Anno LXIV, 2022, Numero 1, Pagina 56
L’EUROPA DOPO LA CADUTA DI GORBACIOV*
Il fallito tentativo di golpe del 19 agosto 1991 in Unione Sovietica e la conseguente caduta di Gorbaciov e del suo Trattato di Unione hanno reso più incerte le prospettive di un nuovo ordine mondiale. Il progetto di una grande alleanza progressiva che sembrava si stesse formando tra i paesi industrializzati del Nord del mondo, e che sarebbe diventata un potente fattore di propulsione del processo di unificazione del pianeta, ha perso buona parte della sua credibilità e della sua capacità di mobilitare e mantenere vive le speranze degli uomini. Ciò non significa certo che si sia ritornati al periodo precedente l’ascesa al potere di Gorbaciov. L’opera di questo uomo storico ha segnato comunque una tappa decisiva e irreversibile nel processo di distensione, anche se buona parte del suo grande disegno non ha potuto essere realizzata. L’ex-Unione Sovietica ha cessato di essere un pericolo militare, e come conseguenza di ciò le spese belliche di quasi tutti i paesi industrializzati stanno subendo tagli profondi. Ma la sua dissoluzione ha aperto un grande focolaio di crisi ed ha privato il resto del mondo di un interlocutore affidabile sia dal punto di vista politico che da quello economico.
Il nuovo stato di cose non può non avere ripercussioni sull’equilibrio europeo. Il quadro della CSCE, la cui capacità di garantire la stabilità dei rapporti politici all’interno della grande area che si estende dall’Atlantico a Vladivostok si basava essenzialmente su di una condivisione di responsabilità tra due grandi poli, la Comunità europea (sostenuta dalla garanzia degli Stati Uniti) e l’Unione Sovietica, si è indebolito a causa della scomparsa di uno di essi. Le forze della disgregazione all’opera in Europa orientale, ma in agguato anche all’interno della Comunità, ne hanno ricevuto un forte impulso. Esse hanno devastato la Jugoslavia e minacciano la Cecoslovacchia. Nazionalismo, separatismo e intolleranza stanno crescendo ovunque, mettendo in pericolo le basi stesse della convivenza civile.
La Comunità europea resta oggi il solo attore potenzialmente capace di invertire la tendenza, sostituendo l’unità alla disintegrazione. Ma la situazione – nuova e drammatica – che si è venuta a creare, la deve spingere a ripensare in modo radicale il suo compito storico e le sue responsabilità.
Tre, in particolare, sono i problemi sui quali l’Europa, e i federalisti per primi, devono definire subito un orientamento. Essi riguardano i tempi del processo di unificazione federale dell’Europa, i confini della futura Federazione europea e le condizioni dell’ammissione di nuovi Stati.
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I tempi. Il limite principale degli accordi di Maastricht è stata la scarsa consapevolezza del fatto che il cammino dell’Europa verso la propria unità federale è ormai diventato una corsa contro il tempo. Se la Comunità saprà trasformarsi rapidamente in una vera federazione, aprendosi subito dopo ai paesi dell’Europa centro-orientale (oltre che a quelli dell’EFTA) essa farà prevalere in essi, e nella stessa Unione Sovietica, le spinte all’integrazione. Se invece essa non acquisterà la consapevolezza dell’urgenza del compito, i rapporti di influenza si rovesceranno e saranno le divisioni della parte orientale del continente ad alimentare le divisioni all’interno della Comunità. Le vicende jugoslave lo hanno già dimostrato, dividendo i governi della CEE tra filo-serbi e filo-croati (e sloveni), anziché impegnarli tutti insieme per la conservazione dell’unità statale della Jugoslavia e per l’accelerazione del processo di democratizzazione delle sue istituzioni.
Fino a che permane la divisione, è inevitabile che emerga progressivamente la potenza economica (e domani politica) tedesca. Ciò non accade certo perché la classe politica della Germania unificata abbia consapevoli mire egemoniche. Al contrario buona parte di essa, con in testa il Cancelliere Kohl, è cosciente dei rischi ai quali la Germania è esposta dalla sua stessa potenza, e gioca la carta europea con più determinazione e coraggio delle classi politiche di tutti gli altri paesi della Comunità. Accade piuttosto perché la Germania è già oggi costretta a svolgere, volente o nolente, un ruolo di supplenza di un’Europa che non c’è, il che la porta necessariamente ad assumere responsabilità che gli altri Stati membri, da soli, non sono in grado di assumere, e a diventare progressivamente il partner privilegiato della maggior parte dei paesi dell’Est. Al posto di un grande piano Marshall europeo, capace di invertire le tendenze alla disgregazione, potrebbe così nascere in un futuro non lontano un’egemonia economica (e domani politica) regionale, la cui logica, come quella di tutte le egemonie, sarebbe quella di dividere e non di unire. Ma deve essere chiaro che la responsabilità di un’evoluzione di questo genere non sarebbe della Germania, ma dei suoi partners all’interno della Comunità. Non sarebbe cioè di quel governo che, di fronte al pericolo dell’anarchia, si carica comunque del gravoso compito di assicurare nella regione qualche forma di ordine, per imperfetto che esso sia, dichiarandosi insieme disposto a rinunciare alla propria sovranità in un quadro federale europeo. Ma di quelli che non vogliono abbandonare la loro sovranità, peraltro ormai soltanto apparente, e bloccano, o comunque rallentano, il processo di unificazione federale dell’Europa.
Sarebbe comunque irresponsabile nascondersi che, se questa prospettiva assumesse concretezza, la stessa democrazia nei paesi dell’Europa occidentale sarebbe messa in pericolo. La sola forza che in questi Stati oggi contiene l’espansione dell’estrema destra (la quale può giocare a seconda delle circostanze, senza che ciò cambi alcunché della sua natura profonda, la carta del nazionalismo o quella del separatismo regionale) e la speranza nell’unificazione politica dell’Europa e nella nuova era di collaborazione internazionale che essa renderebbe possibile. Se questa speranza venisse a mancare, non si vede chi potrebbe fermare l’ascesa, peraltro già oggi inquietante, di personaggi come Le Pen o Bossi, o di coloro che domani prenderanno il loro posto.
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I confini della Federazione europea. Se la Comunità saprà trasformarsi in una vera unione federale, essa dovrà affrontare il problema dei suoi confini orientali, che la dissoluzione dell’Unione Sovietica rende incerti. Le Repubbliche occidentali della cosiddetta CSI guardano alla Comunità e sperano di divenirne parte in un futuro più o meno lontano. Per converso, anche all’interno della Comunità, qualcuno incomincia a pensare ad un suo allargamento a periferie sempre più lontane, che potrebbe portare fino all’ammissione come Stato membro della stessa Repubblica federativa russa.
Si tratta di escogitazioni tanto irrealistiche quanto pericolose. In realtà il processo di unificazione federale dell’Europa ha dei limiti geografici invalicabili. Esso è la manifestazione regionale più avanzata di un più vasto processo di integrazione a livello mondiale, il cui esito politico finale, al termine di un processo del quale è impossibile prevedere la durata, non potrà che essere l’unificazione federale del pianeta. Peraltro questa non sarà certo il risultato dell’estensione progressiva di un unico nucleo federale iniziale – quello europeo – ai circa 180 Stati oggi esistenti, ma di un patto tra grandi federazioni continentali. Senza queste formazioni intermedie verrebbero a mancare quella garanzia di coesione e quell’elemento di responsabilità senza i quali uno Stato federale mondiale stabile e governabile non può essere ragionevolmente pensato.
L’area a suo tempo coperta dall’Unione Sovietica possiede i requisiti necessari per dare vita ad uno di questi grandi poli continentali, che avrebbe un forte grado di unità economica ed una sua specifica identità, costituita dalla sua collocazione euro-asiatica, e potrebbe esercitare un ruolo equilibratore in una zona del mondo sostanzialmente sottratta all’influenza dell’Unione europea. Mentre la mancata ricomposizione di un’unità di carattere federale in questo ambito territoriale, lasciando sul campo il nazionalismo come unico fondamento della legittimità del potere, oltre ad essere, come già è, un permanente fattore di tensione tra le Repubbliche di quella che oggi si chiama CSI, accelererebbe il processo, attualmente in corso nell’intera regione, di frammentazione del quadro statale e di dissoluzione della convivenza civile. Verrebbe così messa in pericolo l’integrità delle stesse Repubbliche attualmente esistenti, a cominciare dalla più grande, la Federazione russa, nella quale il nazionalismo russo esaspererebbe quelli del Tatarstan, della Ceceno-Inguscezia, della Iacuzia, ecc. e solleciterebbe spinte irredentistiche tra le grandi minoranze russe che attualmente vivono nelle altre Repubbliche, da quelle baltiche a quelle dell’Asia Centrale.
D’altra parte, le Repubbliche dell’Asia centrale verrebbero spinte nell’orbita di paesi come la Turchia, l’Iran e il Pakistan, e creerebbero non certo le premesse per la nascita di una improbabile Comunità centro-asiatica, bensì un ulteriore fattore di instabilità, mettendo in concorrenza tra di loro queste tre potenze regionali per l’acquisizione dell’egemonia sull’area.
Se l’Europa saprà domani unirsi in una federazione, essa dovrà fare con vigore ciò che la Comunità attuale si è finora mostrata incapace di fare, cioè incoraggiare tutte le forze disponibili a riprendere gli ideali e il progetto di Gorbaciov e a trarne le corrette conseguenze istituzionali, ripristinando l’unità dell’ex-Unione Sovietica su di una base autenticamente federale. Si tratta di forze che oggi tacciono, ma che esistono, e le cui rivendicazioni sono pienamente legittimate dalla profonda interdipendenza economica e sociale che esiste tuttora, e continuerà ad esistere per molto tempo, tra le Repubbliche della cosiddetta Comunità di Stati Indipendenti. Ma per farlo, la Comunità europea deve mettere subito in chiaro che le sue frontiere non si estenderanno mai oltre il confine occidentale dell’ex Unione Sovietica; e rinunciare così ad alimentare, con promesse che comunque non sarebbe in grado di mantenere, la nefasta illusione di alcune delle nuove Repubbliche di poter divenire in futuro, passando attraverso lo stadio dell’associazione, Stati membri della Comunità. Così come essa dovrebbe sin da ora subordinare i propri aiuti alla condizione che essi siano gestiti in comune da tutti gli Stati della regione sulla base di un unico piano. Soltanto in questo modo essa potrà evitare di creare un alibi per il nazionalismo delle Repubbliche minori (come ha colpevolmente fatto per il nazionalismo croato e sloveno) e di presentarsi alla Russia come un antagonista che miri allo smantellamento del suo potere, anziché come un partner disposto ad offrire la propria collaborazione per la costruzione in comune, nel quadro di una CSCE rinvigorita, di un nuovo ordine europeo e mondiale pacifico ed evolutivo.
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Le condizioni per l’ammissione di nuovi Stati. L’allargamento della Comunità ai paesi dell’Europa dell’Est (oltre che a quelli dell’EFTA) è ormai un passo necessario e indilazionabile, se si vuole dare ai popoli di quell’area una concreta prospettiva di un futuro di prosperità nell’unione, e non di disordine e rovina nella divisione. Peraltro è di tutta evidenza che, con il sistema decisionale attuale, caratterizzato sostanzialmente dall’unanimità delle decisioni e dalla assenza di un vero governo democratico, una Comunità a venti o a venticinque, sarebbe completamente ingovernabile. Da questa ovvia constatazione si traggono abitualmente due conclusioni opposte. La prima, sostenuta dal governo britannico, insiste sulla priorità dell’allargamento sostenendo che esso deve precedere la riforma delle istituzioni comunitarie, nell’intento di diluire la Comunità in una grande area di libero scambio, e quindi di dissolverla. La seconda insiste sulla priorità del rafforzamento delle istituzioni della Comunità e rimanda ad un futuro indefinito l’obiettivo del suo allargamento. La verità è invece che i due obiettivi sono inscindibili: quella dell’allargamento non è un’opzione puramente ideale, la cui realizzazione possa essere rinviata a piacimento, ma una indilazionabile necessità obiettiva; d’altra parte, l’allargamento della Comunità senza una radicale riforma delle sue istituzioni comporterebbe la sua distruzione. Da tutto ciò non si può trarre altra conclusione che quella, già sottolineata, dell’urgenza della trasformazione della Comunità in una vera Unione federale.
La prospettiva dell’allargamento impone però di ripensare la stessa struttura di una Federazione europea comprendente fino a venticinque Stati attualmente esistenti ed estesa fino ai confini occidentali dell’ex Unione Sovietica. Vi sono infatti solide ragioni che spingono a temere che, senza coraggiose innovazioni istituzionali, un’Europa a venti, o a venticinque, sarebbe difficilmente governabile anche dopo il raggiungimento della sua unità federale. Si può certo osservare che gli Stati Uniti sono una federazione formata da ben cinquanta Stati. Ma si deve anche ricordare che gli Stati Uniti, a causa della mancanza di istituzioni intermedie, capaci di esercitare un efficace contrappeso nei confronti del potere del livello federale, hanno ormai da tempo assunto le connotazioni di uno Stato accentrato.
Il fatto decisivo è però che l’Europa sarà comunque una federazione diversa dagli Stati Uniti. Essa unirà popoli profondamente dissimili per lingua, costumi e storia, ognuno saldamente radicato nel proprio territorio. Con l’allargamento alla parte centro-orientale del continente, essa comprenderà paesi con problemi economici e strutture produttive destinati a rimanere molto a lungo disomogenei. Ne consegue che essa dovrà essere governata con procedure del tutto diverse da quelle antidemocratiche ed inefficaci dell’attuale Comunità, ma anche del tutto diverse da quelle con le quali sono oggi governati gli Stati Uniti. In particolare, le sue strutture decisionali dovranno essere più decentrate e più consensuali. Entrambe queste esigenze appaiono inconciliabili con un’organizzazione costituzionale basata su di un gran numero di Stati membri di piccole o piccolissime dimensioni.
Un decentramento effettivo richiede che i livelli di governo regionali abbiano dimensioni corrispondenti a quelle dei problemi che devono affrontare. Se le loro dimensioni sono insufficienti, tutte le decisioni relative ai problemi che interessano ambiti spaziali più estesi ricadranno nella competenza degli organi federali, che tenderanno di conseguenza ad accentrare funzioni, e quindi potere. D’altra parte l’accentramento (che comunque in quanto tale è la negazione del federalismo) sarebbe sostanzialmente incompatibile con un panorama economico e sociale profondamente differenziato come quello europeo e quindi alimenterebbe tensioni e spinte disgregative che renderebbero precaria l’Unione. La realtà è che l’indipendenza delle piccole patrie in un grande insieme federale può essere garantita soltanto dalla loro inclusione in raggruppamenti intermedi abbastanza forti da bilanciare efficacemente il potere del livello globale. D’altra parte, l’applicazione efficace di procedure consensuali di presa delle decisioni richiede un numero limitato di attori responsabili ed è incompatibile con un pulviscolo di localismi rissosi e incapaci di farsi carico dell’interesse generale.
Non è possibile, sulla base di queste considerazioni, proporre oggi soluzioni istituzionali precise. Ma è legittimo sottolineare l’esigenza che la Comunità, nella riflessione sulla fisionomia istituzionale che essa dovrà darsi in vista del proprio allargamento ai paesi dell’EFTA e a quelli dell’Europa orientale, tenga bene in vista l’esigenza vitale di porre come precondizione di ogni nuova ammissione la formazione di sub-federazioni regionali, che divengano in quanto tali Stati membri dell’Unione, consentendone l’estensione senza pregiudicarne il decentramento e la capacità decisionale. E che respinga energicamente qualsiasi tentazione di far balenare alle Repubbliche separatiste jugoslave la speranza di essere ammesse come suoi membri diretti.
Vero è che la Comunità attuale comprende come Stati membri piccoli paesi come il Lussemburgo, l’Irlanda e la Danimarca ai quali – in una situazione ormai consolidata – non sembra realistico chiedere di entrare a far parte di raggruppamenti federali intermedi (anche se una trasformazione in senso federale del Benelux, così come un futuro raggruppamento tra Danimarca, Svezia, Norvegia e Finlandia non sarebbero impensabili in considerazione dei legami speciali già esistenti tra quei paesi). Ma diverso è il discorso per gli Stati che non sono ancora entrati nella Comunità, e che aspirano ad entrarvi. Il loro ingresso dovrà infatti comunque essere sottoposto a condizioni. La costituzione di raggruppamenti regionali dovrebbe essere una di queste, e apparirebbe tanto più ragionevole in quanto posta anche nell’interesse dei paesi candidati, ai quali darebbe forza contrattuale e potere decisionale anziché condannarli ad un ruolo di periferia minoritaria, che li costringerebbe a farsi valere soltanto intralciando il funzionamento delle istituzioni federali. Del resto Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia se ne stanno rendendo conto, ed hanno cominciato a realizzare misure di collaborazione regionale che, di fronte ad una esplicita richiesta della Comunità, potrebbero evolvere nella direzione di un vero e proprio patto federale.
Vero è che si tratta di una richiesta che può sembrare di difficile accettabilità in considerazione della complessa composizione etnica, e quindi dei delicati rapporti reciproci, degli Stati dell’Europa centro-orientale. Ma è necessario rendersi conto che l’allargamento della Comunità non si potrà comunque realizzare attraverso un processo lineare e indolore. Si tratta al contrario di un problema che mette la Comunità di fronte ad una sfida insieme drammaticamente urgente e fortemente traumatica, che richiede una forte volontà politica e una grande capacità progettuale. Ad essa le istituzioni comunitarie, a cominciare dal Parlamento, e i governi degli Stati membri, si devono preparare rapidamente e con coraggio, senza illudersi che il solo decorso del tempo possa risolvere problemi che al contrario col tempo non faranno che aggravarsi.
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È bene sottolineare, in conclusione, che in questo scritto non si è cercato di fare previsioni, ma di indicare l’esistenza di problemi, e di delineare orientamenti. I federalisti non sono osservatori, ma attori del processo. Il loro compito non è quindi quello di cercare di capire quali forze si imporranno nelle tempestose vicende dell’Europa e del mondo in questo ultimo decennio del XX secolo per saltare tempestivamente sul carro del vincitore: ma di individuare le grandi scelte di fronte alle quali la storia pone oggi gli uomini, e gli Europei in particolare, e di prendere posizione, nel tentativo di imporre le ragioni dell’unità contro quelle della divisione, ben sapendo che l’esito del confronto non è scontato.
Il Federalista
* Si tratta dell’editoriale de Il Federalista, 34 n. 1 (1992), p. 3.