Anno LXVI, 2024, Numero 1, Pagina 52
1996: L’EUROPA TRA FEDERALISMO E NAZIONALISMO*
Vi sono momenti nella storia nei quali tutti i maggiori problemi che sono andati maturando nella fase precedente confluiscono in un unico grande nodo, dal cui scioglimento dipende l’avvenire di un popolo, di un continente o dell’intera umanità. Oggi sono visibili segni che inducono a ritenere che ci stiamo avvicinando ad uno di questi momenti, e che la posta in gioco nella Conferenza intergovernativa del 1996 e negli appuntamenti immediatamente successivi sarà di un’importanza incalcolabile. E’ dunque in vista di scelte decisive nel processo di unificazione europea che si svolge questo XVI Congresso dell’UEF. Ed in questa fase i federalisti possono svolgere un ruolo decisivo.
Il processo di unificazione europea ha avuto inizio dopo la fine della seconda guerra mondiale. Esso è stato messo in moto e guidato dalla percezione diffusa in Europa, tra la maggioranza degli uomini politici e nell’opinione pubblica, che lo Stato nazionale era ormai stato superato dalla storia, che esso non costituiva più un quadro capace di garantire la sicurezza e il benessere dei suoi cittadini e che la sua crisi aveva generato i mostri del fascismo e delle due guerre mondiali e portato l’Europa alla rovina. Si trattava quindi di superare l’idea angusta di interesse nazionale come fondamento della politica, e di sostituirle una concezione più aperta del bene comune, che fosse in grado di assicurare una base solida alle istituzioni democratiche e di scacciare lo spettro della guerra affermando nei fatti la solidarietà tra i popoli.
Da questa presa di coscienza hanno avuto origine l’Alleanza atlantica e la Comunità europea. La nascita e l’evoluzione di quest’ultima sono state motivate dalla convinzione — non sempre espressa, ma sempre presente — che essa costituiva il primo passo di un cammino la cui inevitabile conclusione sarebbe stata l’unione dei popoli europei in un’unica grande federazione, libera e democratica, che avrebbe saputo dare al mondo l’esempio del superamento della guerra attraverso il superamento della sovranità nazionale.
Questa idea non è stata finora realizzata. E ciò, è avvenuto perché le ragioni dell’unione si sono scontrate con quelle della conservazione delle sovranità nazionali e degli interessi corporativi che ad esse sono legati. Che questo contrasto si sia manifestato rientra nell’ordine naturale delle cose. Ciò che richiede una spiegazione è piuttosto il fatto che esso non si sia risolto con la prevalenza di una delle due spinte sull’altra, e che il processo di integrazione europea abbia potuto continuare, e riprendere il suo cammino dopo ognuna delle crisi che pure ha attraversato, per circa cinquant’anni, senza essere consolidato e reso irreversibile dall’unità politica; e che l’Europa abbia conosciuto una fase di pace e di prosperità senza precedenti nella sua storia senza liberarsi del fardello delle sovranità nazionali.
Il successo della prima fase del processo di integrazione europea ha smentito le previsioni di una parte dei federalisti che, basandosi sull’esperienza del passato, avevano sostenuto che il Mercato comune avrebbe avuto vita breve. I federalisti sapevano che un mercato può funzionare soltanto se è sostenuto da un quadro politico che gli garantisca la sicurezza esterna, metta a sua disposizione lo strumento, indispensabile al suo funzionamento, della moneta e imponga agli operatori l’osservanza di regole precise e uguali per tutti. Nel caso del Mercato comune questo quadro non avrebbe potuto essere che quello di uno Stato federale europeo, la cui creazione avrebbe quindi dovuto avvenire contemporaneamente a quella del mercato.
Se l’integrazione economica dell’Europa ha potuto procedere — anche se in modo imperfetto — in assenza di un quadro statale, ciò è accaduto grazie alla Guerra fredda. La verità è che, nella prima parte del suo cammino, il processo di integrazione europea è stato sostenuto da un quadro politico; e che questo è stato assicurato dalla leadership americana. Gli Stati Uniti hanno garantito all’Europa la sicurezza, attraverso la NATO e l’ombrello nucleare, e hanno fornito al Mercato comune, con il dollaro, una moneta europea di fatto. La loro leadership si è quindi sostituita ad un quadro statale europeo che non esisteva mettendo a disposizione degli Europei, con la difesa e la moneta comune, gli strumenti essenziali della sovranità. Inoltre, cosa ancora più importante, gli Stati Uniti, hanno dato ai governi degli Stati dell’Europa occidentale, coinvolgendoli nel grande confronto ideologico tra democrazia e comunismo, una sorta di legittimità per procura, in quanto loro alleati, anche se subordinati, in un grande disegno comune. Il precedente riferimento alla nazione era stato infatti privato della sua credibilità, o comunque fortemente indebolito, dagli orrori del fascismo e della guerra, che la nazione aveva generato. D’altra parte, l’idea di una nuova legittimità che si identificasse con la solidarietà federale e con la valorizzazione della diversità nell’unità si faceva strada soltanto lentamente. La lotta comune contro il comunismo è servita dunque in questa fase, in Europa occidentale, da cemento ideale della convivenza civile e da fondamento del lealismo dei cittadini nei confronti delle istituzioni democratiche.
La fine della guerra fredda e il crollo dell’impero sovietico hanno segnato una brusca svolta in questo processo. In verità, la leadership degli Stati Uniti stava da tempo perdendo di vigore. Ciò era particolarmente evidente con riguardo al ruolo del dollaro che, a causa dell’indebolimento relativo dell’economia americana, aveva perso fin dalla metà degli anni ‘70 la solidità che gli aveva consentito, nella fase precedente, di svolgere correttamente la sua funzione di moneta internazionale (anche se nessun’altra moneta poté da allora sostituirsi ad esso). Ora, con la scomparsa del nemico sovietico, anche la funzione degli USA di garanti della sicurezza europea perdeva la sua giustificazione. Gli Americani hanno incominciato da allora a ritirarsi dall’Europa. E, con la fine del confronto tra democrazia e comunismo, gli Stati dell’Europa occidentale (come del resto quelli dell’Europa orientale) sono stati privati della parvenza di legittimità che avevano ricevuto dal ruolo che avevano giocato nella Guerra fredda.
Gli Stati membri dell’Unione europea si trovano ora di fronte alla necessità di fare le scelte e di assumersi le responsabilità che nella fase precedente la Comunità aveva potuto scaricare sugli Americani. Essi devono decidere in particolare se la loro politica monetaria e di sicurezza potrà essere gestita in futuro nel quadro nazionale o se dovrà esserlo in un quadro europeo, e dovranno trarre le conseguenze istituzionali di questa decisione in vista del fatto che l’egemonia americana non potrà più sostituirsi ad un potere europeo inesistente. E insieme essi devono affrontare il problema di darsi una nuova legittimità. Si pone ormai in termini ultimativi un problema che esisteva fin dalla fine della seconda guerra mondiale, ma la cui soluzione ha potuto essere rinviata per quasi cinquant’anni grazie ad una situazione che ormai non esiste più. Se i governi e i partiti europei non capiranno che la sola via d’uscita dalla crisi di legittimità che oggi li investe è l’unione federale dei popoli europei, la sola alternativa sul campo rimarrà la ricaduta nel nazionalismo e un’anarchia temperata da una debole egemonia tedesca sulla parte centro-orientale del continente.
La fine della guerra fredda ha quindi messo a nudo la natura reale, e l’urgenza drammatica, della scelta storica dalla quale dipende il destino dell’Europa, e quello di tutta l’umanità: quella tra nazionalismo e federalismo. E’ ben vero che il nazionalismo ha le sue radici in una forma di Stato che ormai appartiene al passato, e che quindi è idealmente superato: ma ciononostante esso è destinato a rimanere sul campo fino a che non si affermi un nuovo principio di legittimità che lo superi nei fatti. L’Unione europea, erede di quella Comunità che nella fase precedente aveva potuto avanzare lentamente, e perdere importanti occasioni, nella certezza che il quadro politico che sosteneva il processo di integrazione non sarebbe comunque venuto a mancare, si trova dunque di fronte alla necessità di compiere in tempi brevi il salto federale, o di dissolversi sotto la spinta disgregante dei rinascenti nazionalismi.
Il nazionalismo ha già seminato morte e distruzione in Jugoslavia e nell’ex Unione Sovietica, ma esiste dovunque, e sta rialzando la testa in Europa occidentale. Esso costituisce una grave minaccia alle istituzioni democratiche. Del resto, ciò che sta accadendo in Italia, dove l’insistente riferimento all’«interesse nazionale» come bussola della condotta del governo ha coinciso con l’ingresso in questo di un partito neofascista, deve indurre alla riflessione. Un’altra volta nella storia l’Italia ha aperto il cammino a una tragica sequenza di avvenimenti che ha coinvolto l’intera Europa. Si aggiunga che con il passaggio — che è lecito sperare non sia definitivo — dell’Italia al campo degli euroscettici, l’unificazione europea ha perso uno dei suoi sostegni principali: un attore che è stato sicuramente inefficace nella quotidianità della politica comunitaria, ma che non ha mai fatto mancare il suo appoggio in occasione delle grandi decisioni che hanno determinato un avanzamento del processo. L’attuale quadro europeo non potrà quindi reggere a lungo all’attacco del nazionalismo, se i governi europei più consapevoli dell’importanza della posta in gioco non sapranno prendere senza indugio decisioni coraggiose.
Del resto, la previsione che l’Europa dovrà affrontare, nei prossimi anni, scelte decisive per la sopravvivenza del disegno della sua unificazione è avvalorata da due ulteriori circostanze.
La prima è l’inarrestabilità del processo di allargamento dell’Unione. La vocazione dell’Unione europea è quella di estendersi fino ai confini occidentali dell’ex Unione Sovietica. Se essa si rinchiudesse nel quadro angusto costituito dai paesi ricchi dell’Europa occidentale, essa perderebbe il suo slancio ideale e la capacità di rendere universale il suo messaggio di pace e di solidarietà. Essa tradirebbe le speranze che i paesi dell’Europa orientale, liberatisi dall’oppressione sovietica, hanno riposto in essa. Per questo il suo allargamento deve essere salutato come un processo positivo.
Ma nello stesso tempo non si può non vedere che l’allargamento dell’Unione presuppone una radicale trasformazione delle sue istituzioni. Se ciò non accadrà, essa non potrà che dissolversi in una grande area di libero scambio, politicamente debole perché priva del consenso democratico dei cittadini e paralizzata da un meccanismo decisionale fondato essenzialmente sul principio dell’unanimità; e incapace di evolvere per questa stessa ragione verso forme più perfette di unione.
Questa trasformazione delle istituzioni dell’Unione non può significare che la nascita di un’unione federale. Del resto le proposte avanzate nel documento del gruppo parlamentare CDU-CSU del 1° settembre (la realizzazione dell’Unione monetaria, quella di una vera politica estera e di sicurezza comune, l’estensione dei poteri legislativi del Parlamento europeo a tutte le materie di competenza dell’Unione, la trasformazione del Consiglio in una Camera degli Stati e la trasformazione della Commissione in un vero e proprio governo, il tutto nel rispetto del principio di sussidiarietà) significano puramente e semplicemente la creazione degli Stati Uniti d’Europa. I federalisti non si devono vergognare di dirlo ad alta voce; non devono sussurrarsi l’un l’altro che la parola «federalismo» gode di cattiva stampa in molti paesi europei, e che quindi è opportuno sostituirla con circonlocuzioni. La verità è che evitando la parola si confonde la comprensione della cosa, e quindi si oscura la consapevolezza della natura dell’obiettivo da raggiungere. Di fatto il federalismo è ormai sul campo. Tutti ne parlano, anche se i nemici dell’Europa tentano di esorcizzarlo usando il termine in significati aberranti. Noi, al contrario, dobbiamo riproporre con fierezza nel dibattito politico l’uso corretto di una parola che definisce la nostra identità e le ragioni profonde del nostro impegno.
La seconda circostanza è che il processo di unificazione europea non potrà trovare un punto di equilibrio prima di aver raggiunto il suo esito federale, o di essersi esaurito con la dissoluzione dell’Unione. Esso è condannato ad avanzare per non retrocedere. Dopo il Trattato di Maastricht esso è giunto ad un punto decisivo, oltre il quale non vi sono più obiettivi intermedi da raggiungere. Per avanzare rispetto a Maastricht si può soltanto decidere la realizzazione effettiva dell’Unione monetaria e la trasformazione federale delle istituzioni dell’Unione. Il processo è giunto dunque al nodo decisivo della sovranità.
L’occasione storica che si presenta è la Conferenza intergovernativa del 1996, con le ulteriori scadenze che la seguiranno fino al 1999. In questa fase i governi dell’Unione avranno l’opportunità di fondare la Federazione Europea. Se non lo sapranno fare, l’occasione potrebbe andare perduta per sempre.
Le scelte che dovranno essere fatte in questa fase devono quindi diventare nei prossimi mesi il punto focale dell’azione dei federalisti.
Da tempo i federalisti hanno indicato i contenuti minimi essenziali che una costituzione federale dell’Unione dovrà possedere. Un ulteriore importante contributo sarà dato dalla prima commissione di questo Congresso. Non è quindi il caso di entrare nei dettagli di una problematica che è già stata ampiamente discussa, sulla quale esiste un ampio consenso e che comunque sarà ulteriormente approfondita in altra sede.
Due sono invece i punti che è ancora opportuno toccare. Il primo è la constatazione, banale ma decisiva, che nel 1996 il potere di decidere l’assetto e il destino dell’Europa (e con l’Europa del mondo intero) per i decenni a venire apparterrà ai Capi di Stato e di governo. Ciò può non piacere, ma è un dato di fatto. E’ quindi ai Capi di Stato e di governo che la nostra azione deve essere diretta prima che ad ogni altro soggetto. Ad essi in primo luogo va ricordato il peso schiacciante della responsabilità storica che essi stanno per assumere nei confronti degli Europei. Vero è che gli altri attori del processo non scompariranno per questo dalla scena. Essi vi giocheranno un ruolo importante. Ma la loro azione sarà rilevante soltanto in quanto potrà condizionare e influenzare le decisioni dei ‘Capi di Stato e di governo; e in questo senso dovrà essere orientata la nostra pressione nei confronti del Parlamento europeo, dei parlamenti nazionali e dei partiti politici.
Il secondo è la consapevolezza che la disponibilità a compiere il passo decisivo verso la trasformazione dell’Unione nella sua forma attuale in una vera e propria federazione non è la stessa in tutti gli Stati membri dell’Unione, e in quelli che stanno per diventarlo o che lo diventeranno in futuro. Vero è che i governi che prenderanno l’iniziativa si dovranno rivolgere in prima istanza a tutti i membri dell’Unione. Ma è altrettanto vero che alcuni governi, tra i quali oltre a quello inglese si deve annoverare per il momento anche quello italiano, non vogliono compiere il salto federale e puntano consapevolmente alla diluizione dell’Unione in un’area di libero scambio. E che altri Stati hanno strutture economiche e tradizioni politiche così eterogenee rispetto a quelle del nucleo dei paesi fondatori della Comunità da rendere loro sostanzialmente impossibile unirsi subito in un legame federale con Stati che hanno alle spalle più di quarant’anni di integrazione. E’ quindi facile prevedere che dalla Conferenza intergovernativa del 1996 non potrà nascere una struttura federale che comprenda i dodici attuali membri dell’Unione (o i suoi sedici membri futuri, se il processo di ratifica dei trattati di adesione di Austria, Svezia, Norvegia e Finlandia andranno a buon fine).
Ma l’Europa non può attendere che le coscienze maturino e le economie convergano fino a creare le condizioni perché, in un futuro incerto e comunque indeterminato, una struttura federale nasca da una decisione unanime di tutti i membri dell’Unione. Il tempo lavora contro l’Europa, e per il rafforzamento del nazionalismo. L’allargamento, in un quadro istituzionale nel quale tutte le deliberazioni di qualche importanza sono prese all’unanimità, renderà qualsiasi riforma delle istituzioni dell’Unione sempre più difficile. E’ quindi vitale per l’Europa che i paesi che hanno la volontà e la possibilità di compiere il salto federale lo facciano senza esserne impediti da coloro che non vogliono o non possono farlo. Si tratta di un disegno che i federalisti hanno proposto per primi, ormai dieci anni fa, e che oggi è al centro del dibattito. E’ essenziale che i paesi che vogliono e possono farlo decidano fin dal 1996, senza aspettare gli altri, di realizzare l’Unione monetaria, di creare le strutture di una vera politica estera e di sicurezza comune, di estendere i poteri del Parlamento europeo a tutte le competenze dell’Unione, di trasformare il Consiglio dei Ministri in una Camera degli Stati e la Commissione in un vero governo, responsabile di fronte al Parlamento, cioè di fondare il primo nucleo della Federazione europea.
Ci si deve augurare che a questa soluzione si possa giungere anche con il consenso degli Stati che vorranno o, in un primo momento, dovranno rimanerne esclusi, in modo che il primo nucleo federale possa convivere con l’Unione nella sua struttura attuale, o in quella che vorrà darsi in futuro, e partecipare ad essa a parità di condizioni con gli altri Stati membri. In ogni caso, se questo accordo non potrà essere raggiunto, ciò non dovrà bloccare il processo. Del resto, quale che sia la procedura che le circostanze consentiranno di seguire, la fondazione della Federazione europea non potrà comunque avvenire senza una rottura sostanziale della continuità giuridica rispetto alla situazione attuale. Essa sarà il risultato di un negoziato aspro e difficile, che richiederà una forte volontà politica. Se il risultato non potrà essere ottenuto con il consenso di tutti, esso dovrà essere perseguito contro la volontà di coloro che vi si opporranno, anche a prezzo della denuncia dei Trattati attualmente in vigore, in nome di una legittimità che questi non sono più in grado di esprimere.
Si deve respingere con decisione l’obiezione che la proposta del nucleo federale dividerebbe l’Europa. La verità è che essa indica la sola via percorribile per invertire la tendenza alla sempre maggiore divisione che la rinascita del nazionalismo sta provocando. La sola risposta efficace a questa tendenza è quella di dare una prima realizzazione al federalismo: e questo risultato non può essere raggiunto né nel quadro dei Dodici né, a maggior ragione, nel quadro dei Sedici. La proposta del nucleo federale indica quindi la strada dell’unità contro la divisione, e la sua realizzazione costituirebbe il primo passo lungo questa strada. E’ evidente che il primo nucleo federale non potrà che essere aperto fin dal momento della sua creazione agli Stati che ne saranno rimasti esclusi per loro volontà, purché essi rinuncino senza ambiguità alla loro posizione. Essi vi saranno inevitabilmente attratti in tempi brevi, come dimostra tutta la storia dei rapporti tra la Gran Bretagna e la Comunità. Nello stesso tempo, il primo nucleo federale eserciterà una forte attrazione sugli Stati che ne rimarranno esclusi per ragioni obiettive, soprattutto di carattere economico e finanziario; e la sua sola esistenza consentirà ai loro governi di avvalersi del più convincente degli argomenti per ottenere dall’opinione pubblica il consenso per le politiche impopolari necessarie a creare le condizioni per l’adesione. La proposta del nucleo federale indica quindi la sola strada che potrà portare in tempi ragionevoli alla creazione di una Federazione europea che vada dall’Atlantico alle frontiere occidentali dell’ex Unione Sovietica.
Ma perché questa dinamica si manifesti, il vero nodo da sciogliere è quello della volontà politica dei governi destinati a far parte del nucleo federale, e in particolare della Francia e della Germania. Se essi sapranno concordare un progetto inequivocabilmente federale e democratico e tenerlo fermo contro qualsiasi pressione e contro la tentazione di cedere a compromessi, gli altri seguiranno. Ma per farlo essi dovranno trovare la forza di superare l’inerzia delle strutture burocratiche legate agli Stati nazionali, vincere i pregiudizi e la retorica nazionalistica che sono presenti al loro stesso interno, nei partiti e in una parte dell’opinione pubblica, e resistere alle pressioni degli interessi corporativi che traggono vantaggio dal mantenimento della sovranità nazionale.
Da quando la proposta di un’Europa a cerchi concentrici, ruotanti attorno ad un nucleo di natura federale, ha incominciato a circolare è incominciato anche il fuoco di sbarramento degli esperti, che fanno a gara nel denunciare le difficoltà tecniche che renderebbero impossibile la realizzazione del progetto. A costoro bisogna rispondere che dovere degli esperti è risolvere i problemi, non nascondersi dietro ad essi per ostacolare le decisioni dei politici. La proposta del nucleo federale non è un divertimento intellettuale, l’elaborazione a tavolino di uno scenario teorico tra i tanti possibili, ma un’iniziativa politica drammaticamente necessaria, scaturita dalla consapevolezza dell’alternativa storica di fronte alla quale l’Europa si trova e del pericolo immediato di collasso che la minaccia se essa non saprà prendersi carico in tempi brevi del proprio avvenire. E le scelte necessarie sono sempre anche possibili. Il vero problema da risolvere non è tecnico: esso è politico. Dopo che la decisione politica sarà stata presa, gli esperti si metteranno al lavoro non per decidere se la creazione di un nucleo federale è o no possibile, ma per trovare le forme per realizzarlo e per renderlo compatibile con il mantenimento dell’Unione.
I federalisti dovranno dunque battersi per rafforzare nella misura del possibile la volontà politica dei governi, dove essa esiste, e per farla nascere dove essa non esiste. Essi dovranno impegnarsi in tutti i paesi che ne presentano le condizioni perché i loro governi decidano di entrare a far parte del nucleo iniziale accettandone senza riserve le regole, e in quelli che non ne presentano le condizioni perché incoraggino gli altri ad andare avanti, nella consapevolezza che soltanto in questo modo essi potranno, a medio termine, diventare membri a parte intiera di una grande Federazione europea.
Ma per farlo con efficacia, essi devono essere consapevoli della rilevanza drammatica della scadenza del 1996 e di quelle che la seguiranno negli anni immediatamente successivi. Essi devono sapere che in questa occasione si giocheranno, forse irreversibilmente, gli esiti del confronto tra nazionalismo e federalismo, e che perdere l’occasione significherebbe lasciare l’Europa in preda al disordine e all’instabilità, e mettere in pericolo le stesse istituzioni democratiche.
E devono essere consapevoli di essere gli interpreti della volontà del popolo europeo, un popolo non chiuso e monolitico come i popoli nazionali, ma aperto e pluralistico. E’ soltanto nel suo consenso che si può radicare la volontà politica dei governi. Esso non è ancora uno Staatsvolk, come è stato rilevato dalla Corte di Karlsruhe, perché uno Stato federale europeo non esiste ancora. Ma esso è un’entità che si sta formando, e che è stata riconosciuta dai governi attraverso l’introduzione nel Trattato di Maastricht dell’istituto della cittadinanza europea. Esso rimane inerte quando viene sollecitato ad esprimersi su opzioni e su obiettivi confusi e comunque non decisivi, ma è pronto ad attivarsi quando viene confrontato con scelte chiare, che sono quelle dalle quali dipende il suo destino, come sarà quella che i governi affronteranno nel 1996 e negli anni immediatamente successivi.
L’esistenza del popolo europeo è il fondamento dell’esistenza stessa dei federalisti come gruppo politico, perché senza popolo europeo la Federazione europea sarebbe un obiettivo irraggiungibile. Sarà quindi nostro compito nei mesi che verranno consacrare tutti i nostri sforzi alla mobilitazione della volontà europea dei cittadini.
La dimensione del compito da affrontare può sembrare sproporzionata rispetto alla modestia dei nostri mezzi. Questa apparente inadeguatezza è però il destino di tutti i gruppi politici che si propongono trasformazioni radicali, che comportano la sostituzione alla vecchia legittimità di una legittimità nuova. Queste trasformazioni si preparano nel sottosuolo, e non sono quasi visibili alla luce del sole. Il potere conserva fino all’ultimo la propria maestà esteriore, sostenuta dagli interessi corporativi, dall’inerzia della burocrazia, dal servilismo della cultura e dalla miopia del mondo dell’informazione, e la presenza dei portatori del cambiamento passa quasi inosservata. Ma quando giunge il momento delle scelte decisive, che il vecchio ordine non è più in grado di fare, la storia subisce un’improvvisa accelerazione e il nuovo emerge irresistibilmente, purché qualcuno abbia, prima, pazientemente lavorato nell’oscurità per preparare la svolta, indicando la via da seguire per realizzarla.
Non sottovalutiamo quindi la nostra capacità di influire sugli avvenimenti. Noi possediamo una grande forza. Noi siamo i soli in grado di dare la forma di un progetto all’aspirazione profonda del popolo europeo. Avremo successo se sapremo portare avanti con tenacia la nostra battaglia, mantenendo la nostra unità e la nostra indipendenza.
Francesco Rossolillo
[*] Rapporto del Presidente dell’Unione europea dei federalisti (UEF), Francesco Rossolillo, al XVI Congresso, tenutosi a Bocholt nei giorni 21-23 ottobre 1994. Pubblicato su Il Federalista, 36 n. 3 (1994), p. 210, nella rubrica I problemi dell’azione.