IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LVI, 2014, Numero 3, Pagina 331

 

 

Cultura della pace e cultura della guerra*

 

MARIO ALBERTINI

 

 

1. Una premessa sulla questione del metodo. Scienza della politica e realismo politico. La ricerca di un filo conduttore per connettere tra loro i fatti della guerra e quelli della pace.

Il mio proposito non è quello di esaminare il problema della pace su un piano strettamente scientifico. Quando si considerano i grandi problemi politici, se si pretende di dare una forma rigorosamente scientifica all’esame, si incontrano delle difficoltà insuperabili. Dato lo stato ancora incerto della scienza politica e della sociologia, per conseguire questo scopo bisognerebbe giustificare quasi ogni termine che si usa; ed è evidente che in questo modo non si potrebbe mai tener fermo l’esame su un singolo argomento (come quello della pace o qualunque altro).[1] Mi limiterò dunque per un verso a dire che credo che il problema della pace debba essere esaminato da quattro punti di vista — la mancanza di una cultura della pace, la situazione della pace, l’esistenza o meno di un processo verso questa situazione, il modo con il quale viene pensata la pace nell’azione politica — e per l’altro ad affrontare, in questa sede, il primo aspetto, che mi sembra cruciale per studiare la pace come un aspetto del processo culturale, cercando solo, per quanto riguarda il modo di affrontarlo, di non discostarmi dalla tradizione del realismo politico.[2]

Per quanto riguarda il mio orientamento, devo precisare che è del tutto eguale a quello di coloro che ritengono che si debba fare della pace l’obiettivo supremo della lotta politica perché la guerra coincide ormai con la possibilità dell’autodistruzione del genere umano.[3] E per quanto riguarda invece il carattere del testo, devo chiarire che esso dipende dalle difficoltà che ho incontrato. La prima difficoltà sta nel fatto che in questo caso bisogna mostrare che il noto — la guerra e la pace — non è affatto un conosciuto (si crede di sapere che cosa siano la guerra e la pace, ma al di là dell’evidenza empirica di alcuni fatti isolati non c’è alcuna teoria accettabile, dunque nessuna tecnica efficace per evitare le guerre ecc.). La seconda difficoltà sta nel fatto che la guerra e la pace sono comportamenti collettivi, cioè eventi e situazioni che non riguardano solo le teorie, ma anche le credenze, le abitudini ecc. Ne segue che bisogna prendere in esame dei modi di pensare collettivi, cioè, in ultima istanza, dei fatti culturali. E la difficoltà si manifesta proprio a questo punto perché la cultura della guerra non esiste come visione del mondo, ma come un certo collegamento tra istituzioni, fatti, credenze, abitudini, frammenti di idee ecc. che non vengono sempre, in quanto tali, riferiti consapevolmente alla guerra. Il problema sta pertanto nella ricerca di un filo conduttore per collegare tra loro tutti i fatti della sfera della guerra, indipendentemente da come appaiono; e, nella misura del possibile, per collegare tra loro anche tutti i fatti della sfera della pace. Ciò comporta, ovviamente, un certo grado di astrazione. E c’è una complicazione ulteriore. A mano a mano che questo filo conduttore si profila, molti problemi di carattere storico e politico appaiono in una luce nuova, ma vanno esaminati a parte perché altrimenti spezzerebbero l’esposizione dei dati da collegare per stabilire il filo conduttore. Mi sono perciò servito del testo per esporre la trama del filo conduttore, e delle note (estese a chiarimenti) per esporre i problemi che vengono in luce.

 

2. La mancanza di una cultura della pace. La filosofia della storia di Kant come quadro storico del mancato sviluppo di una cultura della pace.

Io credo che non ci si sbaglia se si afferma che non esiste ancora una cultura della pace.[4] Non appartiene certo al mondo della pace la concezione dominante dello Stato come società nazionale chiusa, esclusiva ed armata. Non si dovrebbe d’altra parte dimenticare che il liberalismo la democrazia e il socialismo (marxismo incluso), che costituiscono gran parte del pensiero politico moderno, sono stati, specialmente nei loro momenti creativi, apertamente polemici contro la pace come obiettivo prioritario. La negazione di questa priorità si trova spesso persino nel pensiero degli utopisti (per certi aspetti in Tomaso Moro, per altri in Proudhon ecc.). In effetti si può ragionevolmente sostenere che al di là di questa negazione c’è ben poco: non c’è, a ben considerare, che il pacifismo tradizionale, con il suo carattere di utopia senza nerbo metafisico o senso storico, e con il suo facile trapassare nella negazione puramente individuale della guerra (obiezione di coscienza) o nella determinazione manichea di fare la guerra alla guerra, che trova sempre un alibi nell’idea della propria guerra come ultima guerra.[5]

La realtà che sta alla base di questa situazione del pensiero politico è stata analizzata con grande chiarezza da Kant, che viene spesso incluso a torto nella schiera dei pacifisti ingenui. La pace è certamente uno dei temi centrali della sua filosofia politica, ma va tenuto presente che egli pensava che il presupposto della pace fosse una trasformazione radicale della forma del processo storico, e concepiva questa trasformazione come il passaggio dallo stato (tuttora perdurante) di processo guidato esclusivamente dalle caratteristiche naturali della specie a quello di un processo sottoposto al controllo della volontà dell’intero genere umano (sulla base della “eguaglianza di tutti gli esseri ragionevoli”).[6]

Le affermazioni e le congetture di Kant sulla pace e sulla guerra sono molto nette. Egli situava la pace in un contesto futuro nel quale “la nostra civiltà (chissà quando?) avrà raggiunto il punto di perfezione, il solo di cui questa pace [la pace perpetua] potrebbe essere la conseguenza”. Egli riteneva, d’altra parte, che “al grado di civiltà cui il genere umano è pervenuto la guerra è un mezzo indispensabile per elevarsi”. Senza la guerra non ci sarebbero né il passaggio “dalla barbarie alla cultura, che consiste propriamente nel valore sociale dell’uomo”, né il costante sviluppo della società umana (“Il pericolo della guerra è l’unica cosa che serva a temperare il dispotismo”). Egli affermava infine che sarà la guerra — per la sua tendenza inevitabile a diventare sempre più distruttiva — a porre fine a se stessa, provocando, “dopo tentativi dapprima imperfetti”, il superamento della “libertà selvaggia” degli Stati con una “federazione di popoli”.[7]

 

3. La cultura della quale siamo eredi è una cultura della guerra. Clausewitz e l’incapacità di pensare l’unità di politica e di guerra. Logica e forme della cultura della guerra.

Ho ricordato questo aspetto poco studiato del pensiero di Kant per la chiarezza con la quale delinea il quadro storico del mancato sviluppo di una cultura della pace.[8] Tuttavia qui interessa il fatto. Se è vero che non c’è una cultura della pace, è anche vero che la cultura della quale siamo eredi, e nel cui orizzonte agiscono e pensano le forze politiche e sociali, è una cultura della guerra e del mascheramento della guerra, cioè una cultura incapace non solo di pensare la pace, ma anche di far entrare nell’ambito della conoscenza, con il loro vero carattere, tutti i fatti che, pur non avendo ancora la forma esterna di fatti bellici, si trovano tuttavia in una relazione non puramente casuale con gli stessi.

Tra questi fatti il primo da considerare è che la guerra, sotto alcuni aspetti, è sempre presente. Non è sempre presente, ovviamente, come guerra in corso. Ogni guerra in corso è un evento unico localizzato nello spazio e nel tempo, un episodio. Ma è sempre presente come mondo della guerra, cioè come situazione che rende questa serie di eventi — le singole guerre in atto — possibile ed inevitabile. Questo dato di fatto non ha mai subito alcuna interruzione. Ed è molto netto, molto in vista. La guerra è sempre presente come preparazione militare, come spesa per la difesa, come obbligo costituzionale ecc., cioè, in breve, come uno degli aspetti permanenti e importanti della vita di tutti gli uomini.[9] Va ancora detto che questa constatazione banale acquista tutto il suo significato, e pone problemi tutt’altro che risolti, se la si formula meglio, cioè se si osserva che la guerra è sempre presente in potenza, e spesso in atto, perché il mondo degli Stati — e quindi anche quello della politica, in un modo da precisare — si fonda sulla guerra: è il mondo della guerra. La guerra è davvero, ed è sempre stata sinora, il mezzo per le decisioni supreme che riguardano la sorte delle nazioni e della stessa umanità.

La compresenza di politica e guerra è certamente una delle cause (forse la maggiore) della difficoltà di una piena comprensione di entrambe. A me pare che questa difficoltà si manifesti in un modo molto preciso, anche a livello verbale, nel tentativo più alto di pensare la guerra: quello di Clausewitz. Che cosa significa che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi? che la politica non usa più i suoi mezzi, e quindi, in sostanza, non è più politica ma solo guerra? No, secondo Clausewitz, perché egli ribadisce sempre che la guerra è il mezzo e la politica il fine, e non trascura di ricordare che non si può pensare il mezzo senza pensare il fine. Ma perché, allora, “altri mezzi” e non, semplicemente, un mezzo (o un certo insieme di mezzi)?

In sostanza le formulazioni di Clausewitz ci mettono di fronte alla posizione nella quale la cultura della guerra entra in crisi: il riconoscimento dell’unità di guerra e politica nei fatti e la incapacità di riprodurla con chiarezza nel pensiero.[10] Il primo dato (unità di politica e guerra) mostra che è il comportamento politico normale di tutti gli uomini che pone in essere, e mantiene attivo, il mondo della guerra. Il secondo dato (imprecisa traduzione nel pensiero dell’unità di politica e di guerra) mostra che il limite della cultura della guerra sta nell’incapacità di precisare quale sia l’aspetto del comportamento politico che collega la politica con la guerra, e perfino di porre il problema in questi termini. L’oscurità che ne segue impedisce non solo di agire efficacemente per la pace, ma anche di decidere se la pace è possibile o impossibile. Non si ha infatti alcuna possibilità reale di stabilire se il mondo della guerra grava sugli uomini e sui loro comportamenti come una fatalità inesorabile — o se invece dipende, almeno a certe condizioni, dalla loro volontà — fino a che non si sa quale sia l’aspetto del comportamento politico che sta alla base del mondo della guerra.

La logica e le forme della cultura della guerra derivano da questa oscurità nella quale il pensiero perde in parte il contatto con i fatti. Se tiene fermo il fatto della guerra, può concepirlo solo come una necessità — naturale o metafisica — perché non sa imputarlo ad una forma definita di azione (al limite: se nel pensiero c’è la guerra non c’è l’azione); se tiene fermo, invece, il fatto dell’azione, deve mascherare il mondo della guerra perché non può attribuirlo esclusivamente ai principi dell’azione senza snaturarli (al limite: se nel pensiero c’è l’azione non c’è la guerra). Nelle loro concrete manifestazioni queste forme del pensiero comportano dunque un certo grado di sdoppiamento della coscienza, di oscillazione tra i due poli (o per natura, o per colpa di altri, le guerre sono sempre sotto il segno della necessità) e di automistificazione; ma ciò non deve far dimenticare che, a patto di usarle in modo critico e realistico, esse consentono tuttavia di riconoscere e di esaminare degli aspetti reali del processo storico e della vita politica che sono di grande rilievo anche per il problema della pace.

Di fatto, con l’idea dell’azione, cioè con il patrimonio culturale delle grandi ideologie tradizionali, il liberalismo, la democrazia e il socialismo, si vede la storia come una incessante trasformazione del comportamento politico e della sua base sociale, e si può constatare la crescita della capacità collettiva di orientare l’azione individuale con i valori della libertà, della giustizia o dell’eguaglianza. Ciò che va qui in particolare sottolineato è però il rapporto di questi valori con la guerra e la pace. Per un verso questi valori appartengono alla sfera della guerra, senza la quale non possono affermarsi storicamente contro il dispotismo e la subordinazione del potere politico al privilegio di classe; per l’altro verso, invece, essi appartengono alla sfera della pace sia perché ne costituiscono la premessa (la pace non può essere costruita, né, di fatto, viene perseguita, finché ci sono poteri dispotici e privilegi di classe eliminabili solo con la guerra), sia perché senza la certezza della pace universale essi subiscono inevitabilmente un processo di degenerazione nazionalistica che può arrivare sino agli eccessi del fascismo e dello stalinismo.[11]

D’altra parte con l’idea della ragion di Stato, che costituisce la massima espressione teorica del realismo politico, si vede davvero il mondo del potere com’è realmente. Si constata che al di sopra degli Stati non c’è nulla, e quindi che la ragione del mondo è la ragion di Stato, e che il mondo si governa con la guerra e la forza. Si constata anche che lo stesso negoziato rientra nella sfera che ha come culmine la guerra perché si basa esclusivamente sui rapporti di forza armata tra gli Stati, consente solo decisioni compatibili con la scala dei rapporti di forza e riduce pertanto l’indipendenza degli Stati medi e piccoli, se non proprio ad una semplice finzione, certo a ben poca cosa. E si è infine in grado di riconoscere nel processo politico mondiale la vera forza, ancora cieca, dalla quale dipendono tutti gli eventi politici e la stessa costituzione interna degli Stati.[12]

 

4. Il fondamento pratico della cultura della guerra. La coincidenza di comportamento politico normale e di comportamento nazionale come collegamento tra politica e guerra.

L’accertamento dei limiti teorici della cultura della guerra consente di stabilire quale sia il fondamento pratico di questa cultura, e di tracciare così una netta linea di confine tra cultura della guerra e cultura alla pace. Per identificare questo fondamento bisogna tornare al punto nel quale la capacità di conoscenza di questa cultura si arresta, e cercare di proseguire. Come ho già osservato, la cultura della guerra non si chiede mai quale sia l’aspetto del comportamento politico che collega la politica con la guerra. Basta tuttavia porsi questa domanda per rispondere che l’aspetto in questione è l’aspetto nazionale (in effetti è su questo piano che non si riscontra alcuna soluzione di continuità fra politica e guerra). E giunti a questo punto basta provare che l’aspetto nazionale è sempre presente nel comportamento politico di tutti gli uomini per risolvere il problema posto da Clausewitz, cioè per stabilire che c’è continuità tra politica e guerra (come evento singolo) perché c’è coincidenza tra i comportamenti politici abituali e il mondo della guerra (mondo degli Stati come società nazionali chiuse, esclusive ed armate).

Ma prima di fornire questa prova bisogna togliere di mezzo una complicazione verbale che impaccia il discorso. Era giusto, all’inizio dell’esame, chiedersi quale sia l’aspetto del comportamento politico normale che collega la politica con la guerra perché non si può ragionevolmente pensare che la politica sia per natura, in tutti i suoi aspetti, collegata con la guerra. Tuttavia se è vero che l’aspetto nazionale è presente in tutti i comportamenti politici, allora è anche vero che l’espressione “aspetto nazionale del comportamento politico” (del tutto legittima in una visione teorica che ipotizzi la possibilità di comportamenti politici senza aspetto nazionale) può trarre in inganno, nel senso che può far pensare che questo aspetto possa già essere tanto presente quanto assente. Diventa perciò necessario usare l’idea di comportamento politico nazionale come schema generale di riferimento per la descrizione dell’azione politica realmente osservabile. In effetti con questo schema si resta sempre in rapporto con la realtà, e si è sempre in grado di precisare chi e come agisce, mentre ciò non è possibile con schema del tipo “comportamento politico liberale, o democratico, o socialista ecc.” perché nella realtà non ci sono mai veri e propri comportamenti di questo genere, ma sempre e soltanto aspetti liberale, democratico o socialista ecc. dei comportamenti nazionali.

Ciò premesso, circa la prova osservo quanto segue. Se si scompone nei suoi elementi il comportamento politico normale si trova: a) che la formazione della volontà politica si manifesta sempre, in concreto, solo come formazione della volontà nazionale (cioè come volontà di risolvere in questo o quel modo i problemi nazionali del governo, del regime o della struttura sociale), b) che la elaborazione della linea politica generale si sviluppa sempre, in concreto, solo come analisi della bilancia nazionale del potere e come progettazione di azioni nazionali, c) che la mobilitazione effettiva, e non solo apparente, delle forze riguarda sempre, in concreto, solo le forze nazionali, e si arresta sempre ai confini degli Stati senza mai oltrepassarli. È evidente, d’altra parte, che la politica estera non scalfisce in alcun modo questo limite nazionale. In questo contesto d’azione non ci sono vere sedi internazionali di decisione, né mezzi internazionali per la formazione di una volontà comune. La politica estera si decide nelle sedi nazionali, ha come scopo la salvaguardia dei poteri nazionali (indipendenza) e provoca cambiamenti della situazione internazionale solo con il mutamento delle politiche nazionali degli Stati.

Risulta così provato, se non mi sbaglio, che il comportamento politico normale coincide con il comportamento politico nazionale, e pertanto con il mondo della guerra. L’utilità di questa precisazione sta nel fatto che permette di identificare il punto nel quale si deve provocare una inversione di tendenza nel processo politico se si vuole davvero tentare di eliminare la guerra e costruire la pace. Un esempio chiarirà la questione. Molti scrittori, e in Italia con particolare chiarezza Luigi Einaudi, hanno spesso ripetuto che la distinzione effettiva tra gli amici e i nemici della pace corrisponde alla distinzione tra coloro che sono disposti, e coloro che non sono disposti, a sacrificare una parte della sovranità del proprio Stato (ivi compresa quella militare). In ultima istanza ciò è vero. Ma non è sufficiente. Questa verità non è diventata popolare. I pacifisti — e nello stesso modo, anche se con animo diverso, tutti coloro che credono di agire “realisticamente” per la pace — non ne tengono alcun conto, e continuano a coltivare il sogno di eliminare la guerra senza distruggere il mondo della guerra, o credono di cambiarlo solo perché si propongono di introdurre un po’ più di liberalismo, di democrazia o di socialismo nel proprio Stato nazionale. Il fatto è che se il comportamento politico normale (nazionale) coincide con il mondo della guerra la vera distinzione tra gli amici e i nemici della pace passa tra coloro che cercano di mutare il comportamento politico normale allo scopo di privarlo dell’aspetto che lo collega con la guerra, e coloro che non vogliono mutarlo per motivi nazionalistici, o solo perché non si rendono conto della necessità di questo cambiamento, e quindi sostengono di fatto con il loro modo di agire il mondo della guerra anche se desiderano sinceramente la pace.

 

5. Il pensiero nazionale come causa dell’assolutizzazione o del mascheramento della guerra. La transizione dalla politica della guerra alla politica della pace come strategia per affrontare la sfida del nostro tempo.

Con queste considerazioni si è compiuto tuttavia solo il primo passo per delineare il quadro della transizione dalla politica della guerra alla politica della pace. Sappiamo che cosa è il mondo della guerra e che cosa dobbiamo non fare per non perpetuarlo, ma non sappiamo ancora che cosa è il mondo della pace, né se esiste qualche segno che consenta di dire se siamo in presenza di un processo che può essere guidato verso il mondo della pace. Senza affrontare per ora queste questioni, vorrei solo osservare che l’essere giunti — per quanto riguarda la guerra — sul terreno dei principi d’azione che ne costituiscono il fondamento consente comunque di allargare la sfera della nostra conoscenza. In particolare noi possiamo ora affermare che la cultura della guerra è la cultura del comportamento nazionale, e ciò per sottolineare il fatto che il limite teorico di questa cultura (incapacità di pensare l’unità di politica e di guerra e conseguente assolutizzazione o mascheramento di questa dimensione della realtà) dipende dal limite pratico di questo comportamento (riduzione della politica mondiale alla somma delle politiche nazionali, cioè a qualcosa che tutti subiscono e che nessuno determina). Ma ciò che conta di più è che abbandonando il punto di vista del comportamento politico nazionale, e cercando di assumere quello della lotta per la pace, si possono intravvedere gli aspetti politici essenziali della situazione del nostro tempo che la cultura della guerra lascia in ombra.

L’umanità non si è mai trovata in una situazione simile alla nostra. Lo sviluppo tecnologico ha già condotto il genere umano sulla soglia della possibilità fisica della sua autodistruzione con la guerra o con la catastrofe ecologica; ma tutto ciò non ha ancora provocato alcun cambiamento nel modo di fare, di pensare e di studiare la politica. Ci sono scienziati che progettano armi sempre più distruttive, e scienziati che cercano di far sapere a tutti gli uomini quali spaventevoli pericoli corrono. Ma al di là di questi studi e informazioni sulle caratteristiche tecniche delle armi — e non sul fatto politico della decisione di costruirle e di servirsene — non c’è nulla. Il fatto è che la cultura della guerra, ancorando il pensiero a idee ormai prive di senso, di carattere evolutivo, o persino di realtà (lo Stato nazionale e la sua difesa armata), lo nutre di fantasmi, e gli impedisce di constatare che il cambiamento radicale intervenuto nella tecnologia militare è, ipso facto, un cambiamento altrettanto drastico della situazione morale, politica e istituzionale dell’intera umanità.

Ma, nonostante ciò, si pensa ancora lo Stato con le concezioni del tempo (tutto il tempo sinora trascorso) nel quale era impensabile e imprevedibile che l’umanità sarebbe diventata — anche se solo in senso negativo e solo per il male — del tutto padrona di se stessa, cioè capace di autodistruggersi. Così non si riconosce la spaventosa degenerazione degli Stati, che si stanno trasformando da organizzazioni per la difesa della vita in organizzazioni che creano deliberatamente (Stati egemoni) o subiscono passivamente (Stati satelliti e neutrali), il rischio della estinzione del genere umano. Se si accettasse come un dato permanente del mondo politico questa forma degenerata di Stato (nessun partito sinora l’ha rifiutata) la caduta nella barbarie sarebbe, in ogni caso, inevitabile. Non avrebbero infatti più senso, né credibilità alcuna, l’educazione, il sentimento della solidarietà sociale e ogni valore morale e culturale.[13]

Considerazioni analoghe valgono per l’altro aspetto globale dello sviluppo tecnologico, quello positivo. È sempre più evidente che lo sviluppo produttivo, con l’incessante innovazione tecnologica, sta conducendo il genere umano verso la soglia della eliminazione del lavoro puramente fisico o ripetitivo, e della possibilità della sua sostituzione con forme di lavoro e di attività intelligenti e creative. Ma la classe politica, ancora chiusa nell’orizzonte nazionale della cultura della guerra, sa progettare solo politiche nazionali (o politiche “internazionali” con i poteri nazionali, il che è lo stesso) di fronte ad un compito che richiede la costruzione progressiva di un potere mondiale e di politiche mondiali di sviluppo del Terzo mondo coordinate con la trasformazione non solo economica, ma anche e soprattutto politica e sociale, dei paesi già industrializzati. Così una fortuna — la possibilità di ottenere sempre più cose con sempre meno lavoro, e di creare gradualmente una situazione nella quale tutti gli uomini abbiano le possibilità materiali della libertà spirituale — si trasforma nella disgrazia del corporativismo, del protezionismo, della disoccupazione e dell’incerto destino del Terzo mondo.

Ma ciò che non è possibile con la cultura della guerra può diventare possibile nel contesto politico e morale della costruzione di una cultura della pace. Con questo punto di vista si può già constatare che non siamo di fronte a due compiti diversi, ma ad un solo compito. Non si può abolire la guerra, né eliminare il rischio della catastrofe ecologica, senza un controllo mondiale degli aspetti militare ed ecologico del processo produttivo (il solo disarmo che vale è quello controllato). E se si giunge a questa forma di controllo politico — cioè di potere — si acquista evidentemente anche la capacità di governare il mercato mondiale, e di organizzare la società non solo in funzione del mercato e della produzione, cioè del semplice fatto economico, ma anche in funzione dei bisogni di qualità della vita, di solidarietà e di libertà di una umanità emancipata, come è ormai necessario sia per fondare sulla sola base possibile la piena occupazione, sia per impiegare il lavoro umano anche sul fronte della difesa e dello sviluppo dei beni ecologici e culturali.

La cultura della pace è una nuova cultura, e una nuova cultura è un nuovo mondo, che gli uomini impareranno a conoscere a mano a mano che lo faranno (se lo faranno). A questo riguardo vorrei tuttavia osservare che la filosofia della storia di Kant consente già di stabilire la pensabilità di questo trapasso di epoche. Kant riteneva, come ho già ricordato, che sarebbe stata la guerra stessa, diventando sempre più distruttiva, a porre il problema della sua eliminazione. E noi possiamo effettivamente constatare che gli uomini sono giunti a questo punto. Kant pensava, d’altra parte, che solo una civiltà giunta al punto di perfezione avrebbe potuto abolire la guerra. E noi — tenendo presente che in questi luoghi kantiani la civiltà è la cultura come valore sociale dell’uomo — possiamo effettivamente constatare che l’umanità sta entrando nell’epoca storica nella quale la politica può proporsi il compito di sviluppare compiutamente il valore sociale di ogni uomo e di realizzare la pace perpetua. Se ciò accadrà non possiamo saperlo, perché il pensabile non è il reale. Ma sappiamo già che la volontà può e deve fare questa scelta perché l’alternativa è la catastrofe.



* Questo saggio è stato pubblicato su Il Federalista, 26, n. 1 (1984), p. 10.

[1] Il problema della scienza politica. Il primo problema della scienza della politica è se esiste già o no una scienza della politica (non si spiegherebbe altrimenti lo spazio che la letteratura di questa disciplina dedica all’epistemologia invece che a se stessa). Sembra ragionevole pensare che il nostro tempo sia ancora quello del tentativo della sua fondazione piuttosto che quello della sua normalizzazione (sviluppo cumulativo, applicazioni pratiche ecc.). Non è facile sostenere il contrario con buone ragioni. Ad esempio Sartori, cioè uno studioso che si pone con chiarezza il quesito e dà una risposta affermativa, riconosce tuttavia che “nessun sapere scientifico è mai nato senza aver ordinato e precisato il proprio linguaggio: ché la terminologia fornisce le gambe sulle quali una scienza poi cammina”; e constata che “nelle scienze sociali imperversa la babele delle lingue, a tal punto che a mala pena ci intendiamo”.

Questa babele delle lingue — che a mio parere dovrebbe consigliare una risposta negativa al quesito circa l’esistenza della scienza della politica — è comunque il fatto che obbliga a ristabilire il senso di ogni termine importante che si usa, se si vuole tentare di farlo uscire davvero dal linguaggio comune e di farlo entrare nel linguaggio scientifico. E, di fatto, è proprio questa la proposta di Giulio Preti, che suggeriva di usare a questo riguardo il metodo della definizione esplicativa teorizzato da Carnap e da Hempel (una specie di definizione reale di termini già in uso, ottenuta restringendone il significato vago o ambiguo, in modo da renderli “adatti ad un discorso scientifico inequivoco e rigoroso”). Ma Preti precisa anche che la definizione esplicativa dovrebbe permettere di “formulare un sistema teorico saldo”, e con ciò ripropone interamente il problema della fondazione della scienza della politica, perché il sistema teorico non può essere costruito con una somma casuale di definizioni esplicative (che restano tuttavia molto utili, e necessarie per esplorare il terreno quando gli argomenti sono ben circoscritti). Cfr. Giovanni Sartori, La politica, Milano, Sugarco, 1979, pp. I e 45, e Giulio Preti, Prefazione a Felix E. Oppenheim, Dimensioni della libertà, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1969, pp. XII-XIII.

[2] Il realismo politico. Il realismo politico è un dato culturale che ha una fisionomia netta solo nel campo della storia delle idee (in quello della storia delle dottrine politiche la sua identità è già più incerta). In questo orizzonte non si possono avere dubbi sul fatto che con Machiavelli comincia un modo nuovo, autonomo di considerare la specificità della politica, e che questo modo di pensare ha avuto un certo sviluppo storico, sia pure con molte incertezze, con l’idea della ragion di Stato (e con i criteri della Realpolitik e della balance of power). Ma in ogni altro contesto culturale la questione del realismo politico è ancora del tutto aperta. Un estremo della questione sta nel fatto che il realismo politico (che coincideva con la scienza politica sino a parte del secolo scorso, e che costituisce ancora oggi uno degli indirizzi più importanti della scienza accademica della politica nel settore della politica internazionale) non ha né le caratteristiche di una scienza (in senso largo, comprensivo anche, ad esempio, della scienza economica), né quello di un insieme ordinato di concetti ben elaborati. L’altro estremo della questione sta nel fatto che, nonostante ciò, adottandolo come punto di vista (cioè valendosi dell’orientamento dei suoi maggiori autori, in primo luogo Machiavelli), si possono descrivere, spiegare e talvolta prevedere degli aspetti importanti del processo politico che restano altrimenti celati od oscuri.

Questa constatazione acquista un rilievo ancora maggiore se si tiene presente, come afferma Waltz in un manuale molto apprezzato di scienza della politica, che “da Machiavelli a Meinecke e Morgenthau gli elementi dell’approccio e il modo di ragionare restano costanti” (Kenneth N.Waltz, Theory of International Relations, in Handbook of Political Science, vol. VIII, International Politics, ed. by Fred J. Greenstein e Nelson W. Polsby, Reading, Massachusetts, Addison-Wensley, 1975, p. 35. Questo saggio di Waltz è molto utile anche per il quesito circa l’esistenza della scienza della politica).

Forse la cosa più sensata che si può dire (e che costituisce nel contempo un criterio per farne buon uso) è che il realismo politico si identifica col secolare sforzo del pensiero per giungere ad una conoscenza positiva, praticamente efficace, della politica; e che esso non presenta ancora una sistemazione teorica adeguata (come, d’altra parte, la scienza accademica della politica che cerca di usare una terminologia rigorosa non presenta ancora un potere di descrizione e spiegazione soddisfacente) proprio perché questo processo del pensiero non ha ancora ottenuto risultati almeno pari a quelli conseguiti da Adamo Smith per la conoscenza dei fatti economici.

Per quanto riguarda la terminologia del mio saggio vorrei osservare che se ci si ispira al realismo politico si deve usare il linguaggio con una libertà maggiore di quella consentita dal pensiero metodologico contemporaneo.

[3] La guerra e il rischio dello sterminio dell’umanità. Per quanto si cerchi di attenuarlo, il dato fondamentale è questo. Non esiste alcun meccanismo per impedire le guerre, né per costringere i belligeranti a non usare le armi nucleari. Ne segue che o si aboliscono le guerre, o si vive col rischio della guerra nucleare, che comporta a sua volta il rischio della distruzione del genere umano. Ogni altra considerazione è secondaria o non pertinente. Le scappatoie, sostanzialmente, sono due: o si afferma che con una guerra nucleare non morirebbero tutti gli uomini, o che, essendo efficace la dissuasione, le armi nucleari non saranno mai impiegate.

La prima scappatoia, oltre che errata, è rivoltante. È rivoltante perché gli esperti che sostengono questa tesi avanzano cifre di morti da incubo, e nel presentarle si comportano come se l’ipotesi della morte violenta di decine o centinaia di milioni di uomini fosse una prospettiva bellica normale, accettabile. Ed è errata perché, mentre tutti (o quasi) ammettono che lo stock di armi nucleari è sufficiente per distruggere il genere umano, nessuno è poi in grado di prevedere il modo con il quale si svolgerebbe una guerra nucleare, il numero di armi che sarebbero impiegate ecc. (la situazione umana meno controllabile è la guerra, e la guerra nucleare lo è in ipotesi ancora meno perché vanifica l’idea stessa della vittoria e quindi il supremo criterio operativo). D’altra parte, questi esperti non tengono conto né del fatto che bisogna prendere in considerazione non solo questo o quello stock di armi ma anche la capacità di produrle, né del fatto che la potenza distruttiva di queste armi (come di quelle biochimiche o di qualunque altro genere) è in costante aumento perché la politica internazionale obbliga tutti gli Stati a massimizzare la potenza, e li obbligherà sempre a comportarsi in questo modo fino a che non si potrà ottenere con mezzi pacifici ciò che ora si può ottenere solo con le armi (indipendenza ecc.).

Resta la seconda scappatoia, quella della dissuasione. In questo caso si sostiene che le armi nucleari non verranno mai usate perché lo scopo che ci si prefigge non è quello di usarle, ma quello di far temere che verranno usate. In questa argomentazione c’è una evidente mancanza di logica: se fosse davvero certo che queste armi non verranno mai usate, anche il timore del loro uso per scoraggiare un attacco nucleare — la dissuasione — svanirebbe. La verità è un’altra. Il vero fattore di dissuasione è indipendente da ogni strategia, e riguarda tanto il primo quanto il secondo colpo, quanto ogni altra ipotesi fatta a tavolino, perché sta unicamente nella cruda immediatezza del fatto, cioè nella natura diabolica della decisione di sferrare il colpo nucleare (in qualunque situazione di cosiddetto attacco o cosiddetta difesa). E quando ciò sia chiaro, è facile concludere che questa garanzia (la supposta impossibilità di una decisione diabolica) non è sufficiente; e che sarebbe comunque folle accettare una situazione di questo genere senza proporsi di cambiarla, cioè di eliminare per sempre il pericolo di guerre. Solo con questo proposito si può rendere ragionevole la prospettiva della dissuasione, sia per il suo carattere transitorio (il rischio durerebbe solo per un certo tempo), sia perché la decisione che ho chiamato diabolica diventerebbe molto più difficile (e forse del tutto impossibile) in un mondo avviato davvero, in modo credibile, verso la costruzione della pace perpetua e della giustizia internazionale.

Ancora una osservazione. Il problema della guerra nucleare non dovrebbe mai far dimenticare né la barbarie della guerra totale (giunta nel nostro secolo ad un livello disumano, senza del quale il fascismo non avrebbe avuto alcuna possibilità di svilupparsi e di prendere il potere in Italia e in Germania), né il rapporto di continuità politica e culturale tra guerra totale e guerra nucleare. Anche ciò conferma che il vero problema è quello della abolizione della guerra.

[4] A proposito del termine “cultura” Il termine “cultura” viene ormai usato anche a sproposito. Ma quando si tratta degli orientamenti più importanti delle società umane mi sembra lecito usarlo, perché in questi casi ciò che è in gioco è proprio l’insieme delle credenze, delle conoscenze, dei costumi ecc. Naturalmente l’accezione precisa del termine dipende a volta a volta dal contesto dei fatti studiati, perché l’unità della cultura (o della società ecc.) è un concetto-limite, un criterio regolativo, ma non una situazione teorica acquisita. Nel caso di questo saggio, trattandosi della pace e della guerra, il termine “cultura” si riferisce alle credenze ecc. per ciò che hanno di efficace nell’orientare gli uomini verso la guerra o la pace (influenza effettiva sui processi sociali), e non implica affatto che dove si riscontra un orientamento verso la guerra ci sia solo una cultura della guerra.

[5] Il caso di Teodoro Moneta. Il caso dell’italiano Teodoro Moneta, premio Nobel per la pace nel 1907, è esemplare. Nato nel 1833, assistette da ragazzo alle cinque giornate di Milano e partecipò attivamente a tutte le vicende dell’unificazione italiana (aveva aderito alla Società nazionale italiana di Mazzini e Pallavicino). Come tanti italiani di allora, associava al sentimento nazionale italiano l’idea dell’unità europea e l’ideale della pace. In effetti egli si oppose alle prime spedizioni italiane in Africa, e in particolare alla continuazione della guerra dopo la battaglia di Adua del 1896; e non esitava a ricordare in pubblico, anche fuori d’Italia, che l’opposizione pacifista alla guerra era giunta sino ai sabotaggio delle ferrovie per impedire la partenza dei rinforzi per l’Africa (cfr. L’Italia e la conferenza dell’Aja, discorso di E. Teodoro Moneta a Vienna il 5 maggio 1907, edito dalla Società internazionale per la pace, Unione Lombarda, Milano, 1911, p. 8).

Il suo pacifismo, va ricordato, non era occasionale, cioè frutto di emozioni momentanee. Egli rivendicava il carattere cosmopolitico della cultura italiana, era stato influenzato dal federalismo di Carlo Cattaneo e identificava la causa della pace con la lotta per “la federazione europea come avviamento a quella mondiale”. Ma nel 1911 egli non solo non si oppose alla guerra dell’Italia contro la Turchia per la conquista della Libia, ma addirittura la sostenne. Criticato da alcuni amici, egli si difese sostenendo che “dopo la specie di protettorato acquistato dalla Francia nel Marocco, s’imponeva all’Italia di salvaguardare il proprio avvenire per non essere chiusa, come tante volte fu detto, nel Mediterraneo” e ricordando che “siccome il mondo giudica dei popoli dalla loro fortuna in guerra, così l’Italia fu per lungo tempo giudicata come nazione poco più che imbelle. E più di una volta, oltre che dalla stampa estera, vennero da Bismarck parole di dispregio al nostro paese. Se a lungo mi sono indugiato su questi fatti è perché il dolore immenso che essi mi cagionano fu quello che determinò d’allora in poi tutta la mia condotta politica” (cfr. E. Teodoro Moneta, Patria e umanità, Milano Ufficio della Società internazionale per la pace, Unione lombarda, 1912, pp. 13 e 23).

Il caso di Moneta si è ripetuto infinite volte tanto a livello individuale quanto a livello collettivo. Esso mostra che il pacifismo (come si è sviluppato sinora, senza una teoria positiva della pace) quando viene alle strette finisce col preferire la guerra alla pace ogni volta che si tratta dell’affermazione della propria nazione; e ciò mette in evidenza la contraddizione latente tra la volontà di pace e la limitazione della propria condotta politica effettiva al quadro nazionale, cioè alle scelte circa il futuro della propria nazione. E ci si sbaglierebbe se si pensasse che ciò riguarda solo il passato. Ad esempio la Reller, con Ferenc Fehér, scrive a proposito della guerra delle Falkland-Malvinas: “È un fatto che proprio la Gran Bretagna, che era stata fino a un attimo prima il campo di battaglia più rumoroso (insieme alla Germania occidentale) di due movimenti pacifisti e anti-nucleari apparentemente identici, è stata travolta da una furia patriottica quasi unanime. Tolta la piccola minoranza massimalista di Tony Benn, il movimento anti-nucleare inglese non ha offerto alcuna resistenza alla politica di guerra della signora Thatcher» (Agnes Rellier, Ferenc Fehér, Gli autoinganni del pacifismo, Mondo Operaio, n. 1-2 (1983)). Per i limiti del pacifismo vedi Lord Lothian, Pacifism Is Not Enough, Londra, Oxford University Press, 1935.

[6] Governo mondiale e controllo del processo storico. Ovviamente non ci può essere qualche forma di controllo del processo storico senza un governo mondiale. Questa osservazione, di per sé banale, è tuttavia utile perché consente di precisare alcuni aspetti della nozione di processo storico. Quando si considera il processo storico così come si è manifestato sinora, si constata che esso non è mai stato voluto, né progettato, né pensato in quanto tale. Sinora la sua direzione è stata solo la risultante del tentativo di ogni nazione (o degli altri tipi storici di comunità politica) di volgere a suo profitto la situazione internazionale, cioè la risultante del cozzo internazionale delle volontà nazionali e delle forze nazionali dominanti. In termini decisionali, nulla di più della somma disorganica di decisioni politiche nazionali non coordinate.

Fino a qui, con queste osservazioni si constata un dato di fatto. Ma se manca l’idea del governo mondiale — cioè se non è pensabile l’idea del controllo del processo storico — in questa constatazione si infila una pseudo-teoria (una teoria non provata e non provabile) perché non ci si limita più a constatare un fatto, ma si è nel contempo indotti a pensare che esso sia eterno. Il processo storico si configura allora come la cieca ruota del tempo, come una necessità che il pensiero può solo riconoscere e alla quale ogni volontà deve piegarsi (questa è in effetti la visione storica del realismo politico, e per questo nel linguaggio di Machiavelli necessità e fortuna — oltre che virtù — sono termini cruciali). E se in qualche modo il pensiero cerca di spiegare questo oscuro destino, è costretto a concepire la storia come un processo dovuto a cause metafisiche o naturali (entrambe queste spiegazioni sono presenti nel pensiero di Meinecke: si veda soprattutto l’introduzione a L’idea della ragion di Stato nella storia moderna).

La sola alternativa è non pensare, cioè la rimozione di questa realtà dalla coscienza, e la sua sostituzione con una illusione (che si produce facilmente perché non si può pensare la politica, e in particolare la politica estera, senza fissare degli obiettivi, né fissare degli obiettivi senza illudersi di controllare, con qualche possibilità di autonomia, la situazione mondiale). Invece tutto muta se, con l’idea del governo mondiale, noi acquisiamo la possibilità di pensare distintamente il processo storico non controllato e quello controllato. In questo caso il processo storico si presenta come un insieme didecisioni politiche coordinate, in seno al quale la volontà generale, che si forma ormai anche a livello mondiale, non deve più sottostare alla necessità (come cozzo internazionale delle volontà nazionali). La volontà politica passa pertanto dalla sfera dell’eteronomia a quella dell’autonomia. E ciò comporta, nel contempo, il passaggio da una storia di carattere deterministico ad una storia guidata dalla libertà. Questa trasformazione è stata studiata nel suo significato filosofico da Kant, la cui filosofia della storia ha in comune con quella di Marx il determinismo storico (per il segmento di storia che va sino al governo mondiale), mentre se ne differenzia per l’esame razionale, severo e tutt’altro che fideistico del mondo della libertà.

Dopo aver messo in evidenza il fatto che non si può pensare il governo mondiale, cioè la pace, senza pensare nel contempo il controllo del processo storico, vorrei analizzare brevemente l’importanza di queste osservazioni per la teoria della storiografia. Se ci chiediamo, ad esempio, quali fatti del processo storico sarebbero controllati in modo diretto da un governo mondiale, possiamo rispondere che sarebbero, grosso modo, quelli che i governi nazionali si illudono di controllare. E se, dopo aver dato questa risposta, si tiene presente che tra questi fatti ci sono quelli che presentano, o possono acquisire, l’aspetto della regolarità, della ripetizione costante ecc., si è anche in grado di constatare che si configurano in modo nuovo i rapporti tra i fatti di questo tipo e le decisioni politiche.

Noi possiamo considerare questi fatti, ad esempio, con il punto di vista di Braudel. In questo caso noi ci troviamo di fronte alla “lunga durata”, e possiamo a volta a volta cercare di stabilire se, e fino a che punto, la “lunga durata” può dipendere dalle decisioni politiche. Oppure possiamo considerarli con i punti di vista del materialismo storico e della ragion di Stato. In questo caso ci troviamo di fronte ai fatti costituiti dalla concatenazione necessaria dei rapporti di produzione e dell’andamento della bilancia mondiale del potere, e possiamo facilmente constatare che i fatti della sfera della ragion di Stato sarebbero sostituiti dalle decisioni del governo mondiale, e che i fatti della sfera della produzione materiale potrebbero lasciare uno spazio crescente alle libere decisioni di un governo mondiale e degli altri governi coordinati a mano a mano che la produzione scientifico-tecnica soppianterà la produzione industriale classica.

Si dovrebbe anche, in ultima istanza, tener presente che con il governo mondiale finirebbe la storia come storia delle guerre. E ciò pone il problema delle storie che finiscono e, più in generale, quello dell’unità della storia come concetto-limite di tutte le storie da studiare con criteri diversi perché dipendenti da leggi di sviluppo diverse.

[7] Kant e la contraddizione tra natura umana e civiltà. Cfr. Immanuel Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino, UTET, 1956, pp. 201, 209, 127, 207, 231. Vorrei anche ricordare almeno che Kant, riferendosi a Rousseau, afferma che “egli mostra assai bene la contraddizione della civiltà con la natura del genere umano”, e spiega: “In effetto, da questa contraddizione nascono i seri mali che travagliano la vita umana e i vizi che la disonorano, dal momento che la civiltà basata sui veri principii dell’educazione dell’uomo e del cittadino non è forse ancora iniziata e, quindi, tanto meno è compiuta. Le inclinazioni che ci portano ai vizi, e che perciò sono oggetto di condanna, sono però buone in se stesse e, in quanto tali, sono conformi allo scopo della natura, ma non riferendosi che allo stato della natura sono ostacolate dal progresso della civiltà, che esse contrastano a loro volta, fino al punto in cui l’arte, pervenuta alla perfezione, si converta essa stessa in natura, il che è il fine ultimo della destinazione della specie umana” (op. cit., pp. 203-5).

[8] Ragione del mancato sviluppo di una cultura della pace. Nel pensiero di Kant la guerra non appartiene alla sfera della metafisica o della biologia, ma a quella della storia. Sta con un certo insieme di fatti, quindi, almeno in ipotesi, può scomparire con la scomparsa di questi fatti. Siamo, come si constata, nel campo delle congetture, ma delle congetture ragionevoli, che Kant distingue da quelle vane (cfr.Immanuel Kant, op. cit., pp. 195-6; 132-3, 136-7 e in generale tutti gli scritti di filosofia della storia). Orbene, io credo che solo con questa concezione storica della guerra si possa spiegare il mancato sviluppo di una cultura della pace. Il dato di fatto cruciale è questo: sino ai giorni nostri la pace non è mai stata un obiettivo prioritario perché la guerra è sempre stata un mezzo necessario per risolvere i problemi posti dallo sviluppo storico, cioè per affermare i valori a volta a volta possibili. La conseguenza sul piano teorico è evidente. Non essendosi mai posto, come problema reale, quello dell’eliminazione della guerra, il pensiero è sempre stato fondato sulla guerra come su uno degli aspetti della realtà, o sul suo mascheramento. In questo contesto la pace, quando appare nella coscienza come aspirazione pratica (lotta per la pace) o come problema teorico, resta isolata da ogni altro fatto o teoria, e non assume mai il carattere di un aspetto del processo storico, condannandosi all’astrazione o alla impotenza. A causa di ciò non solo non c’è una cultura della pace, ma non c’è nemmeno la coscienza di questa mancanza. Si parla comunemente della pace come se la pace fosse una situazione nota, conosciuta da tutti, senza nemmeno sentire il bisogno di nutrire il proprio pensiero con quello dei grandi pensatori che se ne sono occupati.

[9] Il rifiuto di occuparsi della guerra. Cyril Falls, dopo aver affermato che “la guerra è un aspetto del modo di comportarsi dell’uomo” osserva che “l’avversione alla brutalità e alla irrazionalità della guerra” può tradursi nel “tentativo puerile di minimizzarne l’importanza e nel rifiuto di occuparsene”. (Cyril Falls, L’arte della guerra, trad. it. Bologna,Cappelli, , 1965, p. 19. Il bersaglio di Falls sono gli storici inglesi della fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento, ma la validità dell’osservazione è generale). Così resta in ombra non solo la influenza delle guerre già combattute sul costume dei popoli, ma anche il fatto che qualche forma di guerra è sempre in stato di progetto in tutti i paesi, compresi quelli neutrali, anche quando nessuna guerra è in corso. In concreto la difesa non è altro che un progetto di guerra difensiva costantemente aggiornato con le direttive del governo, il lavoro dei militari e il consenso, attivo o passivo, dei cittadini, nessuno escluso (per questo l’esempio del valore militare e delle capacità guerriere ha gran parte nel rituale degli Stati, nei programmi scolastici, con il pervertimento nazionalistico della storia ecc.). Dell’esistenza di questo consenso non si può dubitare, anche se è vero che spesso si manifesta in modo più passivo che attivo, e più inconsapevole che consapevole. Il fatto è che in genere gli uomini (salvo i fascisti), pur essendo orgogliosi delle virtù militari del popolo di cui fanno parte, preferiscono pensare a se stessi anche in altri termini, e ciò comporta o la rimozione dalla coscienza di ciascuno delle sue personali responsabilità militari, cioè belliche, oppure, quando la politica internazionale mette crudamente questi fatti sotto lo sguardo di tutti, l’imputazione delle responsabilità delle tensioni, delle minacce dell’uso della forza, del suo uso ecc. agli stranieri del campo avverso che, come nemici, in qualche modo cessano di essere uomini (per questo la loro uccisione in battaglia può essere accolta con soddisfazione e persino con gioia, e non provoca alcun sentimento, se non di orgoglio, nei lettori delle rievocazioni apologetiche o pseudo-storiche delle guerre nazionali).

[10] Unità e distinzione di politica e guerra. La necessità di ammettere e la difficoltà di pensare l’unità di politica e guerra dipende da fattori obiettivi. Per alcuni aspetti la politica e la guerra non sono separabili: le guerre sono il frutto di decisioni politiche, e la possibilità di farle (armamenti, obblighi militari dei cittadini ecc.) è a sua volta il risultato di una prassi politica sempre presente. Ma per altri aspetti, invece, si escludono a vicenda. Il senso comune mette in evidenza questo fatto ogni volta che afferma che le guerre sopravvengono quando non c’è più la possibilità di soluzioni politiche. Qui la politica coincide con la pace; è l’opposto della guerra e il mezzo per tentare di evitarla. E ciò che va notato è che questa interpretazione, pur essendo smentita dai fatti (la decisione di fare la guerra è comunque una decisione politica), non è affatto arbitraria, almeno come proiezione su tutta la sfera della politica di alcune caratteristiche della politica che possono essere sentite, non senza ragione, come essenziali.

In effetti è vero che gli Stati sono una creazione della politica, ed è vero che all’interno di ogni Stato la politica è proprio l’attività con la quale si risolvono pacificamente i conflitti (come è vero, d’altra parte, che la storia presenta, nonostante alcuni arretramenti, una tendenza costante verso l’allargamento della dimensione degli Stati, cioè verso la trasformazione di precedenti aree di guerra in aree di pace interna). Orbene, spingendo al limite questa interpretazione, si può intendere la politica come il processo di eliminazione graduale delle guerre; e quindi la guerra come l’espressione dell’imperfezione della politica e la pace come l’espressione della perfezione della politica. In questo modo si può pensare l’unità storica e attuale di politica e guerra senza ipotizzare arbitrariamente l’unità eterna di politica e guerra (che non consente di pensare tutti i fatti nei quali la politica e la guerra si differenziano). A sostegno di questa interpretazione sta il fatto che la politica come opera di pace coincide con la parte più sviluppata del pensiero politico e con le forme più consapevoli di partecipazione dei cittadini alla vita politica.

[11] Sviluppo e crisi delle ideologie. Nella discussione sulla crisi delle ideologie (che investe ormai anche il marxismo) non è mai stata presa in considerazione una esatta osservazione di Lionel Robbins. Circa il liberalismo, egli afferma che “il liberalismo internazionale non è un piano che sia stato messo alla prova e che sia fallito. È un piano che non è mai stato eseguito completamente — una rivoluzione schiacciata dalla reazione prima che ci fosse stato il tempo di sperimentarla sino in fondo”; ed estende (virtualmente) questa osservazione anche al socialismo. La correzione del quadro del dibattito che ne risulta è evidente: se le cose stanno così, i mali più gravi del nostro secolo nella politica internazionale, nazionale e sociale devono ovviamente essere imputati a ciò che non è ancora liberale e/o socialista, e non al liberalismo e al socialismo in quanto tali che, non essendo ancora pienamente sviluppati, non avrebbero ancora potuto dare intieramente la prova della loro validità (e che tornerebbero in questione solo se si potesse dimostrare che il loro sviluppo completo è impossibile).

Il ragionamento di Robbins è inoppugnabile. Riducendolo all’osso, e riformulandolo, si può esporlo così. Egli osserva che con l’attuale sistema internazionale, fondato sulla sovranità assoluta ed esclusiva degli Stati nazionali, ogni piano economico (nel senso che egli dà al termine, cioè anche il piano liberale) non può essere che nazionale; e poi dimostra facilmente che questi piani non possono non contenere forti elementi di protezionismo e di corporativismo, perché i governi nazionali (cioè i centri di decisione che li formulano e li gestiscono) si reggono su una bilancia di potere che include tutti gli interessi protezionistici e corporativi, ed esclude gran parte degli interessi liberali e socialisti (quelli che hanno sede nazionale ma che potrebbero farsi valere solo sul piano internazionale perché è internazionale la loro scala di realizzazione). La ragione ultima di ciò sta nel fatto che mentre la sorte degli interessi protezionistici e corporativi dipende esclusivamente dai rispettivi governi nazionali, quella degli interessi liberali e socialisti in questione dipende invece dalla condotta di molti governi (al limite tutti) e non solo da quella del proprio, cioè da una situazione di potere non sottoposta al controllo elettorale diretto dei cittadini. Per questo il voto nazionale è efficace nel primo caso, inefficace nel secondo. Di fatto solo nel primo caso le decisioni favorevoli o sfavorevoli dei governi si traducono compiutamente in guadagni o perdite di voti e consenso per il partito (o i partiti) al governo. Ne segue che il liberalismo e il socialismo si possono sviluppare completamente solo con un piano internazionale (mondiale), e che un piano internazionale si può realizzare solo con un governo mondiale (cfr. Lionel Robbins, Economic Planning and International Order, Londra, MacMillan, 1937, p. 238 per la citazione testuale. Cfr. anche, di Robbins, The Economie Causes of War, Londra, J. Cape, 1939, e, per il fallimento internazionale del socialismo, Barbara Wootton, Socialism and Federation, in Studies in Federal Planning, ed. by Patrick Ransome, Londra, MacMillan, 1943, pp. 269-298. A margine osservo che la mancata ricezione di questa analisi dipende anche dal perdurare degli errori in cui erano già incorsi, secondo Robbins, gli “early liberals”: la tendenza a descrivere il mercato liberale in termini di spontaneità, senza mettere in eguale evidenza il piano liberale come il sistema di vincoli politici, legali, amministrativi ed economici che lo rende possibile, e l’ingenua fiducia nella possibilità di un funzionamento liberale del mercato internazionale senza un potere mondiale).

L’analisi di Robbins è importante anche perché permette di ottenere dei risultati che nel suo lavoro sono rimasti allo stato virtuale. Un risultato sta nella possibilità di distinguere — per ciascuna delle ideologie in questione — la sua affermazione storica (già ottenuta) dalla sua realizzazione completa (non ancora iniziata), e nella conseguente possibilità di chiedersi se l’intero sviluppo di queste ideologie passa attraverso fasi identificabili. Il secondo risultato consente di rispondere in modo affermativo a questa domanda. Esso deriva dalla relazione (già stabilita) tra piano internazionale liberale e/o socialista (realizzazione completa) e governo mondiale (pace), cioè tra la pace e l’ultima fase di sviluppo di queste ideologie; e sta nella possibilità di stabilire relazioni analoghe per le altre fasi. In effetti, come bisogna ipotizzare la pace per pensare l’ultima fase di sviluppo, così bisogna tener presente la guerra per pensare la prima fase, quella dell’affermazione storica, come lotta contro le situazioni di potere fondate sulla esclusione forzata e legale della libertà individuale e della liberazione delle classi (assolutismo e/o subordinazione del potere politico al privilegio di classe). E a questo punto si delinea chiaramente una fase intermedia tra la prima e l’ultima, quella dello sviluppo (parziale) in un quadro legale. In questa fase lo sviluppo non può essere ancora completo, né esente da rischi di ricaduta nella precedente illegalità, ma è tuttavia — come mostrano i fatti — sufficiente per consolidare l’affermazione storica delle ideologie in questione sino a rendere indistruttibili, almeno sul piano delle idee, i loro valori (per questo una vera rivoluzione, una volta fatta, è fatta per sempre). Anche questa fase presenta una netta relazione con una situazione tipica di guerra e/o pace: quella della transizione dal mondo della guerra alla pace. Lo prova il fatto che la guerra ridiventa un obiettivo prioritario ogni volta che i valori di libertà, giustizia ed eguaglianza vengono calpestati. In questo senso — negativo piuttosto che positivo, ma in ogni caso reale — si può dire che il liberalismo, la democrazia e il socialismo sono le premesse necessarie alla pace.

Questa conclusione deve tuttavia essere brevemente commentata. In effetti, il fatto che il liberalismo, la democrazia e il socialismo sono davvero le concrete premesse politiche della pace (altro dovrebbe dirsi per le premesse religiose e morali), ha condotto alla erronea conclusione che siano anche il mezzo per costruirla. Ma è piuttosto vero il contrario. In realtà, mentre l’affermazione storica di ciascuna di queste ideologie costituisce una delle premesse alla pace, la pace, a sua volta (come governo mondiale),costituisce la premessa necessaria della loro realizzazione completa, e ciò mostra immediatamente che non si può costruire la pace con il semplice rafforzamento di queste ideologie. Ma questo fatto è rimasto oscuro; e questa oscurità ha provocato sia delle pseudoteorie unilaterali della pace (identificata col proprio successo: teorie economiche della pace, di segno contrario, dei liberali e dei marxisti, teorie nazionaldemocratiche della pace dei democratici), sia, sul piano specifico dell’azione, un riflesso ideologico: il mascheramento della guerra (inevitabile: in teoria nulla smentisce il liberalismo, la democrazia e il socialismo più della guerra).

Queste conseguenze — come, per un altro verso, tanto la concatenazione interna di queste ideologie quanto la loro situazione attuale — si spiegano facilmente se si tiene presente che il passaggio dalla fase dell’affermazione storica a quella dello sviluppo legale coincide con il passaggio dall’offensiva alla difensiva. Le ragioni di questo passaggio sono evidenti. I liberali non potevano non difendere la libertà individuale, dopo averla ottenuta lottando contro l’assolutismo e il monopolio aristocratico del potere, e la stessa considerazione vale per i democratici a proposito della libertà politica e per i socialisti a proposito della libertà economico-sociale. Ma ciò che conta, nel filo del nostro discorso, è anche il fatto che queste vittorie sono state tutte ottenute con la lotta di una classe (a volta a volta la classe che non poteva liberarsi senza affermare uno di questi valori di libertà ed era nel contempo in grado di sostenerlo istituzionalmente) e una specifica forma di Stato (lo Stato compatibile con la libertà individuale e la liberazione delle classi, cioè lo Stato nazionale). Da ciò risulta che, passando dalla offensiva alla difensiva, liberali, democratici e socialisti non hanno, rispettivamente, difeso solo la libertà individuale, politica e sociale, ma anche una classe e una forma di Stato.

Questo limite di classe, reso statico dalla posizione difensiva, spiega il fatto (spesso osservato) che è stata necessaria l’azione democratica per ampliare la sfera della libertà liberale, e l’azione socialista per ampliare la sfera della libertà democratica. D’altra parte questo limite di Stato, anche esso reso statico dalla stessa ragione, spiega l’accettazione del mondo della guerra da parte dei liberali, dei democratici e dei socialisti (anche se più attraverso il mascheramento della guerra che attraverso il riconoscimento della sua normalità, come si è visto).

Si profila dunque questa situazione: ottenuta la liberazione delle classi si può avanzare solo sul terreno della liberazione dei singoli individui, e solo con una nuova ideologia: l’ideologia della pace. Bisogna tener presente che la liberazione delle classi ha comportato l’estensione, ma non lo sviluppo completo, della libertà individuale, politica e sociale, tuttora subordinata non solo ai limiti corporativi (nel quadro della disgregazione delle classi) ma anche alla suprema illibertà del dovere di uccidere e di morire per lo Stato (nazione). Il terreno della lotta per la pace è dunque quello dell’ampliamento della sfera della libertà individuale, politica e sociale per mezzo della piena libertà dell’uomo in quanto tale. Ciò richiede da parte dei liberali, dei democratici e dei socialisti il superamento dei loro limiti ideologici; e, da parte di tutti, lo sviluppo di una teoria positiva della pace e di una strategia che faccia della pace, e non solo della fortuna della propria nazione, l’obiettivo supremo della lotta politica.

[12] Ragion di Stato e sistema politico. La costituzione è comunemente intesa come la manifestazione più alta dell’autonomia di un popolo, come l’espressione fondamentale del suo carattere ecc. Ma è vero anche il contrario. Non si può negare che Ranke abbia ragione quando scrive: “Il grado di indipendenza dà a uno Stato il suo posto nel mondo; ed esso gli impone la necessità di modellare i suoi rapporti interni in vista dell’obiettivo della sua affermazione. Questa è la sua legge fondamentale” (sottolineatura mia). Ma questa verità di senso comune non è facile da ammettere (nonostante la sua evidenza: si può ricordare ad esempio la costituzione di quasi tutti gli Stati europei dopo la seconda guerra mondiale) perché non si può ammettere, a causa del suo parziale disaccordo con i fatti, il principio con il quale si tenta di spiegarla: il principio del primato della politica estera sulla politica interna.

Bisogna dunque innanzitutto ricordare che Ranke, pur avendo messo in evidenza la dipendenza della costituzione degli Stati dalla bilancia internazionale del potere, non aveva affatto rinunciato a pensare lo Stato in termini di autonomia. Nello stesso saggio egli dice: “La nostra patria non è là dove siamo riusciti a vivere bene. La nostra patria è invece in noi, con noi... Questo elemento ineffabile e segreto, che riempie le cose più umili come le cose più alte — quest’aura spirituale che noi aspiriamo e respiriamo — precede ogni costituzione, vivifica e riempie tutte le sue forme” (sottolineatura mia: cfr. Leopold. von Ranke, Dialogo politico, qui citato da una antologia di Sergio Pistone, Politica di potenza e imperialismo, Milano, Angeli, 1973, pp. 132 e 129 e, per il passo successivo, p. 130. Va notato, a scanso di equivoci, che secondo Ranke non è la fusione di nazione e Stato a conferire questa spiritualità agli Stati. Egli pensava che Stato e nazione non possono coincidere — la stessa Francia, osservava, non comprende tutti i francesi — e riteneva che lo Stato costituisse “una modificazione dell’esistenza umana, come di quella nazionale”).

Ranke avrebbe dunque sostenuto sia una cosa (l’autonomia dello Stato) sia il contrario (l’eteronomia dello Stato). Il fatto è che nel quadro nel quale lo si pensa ancora, il problema è mal posto. In primo luogo, bisogna osservare che non si può distinguere la politica estera da quella interna senza aver prima teorizzato la politica nella sua unità, cioè prima di aver visto come l’una e l’altra si collegano. In secondo luogo bisogna osservare che, se non si precisa il senso e il contesto del discorso sull’autonomia e sulla eteronomia degli Stati in riferimento alla bilancia mondiale del potere, si può attribuire alla volontà ciò che, con un altro punto di vista, si deve attribuire alla necessità. Si può dire, ad esempio, che uno Stato sa reagire alla pressione delle condizioni esterne con il suo valore ecc. (autonomia della volontà) oppure che deve adattarsi a queste condizioni (necessità, cioè eteronomia della volontà).

Per uscire da questa ambiguità bisogna tener presente che il principio del primato della politica estera non è che la cattiva formulazione del fatto che gli Stati non sono sistemi politici ma sottosistemi, e che c’è un solo sistema politico, il sistema degli Stati (che si è ormai pienamente realizzato come sistema mondiale degli Stati). Con il punto di vista determinato da questo criterio, si constata subito che tutti i fatti politici (tanto di politica estera quanto di politica interna) modificano la bilancia mondiale del potere, e che tutti gli Stati si devono adattare a queste variazioni dell’insieme (come applicazione di questo punto di vista sono esemplari le lucide intuizioni di Hamilton, come i lavori storici di Dehio e Hintze). Bisogna anche tener presente, d’altra parte, che si deve limitare l’analisi politica ai fatti politici. Intendo questo: se osserviamo il sistema politico, possiamo accertare delle relazioni tra le variazioni del sistema e il mutamento della condotta e/o delle istituzioni degli Stati, e null’altro. I discorsi sul genio dei popoli, sul loro carattere, sul loro valore, se hanno qualche senso (e spesso non l’hanno: stupisce che uno statista come Schmidt abbia potuto dire che nella seconda guerra mondiale un soldato tedesco valeva tre soldati russi e cinque americani. Cfr. Roberto Ducci, Colloquio con Schmidt, Corriere della sera, 30 dicembre 1982), lo hanno solo a patto di fondarsi su serie analisi antropologiche, sociologiche, economiche ecc. Ma in questi casi sono queste discipline a illuminare la politica e non viceversa.

[13] Il pericolo nucleare e la condizione umana. Non esiste ancora una sufficiente consapevolezza del fatto che, per un verso, le armi nucleari hanno dimostrato i limiti della forma attuale di Stato — che si è rivelato incapace di contenere il pericolo nucleare — e, per l’altro, ne stanno provocando la degradazione estrema (sino al capovolgimento della sua funzione di difesa della vita). In sostanza c’è una accettazione passiva, che fa considerare come una fatalità ciò che è invece una scelta fatta da alcuni uomini e subita da tutti gli altri. Si parla delle armi nucleari, ma non del fatto che il potere politico ha assunto la caratteristica di potere di fabbricare, installare e impiegare armi di questo genere. Le conseguenze di una guerra nucleare sono ampiamente studiate e divulgate da biologi, fisici, medici ecc., ma non vengono invece prese in esame le conseguenze dell’accettazione di un mondo politico che ha creato, e ricrea ogni giorno, il pericolo dello sterminio dell’umanità. In genere gli studiosi di politica tacciono.

Il problema ha due aspetti. Uno riguarda il modo di vivere che si profila per l’umanità. Questo aspetto del problema è stato seriamente esaminato da Jonathan Schell. Egli ha osservato che gli uomini si trovano ormai di fronte alla scelta tra l’accettazione del pericolo della distruzione del genere umano e il tentativo di superarlo con la distruzione delle armi nucleari e con un assetto politico del mondo che impedisca di costruirle di nuovo; e ha constatato che si tratta della scelta tra due diversi, e globali, modi di vivere. Ha poi stabilito con rigore il criterio per valutare il significato della prima alternativa, da lui ampiamente illustrata. Egli ha scritto: “Minacciando di cancellare le future generazioni, il pericolo nucleare non solo getta nel disordine tutte le nostre attività che fanno assegnamento sulla loro esistenza, ma perturba anche la nostra relazione con le generazioni passate”. E ha precisato: “Il presente è il fulcro sul quale si bilanciano futuro e passato; e se il futuro si perde, cade anche il passato” (cfr. Jonathan Schell, Il destino della terra, trad. it., Milano, Mondadori, 1982, pp. 201 e 223, e in genere tutto il capitolo La seconda morte).

Il secondo aspetto del problema è politico, perché la scelta tra questi due modi di vivere è una scelta politica. Si tratta di scegliere tra due opposte concezioni del potere e dello Stato: da una parte lo Stato di oggi, che attribuisce ad alcuni uomini il potere di fabbricare, installare ed impiegare qualunque tipo di arma, dall’altra una nuova forma di Stato, articolata e universale, che attribuisca all’intera umanità il monopolio del controllo legale della forza fisica (in mancanza di che ogni tentativo di disarmo sarebbe destinato al fallimento). Questa scelta riguarda i potenti della Terra sotto il profilo delle decisioni, ma tutti gli uomini sotto il profilo del consenso e del dissenso. E va rilevato che le campagne per scongiurare questo o quel rischio immediato di conflitto, o per ridurre il numero dei missili ecc. non bastano. Con queste azioni si resta ancora nell’ambito del mondo che ha creato, e ricrea ogni giorno, il pericolo della catastrofe nucleare; e non ci si propone né di distruggerlo, né di affrontare il problema delle nuove forme di potere e di Stato necessarie per ridare alla vita umana il senso del futuro e del passato.

 

 

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