ciclo storico e non solo la situazione dei prossimi anni. Essendo in gioco l’unità o la divisione dell’Europa, è evidentemente in gioco il destino stesso delle nazioni europee, ed in parte quello di tutti gli Stati del mondo.
Dalla saldatura fra politica nazionale e politica europea consegue anche che l’azione europea dei federalisti, di qualche statista illuminato e di alcuni funzionari intelligenti non basta più. La politica europea dipende ormai da tutte le forze politiche, sociali e culturali attive nella politica nazionale. Sino ad ora queste forze hanno subito, più che fatto, la politica europea. Ma al punto in cui siamo giunti, la passività, il ripetere oggi ciò che si è fatto ieri, coinciderebbero con l’assenza di politica europea, con la pura e semplice politica nazionale, con la rovina. È ormai necessario — e perfettamente possibile con l’elezione europea — che tutte le forze, nell’affrontare i problemi posti dalla crescita culturale della società e dalla crisi di molti aspetti della vita politica ed economica nazionale ed internazionale, sostituiscano gradualmente — a mano a mano che costruiscono l’Europa politica — gli obiettivi nazionali con obiettivi europei. Ogni altra via, non essendo che una variante possibile del ristabilimento del nazionalismo e della divisione, provocherebbe prima una pessima soluzione dei problemi sul tappeto e poi la sconfitta delle forze della libertà, del progresso e della giustizia sociale.
[*] Si tratta della prima parte di una relazione tenuta al Convegno «Le elezioni europee: 1978» (Roma, 20 maggio 1976), promosso dall’Istituto europeo di studi e ricerche, in collaborazione con l’Ufficio italiano delle Comunità. Pubblicato in Il Federalista, XVIII (1976).