IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXXIII, 1991, Numero 2 - Pagina 155

 

 

QUATTROBANALITA E UNA CONCLUSIONE SUL VERTICE EUROPEO*
 
 
Dopo la prima conferenza al vertice dei Sei sul problema europeo, ed in attesa della seconda, vale la pena di fissare qualche appunto. Si tratta solo di banalità, ma bisogna avere la pazienza di ripeterle ogni volta perché nessuno le sa, o le rammenta. Da un certo punto di vista la situazione è talmente chiara che persino il leader socialista italiano Pietro Nenni, vale a dire un neofito del problema europeo, ha potuto descriverla senza sbagliarsi: «La grande assente nel dialogo [della politica internazionale] è l’Europa. Europa dei Sei, Europa dei Sette, Unione europea occidentale, Unione europea economica, Consiglio d’Europa, ecc., molte, troppe sigle per poca sostanza, messi a parte i notevoli sviluppi dell’integrazione economica che hanno il loro fondamento e la loro spinta nel progresso tecnico e nelle dimensioni sempre più ampie della produzione. L’europeismo, nella sua sostanza politica, è oggi al punto zero. Il Mercato comune non può bastare a sviluppare in Europa una volontà politica comune; la confederazione proposta da De Gaulle è la negazione della federazione dei popoli europei [popoli europei? Popolo europeo: l’elettorato europeo], la campagna per la convocazione di una Costituente europea eletta direttamente dal popolo [giusto, al singolare, dunque il popolo europeo] muove da presupposti sani ma tiene poco conto della considerazione che le nuove strutture costituzionali, nuovi istituti di diritto sono validi se sanzionano stati di fatto, non lo creano di per sé soli».[1] A prescindere dalle valutazioni sulle basi politiche della Costituente, del Mercato comune e così via il quadro è giusto. Riassumiamolo così: siamo di fronte al problema dell’unità europea e si tratta di scegliere fra: a) la confederazione proposta da De Gaulle, vale a dire l’Europa delle patrie, b) le Comunità, vale a dire l’Europa dei funzionari, c) la Costituente, vale a dire l’Europa del popolo. Che fare? Da questo punto di vista tutto diventa oscuro. Tiriamo dunque fuori le nostre banalità.
 
Prima banalità.
 
Il problema europeo è reale o immaginario? Che cosa è, come si differenzia dal problema sociale, o da quelli della democrazia in Francia, dell’unità nazionale in Germania, dell’apertura a sinistra in Italia, ecc.? E’, semplicemente, la situazione nella quale viviamo. Lo si voglia o no, la Francia non può fare, sino al punto in cui la cosa avrebbe pieno senso, una politica estera ed economica francese (per questo, stando al governo, il nazionalista De Gaulle è diventato «europeista»); e così la Germania, e così l’Italia, ecc. E’ la nostra fortuna. Se Francia, Germania, Italia potessero fare come nel passato cose del genere, dovrebbero, ciascuna, cercar di alzar sé stessa e di abbassare il vicino. Radunerebbero alleati contro costui, guarnirebbero le frontiere, controllerebbero gli scambi economici mirando alla propria potenza e alla altrui debolezza. Ma non possono. Non ha più senso sceglier tra l’amicizia o l’inimicizia della Francia per la Germania, della Germania per l’Italia e via dicendo. Secondo il precetto costituzionale i governi dovrebbero fare una politica nazionale, ma non possono: devono farne, di buona o cattiva grazia, almeno per le questioni fondamentali, una comune europea. Questa è la base politica del Mercato comune (non c’è mercato senza base politica), questa è la base politica dell’europeismo. Così si spiega il carattere fantomatico dell’unità europea: c’è, ma come situazione di potere allo stato elementare, senza istituti politici, senza volontà, senza consapevolezza (i governanti credono di aver scelto loro, come politica nazionale, la collaborazione europea). E così si spiega il vuoto politico dell’Europa, il senso di inutilità che destano i suoi governi, i suoi parlamenti, i congressi dei suoi partiti: non c’è governo, non c’è parlamento, non c’è partito che possa elaborare, e mandare ad effetto, una vera e propria strategia politica perché di fronte ad una situazione di potere europea, non può che prendere decisioni nazionali. Decisioni soltanto tattiche, e subordinate in ogni modo al disordinato cozzo europeo degli interessi, perché prese in rapporto ad una sola parte (nazionale) dei dati che condizionano il processo di potere.
 
Seconda banalità.
 
Che cosa è, che cosa conta, quanto durerà questa unità di fatto? Nella presente situazione i governi dei Sei, per la loro incapacità di controllare completamente i processi della difesa e della produzione, hanno lasciato mano libera agli interessi non più costringibili nelle dimensioni nazionali. La loro politica comune europea è in sostanza nell’ordine economico un semplice laissez faire, laissez passer dovuto a cause di forza maggiore; nell’ordine della difesa un vassallaggio rispetto agli USA. L’unità europea è dunque una sorta di anarchia basata sull’eclisse di fatto delle sovranità nazionali, sulla protezione americana e, in ultima istanza, sulla bomba atomica, che impedisce alla Russia di lasciar straripare la sua potenza nel vuoto politico dell’Europa occidentale. Che cosa conta questa unità? Molto economicamente perché ha spezzato le anacronistiche dimensioni nazionali dell’economia che fermarono lo sviluppo della produzione di massa in Europa; nulla politicamente perché non corrisponde ad un quadro di lotta per il potere, e quindi non mobilita né una classe politica europea né un consenso europeo, non determina né una volontà né una responsabilità europee. Quanto durerà? Dipende da fattori estranei alla volontà degli Europei, durerà sinché questi fattori estranei — interessi nazionali in Europa (massimo esempio de Gaulle), interessi americani nel mondo, interessi russi nel mondo, pressione degli afroasiatici — convergeranno nel mantenere lo status quo dell’Europa occidentale. I fattori interni (piccolo recupero di potenza per l’espansione economica e quindi maggiori possibilità di esercizio effettivo della sovranità) e quelli esterni (minor potere degli USA, maggior potere dell’URSS e degli afro-asiatici) stanno mutando direzione. Rispetto all’Europa occidentale erano centripeti e stanno diventando, per ora molto lentamente, centrifughi. Quando questa direzione centrifuga si farà sentire e metterà in pericolo l’unità europea di fatto, la fusione degli interessi economici non potrà difendere la pericolante unità politica. Come scrisse brillantemente Lüthy, dopo aver fatto l’ipotesi di una crisi politica (egli cita a mo’ di esempio «un esperimento di confederazione pantedesca, un colpo di Stato militare in Francia, un fronte popolare in Italia»): «E’ almeno ridicolo supporre che contro frontiere chiuse immediatamente in seguito ad una crisi simile vi sarebbe un assalto dei viaggiatori di commercio, dei consiglieri d’amministrazione, dei turisti e delle agenzie avvezze ai viaggi senza passaporto e senza dogane; un assalto per aprire una breccia all’unità europea: allons enfants du marché commun...».[2]
 
Terza banalità.
 
Come si potrebbe trasformare questa unità di fatto, che lasciata a sé stessa è destinata a svanire, in una unità irreversibile? Solo creando un potere federale. Non c’è altro da fare. E’ spiacevole, ma non c’è altro da fare. I governi degli Stati non servono. Il fatto che sinora essi abbiano fatto una politica comune non deve illudere sulle possibilità di mantenere l’unità europea mediante l’«armonizzazione» delle politiche estere. Questo fatto contro natura — uno Stato c’è per fare la sua politica non quella degli altri — non è dipeso dalla «buona volontà» europea dei governanti, ma da cause di forza maggiore, dall’impossibilità di fare altro. Se e quando saranno liberi di scegliere, ciascun governo farà la sua politica estera ed economica, dividendo l’Europa come nel passato. Secondo la lucida sentenza di Hamilton: «Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l’esperienza accumulata nel tempo». D’altra parte qualche cosa di mezzo tra i governi nazionali ed il necessario governo federale non c’è. Questo è il punto da cui derivano tutte le difficoltà. Ma nasconderlo a sé stessi e agli altri non giova, serve soltanto ad eludere il problema.
Non c’è una stazione intermedia tra un sistema di Stati sovrani e una federazione. O si mantiene il potere a livello nazionale, ed allora la mobilitazione di energie e le procedure di decisione restano nazionali. O lo si trasferisce a livello europeo, ed allora, rispetto alle competenze trasferite, la mobilitazione delle energie e le procedure di decisione divengono europee. In mezzo non c’è niente. Ci sono parole vuote, più mezzi di esecuzione delle politiche degli Stati sovrani: così, nel caso specifico, le cosiddette Comunità economiche; così, in genere, le confederazioni, tutti organi non dotati di potere proprio (la prova sta nel fatto che, nonostante CECA, CEE e CEEA, si lotta, come sempre, per il potere nazionale).
 
Quarta banalità.
 
Come fondare il potere federale? Non a poco a poco, evidentemente. O lo si istituisce, convocando una Costituente, o non lo si istituisce. O si fa tutto con una decisione sola o non si fa niente. Su chi bisogna agire? Sulla popolazione? La si chiami «masse», la si chiami «opinione pubblica», essa è da tempo favorevole con una netta maggioranza, eppure, secondo Nenni come secondo tutti i politici nazionali, manca lo «stato di fatto», quello senza del quale sarebbe astratto pensare alla Costituente. Quindi non si tratta della popolazione. Agire forse sugli interessi economici? Quelli «padronali» sono da tempo, con la liberalizzazione, sulla strada europea; quelli sindacali vorrebbero imboccarla sia per fronteggiare i primi, sia perché più l’integrazione avanza più i redditi di lavoro crescono.[3] Eppure, come sopra: lo «stato di fatto» manca. Non si tratta dunque nemmeno degli interessi economici. Forse fanno ostacolo le tradizioni, qualche cosa di profondo in ciascuno di noi? No, i valori politici dominanti sono cristiani, liberali, democratici, socialisti, supernazionali o internazionali per origine e assolutamente antitetici, nella loro schietta essenza, all’esclusivismo nazionale. Resta dunque soltanto la classe politica. La creazione dello «stato di fatto» dipende perciò dai politici. Ma essi non lo sanno, l’aspettano dal di fuori. Il motore non si muove, tutto sta fermo. I politici non capiscono che «fuori» (popolo, interessi, valori di questa Europa che è delle «nazioni» solo da una ottantina di anni), che «fuori» tutto è pronto dal 1945, e dimenticano persino, a proposito dell’Europa, che loro è il compito dell’iniziativa e delle scelte. Come mai? E’ semplice. Si battono per il potere nazionale, vedono il governo nazionale come cosa che dipende da loro, il resto come cosa che dipende da altri. E non si può convincerli che sbagliano, che stanno portando gli Europei alla malora. «Le convinzioni e le idee dei gruppi dominanti — scrive Mannheim — sembrano congiungersi così strettamente agli interessi di una data situazione da escludere qualsiasi comprensione dei fatti che potrebbero minacciare il loro potere. Con il termine di ideologia noi intendiamo così affermare che, in talune condizioni, i fattori inconsci di certi gruppi nascondano lo stato reale della società a sé stessi e agli altri e pertanto esercitino su di esso una funzione conservatrice».[4] Per questo le nazioni, che sono dei colabrodi, si ispessiscono nella mente dei politici. Per questo i fatti banali che stiamo illustrando non sono in genere compresi dai politici: sono infatti tali da minacciare i loro poteri, tanto di opposizione quanto di governo (l’Europa si fa «da un giorno all’altro»: «da un giorno all’altro» andrebbero per aria sei Ministri degli Esteri, sei Ministri della Difesa... tutte le posizioni di potere nei partiti sarebbero da riconquistare...).[5] Per creare lo «stato di fatto» ci vogliono perciò dei politici che si battano per il potere europeo — pregiudizialmente per il potere costituente del popolo europeo — e non per il potere nazionale. Non è facile averli. Per acquistare potere bisogna partecipare alla vita politica. Ma il quadro visibile della lotta per il potere è quello nazionale. Ne segue una contraddizione: bisogna acquistare potere, ma se lo si acquista in modo normale, nel quadro visibile, non serve per il fine europeo perché ci si nazionalizza (oggettivamente: controllo di procedure di decisione esclusivamente nazionali; soggettivamente: ispessimento ideologico della «nazione»). Bisogna pertanto agire in un quadro che non si vede, quello europeo,[6] rifiutando qualsiasi potere (le pseudostazioni intermedie sono posizioni di potere nazionali) sino a che non lo si possa ottenere tutto (costituente): ci vogliono dunque dei politici «tecnicamente» rivoluzionari. Politici che non puntino, per sé e per gli altri, sugli interessi immediati ma solo sui valori, che non facciano leva su contraddizioni fra diverse ambizioni e interessi immediati ma sulla generale contraddizione tra il sistema di valori della nostra civiltà e lo svolgimento reale della vita politica (una politica analoga a quella che hanno fatto tutte le minoranze rivoluzionarie, al tempo loro la liberale, la nazionale, la socialista).
 
Conclusione.
 
Ciò detto, siamo di fronte ad una scadenza. Il 19 maggio ci sarà a Bonn il secondo «vertice» europeo. Sta bene; de Gaulle propone la confederazione: incontri periodici fra i detentori del potere nazionale, più segretariati, più un solenne referendum popolare europeo per l’avvio. Le Comunità propongono: a termini dei Trattati di Roma elezione diretta dell’Assemblea delle Comunità (senza conferimento di poteri legislativi e di controllo di un governo che non esiste) e fusione degli «esecutivi» (senza «esecuzione») carbone-acciaio, mercato comune, energia atomica. I federalisti propongono: conferimento del potere costituente al popolo europeo. Che fare? Ognuno faccia il suo gioco. C’è chi è riuscito a demistificare nel suo animo la «nazione», vale a dire la giustificazione ideologica degli Stati esistenti. Costui deve attestarsi sulla opposizione di regime, deve reclamare la Costituente, e non mollare. Può capire, ha questa responsabilità. Se l’elude, l’Europa non si farà mai. Per lui vale la regola che corrisponde alla natura del problema: o tutto o niente. E c’è invece chi ha oggi, o vuole avere domani, un pezzo di potere. I poteri di oggi e domani sono nazionali, chi li ha o li vuole resta prigioniero dell’ideologia nazionale. Salvo illuminazione e rinunzia, salvo «autodemistificazione» della propria coscienza nazionale, costui «nasconde a sé stesso lo stato reale della società», vale a dire non comprende i dati ultimi del processo politico e può agire soltanto in superficie. Costui può tuttavia capire le seguenti osservazioni (e dovrebbe agire di conseguenza):
1) non ha senso — è un trucco — battersi contro la confederazione di de Gaulle impugnando armi dello stesso tipo: incontri periodici di ministri nazionali (i cosiddetti Consigli dei Ministri della Comunità) contro... incontri periodici dei ministri nazionali, segretariati per preparare il materiale per le decisioni dei ministri (i cosiddetti esecutivi delle Comunità) contro... segretariati come sopra; armi dello stesso tipo, ma meno efficaci perché la confederazione di de Gaulle ha contenuto politico, quella delle Comunità solo economico; perché nella prima le parole corrispondono alle cose, nella seconda servono a nasconderle.
2) Non ha senso — è una porcheria — proporre di mettere in moto il meccanismo della sovranità europea, proporre di eleggere i rappresentanti del «popolo europeo», e dar loro il solo «potere» di rivolgere delle preghiere ai governi nazionali. Questo progetto «europeista» è ancora più assurdo di quello, pur mostruosamente assurdo, con cui Schuman ed Adenauer si illusero di poter risolvere il problema dell’esercito europeo (prima dell’aut-aut di De Gasperi: o con il potere politico europeo o niente). Che Dio li perdoni, essi volevano mettere questo esercito a disposizione di una organizzazione simile a quella della CECA: volevano fare l’esercito europeo, non lo Stato europeo; non volevano toccare la sovranità degli Stati, ma erano disposti a toglier loro gli eserciti. Come non si poteva costruire quella specie di Legione straniera europea, così non si potranno fare queste straordinarie elezioni. Se si facessero, darebbero luogo ad una farsa; una campagna elettorale nella quale i candidati dovrebbero promettere agli elettori: «Se mi eleggerete, dirò questo o quest’altro a chi ha il potere di farlo». Meglio francamente il referendum di de Gaulle. Un referendum si fa anche per sapere ciò che la gente vuole. Le elezioni si fanno per decidere chi comanderà. Dopo il referendum noi sapremmo in forma ufficiale ciò che sappiamo già: la popolazione è favorevole all’unità europea. Dopo elezioni come quelle proposte dagli «europeisti», e l’esperienza del fatto che continuerebbero a comandare i governi nazionali, l’Europa affogherebbe nel ridicolo.
3) Occorre non nutrirsi di chiacchiere e badare alle cose. Se non si pensa di istituire una federazione bisogna occuparsi di politica internazionale. All’infuori della federazione di sostanziale c’è infatti solo la condotta degli Stati. Di questo, e non dell’«integrazione», si deve ragionare. Si tratta di chiedersi se, da questo punto di vista, la scelta fra la confederazione di de Gaulle e quella delle Comunità è la scelta fra due politiche diverse o fra due modi diversi di nominare la stessa politica. Orbene, la differenza c’è. Chi pensa di tenere la piattaforma a sei con la confederazione delle Comunità non ha niente da opporre a coloro — e sono molti, dietro ad Erhard — che vogliono farla saltare. Per spegnere le Comunità — che non hanno potere proprio — basta non occuparsene; mentre la divisione, davvero assurda se si pensa soltanto in termini economici, tra MEC ed EFTA, farà sempre rumore. Su questa strada lo scivolamento dalla piattaforma a sei a quella a sei più Gran Bretagna e contorno è facile, quasi naturale. Altra cosa sarebbe la confederazione di de Gaulle. Essa metterebbe in vista i protagonisti, i detentori del potere nazionale, ora comodamente nascosti dietro le Comunità e l’integrazione; e la posta in gioco: la piattaforma a sei.[7] Metterebbe in vista il fatto che la piattaforma a sei è impresa politica e non economica: è l’intesa europea occidentale continentale basata sul finalmente pacifico testa a testa franco-tedesco, vale a dire il fatto politico sul quale poggiano tutti i miracoli, economici e no, del dopoguerra. Non sarebbe facile per nessuno, e tanto meno per gli Erhard, i Brandt, i Fanfani e via dicendo, rifiutarla. L’europeismo resta una necessità; quello a sei, che fu una necessità, è diventato una scelta. Si tratta di farla oppure no, assumendosene le responsabilità.
 
Mario Albertini


*Con questo articolo, pubblicato nel 1961 (n. 2, pp. 63 segg.), Il Federalista aveva, tra l’altro, preso posizione contro l’elezione diretta dell’Assemblea delle Comunità (l’attuale Parlamento europeo) senza l’attribuzione di poteri reali. Oggi può sembrare strano che un gruppo di federalisti, tra i quali figuravano i redattori di questa rivista, potesse essere contrario all’elezione diretta del Parlamento europeo (allora semplicemente «Assemblea»). Ed è un fatto che successivamente gli stessi federalisti si sono battuti per l’elezione diretta prima dell’attribuzione dei poteri. Va dunque ricordato: a) che i federalisti in questione hanno tentato (prima con Spinelli, poi senza) dal 1957 al 1966, di ottenere direttamente, vale a dire con la sola loro azione, la convocazione di una Costituente. Essi non potevano dunque non essere ostili a chiamare alle urne il popolo europeo senza che fosse riconosciuto nel contempo il suo potere costituente; b) che, anche dopo il fallimento di questo tentativo, essi hanno continuato ad identificare nel fatto costituente la priorità strategica, ma hanno incluso in questa area anche gli obiettivi che conducono gli Stati in prossimità della Costituente europea, perché comportano l’esercizio dei loro poteri sovrani proprio sul bordo di un piano inclinato dalle nazioni all’Europa; c) che, proprio perché un parlamento senza il potere di fare le leggi e di controllare l’esecutivo è assurdo, un Parlamento europeo così maltrattato avrebbe secondo loro fatto nascere, come in realtà è accaduto, l’idea del deficit democratico della Comunità e della necessità di colmarlo.
[1]Relazione di Pietro Nenni al 34° Congresso del PSI (Cfr. Avanti!, 16 marzo 1961).
[2]Cfr. Herbert Lüthy, «Quando Giove si decise a voler bene ad Europa», in Nord e Sud, VII, 11-12, p. 73.
[3]Vogliono ma non possono. I «padroni» possono, entro certi limiti, agire indipendentemente dagli Stati, i lavoratori no. Anche a livello internazionale i «padroni» possono eseguire da sé stessi, con propri apparati amministrativi, le loro decisioni. I lavoratori invece devono valersi di organizzazioni come i sindacati ed i partiti per conseguire i loro scopi, e queste organizzazioni non possono, né giuridicamente né politicamente, scavalcare gli Stati. Sindacalmente e politicamente per i lavoratori si pone questo aut-aut: o rinunziare a qualunque azione sindacale e politica efficace a livello europeo (battendosi con il debole potere contrattuale nazionale contro quello «continentale» dei «padroni»), o disporre di un parlamento e di un governo europei, cioè di un quadro giuridico, politico e sociale che permetta l’organizzazione europea dei loro mezzi di lotta: i partiti e i sindacati.
[4]Cfr. Karl Mannheim, Ideologia e utopia, Bologna, 1957, p. 41.
[5]Da un punto di vista politico «puro» il «nemico» dell’Europa è la classe politica al potere (potere di governo e di opposizione nazionale). I politici hanno la possibilità di conservare la divisione (sovranità assoluta degli Stati), e quella di fare l’unità (convocazione della Costituente mediante un trattato internazionale). I politici sono la sola classe che ha qualche cosa di sostanziale da perdere con l’unità europea: le posizioni di potere acquisite attraverso la lotta politica nazionale. Quando gli Americani passarono dal regime confederale (nel quale praticamente vive ora l’Europa dei Sei) a quello federale, dovettero proprio superare l’ostacolo costituito da una parte cospicua della classe politica al potere negli Stati. Nel primo saggio del Federalist Hamilton scrisse: «....Ben sarà se la nostra scelta [tra la confederazione e la federazione] verrà determinata da una giudiziosa valutazione dei nostri interessi, e non sarà sviata o turbata da considerazioni estranee al pubblico interesse. Il che, purtuttavia, è più da desiderare ardentemente che da prospettarsi concretamente. Il progetto che ci viene sottoposto incide su troppi interessi particolari, innova troppi istituti locali, perché, nel discuterlo, non si implichino molti e vari argomenti, essenzialmente estranei al merito della questione, ed opinioni, passioni e prevenzioni non certo propizi a mettere in luce la verità. Tra gli ostacoli più formidabili che la nuova Costituzione si troverà ad affrontare, si può, senz’altro, facilmente prevedere quello costituito dall’interesse evidente di una determinata classe dirigente in ogni Stato a resistere a ogni innovazione che implichi, comunque, una diminuzione di potere...». Sulla base del marxismo da due soldi praticato universalmente da cristiani, liberali e democratici, un tempo si diceva che erano contro l’Europa i «monopoli», ed ora che essi marciano si dice che l’Europa è fatta, mentre i politici, liberi da imputazioni e quindi da responsabilità, conservano la divisione per conservare i loro poteri.
[6]A questo proposito non si può scrivere nulla di più chiaro di quanto scrisse Machiavelli nel VI capitolo del Principe (De Principatibus novis qui armis propriis et virtute acquiruntur): «E debbasi considerare come non è cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire, né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo ad introdurre nuovi ordini. Perché lo introduttore ha per nimici tutti quelli che delli ordini vecchi fanno bene, et ha tepidi defensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbano bene. La quale tepidezza nasce, parte per paura delli avversarii, che hanno le leggi dal canto loro, parte dalla incredulità degli uomini; li quali non credano in verità le cose nuove, se non ne veggono nata una ferma esperienza. Donde nasce che, qualunque volta quelli che sono inimici hanno occasione di assaltare, lo fanno partigianamente, e quelli altri defensano tepidamente; in modo che insieme con loro si periclita. E’ necessario per tanto, volendo discorrere bene questa parte, esaminare se questi innovatori stanno per sé medesimi, o se dependano da altri; ciò è, se per condurre l’opera loro bisogna che preghino, o vero possono forzare. Nel primo caso capitano sempre male, e non conducano cosa alcuna; ma, quando dependano da loro proprii e possano forzare, allora è che rare volte periclitano». Il lettore noterà come ogni parola di questo testo dia un volto preciso a tutto ciò che è in gioco nel problema europeo: condotta dei politici, condotta delle forze sociali, peso delle istituzioni.
[7]L’Europa che si può fare in un futuro prevedibile è quella dei Sei (coloro che la vogliono a sette ecc. non sanno che le federazioni si allargano pacificamente; che farla a sei significa istituire il nucleo federale che diventerebbe poi a sette, a otto ecc.). Che cosa è questa Europa? La piattaforma a sei non nacque dalla immaginazione degli uomini ma dalla natura delle cose. Quando si trattò di stabilire a chi dovessero appartenere i due elementi principali (tradizionali) della potenza tedesca: l’industria renana e i soldati, non fu possibile la loro restituzione pura e semplice alla Germania, e si dovettero escogitare soluzioni «supernazionali» (CECA e CED). La soluzione implicava che ciò che veniva tolto alla Germania venisse tolto anche agli altri Stati, e conferito all’«Europa». Il Regno Unito, che aveva aderito alla OECE e al Consiglio d’Europa, non aderì né alla CECA né alla CED. La soluzione, ispirata al cosiddetto «funzionalismo» (la geniale idea di fare l’Europa a pezzettini: uno oggi, uno domani... per non sentire dolore) era cattiva, ed in poco tempo la Germania tornò padrona dei suoi soldati e delle sue industrie. Ma i politici credevano davvero che fosse stato avviato il processo di «integrazione» dell’Europa, e quelli europei continentali credevano davvero di star trasferendo il carbone, l’acciaio e i soldati all’«Europa». In quel modo — fallace nella realtà ma vero nell’immaginazione — l’occasione storica tradusse nella coscienza degli uomini uno stato di fatto: solo nell’Europa occidentale l’eclisse delle sovranità nazionali (in relazione ai problemi da affrontare) è tanto avanzata da rendere possibile — se la virtù degli uomini sarà sufficiente — il trapasso dei poteri di politica estera ed economica dagli Stati a un governo federale.

 

 

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