Anno LVIII, 2016, Numero 1, Pagina 76
LA CRISI DEL MEDITERRANEO E
LE RESPONSABILITÀ DELL’EUROPA*
Mai come nell’aprile di quest’anno è parsa vera, di fronte ai casi del Mediterraneo, la impietosa constatazione di Einaudi, riferita agli Stati europei: “Gli Stati esistenti sono polvere senza sostanza”. I casi del Mediterraneo, e l’assurda arroganza di Gheddafi – il capo di un paese di tre milioni di abitanti che sfida, umilia e mette in difficoltà tutti gli europei – hanno una causa precisa: il vuoto di potere europeo. Questo vuoto determina due conseguenze, una di carattere fattuale, che si manifesta appunto nel fatto che tre milioni di libici mettono in difficoltà 320 milioni di europei (a considerare i paesi della cosiddetta Comunità); e una conseguenza di carattere mentale, che si esprime nella stolta e vile convinzione che bisogna rispondere agli atti di forza con il negoziato e la diplomazia.
Sembra che, di colpo, gli europei abbiano dimenticato, persino nel paese di Machiavelli, che la politica consiste nei rapporti di forza; e che la politica internazionale consiste in rapporti di forza senza freni giuridici, cioè basati anche su mezzi militari. Perseguendo l’idea del negoziato con chi usa nel modo più brutale la forza, questi europei della decadenza e della dimissione dimenticano che anche i negoziati si fondano sui rapporti di forza. L’esito di un negoziato non è l’ipotetica soluzione giusta per tutti. È la soluzione con la quale vengono riconosciuti i diritti del più forte, e ad ognuno viene dato quanto gli spetta in ragione della sua forza. In sostanza, un negoziato è una guerra simulata. Il resto (le parole, ad esempio quelle dell’ONU o del cosiddetto diritto internazionale pubblico) non è che il turpe belletto con il quale si cerca di mascherare il volto ancora feroce della politica o lo sprofondare nel silenzio della ragione: l’assurda pretesa di rinunciare all’uso della forza, pur pagando tutti i prezzi, inclusi quelli morali, per averne una (servizio militare obbligatorio, spese per le armi ecc.).
Per chi riesce a rimettersi nella testa un minimo di comprensione politica “effettuale” – il che comporta almeno il superamento del sofisma circa l’efficacia del diritto (quale?) e della morale in un mondo ancora governato dalla forza bruta, ivi compresa quella nucleare – valgono tre considerazioni, una sugli USA, una sull’Europa e una sulla pace. Il torto degli Americani non è quello di fare le rappresaglie. È quello di non usare la forza (il che non significa necessariamente sparare) anche nei confronti di Israele per costringerlo a riconoscere i diritti dei palestinesi a costituire una propria entità statale autonoma nella Cisgiordania e nella striscia di Gaza. In questo modo il terrorismo arabo, privato del suo alimento maggiore, riceverebbe forse un colpo mortale. In ogni caso la rappresaglia, oggi poco efficace, diventerebbe efficace. Ma queste considerazioni valgono solo a breve termine. A medio termine occorre, per Israele, una garanzia fondata sui fatti, non sulle parole. E a questo punto comincia la responsabilità degli europei. Con la loro divisione, la loro impotenza, e con il vuoto di potere che generano anche nel Mediterraneo, essi impediscono a tutti – Israele, USA e nazione araba compresi – di poter contare su un equilibrio regionale capace sia di contenere le spinte aggressive che si manifestano sempre quando non sono bloccate da un potere adeguato, sia di eliminare, a lungo termine, le radici stesse del terrorismo in questione con l’unità e la modernizzazione della nazione araba. Con la stolta pretesa di fare una politica estera europea senza un potere europeo – e impedendo al Parlamento di svilupparlo – gli europei che hanno scelto la dimissione e l’impotenza non minacciano dunque solo la sorte dell’Europa ma anche quella del mondo.
E adesso la pace. Ci sono solo due forme di pace: quella precaria ed armata dell’equilibrio delle forze, che scoraggia gli aggressori ma richiede che ogni Stato sviluppi tutte le sue potenzialità di forza, e quella del governo mondiale, la vera pace, secondo Kant, perché consentirebbe ai popoli di vivere disarmati e di difendere la loro autonomia con mezzi esclusivamente giuridici. Se ciò è vero, come risulta a tutti coloro che non hanno perso il senno, è anche vero che chi non persegue l’equilibrio delle forze, e non cerca di indirizzarlo verso le grandi unificazioni regionali per colmare i vuoti di potere e creare i pilastri del futuro governo mondiale, lavora per la guerra e non per la pace, anche se si presenta sulla scena pubblica con in mano un ramoscello di ulivo, ed è beotamente contento ogni volta che sia riuscito a diminuire la forza del proprio Stato senza tener presente che ciò corrisponde automaticamente al rafforzamento degli altri Stati.
A questo punto sarebbe tutto detto, ma occorre ancora una chiosa circa le cause della debolezza degli Stati europei (del resto differenziata: la Francia si comporta nettamente meglio degli altri). A prima vista può in effetti apparire sconcertante che Stati con una cinquantina di milioni di abitanti, uno sviluppo industriale avanzato, ecc. possano essere messi in difficoltà da uno Stato poco sviluppato e poco popolato come la Libia. Ci si avvicina tuttavia alla soluzione dell’enigma se si tiene presente che vale anche per gli Stati ciò che vale per gli individui: chi non ha nulla da perdere può essere aggressivo e perciò temibile, mentre chi ha molto da perdere tende ad essere cauto e prudente. E l’enigma si scioglie se si tiene presente come Einaudi – uno dei maggiori studiosi italiani di questo secolo, presidente della Repubblica dal 1948 al 1955 – giustificava l’affermazione che ho ricordato (“gli Stati esistenti sono polvere senza sostanza”): “Nessuno di essi è in grado di sopportare il costo di una difesa autonoma”.[1]
Ecco il re nudo. Gli Stati europei non hanno una difesa autonoma. Basta dunque capire, per valutarli, quale possa essere la “ragion di Stato” di Stati incapaci di difesa autonoma. E basta chiedersi quale possa essere la formazione e la selezione della classe politica in Stati di questo genere.
Mario Albertini
* Questo testo, pubblicato su Il Federalista, 28 n. 1 (1986), pp. 38-40, è una dichiarazione rilasciata da Mario Albertini il 16 aprile 1986, al momento in cui la cosiddetta “crisi della Sirte” raggiunse il suo apice con il bombardamento di Tripoli da parte dell’aviazione statunitense nella notte tra il 14 e 15 aprile 1986 (come ritorsione per un attentato dinamitardo in una discoteca di Berlino frequentata da militari americani) e con la risposta libica del lancio di due missili Scud su Lampedusa il 15 aprile. Questi fatti, d’altra parte, si inserivano in una situazione di forte tensione tra USA, Italia e Libia, nel quadro della più ampia crisi israelo-palestinese, ed erano stati preceduti, nell’ottobre del 1985 dalla “crisi di Sigonella”, quando militari italiani impedirono ai militari statunitensi della Delta force, nella base NATO di Sigonella, di catturare i dirottatori dell’Achille Lauro tra cui Abu Abbas, che aveva mediato, per conto dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e su richiesta del governo italiano, la liberazione della nave.
[1] Luigi Einaudi, Lo scrittoio del presidente, Torino, Einaudi, 1956, p. 89.