Anno LVII, 2015, Numero 3, Pagina 242
Per un nuovo modello di democrazia federale*
FRANCESCO ROSSOLILLO
La democrazia e il suo futuro.
La problematica istituzionale del federalismo presenta molte interessanti connessioni con un aspetto centrale di quella più generale della democrazia.
Quest’ultima grande esperienza storica, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, è stata caratterizzata da una tensione di fondo. Da un lato ciò che ha dato al complesso di idee, di comportamenti e di istituzioni che va sotto il nome di democrazia la capacità di affermarsi in Europa e nel mondo anglosassone extra-europeo come una forza storica irresistibile è stata la sua connessione originaria con l’ideale della sovranità popolare, cioè della realizzazione della volontà generale, dell’identificazione tra governanti e governati.
Dall’altro lato, da allora ad oggi, quegli ideali non sono mai andati al di là di alcuni sporadici inizi di realizzazione. Del resto agli stessi teorici classici della democrazia (come Rousseau, o Jefferson) non era mai sfuggito che un adeguamento, per quanto approssimato, della realtà all’ideale che informa l’ideologia democratica può essere concepito soltanto nel quadro del piccolo Stato, cioè in un ambito autenticamente comunitario, nel quale l’identificazione tra governanti e governati si possa effettivamente realizzare attraverso la partecipazione quotidiana ed intensa dei cittadini alla gestione della cosa pubblica.
Ma il piccolo Stato era già condannato dalla storia all’epoca di Rousseau. Nella maggior parte dei casi l’emergere degli Stati nazionali e dei conflitti di potenza tra di essi portò, nel corso del secolo successivo, alla sua scomparsa. Solo in alcune particolari circostanze storiche, in cui la scarsa rilevanza strategica di alcuni Zwergstaaten tenne lontani gli appetiti degli Stati più grandi, ciò non avvenne. Ma non era certo in quegli angoli dimenticati dalla storia che l’ideale di Rousseau si poteva realizzare. Tributari dei loro vicini maggiori in materia di politica estera e di sicurezza, di politica economica e monetaria, di politica delle comunicazioni, privi della benché minima possibilità di decidere del proprio destino, essi non erano più il quadro nel quale si poteva manifestare quel largo consenso attivo che si forma soltanto nel confronto con le scelte decisive, quelle che fanno da cornice a tutte le altre e che, se sono prese autonomamente, fondano la loro autonomia. La democrazia dei piccoli Stati si ridusse così – e non poteva essere altrimenti – alla pratica di forme puramente cerimoniali.
D’altro lato, l’ampliamento dell’orbita territoriale dello Stato rendeva impossibile l’impiego degli istituti della democrazia diretta in spazi di dimensione nazionale. Con questo non si deve naturalmente dimenticare che l’esperienza democratica che si è storicamente svolta nel quadro dello Stato nazionale ha costituito una grande fase progressiva nel cammino dell’emancipazione umana. La rivoluzione democratica ha prodotto come conseguenza un ampliamento senza precedenti dell’orizzonte sociale nell’ambito del quale avveniva il reclutamento delle élites politiche e ha radicato negli ordinamenti giuridici e nel costume le istituzioni e i comportamenti che ne garantiscono tuttora il ricambio. Essa è stata quindi un grande fattore di progresso sociale e di garanzia di pluralismo.
Rimane il fatto che l’istituto della rappresentanza, nel quadro dello Stato nazionale, non colma certo il fossato che divide governanti e governati, in quanto comporta per lo più la limitazione della partecipazione dei cittadini alla politica al solo rito del voto, e quindi dà all’idea della sovranità popolare un carattere apparentemente mistificatorio. È stato così che, paradossalmente, nella Rivoluzione francese, la concezione di Rousseau ha fatto parte dell’arsenale retorico del giacobinismo accentratore. Ed è stato così che, nel corso della storia delle nazioni europee, in nome dello slogan della volontà generale sono stati perpetrati i più svariati abusi della maggioranza ai danni della minoranza.
Questo processo è andato tanto avanti che oggi la teoria “classica” della democrazia non è più considerata “scientifica” e tende ad essere sostituita da un approccio più “realistico” che, sulla scia di Schumpeter, vede nella democrazia soltanto un insieme di regole che disciplinano la lotta per il potere.[1]
Ma la verità è che, se la democrazia è oggi certamente anche questo, essa è, in una prospettiva che non rimanga appiattita sul presente, molto più di questo. L’ideale democratico non avrebbe scosso l’Europa dell’Ottocento e non rimarrebbe una delle motivazioni più profonde dell’azione politica delle frazioni attive dei popoli della Terra che ancora lottano per liberarsi dall’oppressione se l’essenza del suo messaggio non fosse quella della promessa della scomparsa del potere attraverso la realizzazione della sovranità popolare.
Se è vero che gli uomini fanno essi stessi la loro storia, per largo che sia lo spazio che si voglia assegnare, nel gioco delle loro motivazioni, all’automistificazione, non sembra legittimo ritenere che le parole-chiave che sono servite e servono a dare espressione alle loro aspirazioni più profonde nelle grandi fasi di avanzamento del processo di emancipazione umana siano state soltanto delle formule insensate, senza alcun genere di riscontro nella realtà, quantomeno in quella realtà potenziale che Kant individuava nelle disposizioni degli uomini, destinate a realizzarsi nel procedere del corso della storia.
Ciò significa che la storia della democrazia non è finita, che l’idea di democrazia non ha ancora estrinsecato la totalità delle proprie determinazioni, e che il programma di questo sviluppo futuro è contenuto in nuce nella teoria della sovranità popolare di Rousseau.
Il fatto quindi che il problema di conciliare l’idea della sovranità popolare con l’esigenza di applicare le istituzioni democratiche al governo di vasti spazi non sia stato finora risolto non significa che esso non possa essere avviato a soluzione in futuro, come accadrebbe se si trattasse di un falso problema, mal posto perché posto a partire da una definizione errata della democrazia.
Lo stesso Rousseau aveva intravisto la strada da seguire. Egli scriveva nel Contratto sociale che la “confederazione” costituisce lo strumento per “riunire la potenza esterna di un grande popolo con il governo semplice e il buon ordine di un piccolo Stato”.[2] Ma per Rousseau, che esprimeva questa intuizione nel 1762, una “confederazione” non poteva essere che un’associazione tra Stati sovrani a fini puramente difensivi, e quindi per lui il problema del governo democratico dell’associazione in quanto tale non si poneva neppure. Egli stesso, del resto, notava che si trattava di “una materia del tutto nuova e i cui principi devono essere ancora stabiliti”. In ogni caso l’esperienza storica si è incaricata di dimostrare che le confederazioni, ossia le unioni difensive di Stati sovrani, hanno vita breve e sono destinate a sciogliersi o a consolidarsi in federazioni o in Stati unitari.[3]
Il problema si pone per la prima volta in termini concreti con l’inizio dell’esperienza federale americana, con la quale ci troviamo in presenza non più di un solo ordine di governi uniti in un’associazione per la difesa comune, ma di due ordini di governi, secondo la definizione di Wheare, coordinati e indipendenti ciascuno nella propria sfera.[4]
Mi pare che siano proprio i due elementi congiunti dell’indipendenza e della coordinazione a porre in termini nuovi il problema del governo democratico di vasti spazi. Essi infatti rendono pensabile un’articolazione istituzionale nella quale il governo locale, in quanto indipendente, possa sperimentare forme avanzate di autogoverno senza subire interferenze da parte del governo centrale; ma nella quale, in pari tempo, grazie alla coordinazione esistente tra i due livelli di governo, sia il modo di formazione della volontà politica al livello regionale, sia il contenuto delle decisioni prese allo stesso livello si possano in un certo qual modo trasferire al livello generale.
In realtà, nelle esperienze federali storicamente svoltesi fino ad oggi ciò non è accaduto se non in minima parte, perché, da un lato, in un sistema fondato su due soli ordini di governo (the Nation and the States), il livello regionale, che in ipotesi gode dell’indipendenza, è già troppo esteso per essere la sede di genuine esperienze di autogoverno democratico e, dall’altro, il coordinamento tra i due livelli avviene soltanto attraverso gli strumenti del bicameralismo a livello centrale e del regolamento dei conflitti di competenza da parte del sistema giudiziario, il che è largamente insufficiente per assicurare una autentica continuità tra livello regionale e livello generale nel meccanismo di formazione della volontà politica.
La direzione quindi – finora peraltro non seguita da alcuna costituzione storica – lungo la quale bisogna tentare di avanzare per trasformare la sovranità popolare da ideale in realtà in ambiti territoriali sempre più vasti è quella di articolare il principio federale in modo da far discendere l’elemento dell’indipendenza fino a sfere di autogoverno sufficientemente ristrette da fare da quadro adeguato ad esperienze autenticamente partecipative e comunitarie, e da rafforzare contemporaneamente quello della coordinazione mediante l’introduzione di congegni istituzionali che consentano di collegare efficacemente la formazione della volontà politica a tutti i livelli in un unico processo ascendente in forza del quale i contenuti della volontà generale emersi ai livelli nei quali essa si esprime spontaneamente si trasferiscano ai livelli territoriali superiori.
In questa prospettiva mi pare che alcune suggestioni per concreti avanzamenti teorici sulla strada che si sta tentando di percorrere si possano trarre dall’esame del modello di federalismo post-industriale che da qualche tempo si sta dibattendo all’interno della cultura federalista e le cui grandi linee sono state tracciate in un articolo apparso in un recente numero di questa rivista.[5] L’esigenza di fondo, imposta dalle tendenze emergenti nella società post-industriale, alla quale questo modello tenta di offrire una risposta, è quella della programmazione articolata (cioè di una programmazione che, da un lato, non sia limitata alla sola sfera economica, ma sia insieme economica e territoriale e, dall’altro, non sia elaborata e attuata burocraticamente dal governo centrale ma si realizzi democraticamente attraverso la collaborazione di diversi centri territoriali di iniziativa e di decisione, a seconda della dimensione dei problemi che devono essere di volta in volta affrontati). Questa, a sua volta, richiede una struttura istituzionale di natura federale, che però si distingua nettamente dal modello classico per una serie di caratteristiche, la cui funzione specifica sia appunto quella, da un lato, di estendere l’elemento dell’indipendenza, facendone un attributo anche di ambiti territoriali di dimensioni autenticamente comunitarie e, dall’altro, di rafforzare quello della coordinazione in modo da rendere il sistema istituzionale nel suo complesso capace di produrre decisioni che, senza sacrificare l’indipendenza di ognuno dei livelli che lo compongono, siano l’espressione di quell’unica volontà generale che si manifesta più genuinamente nel quadro delle comunità di base.
Lo status epistemologico del modello.
È opportuno, prima di procedere oltre, fare qualche precisazione sullo status epistemologico del “modello”, nel senso in cui impiego questo termine.
Si tratta di un concetto che evidentemente non descrive uno stato di fatto, ma che piuttosto si propone di rappresentare uno stato ideale, una situazione non come essa è, ma come dovrebbe essere.
È evidente che la rappresentazione di un ideale, inteso in questo senso, è del tutto priva di qualsiasi interesse teorico se si limita a riflettere le preferenze soggettive di qualcuno. Per questo l’utilità teorica dei modelli nelle scienze storico-sociali dipende dalla filosofia della storia che ne costituisce il fondamento e, in particolare, dal rapporto nel quale l’individuo che pensa la storia si colloca rispetto al proprio oggetto. A questo proposito può essere utile mettere a confronto il concetto di modello, così come io lo impiego, con il tipo ideale di Weber. Si tratta di due concetti che presentano un’importante caratteristica comune, in quanto anche il tipo ideale non ha la funzione di riprodurre la realtà così com’è, ma la deforma deliberatamente assumendo uno o più particolari punti di vista, selezionando quegli aspetti della realtà che sono compatibili con essi e mettendoli in relazione gli uni con gli altri al fine di ottenere una rappresentazione coerente del processo, istituzione o situazione oggetto dell’esame.
Per Max Weber, la decisione di privilegiare l’uno o l’altro punto di vista dipende esclusivamente dai valori dello storico o del cultore di scienze sociali. E questi valori, a loro volta, sono in larga misura arbitrari e non si trovano in nessun rapporto con quelli che, consapevolmente o inconsapevolmente, avevano determinato la condotta di coloro che agivano nella situazione alla quale il tipo ideale si riferisce. Perciò lo scopo del tipo ideale è soltanto quello di fornire allo storico o al cultore di scienze sociali una griglia concettuale che gli consenta di interpretare l’inestricabile groviglio degli eventi della storia facendoli entrare quasi a forza in uno schema interpretativo che, pur essendo arbitrario, costituisce pur sempre il solo strumento possibile per dare un certo ordine a processi che altrimenti non ne presenterebbero alcuno.[6]
Al contrario, l’uso che io faccio del modello come strumento concettuale presuppone, come accennavo prima, un diverso atteggiamento filosofico-storico. In questo caso, i valori che fanno da guida per la definizione dei concetti da usare come strumenti per l’interpretazione della storia non sono, in ipotesi, il risultato di una scelta arbitraria dell’interprete: ma l’interprete li trova in una realtà storica alla quale egli stesso appartiene e che è legata da un filo continuo alla situazione alla quale il concetto si riferisce.
Ciò significa che la selezione delle caratteristiche che l’interprete astrae dalla realtà, od aggiunge ad essa, per comporre un quadro coerente è guidata da valori che erano già, consciamente o inconsciamente, propri degli agenti del processo o della situazione da interpretare. È così che l’interpretazione della storia deve essere vista come un dialogo tra gli agenti del processo o della situazione da analizzare e l’interprete. E questo dialogo, a sua volta, è reso possibile dall’esistenza di un codice comune ad entrambi, cioè da una continuità di senso.
Orbene, poiché la storia è un processo che si sviluppa nel tempo, l’idea di continuità di senso implica quella di progresso, di avanzamento. Il senso è dialettico: il contesto riceve il suo significato dalle sue parti, ma il significato delle parti non è completo fino a che il contesto, a sua volta, non è esplicitato. Ciò significa che ciascuna delle parti di un discorso è tanto più determinata quanto più il discorso è avanzato. Ma, d’altra parte, ogni parte del discorso contribuisce a dare al contesto il suo senso, in quanto possiede la capacità di anticipare il significato dell’insieme.
Le stesse considerazioni possono essere applicate alla storia. Se ammettiamo che la storia abbia un senso – cioè che sia come un discorso – dobbiamo trarne la conseguenza che coloro che vengono dopo, disponendo di un contesto più ampio, si trovano in condizione di comprendere qualsiasi evento del passato meglio di quanto non potessero farlo gli stessi protagonisti. Ma l’evento è un anello in una catena significante, non è fatto bruto, al quale un significato debba soltanto essere dato dall’interprete: è un messaggio, con un senso proprio, lanciato dagli agenti verso l’interprete.
Ritorniamo al concetto di modello. Se la storia è come un discorso, il significato di qualunque processo, evento o situazione storica è destinato a crescere in ricchezza e precisione con il passare del tempo, per raggiungere la sua completa pregnanza nel momento ideale della fine della storia. Ma, contemporaneamente, ciò che accade realmente nella storia contiene in nuce, e quindi anticipa, l’intero sviluppo futuro. L’evento quindi possiede già, più o meno implicitamente, il senso che il processo futuro espliciterà nella totalità delle sue determinazioni. È per questo che è legittimo per il filosofo della politica analizzare le idee, i processi e le istituzioni che compaiono nel corso della storia con l’intendimento di scoprire le loro implicazioni nascoste e le determinazioni che devono ricevere per rivelare il loro pieno significato. Non si tratta di un puro gioco intellettuale. Se vi è progresso nella storia, le determinazioni contenute implicitamente in quelle idee, processi e istituzioni sono destinate a divenire reali in un tempo successivo. Per questo definire dei modelli significa tentare di prevedere il comportamento futuro degli uomini, e insieme di elaborare strumenti concettuali utili per valutare le insufficienze della nostra situazione presente e per accelerare il cammino degli uomini verso un mondo più razionale.
Il mio proposito in questo scritto è quello di dare un contributo – in vista di questo scopo – alla chiarificazione di alcune implicazioni del concetto di democrazia e di tentare di vedere le conseguenze istituzionali del pieno dispiegamento della idea rousseauiana di sovranità popolare in un mondo che la rivoluzione scientifica e tecnologica tende a rendere sempre più libero dai condizionamenti dell’antagonismo di classe e della ragion di Stato.
Le caratteristiche essenziali che distinguono il modello del federalismo post-industriale, che sta prendendo forma nel nostro dibattito, da quello classico sono essenzialmente:
a) la pluralità dei livelli in cui si articola il governo federale, dal quartiere al livello mondiale, passando per tutta una serie di ambiti intermedi;
b) l’istituzione del bicameralismo federale a tutti i livelli, con la sola ovvia eccezione del più basso;
c) l’introduzione del sistema elettorale detto “a cascata”, la cui caratteristica essenziale è costituita dalla rigorosa regolamentazione – ancorata nella costituzione – della successione temporale delle elezioni dei corpi legislativi dei vari livelli, a cominciare dal più basso, per garantire la trasmissione più fedele possibile della volontà generale dagli ambiti comunitari nei quali naturalmente si forma a quelli che, per le loro crescenti dimensioni, sono via via più lontani dalla sua fonte originaria; e per assicurare una razionale coordinazione tra i livelli nei quali si articola la programmazione federale.[7]
Partendo da questa premessa è possibile formulare una serie di indicazioni più precise, che presentano qualche elemento di novità. È opportuno ripetere a questo proposito che si tratta di elaborazioni di un modello proiettato in uno stadio ideale dello sviluppo storico. In esso, grazie al pieno dispiegamento delle potenzialità della rivoluzione scientifica e tecnologica a livello mondiale, si pongono come date le condizioni politiche, economiche e sociali della realizzazione completa[8] del valore della democrazia, della quale quindi si tratta soltanto di individuare alcune articolazioni istituzionali. Va da sé che molte delle indicazioni che sono contenute in questo scritto presuppongono una minore rigidità dei ruoli assegnati agli uomini dal sistema economico-produttivo, e quindi una minore rilevanza politica degli interessi organizzati in quanto tali e una maggior libertà nel comportamento del cittadino elettore, che si tratta di valorizzare mediante istituzioni adeguate. Ne consegue che molte di quelle stesse indicazioni non sarebbero applicabili alla situazione di transizione nella quale ci troviamo attualmente (i metodi elettorali suggeriti, per esempio, non hanno nulla a che fare con il metodo Geyerhahn, che in diversa sede i federalisti hanno individuato come il più adatto per le elezioni del Parlamento europeo).[9]
Si noti inoltre che quelle contenute in questo scritto sono indicazioni soltanto parziali, e quindi largamente inadeguate al carattere generale delle premesse dalle quali muove l’analisi. Malgrado ciò, mi è parso importante tentare di dimostrare che, in un’epoca come la nostra, nella quale la consapevolezza della natura delle fonti dell’ispirazione originaria dell’idea di democrazia sembra si affievolisca sempre più nelle coscienze sotto l’effetto, da un lato, del culto del decisionismo e dell’aspetto carismatico del potere, e, dall’altro, del diffondersi delle interpretazioni riduzionistiche di certe scuole politologiche e sociologiche,[10] una ricerca in questa direzione ha un senso, e merita di essere continuata.
I punti sui quali il modello di federalismo post-industriale consente di fare alcune osservazioni di carattere istituzionale che mi sembrano rilevanti rispetto al tema riguardano: a) la composizione degli organi legislativi dei vari livelli, b) i collegi per le elezioni delle Camere basse, c) il sistema elettorale per l’elezione delle Camere basse, d) la rappresentanza nelle Camere alte, e) i tempi e i modi della loro elezione, f) la funzione presidenziale e il potere di scioglimento delle Camere.
La composizione degli organi legislativi.
Le Camere basse degli Stati nazionali (Camera dei Comuni, Assemblea nazionale, Bundestag, Camera dei deputati) sono tradizionalmente composte da un numero assai elevato di deputati (alcune centinaia).
Ciò accade sostanzialmente per tre ragioni: a) negli Stati nazionali la quasi totalità (o quantomeno la maggior parte) del lavoro legislativo viene svolto dal Parlamento nazionale, il che comporta che lo stesso si articoli in molte commissioni, per la cui composizione è necessario un numero elevato di parlamentari; b) l’assenza di livelli intermedi di governo dotati di reale autonomia fa nascere l’esigenza di rappresentare gli interessi delle singole località direttamente al livello nazionale, il che può essere realizzato tanto meglio quanto più numerosi sono i deputati; c) la politica si fa prevalentemente al livello nazionale. Il Parlamento è quindi per eccellenza il luogo nel quale si forma e si esprime la classe politica. Ridurre drasticamente il numero dei deputati significherebbe, ipso facto, mutilare quest’ultima in modo inaccettabile.
D’altra parte, l’elevato numero di deputati che compongono le Camere è la fonte di alcuni inconvenienti altamente dannosi per uno svolgimento corretto della vita democratica. Il Parlamento viene sommerso in particolare da un’enorme quantità di rivendicazioni di natura locale e settoriale, che si possono agevolmente esprimere proprio perché il basso quorum necessario per l’elezione di un deputato lascia ampio spazio all’azione degli interessi organizzati in ogni singolo collegio. È qui da ricercare una delle più importanti radici della degenerazione corporativa della democrazia.
In una struttura federale a più livelli, le ragioni che impongono le attuali dimensioni dei Parlamenti nazionali cesserebbero di sussistere. Da un lato, la pluralità dei livelli in cui la struttura federale si articola comporta una ripartizione del lavoro legislativo tra i rispettivi organi rappresentativi, e quindi una notevole riduzione dei compiti che ogni livello deve affrontare; dall’altro la classe politica non dispone più di una sola istituzione (o quantomeno di una istituzione nettamente privilegiata rispetto a tutte le altre) attraverso la quale esprimersi, bensì di un’intera scala di organi collegiali dotati, ciascuno nella propria sfera, di piena indipendenza, attraverso cui programmare e percorrere il suo cursus honorum. Infine la programmazione articolata fa scomparire la necessità di rappresentare direttamente gli interessi locali al livello più elevato. Al contrario la sintesi dei problemi che si pongono e delle soluzioni che si individuano ai livelli più bassi si realizza progressivamente di mano in mano che l’esigenza della coordinazione si pone in ambiti territoriali via via più estesi.
Da tutto ciò si può trarre la conclusione che gli organi legislativi dei diversi livelli del nostro modello di Stato federale (e in particolare dei livelli più elevati) dovranno essere composti di un numero di deputati assai più ristretto dell’attuale. Ai livelli nazionale, continentale e mondiale questo numero non dovrebbe superare il centinaio.
Vale la pena, per concludere questo punto, di ricordare brevemente i vantaggi che la snellezza degli organi legislativi comporta: a) l’aumento del prestigio del ruolo del parlamentare; b) la maggiore severità nella selezione della classe politica quantomeno ai livelli più alti, presupposto indispensabile per il corretto svolgimento di una funzione che, in un quadro complesso come quello federale, è destinata a diventare sempre più complessa e delicata; c) la maggior concretezza e razionalità dei dibattiti e del lavoro legislativo (nel quale comunque i parlamentari dovrebbero essere coadiuvati da servizi tecnici efficienti); d) il ruolo proporzionalmente meno importante giocato dai condizionamenti locali e settoriali.
I collegi per le elezioni delle Prime camere.
Come si è già osservato nel paragrafo precedente, lo Stato nazionale unitario si trova nella necessità di tentare di conciliare tra loro due elementi inconciliabili: l’imperativo dell’accentramento, legato al dogma della nazione una e indivisibile, e l’incoercibile persistenza delle realtà locali, infinitamente diversificate. L’espediente istituzionale utilizzato a questo scopo consiste nel rappresentare direttamente le realtà locali nel Parlamento nazionale. Questo risultato si realizza – oltre che determinando in una cifra molto elevata il numero dei deputati che compongono le assemblee legislative – attraverso la creazione di collegi elettorali di piccole dimensioni (anche se variabili a seconda del sistema elettorale adottato). Ne consegue che il deputato è fortemente legato al collegio, nel quale si gioca il suo destino politico, e spesso fa prevalere, nella sua condotta politica, gli interessi del collegio su quelli del paese.
Non si può dimenticare del resto che, fino a non molto tempo fa, sarebbe stato impossibile organizzare le elezioni in altro modo, poiché il grado di sviluppo dei trasporti e delle comunicazioni rendeva difficile o impossibile condurre una campagna elettorale su territori molto estesi.
Nel modello dello Stato federale post-industriale entrambi questi condizionamenti vengono a cadere. L’esigenza di rappresentare direttamente al centro gli interessi delle località non ha più alcuna ragione d’essere perché, da un lato, i problemi delle comunità locali vengono direttamente affrontati, nella dimensione territoriale in cui si pongono, da livelli autonomi di autogoverno; e, dall’altro, nella misura in cui essi devono essere coordinati tra di loro in ambiti territoriali più vasti, il sistema elettorale “a cascata” è sufficiente a garantire la continuità, tra i diversi livelli, del dibattito sulla definizione degli orientamenti della programmazione articolata. Inoltre il bicameralismo federale assegna – ad ogni livello – alla Seconda camera la funzione istituzionale di rappresentare gli interessi dei distinti ambiti territoriali in cui ogni livello si articola. Alle Prime camere di ogni livello spetta quindi il compito specifico di identificare e di tradurre in decisioni di carattere legislativo l’interesse generale dell’intero ambito territoriale su cui hanno giurisdizione.
È per questo che si può affermare il principio che, in un sistema federale post-industriale, i deputati delle Camere basse di ogni livello dovrebbero essere eletti in collegi unici (regionale, nazionale, continentale, mondiale) in modo che essi non siano costretti dalla logica stessa dell’elezione ad anteporre l’interesse di una porzione del territorio a quello della sua totalità.
D’altro canto, i motivi logistici che rendevano impraticabile fino a qualche decennio fa la generalizzazione dell’istituto del collegio unico in ambiti territoriali di grandi dimensioni sono venuti a cadere: il progresso dei mezzi di trasporto e l’evoluzione dei mass media (e soprattutto la diffusione dell’uso del mezzo televisivo) stanno già di fatto cambiando la natura delle campagne elettorali. Non si deve dimenticare inoltre che la necessità, imposta ai candidati dall’istituzione del collegio unico e dal numero ristretto di deputati da eleggere ad ogni livello, di confrontarsi attraverso i mass media con grandi masse di elettori per attenerne il consenso, costituisce un ostacolo che può essere superato soltanto da personalità di notevole statura politica. Ciò costituirebbe una solida garanzia contro l’elezione dei troppi maneggioni, rappresentanti di lobbies, burocrati di partito ecc. che oggi affollano i Parlamenti nazionali.
L’argomento del valore democratico del dialogo diretto tra candidati ed elettori – già debole per la sola legge dei numeri in un’elezione per un livello di governo di grandi dimensioni territoriali – perde ancor più di valore se si cerca di farlo valere nel contesto del nostro modello di Stato federale, nel quale l’articolazione specifica degli interessi locali si realizza al livello del quartiere, del comprensorio, della regione, ecc., cioè là dove il contatto diretto tra candidati ed elettori è ancora possibile, mentre ai livelli superiori si definiscono soltanto i grandi orientamenti che forniscono il quadro di coordinamento delle scelte fatte ai livelli inferiori. Rispetto a questi grandi orientamenti la volontà generale si esprime correttamente non già attraverso un contatto personale tra candidato ed elettore (che in ogni caso si realizza sempre a prezzo del frazionamento della volontà generale in una contrapposizione di volontà particolari), ma attraverso un meccanismo elettorale che indirizzi l’attenzione dei candidati verso i problemi dell’insieme e non verso quelli di una singola parte (senza peraltro dimenticare che la funzione specifica delle elezioni “a cascata” è quella di evitare una contrapposizione astratta tra l’interesse del tutto e l’interesse delle parti, dando una forma concreta – attraverso il meccanismo di formazione della volontà politica – all’interesse generale inteso come sintesi degli interessi delle parti che compongono il sistema politico nel suo insieme).
È da collocare a questo punto un’ultima considerazione. Si è messa precedentemente in evidenza l’esigenza di mantenere costantemente attivo il legame tra la parte della classe politica che agisce ai livelli più elevati e quella che agisce al livello minimo, quello al quale sono percepiti i bisogni, e nel quale quindi la volontà generale affonda le sue radici. Si potrebbe quindi pensare che i piccoli collegi rafforzino questo collegamento e che il collegio unico, al contrario, lo indebolisca. È invece vero l’opposto. L’allargamento dell’orbita dello Stato nel corso della storia, dalla città-Stato greca ai grandi Stati continentali del nostro tempo è la chiara testimonianza della crescente interdipendenza dei problemi che è compito della politica risolvere, senza che per questo essi cessino di manifestarsi nella forma di bisogni che si esprimono nella quotidianità della convivenza organizzata nell’ambito delle comunità locali. Ciò comporta che il compito dei livelli superiori di autogoverno è quello di creare le condizioni di compatibilità senza le quali i problemi che si manifestano ai livelli inferiori non potrebbero essere risolti. E questo obiettivo non può essere raggiunto che se la classe politica ai livelli più elevati si sente responsabile nei confronti dell’elettorato dell’intero quadro territoriale nel quale la sintesi deve essere operata. Nel caso opposto, qualora cioè i rappresentanti agiscano in quanto interpreti degli interessi di una sola frazione di quell’ambito territoriale, alla sintesi si sostituisce il compromesso, si attiva la logica dei rapporti di forza e il problema del perseguimento dell’interesse generale passa in secondo piano.
Scrutinio di lista e preferenze.
L’introduzione del collegio unico a tutti i livelli rende inevitabile l’impiego dello scrutinio di lista, e pone il problema delle preferenze.
Il primo punto non richiede ulteriori approfondimenti perché le obiezioni che si possono rivolgere allo scrutinio di lista sono le stesse che si possono rivolgere al collegio unico e ad esse si è risposto nel paragrafo precedente.
Rimane da discutere il problema delle preferenze. È noto a tutti che il sistema delle preferenze è una grave fonte di corruzione e di corporativizzazione del sistema politico. D’altro lato, l’abolizione delle preferenze – rimanendo fermo lo scrutinio di lista – comporta l’imposizione da parte dei partiti agli elettori dei candidati scelti dagli apparati, il che viene giustamente sentito come una violazione dello spirito del gioco democratico.
In realtà, l’elemento che fa delle preferenze un fattore di degenerazione della vita politica, favorendo la formazione di clientele e camarille e la prevaricazione degli interessi corporativi sulla volontà generale, è il loro carattere facoltativo. È infatti noto che la maggior parte degli elettori non esprime alcuna preferenza favorendo in tal modo la strategia dei gruppi di interesse organizzati che, concentrando i voti di un numero relativamente ristretto di elettori, riescono ad imporre l’elezione dei loro candidati.
La soluzione del problema sta quindi nel rendere le preferenze obbligatorie, introducendo la regola che un voto è validamente espresso per una lista soltanto quando è dato ad un numero minimo di candidati che figurino nella stessa.
Questo meccanismo, unito alla logica del collegio unico – che comunque costringe i partiti a presentare candidati di spicco, potenzialmente in grado di attirare su di sé un largo numero di consensi in tutti i settori geografici e sociologici dell’elettorato del collegio – consentirebbe di contribuire efficacemente a sanare la piaga del clientelismo.
La rappresentanza nelle Seconde camere.
La funzione delle Seconde camere negli Stati federali tradizionali, come è noto, è quella di rappresentare, in seno al Parlamento della federazione, gli interessi degli Stati membri. Le circostanze storiche in cui nacquero gli Stati Uniti d’America (nelle quali si trattava di vincere la reticenza degli Stati minori, che temevano di perdere, con la rinuncia alla sovranità, qualunque possibilità di far valere i loro punti di vista qualora il principio della rappresentanza proporzionale, applicato in entrambe le Camere federali, li avesse messi nella situazione di trascurabili minoranze rispetto agli Stati più grandi) portarono all’applicazione, in seno al Senato americano, del principio della pariteticità della rappresentanza, in virtù del quale gli Stati minori si trovarono a disporre di un potere proporzionalmente assai più consistente di quello che sarebbe loro spettato in forza della loro cifra di popolazione.
Nel modello di federalismo post-industriale, la soluzione paritetica (anche se, come si vedrà, con alcune attenuazioni e con la sua ovvia estensione a tutti i livelli) deve essere sostanzialmente confermata. È opportuno ricordare ancora una volta a questo proposito che l’esigenza primordiale alla quale risponde il modello federalistico post-industriale è quella della programmazione articolata e che il fine principale di quest’ultima è il raggiungimento e il mantenimento di un assetto territoriale equilibrato.
Perché l’una e l’altro possano essere realizzati è necessario che le zone del territorio della federazione che al momento della sua fondazione hanno lo status di periferia, cioè sono minacciate dallo spopolamento, dal sottosviluppo e dalla desertificazione, possano far sentire la loro voce con forza uguale a quella delle zone di estensione territoriale comparabile, che invece sono ricche, densamente popolate e sovraequipaggiate in servizi. È chiaro infatti che la proporzionalità della rappresentanza in seno ad entrambe le Camere, attribuendo maggior forza numerica, e quindi politica, alle aree privilegiate, tenderebbe ad accentuare la spinta alla polarizzazione, e quindi ad agire in senso contrario all’obiettivo di fondo della programmazione articolata.
Più in generale, si può affermare che la proporzionalità della rappresentanza in seno alla Seconda camera negherebbe la specificità stessa del federalismo in quanto tale, perché ciò che distingue la programmazione federale da quella centralizzata è proprio la capacità della prima di far affluire verso le regioni sfavorite risorse che spontaneamente non vi affluirebbero, grazie al maggior potere politico di cui dispongono nel quadro della struttura istituzionale federale. Al contrario, la logica della tutela degli interessi delle regioni economicamente egemoni è la stessa che si manifesterebbe spontaneamente in una struttura statuale di tipo unitario. Per questo, conferire alle diverse ripartizioni territoriali cui corrispondono livelli di autogoverno un peso politico proporzionale alla loro cifra di popolazione significherebbe riprodurre in seno allo Stato federale lo stesso tipo di squilibrio per superare il quale, in ipotesi, si rende necessaria la soluzione federale.
Tutto ciò non significa – si badi bene – che solo le regioni periferiche e sottosviluppate trarrebbero vantaggio da questo meccanismo istituzionale. Gli squilibri territoriali infatti nuocciono tanto alle regioni povere quanto a quelle ricche, che devono sopportare le conseguenze della congestione, dell’inquinamento, della lievitazione dei valori immobiliari, del costo spaventosamente elevato dei servizi, ecc. Significa soltanto che, poiché la logica spontanea della polarizzazione territoriale è quella di crescere su sé stessa, anche contro gli interessi a medio termine delle regioni più ricche, essa può essere contrastata soltanto attribuendo un maggior peso politico ai poli più deboli.
Sembra quindi di dover confermare che nel modello del federalismo post-industriale il principio della pariteticità della rappresentanza vada sostanzialmente ribadito. Questa affermazione è però subordinata ad una condizione. È necessario cioè che gli ambiti territoriali degli organi di governo dello stesso livello siano di estensione territoriale comparabile. Qualora, per ragioni storiche, ciò non accada, e ci si trovi in presenza di regioni poco estese e insieme molto ricche e densamente popolate (si faccia il caso di Belgio, Olanda e Lussemburgo in Europa), la pariteticità della rappresentanza comporterebbe conseguenze opposte a quelle perseguite, in quanto rafforzerebbe ulteriormente regioni già forti. In questi casi il principio della pariteticità dovrebbe essere attenuato attraverso l’adozione di meccanismi di rappresentanza ponderata, come quelli attualmente applicati in seno al Parlamento europeo. È però da ritenere che, in casi di questo genere, continuino a valere le considerazioni che erano state tenute presenti dai padri della Costituzione americana, e che quindi una certa sovrarappresentazione vada comunque concessa ai piccoli Stati a titolo di garanzia della loro indipendenza e di compensazione per la rinunzia alla sovranità.
Non si può chiudere il capitolo della pariteticità della rappresentanza in seno alle Seconde camere federali senza esaminare il problema costituito dalla sua apparente contraddizione con il principio one man one vote, che costituisce uno dei caratteri essenziali della democraticità di un ordinamento.
Bisogna ricordare a questo proposito che le istituzioni della democrazia rappresentativa svolgono due funzioni essenziali, nettamente distinte tra di loro: una funzione di governo – intesa in senso lato – e una funzione di garanzia. La seconda di queste funzioni era preponderante nella prima fase della storia delle istituzioni democratiche, quando il compito del Parlamento tendeva ad identificarsi con quello della difesa dei diritti dei sudditi contro il potere arbitrario della monarchia.
Il progressivo rafforzamento dell’istituto parlamentare ha mutato profondamente la situazione, facendo dell’esecutivo un’espressione del Parlamento. Ciò ha fatto del Parlamento un’istituzione eminentemente di governo ed ha tendenzialmente obliterato la funzione di garanzia della rappresentanza parlamentare, sì da porre il problema – che fu al centro del dibattito tra liberali e democratici nel XIX secolo – della tutela dei diritti dei cittadini contro l’arbitrio della maggioranza.
Il bicameralismo federale consente di ripristinare la funzione garantista della rappresentanza parlamentare, che si esercita come tutela dei diritti e degli interessi dei livelli inferiori di autogoverno contro i possibili arbitri della maggioranza ai livelli più elevati (affiancandosi in questo al ruolo della magistratura, alla quale è inoltre attribuito il compito di tutelare i diritti dei singoli contro qualsiasi arbitrio del potere politico). E questa funzione è l’appannaggio delle Seconde camere.
Ciò implica evidentemente che si realizzi, tra le due Camere, una divisione dei compiti che rifletta la diversità degli interessi che ciascuna di esse rappresenta. Alle Prime camere deve cioè essere attribuito il compito di esercitare l’iniziativa legislativa e quello di esprimere e di controllare democraticamente l’esecutivo, mentre alle Seconde camere deve essere attribuito un compito di riflessione e di controllo in funzione degli interessi specifici dei livelli inferiori di autogoverno, e di tutela dei loro diritti, ancorati nella costituzione.
È opportuno ricordare, a conferma di queste considerazioni, che il modello non prevede l’istituzione del bicameralismo al livello semplice del quartiere, nel quale, in ipotesi, senza che ciò comporti l’abolizione della rappresentanza politica, gli orientamenti dell’autogoverno emergono spontaneamente dal dibattito quotidiano tra i cittadini, cioè tra coloro stessi che subiscono direttamente le conseguenze delle decisioni che contribuiscono a prendere. A questo livello – quello che maggiormente si avvicina alla realizzazione dell’ideale rousseauiano dell’identificazione tra governanti e governati – si annulla, proprio a causa di questa tendenziale unificazione, la distinzione tra funzione di governo (che diventa autogoverno nel senso più pregnante del termine) e funzione di garanzia. Ma la distinzione si ripropone già al livello immediatamente superiore (quello del comune, o del comprensorio) e si riflette nello sdoppiamento della rappresentanza.
Tutto ciò rende evidenti le ragioni che stanno alla base dei diversi meccanismi attraverso i quali la rappresentanza si deve realizzare in ciascuna delle due Camere: mentre il principio one man one vote deve essere scrupolosamente applicato nelle istituzioni rappresentative investite della funzione di governo (in quanto essa si identifica con il principio del governo della maggioranza, che costituisce l’essenza stessa della democrazia nell’esplicazione di questa funzione), in quelle che sono invece investite della funzione di garanzia (che devono cioè costituire il presidio del rispetto dei limiti invalicabili dell’azione del governo) il principio della uguaglianza deve essere applicato con riferimento ai livelli di autogoverno i cui diritti devono essere tutelati, e soltanto all’interno di ciascuno di essi riprende valore – limitatamente alla funzione di governo – il principio one man one vote.
Tempi e modi dell’elezione delle Seconde camere.
Nell’esperienza degli Stati Uniti d’America, l’evoluzione della struttura e della funzione del Senato è stata tale da obliterare la specificità del ruolo della Seconda camera come luogo in cui la politica federale viene ridiscussa alla luce degli interessi degli Stati membri. Il Senato è diventato in tal modo una sorta di doppione della Camera dei Rappresentanti. Il bicameralismo americano ha sostanzialmente perso in tal modo il suo carattere federale, e ciò perché l’identità del modo di elezione dei Senatori e dei Rappresentanti attenua da un lato il legame dei primi con il proprio Stato e, dall’altro, conserva quello dei secondi con il proprio collegio.
Nel nostro modello la differenza sostanziale tra le due Camere è già garantita dall’adozione del collegio unico per l’elezione della Prima camera ad ogni livello. Ma una seconda garanzia dovrebbe essere fornita dalla time-table delle elezioni, il cui fine specifico, come si è visto, è quello di far emergere di volta in volta, nella campagna elettorale, la natura specifica dei problemi che si pongono ad ogni livello ed il carattere della loro connessione con quelli messi in vista nelle campagne elettorali dei livelli inferiori. In questa prospettiva sembra che il modo migliore per sensibilizzare i membri delle Seconde camere alla problematica specifica del livello territoriale che rappresentano sia quello di rendere contemporanea la loro elezione con quella dei membri della Prima camera del livello immediatamente inferiore, in modo che la campagna delle due elezioni si svolga sugli stessi temi.
Rimangono da fare alcune considerazioni per quanto riguarda il sistema elettorale. Gli stessi argomenti addotti per giustificare la necessità del collegio unico nell’elezione delle Prime camere valgono, mutatis mutandis, per l’elezione delle Camere alte. La differenza, peraltro scontata, consiste nel fatto che quest’ultima si dovrà svolgere in tanti collegi unici quanti sono gli ambiti territoriali che dovranno essere rappresentati al livello superiore (per esempio, l’elezione della Seconda camera al livello continentale si svolgerà in collegi unici nazionali, quella delle Seconde camere a livello nazionale in collegi unici regionali, ecc.).
Per quanto riguarda infine il sistema elettorale in senso stretto, sembrerebbe da raccomandare – in considerazione sia del numero ristretto di rappresentanti che ogni livello deve inviare al livello superiore, sia della presumibile maggior flessibilità che andranno assumendo gli schieramenti partitici nell’era post-industriale, nel quadro di una struttura federale articolata – l’adozione del voto singolo trasferibile.
La funzione presidenziale e il potere di scioglimento delle Camere.
Un’ultima serie di considerazioni rimane da fare per quanto riguarda la funzione presidenziale dei diversi livelli e il potere di scioglimento delle Camere.
A titolo di premessa è bene richiamare una conclusione alla quale si era pervenuti in altra sede[11] e che è stata data per presupposta nel paragrafo precedente: cioè che, se ci si colloca in una prospettiva storica nella quale, superata la divisione della società in classi antagonistiche e dell’umanità in nazioni esclusive, la programmazione articolata diviene sostanzialmente la sola funzione di governo, i rapporti tra il legislativo e l’esecutivo non possono che essere ispirati ad un modello di tipo parlamentare, nel quale cioè il governo necessiti della fiducia del Parlamento, o di uno dei suoi rami, per entrare in carica e il Parlamento, o uno dei suoi rami, disponga del potere di far decadere in qualunque momento il governo esprimendo un voto di sfiducia.
Un sistema di tipo parlamentare comporta come corollario, nella tradizione costituzionale delle democrazie occidentali, l’esistenza di un’istituzione che eserciti la funzione presidenziale (Capo dello Stato) e che abbia tra gli altri il potere di decidere la dissoluzione delle Camere qualora queste si dimostrino incapaci di esprimere una maggioranza di governo.
Si pone quindi il problema di vedere in quale forma un organo con funzioni presidenziali sia compatibile con il nostro modello, e se a questo organo possa essere attribuito il potere di decretare la dissoluzione del Parlamento, o di uno dei suoi rami.
Esaminiamo dapprima il problema della forma dell’organo con funzioni presidenziali.
La prima considerazione che si impone è quella che, in un sistema federale articolato in più livelli di governo, il problema non si pone soltanto al livello generale, ma anche a tutti i livelli regionali. Questa conclusione è imposta dal requisito dell’indipendenza dei diversi livelli di governo, che costituisce una caratteristica essenziale di ogni struttura federale.
Per quanto riguarda la composizione dell’organo cui spetta la funzione presidenziale, si possono trarre interessanti indicazioni dall’esame del progetto di Trattato del Parlamento europeo (che su questo punto, come in altri, ha recepito una precisa proposta avanzata dall’UEF).[12] Nel caso dell’Unione europea, la natura fortemente differenziata della società europea in tutti i suoi aspetti e il persistere di lealismi nazionali (che non sono per nulla incompatibili con il forte grado di consenso per l’idea dell’unificazione politica dell’Europa esistente nell’opinione pubblica europea) hanno imposto, per la Presidenza della Comunità, l’adozione di una soluzione collegiale. La relativa funzione è stata così attribuita, nel progetto di Trattato, al Consiglio europeo. In una prospettiva planetaria, nella quale la caduta di ogni tipo di vincolo esterno di natura non giuridica tenderà ad indebolire le spinte spontanee all’accentramento, sembra lecito affermare che la soluzione indicata per l’Unione europea possa essere estesa a tutti i livelli (tranne naturalmente il più basso, per il quale possono essere pensate soluzioni di diversa natura). La funzione presidenziale verrebbe così affidata, per ogni livello di governo, ad un organo collegiale composto dai capi degli esecutivi del livello immediatamente inferiore.
Si tratta ora di vedere se all’organo presidenziale collegiale di ciascuno dei livelli di governo debba venire attribuito il potere di decretare la dissoluzione della Camera bassa qualora questa si dimostri incapace di esprimere una maggioranza a sostegno di un governo (il problema non si pone per la Camera alta, alla quale, come si è visto, non spetta in ipotesi alcun controllo sull’esecutivo).
Orbene, è facile constatare che il potere della Presidenza collegiale di sciogliere la Camera bassa è incompatibile con la funzione essenziale delle elezioni “a cascata”, che implica che la successione temporale delle elezioni ai vari livelli sia rigidamente determinata e non possa essere alterata, come avverrebbe nella ipotesi di scioglimento della Camera bassa di un singolo livello di governo.
È evidente quindi che i rapporti tra legislativo (Camera bassa in particolare) ed esecutivo devono essere congegnati nel modello in modo da consentire al sistema di funzionare senza il rimedio estremo dello scioglimento delle Camere.
Prima di fare alcuni cenni a quelli che potrebbero essere gli strumenti istituzionali da impiegare per risolvere il problema, è opportuno ricordare che, in un sistema federale di dimensione mondiale e articolato in più livelli, la gravità di una impasse istituzionale temporanea che riguardi un solo livello è assai minore di quanto non sarebbe il caso in un quadro Stato-nazionale. In quest’ultimo infatti una crisi di governo comporta una paralisi globale, o quasi, del processo decisionale nella sfera pubblica, ivi compreso il settore cruciale della politica estera. Nella prima ipotesi invece la crisi investirebbe soltanto uno tra i molteplici livelli di governo, e quindi un settore limitato della sfera pubblica e, anche se dovesse interessare il livello planetario, non per questo sarebbe di maggiore gravità, in quanto l’ambito generale, una volta privato della competenza della gestione della politica estera (e del monopolio del governo della moneta) avrebbe, per la vita dei cittadini, un rilievo non superiore (o addirittura inferiore, in quanto non competente a prendere decisioni aventi una incidenza immediata sui loro interessi concreti) a quello degli ambiti di dimensione minore.
Ciò non ci esime naturalmente dalla necessità di tentare di individuare i meccanismi istituzionali indicati a ridurre al minimo la probabilità che, ad ogni livello, si possa verificare una crisi di governo e, qualora essa non possa essere evitata, ad assicurare che essa possa essere gestita nel modo più efficace e meno traumatico possibile.
Per quanto riguarda il primo problema, l’istituto che si presenta come il più naturalmente adatto a risolverlo è quello del voto di sfiducia costruttivo, introdotto nel dopoguerra nella Legge fondamentale della Repubblica Federale di Germania. Esso però non è in grado di evitare l’impasse che si determina quando una Camera appena eletta non è in grado di esprimere una maggioranza a sostegno di un governo o quando è lo stesso governo a presentare le proprie dimissioni.
In questi ultimi casi pare di poter giungere alla conclusione che la responsabilità dell’esercizio del potere esecutivo, fino a quando la Camera non sarà riuscita a formare una maggioranza, debba incombere all’organo collegiale cui spetta la funzione presidenziale, integrato con altri rappresentanti dei governi del livello inferiore che coadiuvino i rispettivi Capi di governo. Esso appare infatti come la sola istanza che riunisce in sé i requisiti della legittimazione democratica (anche se espressa ad un altro livello) e del legame strutturale con gli orientamenti formulati dai livelli di governo di ordine inferiore.
*Questo saggio è stato pubblicato è stato pubblicato su Il Federalista, 27 (1985), p.88.
[1]Cfr. Joseph A. Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy, London, Allen & Unwin, 5a ed. 1976, pp. 250 segg. Per una recente, interessante serie di raffronti tra la teoria “classica” e la teoria “competitiva” della democrazia, v. Graeme Duncan, Ed., Democracy. Theory and Practice, Cambridge, Cambridge University Press, 1983.
[2] Jean-Jacques Rousseau, Du Contrat Social in Id., Œuvres Complètes, Paris, Gallimard, vol. III, 1959 e seguenti, p. 431 e nota alla stessa pagina.
[3]Cfr. a questo proposito Murray Forsyth, Unions of States. The Theory and Practice of Confederation, Leicester, Leicester University Press, 1981.
[4]Kenneth C. Wheare, On Federal Government, Oxford University Press, 4a ed. 1973, p. 10.
[5]Francesco Rossolillo, Il federalismo nella società post-industriale, Il Federalista, 26 (1984), pp. 122 sgg..
[6]Cfr. Max Weber, Die Objektivität sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis, in Id., Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, Tübingen, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), 3. Auflage 1968, p. 191.
[7]Si tratta di una proposta avanzata per la prima volta da Mario Albertini nel suo Discorso ai giovani federalisti, Il Federalista, 20 (1978) pp. 51 sgg. La ratio della proposta è quella di creare un meccanismo che, grazie appunto alla rigida e ravvicinata successione delle elezioni ai diversi livelli, costringa partiti e candidati a impostare la campagna elettorale e la definizione dei programmi in funzione delle indicazioni emerse dal dibattito elettorale ai livelli inferiori. L’adozione di un metodo di questo genere avrebbe la naturale conseguenza di dare un carattere di particolare continuità anche alla selezione della classe politica, perché questa sarebbe comunque costretta a definire i propri orientamenti in funzione delle esigenze della programmazione articolata e a sforzarsi di indicare le sintesi più efficaci tra le soluzioni sulle quali si è espresso il consenso popolare ai livelli inferiori, anziché affidare le proprie fortune, come oggi in genere accade, al sostegno di gruppi di interesse settoriali.
[8]Mario Albertini, nota 11 al saggio Cultura della pace e cultura della guerra, Il Federalista, 26 (1984), pp. 27 sgg.
[9]Cfr. Movimento federalista europeo, Il sistema elettorale per la seconda elezione europea. Proposte tecniche, Il Federalista, 22 (1980), pp. 85 sgg.. Per illustrare con un esempio la differenza tra la prospettiva della transizione e quella del modello sotto il suo profilo più generale, ci si può riferire alle due grandi tipologie individuate da Arend Lijphard (Democracies. Democratic Patterns of Majoritarian and Consensus Government in Twenty-One Countries, Yale, Yale University Press, 1984): quelle di democrazia maggioritaria e di democrazia consensuale. La democrazia maggioritaria di tipo britannico, nella quale il governo è sorretto dal consenso di una ristretta maggioranza relativamente omogenea appare più adeguata alle esigenze della transizione, anche se il sistema di governo britannico sta dando, nell’attuale fase storica, evidenti segni di crisi; mentre al punto d’arrivo del processo (nel modello) il governo non può che ispirarsi alla tipologia della democrazia consensuale (in cui il processo di presa delle decisioni si attua attraverso la formazione di una base di consenso assai più ampia della semplice maggioranza e che, al limite, tende all’unanimità).
[10]Esempi di riduzionismo – anche se a livello di indiscussa serietà scientifica – si possono ravvisare per esempio nella tendenziale identificazione operata da Robert A. Dahl (p. es. in Dilemmas of Pluralist Democracy, Yale, Yale University Press, 1982) tra democrazia e “poliarchia” (ossia pluralismo di centri di potere) o nella concezione della democrazia come procedura di legittimazione del potere esposta da Niklaus Luhmann, in Legitimation durch Verfahren, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1983.
[11]Francesco Rossolillo, Il federalismo nella società post-industriale, op. cit..
[12]Unione europea dei federalisti, Proposte per la soluzione della crisi istituzionale della Comunità, febbraio 1982.