Anno LI, 2009, Numero 3, Pagina 213
Riconversione produttiva, occupazione e nuovo modello disviluppo*
LUCIO LEVI
Il problema della disoccupazione nella Comunità ha dimensioni (6 milioni di unità) e caratteristiche (2 milioni di disoccupati sono giovani in cerca di primo impiego), che indicano che ci troviamo di fronte a una crisi profonda, generalmente definita di carattere strutturale.
Non è qui possibile fare un’analisi particolareggiata dei vari fattori, che hanno determinato la crisi dell’ordine politico ed economico internazionale e l’arresto del meccanismo di sviluppo, che hanno garantito ai paesi industrializzati, dopo il periodo della ricostruzione postbellica, una lunga fase di espansione economica, ed hanno assicurato la piena occupazione. Si tratta di stimolare il dibattito. Mi sforzerò quindi di identificare i fattori più generali, per fornire le coordinate entro le quali orientare la discussione.
La crisi è l’espressione del fatto che sono maturate le contraddizioni del sistema politico, economico e sociale, che ha governato il mondo dalla fine della seconda guerra mondiale.
L’ordine mondiale durante la guerra fredda.
La seconda guerra mondiale aveva segnato la fine dell’equilibrio europeo degli Stati, come sistema egemonico mondiale, con le sue dipendenze coloniali e le potenze laterali passive nella politica mondiale, e la fine degli Stati nazionali europei, come fattori attivi della politica internazionale. Questi ultimi, distrutti come centri di potere autonomi e condannati a perdere i loro imperi coloniali, erano degradati a elementi subordinati di un sistema mondiale bipolare dominato dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica.
Malgrado il ruolo imperialistico svolto dalle due superpotenze nei rispettivi blocchi e la subordinazione degli Stati satelliti rispetto alle potenze-guida e proprio a causa della forte tensione internazionale, la fase bipolare della storia del sistema mondiale degli Stati ebbe un carattere evolutivo, in quanto favorì la ricostruzione e lo sviluppo dell’Europa e il processo di decolonizzazione.
A Est ha permesso di estendere il regime fondato sulla proprietà statale dei mezzi di produzione all’Europa orientale e alla Cina, spezzando le strutture economiche e politiche che frenavano lo sviluppo delle forze produttive. E un ulteriore incentivo a tale sviluppo è stato creato dall’integrazione tra i paesi del Comecon.
A Ovest la restaurazione delle costituzioni democratiche e il processo di integrazione europea, scelte politiche sostenute dal governo americano, permisero di avviare il superamento di alcuni degli aspetti più negativi dell’epoca del nazionalismo: si apre una fase storica nel corso della quale in Europa si affermano la pace e la cooperazione internazionale, invece della guerra e dell’imperialismo, l’apertura dei mercati e lo sviluppo economico, invece dell’autarchia e del ristagno economico, la democrazia, invece del fascismo. Inoltre, finché l’egemonia degli Stati Uniti sull’area atlantica, con le sue istituzioni politiche, militari, commerciali e monetarie, fu esercitata in modo incontrastato, ci fu una politica estera comune tra Europa e America, dominata dallo scontro con il blocco comunista, e una politica economica comune, fondata sull’egemonia del dollaro convertibile, sul controllo americano delle fonti di energia e su una divisione internazionale del lavoro, che riservava agli Stati Uniti lo sviluppo della tecnologia di avanguardia e lasciava all’Europa le produzioni tecnologicamente mature.
La stabilità di questo quadro politico internazionale e l’omogeneità degli orientamenti politici dei governi dell’area atlantica assicurò il funzionamento di un regime di parità fisse tra le monete e la liberalizzazione degli scambi, che favorirono un andamento parallelo delle congiunture economiche e consentirono la prodigiosa crescita delle economie occidentali e in particolare dei paesi associati nel processo di integrazione europea.
D’altra parte, a causa della subordinazione dell’Europa alle superpotenze, le forze politiche e sociali che operano all’interno degli Stati nazionali non sono più capaci di scelte autonome. L’assetto mondiale del potere si riflette sugli atteggiamenti delle popolazioni europee e tende a dividerle tra il partito americano e il partito sovietico. In Europa occidentale il movimento dei lavoratori è indebolito dalla divisione tra la frazione filo-americana e quella filo-sovietica, che isola all’opposizione la parte più consistente delle forze del cambiamento e costringe l’intero movimento ad accettare l’egemonia del capitale e un saggio di incremento dei salari inferiore a quello della produttività. D’altra parte, l’egemonia del capitale è assicurata dalla disponibilità di manodopera a basso costo proveniente dall’agricoltura e dall’immigrazione.
Infine, la liquidazione degli imperi coloniali, effetto della decadenza politica dell’Europa, ha permesso di estendere a tutto il mondo, e in particolare al Terzo mondo, l’esigenza dell’indipendenza nazionale e dell’industrializzazione, anche se non ha potuto soddisfarla, perché nel contesto politico dell’equilibrio bipolare tutte le risorse materiali e ideali furono assorbite dalla guerra fredda. L’impegno delle grandi potenze si concentrò soprattutto sull’Europa e gli scarsi aiuti al Terzo mondo furono indirizzati verso le zone di confine (Corea, Medio Oriente, ecc.), dove avveniva lo scontro tra i blocchi ed ebbero prevalentemente carattere militare.
Nel periodo della guerra fredda l’ordine politico ed economico internazionale si fondava su una forte disuguaglianza nei rapporti di potere tra gli Stati, sul saccheggio economico e sull’impoverimento di interi continenti da parte dei paesi ricchi e industrializzati. La divisione internazionale del lavoro assegna infatti ai paesi del Terzo mondo il ruolo di produttori di materie prime, che costituiscono la principale ricchezza di quasi tutti i paesi di quest’area, e di importatori di manufatti dai paesi industrializzati.
l paesi emergenti sono stati così esclusi dal godimento dei benefici dell’impetuosa crescita economica, che aveva interessato quasi esclusivamente i paesi industrializzati ed era stata favorita dalla disponibilità di materie prime a buon mercato.
Le ragioni di scambio di queste ultime si sono infatti costantemente degradate nel corso del dopoguerra. I paesi ricchi hanno costruito dunque il loro benessere sullo sfruttamento dei paesi in via di sviluppo.
Le potenze guida dei due blocchi non potevano restare portatrici di progresso e di una dinamica di trasformazione alle società sottoposte alla loro egemonia oltre la fase della ricostruzione postbellica. Nuovi attori tendevano ad affermare la loro autonomia sulla scena politica internazionale con l’obiettivo di dare un diverso assetto all’ordine politico ed economico internazionale e un diverso orientamento alla politica mondiale.
Distensione e crisi dell’ordine mondiale russo-americano.
La crisi dell’equilibrio bipolare e il processo di formazione di un equilibrio policentrico, che comincia a manifestarsi negli anni ‘60, fa venir meno la rigida disciplina internazionale, che aveva caratterizzato la guerra fredda. È il risultato del rafforzamento della Cina e dei paesi dell’Europa orientale nella sfera di influenza sovietica, dei paesi dell’Europa occidentale e del Giappone nella sfera egemonica americana e del risveglio politico dei paesi del Terzo mondo. La crisi è la conseguenza del carattere evolutivo della prima fase della storia del sistema mondiale degli Stati, che aveva stimolato lo sviluppo delle forze produttive soprattutto in seno ai due blocchi antagonistici e aveva finito col rafforzare gli Stati satelliti, alterando cosi la distribuzione del potere politico nel mondo.
Nel nuovo contesto politico internazionale la crisi matura su tre fronti: il primo fronte si apre per effetto del rafforzamento dei paesi del Terzo mondo nei confronti dei paesi industrializzati, il secondo fronte si apre per effetto del rafforzamento dell’Europa (e del Giappone) rispetto agli Stati Uniti, il terzo fronte si apre all’interno dei paesi del blocco occidentale per effetto del rafforzamento del movimento dei lavoratori. Sono questi gli elementi nuovi di uno scontro di dimensioni mondiali, che ha per oggetto una diversa distribuzione del potere e delle risorse tra i popoli e tra le classi.
In altri termini, sui tre fronti, sui quali si svolge lo scontro, si afferma l’aspirazione a un nuovo modello di sviluppo, fondato su rapporti sociali e internazionali più giusti, che permetta alle classi subalterne e ai popoli oppressi di ridurre le ineguaglianze e di prendere in mano il loro destino. Che questa aspirazione si sia potuta imporre dipende dalla modifica dell’equilibrio internazionale a vantaggio delle forze nuove che si fanno strada negli spazi lasciati aperti dalla decomposizione del sistema bipolare.
Il rafforzamento del Terzo mondo.
Il clima internazionale della distensione ha aperto un nuovo spazio alle aspirazioni di autonomia dei popoli usciti dalla dominazione coloniale nei confronti dei paesi più ricchi, nella prospettiva di una ridistribuzione mondiale della ricchezza, fondata sulla industrializzazione del Terzo mondo.
L’aspetto più significativo del rafforzamento del Terzo mondo è rappresentato dalla modifica, a partire dal 1968, delle ragioni di scambio dei paesi produttori di materie prime (soprattutto quelli che, per accrescere il loro potere negoziale, sono riusciti ad associarsi, come i paesi produttori di petrolio o di rame) nei confronti dei paesi industrializzati.
I limiti del sistema internazionale che ha governato il mondo nel secondo dopoguerra, sono emersi in piena luce alla fine del 1973, quando l’azione dei paesi dell’O.P.E.C. ha determinato l’aumento di quattro volte del prezzo del petrolio.
Il successo dell’unione dei paesi produttori di petrolio segna la conclusione definitiva di una fase dello sviluppo economico mondiale, fondata sull’utilizzazione di materie prime e di fonti di energia a basso costo. La crisi petrolifera ha colpito i paesi industrializzati e soprattutto quelli privi di risorse energetiche, come gli Stati della Comunità europea, aggravando le spinte recessive e inflazionistiche. Questo primo importante risultato nella lotta di alcuni paesi del Terzo mondo per ottenere una ripartizione più giusta delle risorse mondiali ha modificato i rapporti di potere tra paesi industrializzati e paesi sottosviluppati. Il potere negoziale del Terzo mondo nel suo complesso si è rafforzato, anche se la crisi energetica ha colpito in modo particolarmente severo i paesi in via di sviluppo non produttori di materie prime, per definire i quali è stata creata giustamente la nuova espressione di «Quarto mondo». Ma c’è un altro fatto nuovo: lo sviluppo di alcuni paesi del Terzo mondo sta mettendo in discussione la tradizionale divisione internazionale del lavoro. In alcuni settori dell’industria manifatturiera tessile, dell’abbigliamento, del legno, delle apparecchiature elettriche si sta infatti affermando la competitività dei prodotti provenienti da quest’area sui mercati dei paesi industrializzati.
Il rafforzamento dell’Europa.
D’altra parte, in seno al blocco occidentale, i paesi che avevano promosso il processo di integrazione europea hanno costituito una potenza economica che esercita un’influenza autonoma sul mercato mondiale. Così lo sviluppo economico-sociale ha permesso al Giappone di acquisire il ruolo di potenza economica mondiale, ma non di potenza politica e militare.
L’Europa è l’epicentro della crisi del sistema di potere che ha governato il mondo nel secondo dopoguerra. L’aumento della competitività dell’economia europea (fin dalla sua costituzione la Comunità europea è diventata il principale polo commerciale del mondo) e di quella giapponese mette in discussione l’egemonia del dollaro e dell’economia americana sul mondo occidentale, determinando la crisi del sistema monetario e del sistema degli scambi internazionali, che avevano garantito l’espansione produttiva del dopoguerra, e in particolare la crisi dei rapporti tra Europa e Stati Uniti.
Fino all’attuazione dell’unione doganale (1968), la politica comune dei paesi europei si riduceva quasi esclusivamente a provvedimenti di carattere «negativo» relativi alle varie tappe della eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, dei capitali e della manodopera. Ma quando si è trattato di passare a provvedimenti di carattere «positivo», cioè all’attuazione di politiche comuni, necessarie ad affrontare le distorsioni e gli squilibri determinati dallo sviluppo dell’integrazione europea (programmazione economica e unificazione monetaria) e a far partecipare l’Europa alla formazione di un nuovo assetto politico e di un nuovo sviluppo economico mondiale, che permettesse di soddisfare i bisogni crescenti delle popolazioni dei paesi emergenti, di stabilire un rapporto di uguaglianza tra Europa, Stati Uniti e Unione Sovietica e di attuare una crescita economica dell’Europa non subalterna degli Stati Uniti, si è fatta sentire la debolezza e l’inefficienza delle strutture comunitarie. Allora è risultato evidente che senza progressi sul terreno politico, cioè senza il trasferimento dei poteri relativi a tali politiche a livello europeo, non è possibile sviluppare l’integrazione né affermare pienamente l’autonomia internazionale dell’Europa.
La crisi dell’integrazione europea dimostra non solo che i progressi sul piano economico non provocano progressi corrispondenti sul piano politico, ma anche che l’unificazione economica non può giungere a compimento senza un governo europeo.
I limiti della Comunità si sono manifestati in modo particolarmente grave sul piano monetario. In effetti, la Comunità non è stata in grado di assumere le responsabilità politiche ed economiche corrispondenti al ruolo di prima potenza commerciale del mondo. I Nove hanno accumulato una grande quantità di riserve monetarie, con la conseguenza di indebolire progressivamente il dollaro, ma non hanno creato una moneta europea capace di assumere il ruolo di moneta di riserva internazionale. Così, nel 1971, gli Stati Uniti hanno preso la decisione di sospendere la convertibilità del dollaro in oro, che ha inaugurato la fase della fluttuazione delle monete, accompagnata da un crescente disordine sul mercato mondiale e da sempre più forti spinte protezionistiche. La Comunità, con la sua forza sul piano commerciale e la sua divisione sul piano monetario, è dunque la principale responsabile del disordine economico internazionale.
Il fatto nuovo che minaccia la coesione della Comunità è l’instabilità dei mercati dei cambi. La fluttuazione delle monete ha fatto venir meno quel regime di parità fisse, che aveva reso possibile la convergenza delle politiche economiche dei paesi del blocco occidentale e lo straordinario sviluppo degli scambi internazionali nel dopoguerra e che aveva contribuito quindi in modo determinante al successo del Mercato comune. Essa non solo ha messo in discussione il funzionamento del mercato agricolo comune, che si fonda su prezzi fissati in unità di conto, ma ha colpito la stessa unione doganale, rendendo incerte le condizioni del commercio internazionale e ripristinando, in conseguenza delle frequenti svalutazioni e rivalutazioni delle monete, discriminazioni nella libera circolazione delle merci.
D’altra parte, la crisi energetica ha accentuato l’andamento divergente dello sviluppo dei paesi dell’Europa occidentale e la tendenza al nazionalismo economico. Si è aperto così un circolo vizioso, che rischia di far cadere ogni Stato nella tentazione di fronteggiare la crisi nel solo ambito nazionale e di spingere ogni Stato al protezionismo, alla guerra commerciale, insomma al disordine internazionale, nel quale i più forti rovesciano sui più deboli il costo della crisi. Il denominatore comune di questi fenomeni è la tendenza delle forze del nazionalismo a riprendere il sopravvento e della Comunità europea a disgregarsi.
La fluttuazione dei cambi rappresenta, insieme al rincaro delle materie prime, il fattore internazionale dell’inflazione. Infatti, l’incertezza nella quale si svolgono le transazioni commerciali internazionali in un regime di cambi flessibili spinge i prezzi verso l’alto. D’altra parte, la fluttuazione delle monete ha determinato un’involuzione generale dell’economia in senso protezionistico. Si è cercato di isolare le singole economie nazionali dalle influenze esterne e di rovesciare sui vicini inflazione e disoccupazione. Ne è derivata una drastica riduzione del volume del commercio mondiale con rovinose conseguenze per quanto riguarda lo sviluppo della produzione e i livelli dell’occupazione.
Crisi del modello di sviluppo consumistico e rafforzamento del movimento dei lavoratori.
Nello stesso tempo è entrato in crisi il modello di sviluppo consumistico, ispirato all’idea di una crescita economica di carattere quantitativo della produzione, dei redditi e dei consumi continua e illimitata.
Mentre nella prima fase dell’industrializzazione la crescita dei consumi era un’esigenza contraddittoria con lo sviluppo della produzione, perché il processo di accumulazione richiedeva la compressione dei consumi, quando la società industriale raggiunge la maturità, lo sviluppo economico può avvenire a condizione di accrescere i consumi delle masse con la politica, teorizzata da Keynes, di espansione del potere di acquisto dei lavoratori.
Questo meccanismo di sviluppo, se ha garantito l’elevamento del tenore di vita dei lavoratori, tuttavia ha interessato soltanto i gruppi sociali, le regioni e i settori produttivi coinvolti nella corrente più profonda dello sviluppo. Ha determinato grossi squilibri sociali, ha distrutto l’ambiente urbano e naturale, ha causato enormi sprechi di risorse in spregio alla povertà dei paesi in via di sviluppo e ha dato origine a forme di vita anonime e degradate. Queste distorsioni della società industriale si sono manifestate in modo particolarmente acuto nella Comunità europea, a causa della mancanza di un governo in grado di dirigere il processo di integrazione. Gli stessi meccanismi, che in Europa hanno favorito la poderosa crescita del Mercato comune, hanno stimolato la formazione di imprese di dimensioni gigantesche, spesso a carattere multinazionale, che hanno potuto determinare, senza controlli politici e sindacali, la direzione dello sviluppo economico. Si è trattato di uno sviluppo anarchico, caratterizzato da profonde distorsioni: la congestione urbana e industriale in poche aree sviluppate (dove l’insufficienza degli investimenti sociali e delle infrastrutture ha fatto esplodere nuovi gravi problemi, come quello della casa, dei trasporti, della sanità, dell’inquinamento, della degradazione dell’ambiente ecc.), l’aggravamento del sottosviluppo di vaste aree periferiche del Mercato comune, la decadenza economica di intere regioni anche nei settori tradizionalmente produttivi, l’emigrazione forzata e lo sradicamento sociale di milioni di lavoratori. Ma i confini, che questo meccanismo di sviluppo non può superare, non sono fissati soltanto dai guasti che ha provocato e dai nuovi problemi che ha creato, che esigono un nuovo modo di produrre, di accumulare e di consumare.
Il fatto è che l’espansione dei consumi individuali ha un limite. Con l’aumento del reddito individuale (e una più giusta distribuzione del reddito) e con il conseguente soddisfacimento dei bisogni elementari, nuovi bisogni, relativi al miglioramento della qualità della vita tendono ad affermarsi. Così non può meravigliare che in società che hanno raggiunto questo livello di sviluppo, il lavoro manuale, ripetitivo e alienante della linea di montaggio venga rifiutato sempre più frequentemente.
Ma l’arresto del meccanismo di sviluppo avviene in connessione con un fenomeno nuovo: il rafforzamento delle organizzazioni dei lavoratori, che hanno mutato il rapporto tra salari e profitti. Si tratta di un fenomeno che affonda le proprie radici nello sviluppo della società industriale e nel successo della lotta del movimento operaio, ma che dipende anche dai mutamenti intervenuti nel contesto internazionale in seguito all’affermazione della distensione, che ha favorito nell’Europa occidentale la convergenza tra le forze della sinistra filo-americane e filo-sovietiche e ha reso possibili programmi comuni fra i partiti di sinistra, l’unità di azione fra i sindacati e, in Italia, ha aperto la prospettiva dell’unificazione sindacale.
Nello stesso tempo, il relativo indebolimento del controllo degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica sull’Europa ha costituito il presupposto di più larghi margini di manovra delle forze politiche e sociali europee rispetto all’influenza delle potenze-guida e del loro tentativo di elaborare una politica autonoma e su linee convergenti sul terreno europeo. Con lo sviluppo della distensione internazionale, nei paesi della Comunità europea si sono intensificate le spinte unitarie a livello europeo tanto dei partiti quanto dei sindacati dei lavoratori e si è generalizzata l’aspirazione a un modello di società diverso da quella sovietica e da quella americana, entrambe caratterizzate, sebbene in modi diversi, da intollerabili forme di oppressione, ma che sia nello stesso tempo capace di conciliarne gli aspetti positivi, cioè la giustizia sociale e la libertà individuale, il piano e il mercato.
I meccanismi tradizionali della vita economica sono cambiati profondamente. Lo sviluppo della grande impresa oligopolistica e del sindacato e l’intervento attivo dello Stato nella vita economica hanno determinato la crisi del sistema di mercato. Al potere delle grandi imprese di fissare i prezzi, corrisponde quello dei sindacati di controllare il livello dei salari, mentre i governi intervengono per riequilibrare le spinte corporative dei gruppi di pressione, ma non si sono ancora dimostrati capaci di controllare efficacemente la spirale ascendente dei prezzi e dei salari, la causa fondamentale dell’inflazione. D’altra parte, l’aumento dei prezzi e l’indebolimento del potere di acquisto dei consumatori (soprattutto di quelli che non sono difesi dal potere contrattuale dei sindacati) si ripercuote negativamente sulla produzione e sull’occupazione. Così si crea una situazione nella quale coesistono inflazione e disoccupazione.
La disoccupazione colpisce particolarmente i giovani perché il movimento sindacale ha acquisito una forza tale da riuscire a limitare i licenziamenti di massa, a differenza di quanto era avvenuto durante la crisi del ‘29. Di conseguenza, la disoccupazione, limitata sul versante dei licenziamenti, si manifesta prevalentemente sul versante delle mancate assunzioni. Nello stesso tempo, una parte della disoccupazione giovanile ha origine nel rifiuto delle occupazioni a carattere manuale e ripetitivo, tanto nella fabbrica, quanto negli uffici, richieste dal mercato del lavoro.
Da questo quadro risulta che la crisi ha natura strutturale. Per risolverla non esistono dunque rimedi di carattere immediato. Si tratta infatti di individuare le condizioni per avviare un nuovo meccanismo di sviluppo e per definire un nuovo ordine politico ed economico internazionale.
Una nuova divisione internazionale del lavoro, per rilanciare la espansione della produzione e assorbire la disoccupazione.
La condizione fondamentale per assorbire la disoccupazione risiede nella possibilità di individuare le condizioni per avviare la ripresa economica e una nuova fase di espansione della produzione. All’interno dei paesi industrializzati si è ormai esaurito il ciclo della politica keynesiana, che fondava lo sviluppo economico sull’espansione generale del consumo, sostenuta da alti livelli salariali. La possibilità di aprire un nuovo e duraturo ciclo di espansione produttiva dipenderà dalla capacità, che i paesi industrializzati sapranno dimostrare, di attivare la domanda potenziale esistente nei paesi del Terzo mondo. Per raggiungere questo obiettivo, occorre elaborare un piano di sviluppo che associ i paesi sviluppati allo sforzo di industrializzazione del Terzo mondo e, nello stesso tempo, affronti il problema della ridefinizione della divisione internazionale del lavoro, in modo da consentire l’inserimento dei paesi in via di sviluppo nel mercato mondiale dei prodotti industriali. Occorrerà dunque destinare una parte del bilancio dei paesi industrializzati ai paesi del Terzo mondo, sulla base di un piano organico per lo sviluppo, di cui, per certi aspetti, il piano Marshall rappresenta il precedente storico. I sacrifici relativi saranno accettati dalle popolazioni dei paesi ricchi a condizione che emerga chiaramente che la rivoluzione industriale nel Terzo mondo costituisce il presupposto della ripresa economica nel mondo già sviluppato. Ma, stante la divisione del mondo in Stati sovrani, sarà difficile anche per il governo europeo oltrepassare la quota dell’1% del prodotto interno lordo, auspicata dall’O.N.U. Bisognerà dunque progettare un piano di riconversione della produzione, che permetta di conciliare le esigenze di sviluppo del Terzo mondo con quelle dell’Europa, nella prospettiva di una nuova divisione internazionale del lavoro.
Va rilevato che il successo dell’industrializzazione nel Terzo mondo dipenderà dalla capacità dei piani di sviluppo di modernizzare l’agricoltura, attivando così la domanda delle popolazioni rurali, che rappresentano il 70% della popolazione totale di questa area. Nello stesso tempo, i paesi industrializzati dovranno rinunciare a favore dei paesi in via di sviluppo alla produzione di beni a basso contenuto tecnologico, trasferendo i fattori della produzione dai settori in declino a quelli che offrono prospettive di sviluppo e affermando il modo di produzione post-industriale. L’industrializzazione del Terzo mondo aprirà però nei paesi sviluppati prospettive di esportazione di tecnologia, di impianti e di beni di consumo e permetterà una razionalizzazione dei settori a contenuto tecnologico tradizionale oggi in crisi, come la siderurgia, la chimica primaria, le costruzioni, ecc.
Del resto, la tendenza a una nuova divisione internazionale del lavoro è già in atto, come dimostra l’affermazione della competitività di alcuni settori dell’industria manifatturiera del Terzo mondo sui mercati dei paesi industrializzati a cui abbiamo fatto cenno. Si tratta di una tendenza destinata ad affermarsi progressivamente, che i paesi industrializzati possono soltanto favorire od ostacolare a seconda degli orientamenti che daranno alla loro politica industriale.
La soluzione più facile, ma rovinosa nel lungo periodo, è la scelta di politiche protezionistiche e «assistenziali», attraverso l’erogazione di pubblico denaro o la concessione di crediti a favore di imprese non competitive sul mercato internazionale. È chiaro che si tratta di una scelta contro lo sviluppo del Terzo mondo, ma anche contro lo sviluppo dell’Europa.
Una nuova fase di espansione economica, capace di assorbire la disoccupazione, non potrà fondarsi sull’industria manifatturiera, che sta perdendo nei paesi industrializzati il carattere di settore trainante. Nei paesi più sviluppati si manifesta infatti una tendenza costante e uniforme a spostare l’occupazione dall’industria ai servizi, in conseguenza della estensione dell’automazione. L’alternativa alla scelta protezionistica dei paesi della Comunità europea, che comporterebbe un sostegno ai settori produttivi stagnanti o in declino, per renderli competitivi con le industrie nascenti del Terzo mondo, consiste nel tentativo di competere a condizioni di parità con i paesi più sviluppati sul terreno delle produzioni tecnologicamente più avanzate (informatica, elettronica, nucleare, aero-spaziale, ecc.).
Un nuovo ciclo di espansione della produzione esige dunque che si affrontino contemporaneamente i problemi della rivoluzione industriale nel Terzo mondo e quelli della rivoluzione scientifica nei paesi industrializzati e, in particolare, nella Comunità europea.
Rivoluzione scientifica e nuovo modello di sviluppo.
Dopo la seconda guerra mondiale nelle società industriali che hanno una base territoriale di dimensioni continentali (come gli Stati Uniti e, in parte, la Comunità europea) comincia a manifestarsi una profonda trasformazione del sistema produttivo, una vera e propria svolta nell’evoluzione del modo di produrre, la rivoluzione scientifica, che tende a sostituire al lavoro vivo il lavoro delle macchine, attraverso la rapida estensione a settori produttivi sempre più numerosi dell’automazione.
Di conseguenza, il ruolo del lavoro umano cambia natura: il lavoro manuale, ripetitivo, frammentario, tende a diventare marginale e sparirà gradualmente nella misura in cui si affermerà l’automazione. Parallelamente cambia anche la composizione della società. Come la rivoluzione industriale ha determinato lo spostamento di grandi masse di lavoratori dall’agricoltura all’industria, così la rivoluzione scientifica sta espandendo il settore terziario e soprattutto i ruoli sociali collegati alla scoperta, all’utilizzazione e alla diffusione di conoscenze scientifiche.
Il lavoro scientifico sta diventando nei paesi più sviluppati la principale forza produttiva. Di conseguenza, lo sviluppo della produzione avviene ormai a condizione che cambi la qualità del lavoro umano, si sopprima l’inversione tra soggetto e oggetto tipica della società industriale, che fa del lavoratore un’appendice della macchina e si sviluppi l’autonomia, la responsabilità, l’iniziativa e la creatività dell’individuo. Con la tendenza alla trasformazione degli operai in tecnici sta cadendo uno dei principali fattori della discriminazione sociale: la separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Da una parte, con lo sviluppo della rivoluzione scientifica, il lavoro manuale diventa sempre più un ostacolo alla piena utilizzazione delle risorse umane. D’altra parte, l’estensione dell’automazione permette di ridurre il lavoro necessario alla riproduzione fisica dell’individuo e contemporaneamente di aumentare l’abbondanza dei beni materiali e, al limite, di liberarsi dalla legge della scarsità.
Dove lo sviluppo delle forze produttive è stato più intenso, la vita della grande maggioranza della popolazione sta perdendo il carattere di semplice riproduzione della forza-lavoro, grazie alla saturazione dei fondamentali bisogni materiali, all’aumento del tempo libero e allo sviluppo dell’istruzione.
Il superamento degli ostacoli più gravi che si opponevano alla emancipazione della classe operaia, in quanto classe oppressa, apre una nuova fase storica, il cui problema centrale è quello della liberazione dell’individuo. Si tratta, in altri termini, del problema della creazione di una democrazia effettiva, la quale, attraverso la partecipazione alle decisioni che riguardano la vita collettiva, dal livello minimo (l’autogestione nelle fabbriche e negli uffici e la democrazia diretta nelle comunità territoriali più piccole) al massimo (la pianificazione), permetta all’individuo di liberarsi dagli apparati burocratici, militari e industriali che lo dominano e gli consenta di acquisire la propria autonomia.
Il controllo dei lavoratori sulla produzione è un obiettivo di portata storica. La pianificazione democratica è lo strumento che permette a questo controllo di tradursi progressivamente nei fatti e potrà dirsi pienamente realizzato solo quando i lavoratori avranno preso nelle loro mani la direzione del processo produttivo. Finché la società era divisa da profondi antagonismi di classe, la linea di sviluppo della società era il risultato dei rapporti di forza tra gli individui, cioè qualcosa che nessuno aveva voluto. Oggi, che la lotta di classe è in via di superamento, si può pensare di sottoporre alla volontà umana lo sviluppo storico-sociale, si può pensare cioè di organizzare il governo della società sulla base di un piano democratico.
Il punto di partenza di questa nuova fase storica sta nella possibilità e nella necessità, avvertite acutamente in questi ultimi anni, che i governi dirigano il negoziato tra le parti sociali, in modo da giungere a un accordo (il «patto sociale»), che garantisca la stabilità dei prezzi e la ripresa dello sviluppo, conciliando le rispettive esigenze del mantenimento dei margini di profitto degli imprenditori e di salari che assicurino ai lavoratori il soddisfacimento dei loro bisogni fondamentali. Da una parte, la forza che hanno acquisito le organizzazioni dei lavoratori non dovrà più essere impiegata per aumentare i consumi individuali (i salari dovranno, in linea di massima, aumentare proporzionalmente al costo della vita), ma per orientare la direzione, le modalità e la localizzazione del processo produttivo. D’altra parte, le organizzazioni padronali dovranno impegnarsi a evitare qualsiasi aumento dei prezzi, che non sia giustificato da un effettivo rincaro dei costi di produzione. Orbene, il piano permette di collocare le esigenze avanzate dalle organizzazioni economiche e sociali in un disegno complessivo, in modo da offrire alla condotta di ogni gruppo sociale un preciso punto di riferimento, che definisca gli obiettivi dello sviluppo della società, ordinandoli secondo una scala di priorità e in un quadro di compatibilità.
Così, la cogestione è l’istituzione che corrisponde alla fase attuale dell’evoluzione storica dei rapporti di forza tra capitale e lavoro. In quanto apre ai lavoratori la possibilità di partecipare al controllo delle scelte aziendali, lungi dall’essere uno strumento per integrare il movimento dei lavoratori nel sistema capitalistico, deve essere interpretata nel complesso come una tappa sulla via dell’autogestione. Questo obiettivo è diventato infatti storicamente perseguibile nella prospettiva del superamento del lavoro manuale eterodiretto e della generalizzazione del lavoro libero e creativo, possibili in conseguenza della rivoluzione scientifica.
Il problema di fronte al quale si trovano i paesi industrializzati e, in particolare, la Comunità europea, è quello di un nuovo modello di sviluppo, che cambi l’ordine di priorità degli investimenti e dei consumi, ponendo l’accento sui consumi collettivi e sui servizi sociali, cioè sul miglioramento della qualità della vita, che elimini gli sprechi, che affronti il problema degli squilibri regionali e che crei una società più giusta e più umana. Nello stesso tempo, si impone il trasferimento, nella misura più ampia possibile, della gestione dei servizi sociali agli enti locali, per farli aderire ai bisogni degli individui e delle comunità territoriali nelle quali essi sono organizzati, superando l’inefficienza e l’uniformità delle prestazioni offerte dalle burocrazie statali.
Unione economica e monetaria europea e riconversione produttiva.
Un piano di riconversione produttiva, che consenta di sviluppare la rivoluzione scientifica, non si può realizzare senza che se ne creino le premesse istituzionali: un governo europeo e l’unione economica e monetaria. Lo sviluppo della tecnica di avanguardia nei settori dell’elettronica, dell’informatica, dell’industria nucleare e di quella aero-spaziale esigono mezzi, che non è possibile reperire sulla base della sola accumulazione privata o anche del finanziamento o dell’intervento pubblico di ciascun governo nazionale. D’altra parte, la cooperazione internazionale tra imprese e tra governi nei settori produttivi tecnologicamente avanzati (per consentire una «massa critica» di finanziamenti, per ripartire il rischio, per assicurare una dimensione adeguata al mercato e per competere con le economie più sviluppate, come quella statunitense e quella giapponese) ha dato risultati deludenti. Accordi multilaterali sono stati stipulati per il Concorde e l’Airbus, nel settore aeronautico, per l’Eurodif e l’Urenco, nel settore energetico, per l’Esro nel settore spaziale, per l’Unidata nel settore dell’elettronica.
Le ragioni della scarsa funzionalità di queste iniziative sono riconducibili al carattere «confederale» dell’approccio, fondato sul tornaconto in termini di rafforzamento delle strutture produttive nazionali, che elude il grande problema del salto di qualità verso una struttura produttiva europea. Questa esigenza, determinata dall’integrazione del mercato comunitario, tarda ad affermarsi per la mancanza da parte della C.E.E. degli strumenti del credito, dei sussidi, delle esenzioni fiscali, delle commesse. Il ritardo tecnologico dell’Europa è destinato, quindi, ad allargarsi in assenza di una politica industriale europea. Le nuove iniziative hanno bisogno di alta intensità di capitale, fonti stabili di approvvigionamento di materie prime, organizzazione e mercato sovrannazionale, che possono essere assicurate solo da un nuovo assetto istituzionale europeo. In particolare il settore sul quale dovranno concentrarsi gli sforzi del governo europeo, intesi a sviluppare il modo di produzione post-industriale, sarà quello della ricerca scientifica, soprattutto nel campo energetico, per rendere possibile al più presto l’utilizzazione di fonti energetiche alternative a quelle tradizionali, le quali non solo sono inadeguate a soddisfare i bisogni dei paesi industrializzati, ma sono in gran parte in via di esaurimento. La disponibilità di risorse energetiche abbondanti e a basso costo rappresenta infatti la condizione dello sviluppo dell’automazione. D’altra parte, senza un governo europeo, le società multinazionali continueranno a sottrarsi ai controlli dei pubblici poteri e delle organizzazioni sindacali. Mentre la riconversione produttiva richiede che le forze, che finora hanno determinato uno sviluppo squilibrato e distorto ormai insostenibile, siano sottoposte alla disciplina di una programmazione democratica europea.
Ma la Comunità europea dovrà affrontare i problemi del sottosviluppo, che pure esistono sul suo territorio. Il piano di sviluppo della Comunità dovrà, in primo luogo, coinvolgere i paesi e le regioni arretrate che si trovano nella Comunità, come il Mezzogiorno italiano e l’Irlanda, i paesi dell’Europa meridionale (Grecia, Spagna e Portogallo), che hanno chiesto di aderire alla Comunità e gli altri paesi di quest’area che, in prospettiva, potranno aggiungersi. L’allargamento tende a trasformare la Comunità da un insieme di paesi ricchi con un livello di sviluppo relativamente omogeneo in un’unione tra paesi con forti dislivelli economici e sociali. La Comunità dovrà affrontare una politica di sviluppo, che avvii il superamento degli squilibri regionali, attraverso trasferimenti di risorse dalle regioni e dai paesi più ricchi alle regioni e ai paesi più arretrati, invertendo così la tendenza attuale all’emarginazione delle regioni periferiche e alla congestione dell’area centrale del Mercato comune. In questa prospettiva, occorrerà elevare la dimensione del bilancio comunitario al 2,5% del prodotto europeo lordo, che, secondo il Rapporto MacDougall, sarebbe necessario per realizzare una politica economica europea capace di avviare uno sviluppo equilibrato dell’Europa e, più in generale, per rafforzare le politiche comuni.
Com’è noto, questo aumento del bilancio comunitario consentirebbe, secondo il Rapporto MacDougall, di istituire un fondo europeo per la disoccupazione, alimentato da una parte dai contributi dei lavoratori, che affluiscono alla Comunità, la quale a sua volta erogherebbe una parte dei sussidi direttamente ai lavoratori. Ma lo strumento determinante che, con l’espansione della produzione, potrà garantire l’occupazione è la riduzione dell’orario di lavoro. Essa rappresenta un obiettivo perseguibile nella prospettiva dello sviluppo dell’automazione e un aspetto fondamentale della società post-industriale, che, con l’espansione del tempo libero, crea le condizioni per la liberazione dalla schiavitù del lavoro e lo sviluppo integrale delle capacità creative dell’uomo. La riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore settimanali, contenuto nel programma elaborato dal Partito socialdemocratico tedesco in vista dell’elezione europea, deve essere perseguita sul piano europeo. Infatti, se i sindacati di un paese della Comunità ottengono obiettivi troppo avanzati rispetto a quelli degli altri paesi, la competitività del Paese dove il sindacato è più forte rischia di essere seriamente pregiudicata. Il fatto che l’Unione dei partiti socialisti della Comunità europea abbia recepito questo obiettivo rappresenta un primo importante passo per trasformarlo in un obiettivo europeo.
Infine, la definizione di una nuova divisione internazionale del lavoro esige la presenza attiva sul piano internazionale di un governo europeo, in grado di trattare a condizioni di parità con le altre aree economiche. Nello stesso tempo, solo la creazione della moneta europea consentirà di realizzare un piano di prestiti e di finanziamenti a lungo termine necessari ad avviare la rivoluzione industriale nel Terzo mondo e di spingere la cooperazione tra la Comunità e i paesi in via di sviluppo al di là dei limiti degli accordi di Lomé.
Dimensione mondiale del problema della riconversione e ruolo dell’Europa.
L’Europa rappresenta il terreno decisivo per avviare un nuovo ciclo nella politica mondiale, che permetta di riorganizzare l’ordine economico internazionale e di definire un nuovo modello di sviluppo. Bisogna infatti considerare che la dipendenza dei paesi della Comunità europea dal commercio estero (la Comunità è il primo polo commerciale del mondo) è molto superiore a quella degli U.S.A. e dell’U.R.S.S. Entrambi questi paesi sono infatti molto più autosufficienti dell’Europa per quanto riguarda l’approvvigionamento di materie prime e meno aperti al commercio mondiale. In particolare, il mercato europeo rappresenta il principale sbocco (circa il 40%) dell’esportazione dei paesi del Terzo mondo. La struttura dell’economia europea ha dunque caratteristiche, che favoriscono una collaborazione sempre più stretta con questi paesi e rappresenta la base per sviluppare questo rapporto. Non è quindi un caso che il problema della riconversione produttiva, sotto la pressione della crisi, sia al centro del dibattito politico in Europa. Questo dibattito ha messo in luce che il problema di fondo, che si pone in modo sempre più esplicito, senza però che siano stati identificati gli strumenti per affrontarlo efficacemente, è quello di sottrarre la determinazione degli obiettivi di lungo periodo dello sviluppo economico-sociale al libero gioco delle forze del mercato e ai rapporti di forza tra gli Stati e di sottoporla ad un piano razionale.
Questo obiettivo corrisponde alla necessità di evitare la distruzione, possibile nell’attuale fase dello sviluppo tecnologico al quale è giunta l’umanità, delle condizioni che hanno assicurato lo sviluppo della civiltà. In effetti, il progresso tecnico ha suscitato forze cieche che sfuggono al controllo politico. Da un lato, le armi nucleari costituiscono una minaccia di distruzione fisica dell’umanità, d’altro lato, all’esplosione demografica, dovuta alla diffusione delle conoscenze che hanno consentito di ridurre dovunque il tasso di mortalità, non corrisponde una produzione sufficiente a soddisfare i bisogni elementari della popolazione dei paesi in via di sviluppo, infine, lo sviluppo caotico e irrazionale della industrializzazione minaccia di distruzione l’ambiente urbano e naturale, che ha rappresentato la cornice di tutte le attività umane e di uno sviluppo sociale equilibrato. Per affrontare questi problemi non è sufficiente individuare una nuova politica: occorrono nuove strutture politiche per poter realizzare una nuova politica. Il principio nazionale, che costituisce tuttora il fondamento dell’organizzazione politica del genere umano, si rivela infatti sempre più inadeguato al compito di tenere a freno e di governare le forze distruttive suscitate dalla crisi dell’ordine politico ed economico internazionale. La divisione del genere umano in Stati sovrani perpetua l’ineguale distribuzione del potere e della ricchezza tra i popoli e impedisce un governo razionale del mondo.
Lo sviluppo della rivoluzione industriale ha determinato la estensione delle relazioni di produzione e di scambio al di là dei confini degli Stati, ha fatto uscire progressivamente le singole società, nelle quali è diviso il genere umano, dal loro originario isolamento, ha reso il mondo sempre più strettamente interdipendente nelle sue parti. Si è formato così un sistema economico-sociale di dimensioni mondiali, il mercato mondiale, dal quale dipendono tutti gli uomini e tutti i popoli per il soddisfacimento dei loro bisogni.
Queste considerazioni permettono di affermare che la realizzazione di un nuovo modello di sviluppo, che permetta di uscire dalla crisi, ha dimensioni mondiali. Non sono quindi in grado di affrontarlo nella sua globalità tutti i progetti che propongono soluzioni limitate al solo campo statale nazionale. Il presupposto istituzionale per sottoporre ad un controllo razionale lo sviluppo delle forze produttive è la creazione di un governo federale mondiale. Ma è evidente che nella società contemporanea non sono ancora maturate le condizioni storico-sociali per perseguire questo obiettivo. È però possibile, e necessario, identificare il terreno di una iniziativa in questa direzione e le tappe di una marcia di avvicinamento a quell’obiettivo. L’unità politica europea, che non è più un’utopia, ma un obiettivo concretamente realizzabile dopo le decisioni relative all’elezione a suffragio universale del Parlamento europeo e al Sistema monetario europeo, potrà contribuire alla formazione di un equilibrio mondiale più evolutivo.
Come il potere di dimensione continentale della Cina indica la sola via per combattere con successo l’imperialismo delle grandi potenze, avviare la formazione di un ordine internazionale più pacifico, aperto e flessibile e costruire un modello di socialismo autonomo rispetto a quello sovietico, così la Federazione europea potrebbe contribuire in modo più sostanziale, grazie al suo elevato sviluppo industriale, a spezzare il governo mondiale russo-americano, ad instaurare un equilibrio policentrico, necessario allo sviluppo ordinato delle relazioni politiche ed economiche internazionali, ad aprire nuove possibilità di sviluppo e una maggiore libertà di azione ai paesi del Terzo mondo, oggi condannati allo sfruttamento dall’egoismo delle super-potenze, e a dare al mondo il primo esempio del superamento pacifico di nazioni storicamente consolidate. L’equilibrio policentrico è infatti più pacifico e flessibile di quello bipolare, perché, a differenza di quest’ultimo, le modificazioni dei rapporti di potere tra le grandi potenze in qualsiasi punto del sistema non si ripercuotono in modo diretto ed immediato sull’intero sistema. D’altra parte, l’equilibrio di un sistema a più poli è garantito dal fatto che è praticamente impossibile che una potenza diventi più forte della coalizione di tutte le altre. Per questo motivo, nel Terzo mondo si è creata una forte aspettativa per lo sviluppo dell’unificazione europea, che potrebbe favorire l’attenuazione delle tensioni fra le due potenze e la soluzione negoziata dei conflitti. Nello stesso tempo, la distensione, che la nascita del polo europeo nel sistema politico mondiale tenderà a consolidare, determinerà un cambiamento nella qualità degli aiuti ai paesi sottosviluppati (è prevedibile che quelli europei si orienteranno prevalentemente, per ragioni geografiche e storiche, verso i paesi del Mediterraneo e dell’Africa), nel senso che prevarranno gli aiuti per lo sviluppo rispetto a quelli di carattere militare.
Tenderà così a formarsi un nuovo ordine economico mondiale, fondato su una regionalizzazione delle zone di influenza, degli aiuti per lo sviluppo e della politica commerciale. Il che significa che con l’unificazione politica europea, gli Stati Uniti saranno progressivamente sollevati dalle loro soverchianti responsabilità mondiali a favore dell’Unione Sovietica e della Cina in Asia e a favore della Comunità europea nel Mediterraneo e in Africa.
Infine, la Federazione europea, realizzando per la prima volta nella storia un governo su un insieme di nazioni, darà vita a una società politica pluralistica, e aperta verso il mondo, una forma di organizzazione politica alternativa alla formula politica dello Stato nazionale chiuso e accentrato, alla sovranità assoluta degli Stati e alla violenza nella politica internazionale. Essa permetterà al mondo di progredire verso l’unità, rovesciando le tendenze imperialistiche, scatenate dalla degenerazione del sistema mondiale bipolare.
L’imperialismo è la risposta delle grandi potenze al frazionamento politico del mondo e al disordine internazionale. Il nazionalismo è la risposta dei paesi sfruttati e oppressi che aspirano all’indipendenza. Né la teoria liberal-democratica, né quella social-comunista sono in grado di offrire una formula che permetta di sfuggire alla spirale dell’imperialismo e del nazionalismo e di superare la logica della potenza nelle relazioni internazionali.
Solo le istituzioni federali sono in grado di conciliare le esigenze di ordine internazionale con quelle di indipendenza di tutti i popoli. Creando un governo democratico supernazionale, lo strumento politico che permette di instaurare relazioni pacifiche e democratiche tra le nazioni, di garantirne l’indipendenza, attraverso la loro subordinazione a un potere superiore, ma limitato, e di realizzare nello stesso tempo una pianificazione su grandi spazi economico-sociali, adattandola ai diversi livelli di sviluppo delle regioni che ne fanno parte, costituiscono una autentica alternativa al principio della sovranità assoluta degli Stati e quindi al nazionalismo e all’imperialismo. L’alternativa politica federalistica è oggi all’ordine del giorno in Europa, dove esiste la base sociale per la formazione di uno Stato, ma in prospettiva tende ad essere operante anche negli altri continenti, oggi politicamente divisi, e, più a lungo termine, su scala mondiale, per risolvere i problemi posti dal disordine internazionale e dalla crescente interdipendenza tra gli Stati.
L’affermazione dell’unione federale in Europa favorirà lo sviluppo della cooperazione internazionale necessaria ad affrontare il problema della riconversione industriale sul piano mondiale. I piani nazionali di riconversione dovranno quindi essere coordinati a livello mondiale. Da una parte, questo coordinamento esige che si organizzi uno sforzo congiunto di tutti i paesi industrializzati, tendente a ridurre il divario rispetto ai paesi in via di sviluppo. D’altra parte, però, in un sistema mondiale di Stati sovrani, la piattaforma sulla quale si potrà realizzare la convergenza tra i governi sarà la scelta di piani di sviluppo di economie aperte, nella prospettiva della massima libertà degli scambi sul mercato mondiale.
Ma l’organizzazione di un ordine economico mondiale, fondato sul principio dell’apertura dei mercati, presuppone l’affermazione di una divisione internazionale del lavoro, che consenta a tutti i paesi e ai rispettivi raggruppamenti regionali di promuovere piani di sviluppo di economie dinamiche e in espansione, adeguati ai livelli di sviluppo di ciascuno. Ciò esige un confronto sistematico degli orientamenti produttivi di ciascun paese e di ciascuna area economica, in modo da rendere questi orientamenti il più possibile compatibili e complementari.
Naturalmente, lo sviluppo industriale del Terzo mondo non potrà avvenire senza la protezione dei mercati nazionali dei paesi in via di sviluppo. Ma lo sviluppo delle forze produttive sul mercato mondiale oggi è ostacolato dal disordine monetario, che ha le proprie radici nel fatto che la Comunità europea, la prima potenza commerciale del mondo, non è dotata di una propria moneta. Una moneta europea, affiancando il dollaro nel ruolo di moneta di riserva, potrebbe contribuire in modo efficace al superamento della crisi del sistema monetario internazionale e favorire la formazione di un nuovo ordine economico mondiale più aperto, più giusto e più evolutivo.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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* Relazione svolta al convegno, organizzato il 26-27 gennaio 1979 dal Movimento europeo, su: «Lavoro e occupazione nella prospettiva dell’Unione economica e monetaria».