Anno XXXVI, 1994, Numero 1, Pagina 66
La difesa dell’Europa e il significato delle armi nucleari*
MARIO ALBERTINI
Il generale Ailleret, chef d’état major des armées, ha pubblicato nel numero di agosto della Revue de défense nationale una conferenza pronunciata il 28 giugno di fronte agli anciens auditeurs del collegio della NATO, ufficiali superiori e alti funzionari degli Stati dell’alleanza. Si tratta in realtà di una vera e propria presa di posizione del governo francese sul problema della difesa dell’Europa, tant’è che il ministro delle forze armate, Messmer, la ribadì dichiarando, il 21 luglio, che il generale Ailleret non aveva affatto espresso delle opinioni puramente personali, cosa del resto ovvia dato il suo incarico.
In questa conferenza il generale Ailleret, dopo aver asserito che la teoria della flexible response di Maxwell Taylor si può considerare giusta in generale, ma sbagliata per quanto riguarda l’Europa, ha sostenuto: a) che una difesa classica, o conventionnelle come si usa dire, non sarebbe in grado di fermare i Russi sul rideau de fer («le Rhin serait déjà une solution heureuse. La Somme, l’Aisne, les Vosges, le Jura et les Alpes seraient une solution plus probable»); b) che il ricorso alle armi atomiche tattiche potrebbe forse permettere di bloccare l’invasione, «mais le prix, pour le champ de bataille lui-meme, c’est à dire pour l’Europe, serait immense… il est clair que l’échange nucléaire, même simplement tactique, écrasera complètement l’Europe sur 3000 kilomètres de profondité, depuis l’Atlantique jusqu’à la frontière soviétique». E ha concluso affermando che per proteggere davvero l’Europa bisogna ritornare al metodo della risposta nucleare strategica immediata.
Questo ritorno all’idea della risposta nucleare immediata è giusto o sbagliato? Si tratta in primo luogo di stabilire quali siano per l’Europa le conseguenze della teoria della flexible response. Allo stato dei fatti questa teoria non è che il proposito di difendere l’Occidente con una strategia che prevede, prima dell’impiego delle armi nucleari, il pieno dispiegamento della guerra convenzionale in Europa, e che costituisce pertanto la possibilità del suo verificarsi. Soli, divisi, e senza armi nucleari gli Stati dell’Europa occidentale sarebbero travolti rapidamente senza subire, proprio per questa ragione, grandi devastazioni. Ma con l’aiuto degli USA, e con il proposito di accrescere il proprio impegno militare a grado a grado che aumenta quello dell’avversario, l’Europa vedrebbe divampare ancora una volta sul suo suolo la guerra al massimo delle sue possibilità distruttrici.
E’ una prospettiva inaccettabile. Si tratterebbe della terza guerra mondiale, non di una guerra limitata. Morirebbero molti milioni di persone, soprattutto fra la popolazione civile. Verrebbero distrutte città storiche, opere d’arte e memorie del passato che costituiscono la maggiore testimonianza vivente dello sviluppo della civiltà che sta unificando il genere umano, civiltà che, pur essendosi manifestata ovunque, solo in Europa si è svolta senza interruzioni. Gli Europei che si rendono conto della irreparabilità e della gravità di una distruzione di questo genere, che non hanno dimenticato la seconda, nonché la prima, guerra mondiale, e che non hanno perduto completamente, in questi anni nei quali la difesa dell’Europa è stata assicurata dagli Americani, il senso della responsabilità, non possono avere dubbi. Bisogna respingere qualunque politica che comporti per l’Europa la possibilità di una terza guerra mondiale, bisogna fare tutto ciò che si può per scongiurarla.[1]
Ma per scongiurare la guerra non c’è che un mezzo, la minaccia della risposta nucleare immediata. E’ vero che di fronte a questo argomento il cervello cerca di scappare, come un cavallo impaurito, lungo mille vie una più immaginaria dell’altra. Ma bisogna tenerlo lì. Se si vuole evitare la guerra in Europa bisogna impedire all’Unione Sovietica, in qualunque circostanza, e con qualunque governo, di combattere in Europa. E non c’è che un modo di impedirglielo, la minaccia della risposta nucleare immediata. Nessuno ha presentato un piano d’azione che possa conseguire con mezzi diversi lo stesso risultato. E nessuno è in grado di formularlo. Ailleret ha ragione.[2]
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In teoria si potrebbe considerare un’altra possibilità, quella del neutralismo nel senso più stretto della parola. Esso non garantisce affatto che non si sarà attaccati, ma, se fosse applicato sino in fondo, potrebbe garantire che non ci sarà né morte né distruzione. Basterebbe non reagire in alcun modo all’aggressione, non difendersi in caso di attacco. Lasciar avanzare l’avversario senza sparare un colpo.
Beninteso, non ci si può aspettare che dei governi europei si comportino in questo modo. Circa i governi si poteva pensare sino a qualche anno fa, sia pure ingannandosi, a una ipotesi diversa, quella della vittoria del partito comunista in Francia e in Italia, del conseguente allineamento della Germania occidentale e quindi della eliminazione del rischio della guerra in Europa mediante una alleanza permanente tra l’Unione Sovietica e tutti gli Stati europei. I comunisti cercano ancora di suggerire questa visione, ma con sempre minori possibilità di convincere. E’ ormai un dato di fatto, e molto clamoroso, del resto, che il campo degli Stati «socialisti» più si allarga più si divide, e più presenta i fenomeni classici, tradizionali, della lotta di potenza fra gli Stati.
Mostrata la falsità della pace comunista, e scartata come irreale l’ipotesi che non solo con gli attuali governi europei, ma anche con qualunque governo, sia esso conservatore o rivoluzionario, di destra, di centro o di sinistra, sia possibile ottenere un neutralismo completamente passivo, non resta da prendere in considerazione che un mezzo: l’organizzazione di un corpo clandestino di fanatici decisi a compiere tutti gli atti di sabotaggio, sino all’assassinio di capi politici e militari, necessari per impedire agli eserciti dei propri paesi di entrare in azione. Vada sé che basta enunciare questa ipotesi per rendersi conto della sua assurdità. Ma bisogna egualmente metterla in evidenza per non lasciare ad alcuno alcuna scappatoia sul problema della difesa dell’Europa.
Riassumiamo. La flexible response, così come è ora, non difende l’Europa, al contrario la distrugge. Il neutralismo non serve a nulla nella sua forma attiva (reagire solo se aggrediti), e non è possibile nella forma in cui sarebbe utile, quella rigorosamente e completamente passiva. Qualcuno rifiuta la strategia della risposta nucleare immediata pur volendo evitare egualmente all’Europa il flagello di una nuova guerra? Ne dia la prova, si dia da fare per costituire l’organizzazione dei fanatici disposti a tutto per impedire che si scateni, altrimenti avremo il diritto di considerarlo un mentitore. Qualcuno dice invece di voler difendere l’Europa senza minaccia di risposta nucleare in caso di rischio di guerra generalizzata? Venga convinto del suo errore se è in buona fede, e in caso contrario venga smascherato per quel che è, una persona che non esita ad accettare la possibilità dello sterminio e della distruzione in Europa per difendere interessi privati.
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A questo punto non resterebbero da analizzare che gli aspetti politici della risposta nucleare immediata se non fosse necessario rimuovere prima un ostacolo psicologico, che impedisce a molte persone di considerare nei suoi termini reali il problema della difesa dell’Europa. Questo ostacolo è costituito dal modo con il quale ci si raffigura di solito l’idea della risposta nucleare. Si tratta proprio di una idea così bestiale come molti credono? Lo sarebbe senza dubbio se la minaccia della risposta, nonché l’esistenza stessa delle armi nucleari, comportassero davvero la possibilità del loro impiego effettivo. E questo è quanto molti temono. Le armi nucleari, avendo distrutto la possibilità della vittoria, cioè lo scopo della guerra, la guerra nucleare è, in teoria, impossibile. Per questa ragione in genere non si pensa che un capo di governo sano di mente possa minacciare la sicurezza di una potenza nucleare in modo tale da costringerla alla risposta nucleare, e tanto meno che egli possa dare per primo, senza essere giunto sull’orlo dell’abisso, l’ordine di lanciare delle bombe nucleari. Ma si pensa tuttavia che possa farlo se diventa pazzo, oppure che si possa giungere alla guerra nucleare per errore.
Prima di discutere la fondatezza di questa idea mi si consenta una divagazione. Per quanto mi riguarda personalmente, pur non professando alcuna religione, io non posso prenderla in considerazione senza un moto di scetticismo, senza ripensare, quasi mio malgrado, alla frase di Einstein «Dio non gioca ai dadi con l’universo», e senza aggiungere, «dunque nemmeno con il genere umano».
In ipotesi con la guerra nucleare si può ottenere «qualsiasi livello di massacro e di distruzione», si possono uccidere centinaia di milioni di persone, si può cancellare dalla faccia della Terra il genere umano. E un uomo, non un Dio, un uomo solo, pazzo o in errore, potrebbe scatenarla.
Indubbiamente, è l’idea più terribile che sia apparsa nella mente umana. Una idea che dovrebbe atterrire e sgomentare. Una idea che dovrebbe indurre lo spirito religioso a chiedersi se stia avvicinandosi il giorno dell’Apocalisse, lo spirito filosofico a riprendere in esame il senso della presenza umana nella storia, lo spirito scientifico a smontarla pezzo per pezzo, deliberatamente e freddamente, per vedere se nonostante la sua apparente evidenza non nasconda un errore. Ma niente di simile è accaduto, cosa che induce a pensare che essa non è risultata veramente credibile per nessuno, che non ha messo nessuno di fronte ai fatti che dovrebbe far ritenere possibili. Stando a ciò che si vede, si direbbe che essa venga presa in considerazione credendoci solo per quel tanto che serve a provare, o a far provare, un brivido del genere di quelli che destano un romanzo nero o un film del terrore, oppure che serve per avere un argomento con cui predicare, se si è di quegli uomini che si occupano soltanto di sé stessi, che perdono per questo la sensibilità per qualunque altra cosa e che colgono pertanto di ogni idea solo l’aspetto che consente loro di mettersi in mostra. E ciò basta per far dubitare della sua verità.
In ogni modo discutiamone la fondatezza. Ecco i dati. Le armi nucleari ci sono. Ci sono inoltre degli uomini di Stato cui spetta di decidere del loro impiego. E ci sono infine dei militari che hanno la possibilità materiale di sganciarle o di lanciarle. Uno fra questi uomini di Stato può dare l’ordine fatale se esce di senno, o per replicare a un presunto attacco nucleare dell’avversario in seguito ad errori dei sistemi di avvistamento. Ci può essere anche un’altra specie di errore. Un uomo di Stato può, durante un conflitto limitato che veda in gioco, direttamente o indirettamente, due potenze nucleari, giungere a grado a grado a un punto nel quale, a lui o all’avversario, non resta per l’estrema difesa che l’arma nucleare. Oppure può diventare folle, o sbagliarsi a causa di errori di qualche strumento, qualcuno dei militari (o delle coppie di militari) che si trovano nei nodi cruciali dell’organizzazione militare che ha il compito di lanciare dei missili o di sganciare delle bombe.
Sulla base di questa descrizione dei dati del problema, e per ciascuna di queste ipotesi, si può elaborare una casistica praticamente senza fine, che di fatto ci viene effettivamente proposta sia da romanzieri e cineasti che dai cosiddetti esperti di strategia nucleare in modo spesso sostanzialmente non diverso. Ma non vale la pena di perdere del tempo per esaminarla perché questa descrizione, che costituisce il punto di partenza di questa casistica, è falsa anche se a prima vista sembra vera, vera secondo l’evidenza e quindi al di sopra di ogni dubbio. E’ falsa a causa di un errore di imputazione.
Secondo questa descrizione ci sono da una parte degli individui isolati (consideriamo in primo luogo gli uomini di Stato) e dall’altra le bombe. Le bombe, da sole, non contano nulla. Si sa che esistono, si sa che sono probabilmente sufficienti per distruggere il genere umano, ma si sa anche che se non si forma a livello umano la decisione di impiegarle esse non sono che materia inerte che non può produrre il minimo danno ad alcuno. Orbene, questo è il punto: la formazione della decisione di impiegarle. Se si prende seriamente in esame questo punto si comprende subito che non è vero che ci sono da una parte delle bombe e dall’altra degli individui isolati. Dall’altra ci sono dei gruppi, non degli individui isolati.
Ci sono i collaboratori dell’uomo di Stato che ha la facoltà giuridica di prendere la decisione. Ci sono i partiti e gli interessi materiali e morali da cui dipendono questi uomini. Ci sono le assemblee popolari, nonché tutti i detentori di qualche frazione di potere, di qualunque genere esso sia. C’è tutta la popolazione, ci sono persino i morti, i grandi morti che simboleggiano il cosiddetto genio del popolo, ossia le sue esperienze storiche più importanti. C’è in sostanza un gruppo che non si può designare nemmeno con la parola «governo», tanto lo sovrasta, ma solo con la parola «Stato», e solo quando essa è comprensiva anche del concetto di «società civile», vale a dire il gruppo formato dalla relazione sociale che ha sempre costituito, dall’inizio della storia, la massima garanzia di responsabilità nel controllo della condotta umana.
E’ vero che, dal punto di vista giuridico, la decisione spetta a un solo individuo, un uomo politico, il capo dell’esecutivo. Ciò può far pensare che egli possa agire indipendentemente dalla volontà altrui, e che egli sia pertanto slegato da tutti gli altri, i non aventi diritto. Ma non è vero. Un legame infrangibile lo lega ad altri uomini: l’impossibilità di mandare ad effetto le sue decisioni senza il concorso e il consenso di altre persone. E’ una impossibilità assoluta, che deriva dal fatto che il potere di decidere e quello di eseguire non coincidono. In molti casi, come in quello dell’impiego delle armi nucleari, il primo può essere di una sola persona, ma il secondo è sempre di molti. Di conseguenza la decisione di chi ha il diritto di decidere resta sulla carta se contrasta radicalmente con gli interessi vitali di coloro che sono coinvolti nella esecuzione della decisione, che si trovano così ad avere un forte potere negativo, il potere di impedire.[3]
E’ questo meccanismo che subordina l’uomo di Stato a un gruppo — quello delle persone coinvolte nella esecuzione della decisione — che tende a coincidere con il gruppo di tutte le persone che hanno un interesse vitale nella decisione da prendere. Ne segue che più una decisione è grave più la pigliano tutti, anche se non sono interpellati direttamente che in poche occasioni. C’è sempre un uomo di Stato che in teoria ha il diritto di prendere la decisione da solo, ma, come abbiamo visto, quando il contenuto della decisione concerne direttamente gli interessi vitali di tutti i membri della comunità statale, egli deve in realtà adattarsi a prenderla solo con loro e solo per loro, a patto di non riuscire a mandarla ad effetto, ossia di rendere vano di colpo il suo potere e di cessare di essere, almeno per quell’istante, un uomo di Stato. D’altra parte questo uomo, il cui interesse personale si trova a coincidere con l’interesse generale, nel tentativo di elevare il suo animo all’altezza della sua responsabilità, non può fare a meno di ricorrere all’esempio dei grandi trapassati. E così, attraverso la subordinazione dell’uno ai molti e alla saggezza che si tramanda di generazione in generazione, lo Stato realizza effettivamente il massimo di responsabilità possibile nel controllo della condotta umana. Sono cose note, almeno in parte. Ma bisognava ricordarle per precisare che le armi nucleari, essendo formalmente nelle mani del capo dell’esecutivo, sono praticamente nelle mani di tutti, e di tutti quando manifestano il massimo di saggezza possibile, quando agiscono come Stato.[4] Bisogna dunque concludere che la guerra nucleare per errore o per follia è impossibile. Un individuo può diventare pazzo o sbagliarsi, tutti no. Con ciò il problema sarebbe chiuso, ma la sua gravità è tale che vale la pena di riprendere in considerazione i nostri dati e di riesaminarli in questa luce.
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Sappiamo ora che dobbiamo sì prendere in considerazione degli individui singoli, ma degli individui singoli che devono pensare con i pensieri di tutti e che devono decidere con la volontà di tutti. Essi — cominciamo ancora dagli uomini di Stato — possono diventare pazzi. Si danno allora due casi. La situazione internazionale è calma, non esiste alcuno stato di allarme e il capo dà l’ordine dell’attacco nucleare. Tutti si rendono conto che è impazzito, l’ordine non viene eseguito e l’unica conseguenza è la sua rimozione. Ciò potrà dar luogo in alcuni Stati a problemi costituzionali di difficile o impossibile soluzione sul piano giuridico, ma non a vere e proprie difficoltà pratiche. Hamilton diceva che i fatti rivoluzionari, ossia eccezionalmente gravi, non si risolvono con le regole costituzionali per l’ovvia ragione che si tratta proprio dei fatti che mettono in mora tutto il sistema costituzionale.
Oppure la situazione internazionale è grave ed esiste uno stato di allarme. In questo caso chi ha il potere formale di ordinare l’attacco non si trova mai solo. Sta costantemente con i suoi collaboratori. E se gli venisse in mente, in seguito ad una crisi di pazzia, di dare l’ordine dell’attacco nucleare — si ricordi che non ci può essere comunque, sempre salvo il caso di follia o errore, né un attacco nucleare dell’avversario né una situazione senza via di uscita salvo quella nucleare — egli non riuscirebbe nemmeno a promulgarlo. Verrebbe subito smentito e messo fisicamente in condizioni di non nuocere. Ciò vale anche per l’eventualità che, per paura, per errore o per incoscienza, durante un conflitto in costante aggravamento, il leader possa prendere l’ultima misura, quella dopo la quale non resterebbe che l’uso delle anni nucleari. In questo caso egli sarebbe fermato prima dai suoi collaboratori. D’altra parte in un caso simile reagirebbe anche l’avversario. L’affacciarsi del rischio dell’uso delle armi nucleari, da parte della potenza senza altra via d’uscita, diverrebbe il fatto determinante dell’evoluzione della situazione. Di fronte a questo rischio, la potenza in vantaggio alleggerirebbe immediatamente la sua pressione sino a ristabilire le condizioni che non impongono all’avversario il ricorso alle armi nucleari.
C’è infine l’ultima ipotesi, quella dell’errore sia dell’uomo di Stato che di un militare in una posizione cruciale, che comprende anche il caso della follia di quest’ultimo. E’ veramente difficile, è così difficile che bisogna tenerla presente solo per perfezionare costantemente il dispositivo di sicurezza ma non per considerarla come un evento possibile. Per prenderla in considerazione come una situazione nella quale gli uomini possano effettivamente venirsi a trovare, bisogna giungere sino ad ipotesi romanzesche, come ad esempio quelle del film Il dott. Stranamore. In ogni modo l’errore per sé stesso non porta alla guerra o all’attacco massiccio — che seguirebbe solo in un secondo tempo, quel secondo tempo che non ci sarà mai — ma solo al lancio di una sola bomba della prima salve di avviso proprio perché, trattandosi di un errore, entrerebbero prestissimo in azione tutti i dispositivi per smentire l’ordine e fermare o distruggere i vettori.
E questo lancio non porterebbe alla guerra nucleare. E’ fuori di dubbio che, un attimo dopo lo scoppio della bomba, sia dalla parte di chi ha commesso l’errore sia dalla parte di chi l’ha subito, entrerebbero subito in campo con un solo pensiero, di una intensità mai vista, non solo i capi, non solo le gerarchie dello Stato, ma anche tutti i membri della comunità statale, nessuno escluso. Lo Stato si eleverebbe al massimo della sua responsabilità, nel pieno della sua maestà, l’unica vera, la maestà del popolo, come dice Kant, e saprebbe impedire il massacro e lo sterminio. Il capo dell’esecutivo cui l’errore sarebbe individualmente imputabile, sconvolto da uno sgomento che nessuno ha mai provato, sarebbe pronto ad accettare senza riserve qualunque richiesta di riparazioni morali e materiali, e si preoccuperebbe soltanto di chiederne la presentazione. D’altra parte i dirigenti dello Stato che avesse subito l’errore non vorrebbero certo, per togliersi la soddisfazione della risposta — ma si può parlare così? — decidere di scatenare la guerra nucleare, ossia decidere di distruggere tra l’altro il proprio popolo, che si farebbe del resto sentire in mille modi mentre tutta l’umanità invocherebbe la pace.
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C’è un altro aspetto nella questione delle armi nucleari, l’aspetto positivo, del quale nessuno parla mai. Che in ogni cosa ci sia un aspetto positivo e uno negativo è un dogma per la concezione dialettica della storia. Ma è anche una concezione di senso comune che tutti conoscono, persino attraverso i proverbi, anche se spesso, colpiti dall’aspetto negativo di qualche cosa, la dimenticano e si ritraggono impauriti prima ancora di averne colto l’aspetto positivo, restando così preda dell’oscurità e della paura invece di elevarsi sino alla conoscenza sia dei lati buoni che di quelli cattivi, che è nel contempo il livello della fiducia nella possibilità di agire. E’ comprensibile che ciò sia accaduto con le armi nucleari. Tuttavia è tempo ormai di riprendersi e di mettere in evidenza il loro aspetto positivo.
Cominciamo da una questione di attualità, quella della cosiddetta proliferazione delle armi nucleari. E’ fuori di dubbio che non si potrà arrestarla. Senza armi nucleari non si ha potere di decisione a livello internazionale, se non in forma subordinata e marginale. Questo è il motivo che ha spinto sinora l’Unione Sovietica, la Gran Bretagna e la Francia, a emulare gli USA. E questo è il motivo che spingerà ogni Stato che ne acquisterà la capacità tecnica e finanziaria a provvedersi di armi nucleari. E’ una previsione che non si può formulare in termini matematici ma che ha praticamente lo stesso grado di certezza della previsione che si ottiene dieci se si aggiunge cinque a cinque. Del resto la proliferazione è in corso, e il fatto che chi vuole impedirla pensa di limitare a due il numero delle potenze nucleari (USA e URSS), mentre esse sono già quattro, non è che il segno della oscurità che cala ancora sugli uomini quando si occupano di questi problemi. Come si può pensare che si riduca a due e non aumenti più il numero delle potenze nucleari? E’ in gioco il potere di decisione internazionale. Come si può pensare che tutti gli Stati lascino per sempre solo agli USA e all’URSS questo potere?
D’altra parte il diavolo non è così brutto come lo si dipinge. Si teme la proliferazione delle armi nucleari per due ragioni: l’aumento del rischio connesso con l’incremento puro e semplice del numero delle potenze nucleari, e l’aumento del rischio connesso con il fatto che, in ipotesi, finirebbero per avere delle armi nucleari anche degli Stati irresponsabili. Ma il primo rischio non esiste, come abbiamo visto, perché ciò che vale per uno Stato responsabile vale per tutti gli Stati responsabili. E a considerare bene ci si accorge che non esiste nemmeno il secondo. Attualmente ci sono degli Stati irresponsabili, ma è un fatto che essi non sono ancora in grado di fabbricare armi nucleari, ed è un fatto che quando saranno in grado di fabbricarle e di metterle al servizio di una politica ragionevole (a causa del rischio nucleare una irragionevole non sarebbe tollerata dalle grandi potenze) saranno anche divenuti degli Stati responsabili. Occorre forse ricordare che messi nelle stesse circostanze tutti gli uomini acquistano le stesse capacità, o far presente che la natura non ha fatto i Russi e gli Americani più saggi degli altri uomini?
E c’è di più. Non si tratta soltanto della impossibilità della guerra nucleare. La proliferazione equivale infatti alla estensione del territorio nel quale non solo non esiste il rischio di una guerra di questo genere, ma nel quale si attenua addirittura, sino a scomparire del tutto, anche quello della guerra convenzionale. Per non oltrepassare la soglia del rischio nucleare gli Stati con armi nucleari non possono offendersi direttamente nemmeno con i mezzi convenzionali, ma possono offendersi solo indirettamente, con molta cautela, su territori lontani dal proprio e che non mettano comunque gravemente in gioco la loro sicurezza reciproca.[5] Ormai ci si può battere (con o senza l’intervento delle grandi potenze) solo su territori di Stati senza armi nucleari. E’ questa la ragione per la quale l’aumento del numero delle potenze nucleari coincide necessariamente con l’estensione del territorio nel quale il rischio di guerra scompare del tutto, e con la riduzione di quello nel quale esso permane.
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Starebbe dunque per cominciare il processo della scomparsa progressiva della guerra? Si tratta di una idea incompatibile con tutti i dati politici e storico-sociali del passato e del presente, vale a dire di una idea che non può essere presa in considerazione se non si riesce a dimostrare che essa è compatibile con i dati politici e storico-sociali del futuro che è già cominciato. I nostri lettori conoscono il nostro pensiero al riguardo. Lo ripetiamo sommariamente. Le armi nucleari richiedono grandi spazi per l’organizzazione della difesa e dell’offesa. D’altra parte esse compaiono a uno stadio della evoluzione del sistema produttivo nel quale esso, rendendo strettamente interdipendente l’azione umana su spazi di dimensione continentale, raggruppa gli uomini a questo livello e forma pertanto la base di un allargamento dell’organizzazione dello Stato sino a questa dimensione.
Si profila dunque la seguente situazione. Per un verso gli Stati continentali, possentemente armati, ma incapaci di fare la guerra a causa degli armamenti nucleari, si fronteggeranno in un equilibrio statico, privo di libertà di manovra, e quindi inadatto a riprodurre a livello politico, giuridico ed economico le incessanti modificazioni della base sociale della vita umana. Per l’altro l’interdipendenza materiale e morale degli uomini, crescendo continuamente a causa del progresso produttivo, tecnologico e scientifico, unirà sempre più fortemente tutti gli uomini della Terra anche al di là della dimensione continentale. Si svilupperà perciò una contraddizione sempre più profonda tra l’unità sociale del genere umano e la sua divisione politica in Stati separati. E questa contraddizione raggiungerà forse il massimo della sua espressione proprio nel settore militare, dove, a seguito di ciò, essa aprirà la via del suo superamento, ossia della fondazione del governo federale mondiale.
In effetti la divisione politica, e quindi la necessità di garantire la sicurezza con la forza, obbligherà gli Stati a mantenere e a perfezionare le armi più distruttive e li terrà costantemente, come nel passato, sul piede di guerra, ma di una guerra — la guerra senza vittoria e con l’autodistruzione dei belligeranti — che non si potrà fare, che gli stessi Stati non vorranno assolutamente fare e che riusciranno a non fare escogitando e attuando tutti i mezzi necessari. Il filo diretto tra il presidente americano e il capo dell’Unione Sovietica — ossia l’inversione del fondamento stesso della strategia che impone di celare all’avversario le proprie mosse — non è che la prima manifestazione di questa contraddizione: prepararsi alla guerra pur avendo la certezza di non farla; non far dubitare nessuno della propria decisione di difendere la propria sicurezza anche con i mezzi nucleari, pur facendo nel contempo il possibile per scongiurare assolutamente il rischio del loro impiego. Questo sforzo assurdo minerà i poteri degli Stati e faciliterà l’affermazione del potere unitario di fatto che si formerà nel quadro dell’unificazione sociale del genere umano.
L’esame dell’aspetto positivo delle armi nucleari ci ha portato fino a questo punto, un punto che molti saranno senz’altro tentati di respingere come avveniristico. Eppure Kant, ossia uno degli uomini nei quali la ragione si è manifestata al massimo del suo rigore, pensava in questo modo: «…Una siffatta libertà per l’impiego di tutte le forze della comunità negli armamenti, per le devastazioni susseguenti alle guerre e ancor più per la necessità di mantenersi costantemente in armi impedisce da un lato il pieno, progressivo sviluppo delle disposizioni naturali, dall’altro, per i mali che ne derivano, obbligherà la nostra specie a cercare una legge di equilibrio tra molti Stati per la loro stessa libertà antagonisti, e a stabilire un potere comune che a tale legge dia forza, così da far sorgere un ordinamento cosmopolitico di sicurezza pubblica che non sia immune da qualche pericolo, e ciò a impedire che le forze dell’umanità si assopiscano, ma d’altra parte non sia privo di un principio di equilibrio delle loro azioni e reazioni reciproche, per impedirne la distruzione».[6]
Del resto, tenuto conto del fatto che a ogni tappa della evoluzione del modo di produrre la dimensione della comunità statale si è allargata dalla città, alla regione e alla nazione, chi ritiene che questo processo continuerà può invocare il principio secondo il quale la stessa causa produce gli stessi effetti, mentre chi ritiene al contrario che ciò non si ripeterà al livello del continente, e finalmente della Terra, è tenuto a precisare quale sia il fattore storico, sinora sconosciuto, che impedirà anche alle future unità sociali di tradursi in unità politiche.
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L’idea della unificazione politica del genere umano, pur essendo una necessità della ragione per una retta conoscenza del problema nucleare (come del senso della storia), non è tuttavia sufficiente per stabilirne gli aspetti politici. Da questo punto di vista anche in Europa si presentano, con un rilievo autonomo: a) il problema della politica estera cui subordinare la strategia nucleare, che non riguarda questo articolo perché non dipende solo da considerazioni strategiche; b) i problemi che scaturiscono direttamente dalla esistenza di armi nucleari, dei quali si può e si deve invece parlare in questo contesto.
Due fra essi hanno grande importanza. Il primo è quello del rapporto delle armi nucleari con le armi convenzionali. A questo proposito vale, con una precisazione, quanto asserisce la teoria della flexible response. Per fronteggiare l’avversario bisogna disporre, beninteso in misura sufficiente, anche di armi convenzionali. L’avversario può mobilitare delle divisioni, può schierarle sui confini, può prendere iniziative di genere diversissimo — dallo sconfinamento di una pattuglia al blocco di Berlino, per fare un esempio storico — che possono presentare un netto carattere militare o paramilitare pur senza costituire dei veri e propri atti di guerra aperta.
Vada sé che, in tutti questi casi, non si può reagire che con mezzi convenzionali, rispondendo alla mobilitazione dell’avversario con una contromobilitazione, alle sue iniziative con controiniziative che non siano semplicemente quella, non ancora credibile e quindi inefficace, della minaccia della risposta nucleare. E va da sé che bisogna reagire in questo modo, avvisando naturalmente nel contempo l’avversario che ci sarà una risposta nucleare se egli varcherà la soglia del rischio di guerra generalizzata — e ciò allo scopo di scongiurarla — anche per un altro motivo, ossia per non diminuire la credibilità minacciandola a vuoto, in una situazione nella quale non sarebbe possibile mandarla ad effetto.
Queste osservazioni permettono un chiarimento pratico e uno teorico. Teoricamente esse mostrano che tra la flexible response e la risposta nucleare immediata non c’è incompatibilità, ma al contrario complementarità. Non essendo che il proposito di proporzionare la propria reazione alla gravità dell’iniziativa altrui la flexible response non esclude, bensì implica, nell’ipotesi di una iniziativa che minacci in modo immediato e diretto la sicurezza di chi viene attaccato, la risposta immediata. Essa dipende dunque, nella sua attuazione concreta, da dove si fissa il punto nel quale si considera che ci sia minaccia diretta e immediata della sicurezza, e quindi nel quale bisogna rispondere all’avversario che ha già percorso, o che ha saltato, tutti gli scalini precedenti, con le armi nucleari.
E’ evidente che, nel caso di uno Stato solo, il margine entro il quale si può fissare questo punto tende a zero perché in ogni situazione determinata esiste, e tutti sanno quale sia, il limite al di là del quale la sicurezza dello Stato è direttamente e immediatamente minacciata. Ma nel caso delle alleanze questo margine di scelta può essere molto più ampio, naturalmente a patto che ci sia la volontà di pagare il prezzo della scelta. Di fatto esso è tanto ampio quanti sono i punti nei quali esiste, per uno Stato o per un gruppo di Stati dell’alleanza, il rischio di cui parliamo (che in Europa coincide praticamente con quello della guerra generalizzata), e può essere sfruttato creando, in corrispondenza del punto scelto, un armamento nucleare indipendente, senza del quale la risposta nucleare non sarebbe né credibile da parte dell’avversario né praticabile da parte dell’alleanza.
Ciò detto, si pone subito la questione di fatto. Nell’area atlantica, una volta raggiunto l’accordo sulla strategia della flexible response, si può escludere o ammettere un armamento nucleare europeo indipendente. Nel primo caso la risposta si verificherebbe solo quando fosse minacciata, direttamente e immediatamente, la sicurezza degli Stati Uniti, ossia quando l’Europa sarebbe già invasa, con le conseguenze che abbiamo ricordato e con un danno gravissimo, come si constata subito, per gli stessi Stati Uniti che, ridotti a questo punto, non potendo usare la minaccia nucleare che per fermare l’avversario, si troverebbero a dover scegliere tra una guerra convenzionale, enormemente costosa e forse impossibile, di riconquista dell’Europa occidentale, e l’accettazione del nuovo status quo, nel quale il loro peso nella bilancia mondiale del potere sarebbe immensamente inferiore a quello precedente. Il secondo caso è quello, già illustrato, della difesa vera e propria dell’Europa. Esso sarebbe utile anche per spegnere, con la fine della leadership americana unilaterale, il nazionalismo che essa sprigiona direttamente in America e indirettamente negli Stati europei protetti.
L’altro problema è quello del rapporto fra la politica del disarmo e la politica nucleare. E’ soltanto una questione di principio perché, nel presente stato del mondo, il disarmo va considerato, almeno nei limiti delle capacità attuali di previsione, come impossibile. Ma bisogna associare egualmente la politica nucleare alla politica del disarmo sia per pareggiare, a breve termine, i sentimenti di potenza generati da queste armi con l’aspirazione alla pace, sia per tenere aperte tutte le strade del superamento delle contraddizioni generate dalla fase nucleare dell’evoluzione della strategia bellica. In apparenza si profila un rischio: quello della distruzione delle armi nucleari e quindi della ricomparsa della guerra generalizzata in Europa. Ma questo rischio, che pur andrebbe corso per una contropartita di questo genere, è più apparente che reale. Con una politica del disarmo non si arriverà mai, per quanto ne sappiamo, al disarmo, ma si renderà invece dura la vita a coloro che vogliono conservare dei privilegi politici ormai privi di giustificazione, facilitando ad esempio la conversione dell’Unione Sovietica alla democrazia, forse la sua adesione alla Federazione europea che sta per nascere e così via. In ogni modo si seguirà una strada nuova, lungo la quale l’umanità non ritroverà le cose e i fatti del passato, bensì compirà le tappe che la porteranno sino al governo mondiale e alla pace perpetua.
Bisogna però aggiungere che ci sono due politiche del disarmo, quella intrapresa dagli USA, dall’URSS e dal Regno Unito con il trattato di Mosca sulla sospensione parziale degli esperimenti nucleari, che coincide con la conservazione del monopolio nucleare da parte di pochi Stati, ossia con la difesa del predominio degli USA e dell’URSS su tutti gli altri Stati, con il Regno Unito in funzione illusoria di Terzo Grande; e quella auspicata da de Gaulle, che contempla come primo passo la distruzione dei vettori, ossia la neutralizzazione della potenza nucleare degli Stati privilegiati. Non c’è dubbio che l’Europa dovrebbe seguire questa politica del disarmo, che promuove, almeno idealmente, l’eguaglianza fra i popoli mediante l’attenuazione delle disparità di potenza.
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A questo punto l’esame delle grandi linee del problema della difesa dell’Europa e del significato delle armi nucleari sarebbe finito, se non restasse da analizzare un dato che, pur non dipendendo dalla strategia nucleare, la condiziona. Perché si parla di difesa dell’Europa e non di difesa della Francia, della Germania e così via? In teoria, ciò che è naturale è la difesa del proprio Stato, non di un’area costituita da molti Stati. Ciò vale a maggior ragione nel caso delle armi nucleari, che servono soltanto rispetto a una minaccia diretta e immediata della sicurezza di una comunità. Non è, beninteso, che uno Stato debba combattere da solo. Al contrario esso deve allearsi col numero maggiore possibile di Stati, ma ciò non muta lo scopo, che resta sempre quello della difesa della vita e dei beni dei membri di una comunità statale, nonché del suo territorio.
Ciononostante, e nonostante il fatto che la NATO, che difese l’Europa come una unità negli anni dell’impotenza assoluta degli Stati, stia disgregandosi, i governi europei si occupano sempre e soltanto della difesa dell’Europa, e non della difesa della Francia, della Germania e così via. Perché? Perché si sa, sia pure quasi senza rendersene conto e comunque senza la coscienza della natura del fatto e delle sue implicazioni, che l’Europa occidentale costituisce, dal punto di vista della difesa (come, del resto, da quello dell’economia), una unità inscindibile. Tuttavia siamo ancora molto lontani da una difesa efficace dell’Europa, lontani proprio quanto una semplice conoscenza inconsapevole dista da una conoscenza vera e propria.
Che l’armamento nucleare francese difenda l’Europa non è dubbio. La difende proprio perché la sola Francia non è difendibile, perché la difesa dell’Europa è indivisibile, in ultima istanza perché la Francia è già minacciata direttamente e immediatamente a partire dal momento in cui la Germania viene attaccata (osservo in margine, per chi fa orecchio da mercante, che questo è ciò che differenzia l’armamento nucleare francese da quello americano per quanto riguarda l’Europa). Ma è pur vero che la Francia, da sola, non può garantire una difesa efficace dell’Europa, né sul piano materiale né su quello politico.[7]
Sul piano materiale la Francia può giungere, con i suoi soli mezzi, sino alla costituzione di un piccolo armamento nucleare, ma del tutto insufficiente per risolvere il problema che si pone effettivamente, che è quello di fronteggiare, sia sul terreno nucleare che su quello convenzionale, la potenza russa. Vada sé che ad una concentrazione continentale di risorse, come quella sovietica, bisogna opporre un’altra concentrazione continentale di risorse, ossia la potenza europea.[8] E sul piano politico la Francia non è in grado di mobilitare tutte le risorse europee, né di elaborare anche in nome degli altri Stati la politica della difesa dell’Europa, e neppure di stabilire formalmente quali siano i casi — che riguardano in primo luogo il territorio tedesco — nei quali entrerebbe in azione la risposta nucleare, fatto che basta per diminuire la credibilità, anche se si può supporre facilmente quali essi sarebbero in pratica.
E allora, una volta stabilito che per giungere ad una difesa efficace si tratta di difendere l’Europa, non i singoli Stati, bisogna ricordare che l’armamento nucleare francese, essendo francese, è francese e non europeo, oltre che insufficiente. E’ una osservazione tanto semplice da sembrare stupida. Ma è necessario farla perché molti, incantati dalla sua funzione europea, non se ne accorgono. L’armamento nucleare francese è francese, ed è al servizio della politica europea di un governo francese e non, come sarebbe necessario, della politica europea di un governo europeo. In quanto tale, esso scatena un piccolo nazionalismo francese; il quale scatena, a sua volta, degli altri nazionalismi europei, ancora più piccoli a causa della loro maggiore debolezza, ma egualmente dannosi. Essi minano infatti, mentre si tratta di rafforzarlo, l’impegno di tutti nella comune difesa e nell’integrazione europea, anche se non possono distruggerlo completamente perché la sua base sta nelle cose e non nell’arbitrio degli uomini.
E bisogna inoltre tirar fuori dall’ombra il fatto che la difesa dell’Europa non può essere assicurata efficacemente che da un governo europeo. Anche questa osservazione è tanto banale da rasentare la stupidità. Ma va fatta anch’essa perché non solo i governanti e gli uomini politici nazionali, ma persino dei federalisti, i federalisti tiepidi, sognano di giungere ad una politica estera europea e ad una vera e propria difesa dell’Europa senza un governo europeo, vale a dire perché costoro la ignorano.[9] Tuttavia la scopriranno presto. L’evoluzione della situazione politica, combinata con l’azione dei federalisti, mostrerà infatti a tutti che la fondazione di un governo federale europeo non è solo possibile ma anche probabile. E probabile entro un breve lasso di tempo, in pratica quello che ci separa da due scadenze fondamentali per l’Europa: quelle della fine del Patto Atlantico e della fine del periodo transitorio del Mercato Comune.
* Questo articolo è stato pubblicato in francese su Le Fédéraliste, VI (1964).
[1] Nella prefazione al volume di David Irving sulla distruzione di Dresda a seguito di un attacco aereo anglo-americano il generale del corpo d’armata aerea, Sir Robert Saundby, ha scritto: «Les avocats du désarmement nucléaire semblent croire que s’ils pouvaient arriver à leurs fins, la guerre deviendrait décente et tolérable. Ils feraient bien de lire ce livre et de peser le sort de Dresde où 135.000 personnes trouvèrent la mort par suite d’un raid aérien où l’on avait utilisé des armes conventionnelles. Dans la nuit du 9 au 10 mars 1945, l’attaque aérienne de Tokyo, par des bombardiers lourds américains utilisant des bombes incendiaires et explosives, causa la mort de 83.793 personnes. La bombe atomique lâchée sur Hiroshima tua 71.379 personnes» (Cfr. David Irving, La destruction de Dresde, Parigi, Laffont, 1964, p. 8). Sir Robert Saundby, che a quell’epoca era l’adjoint du général de l’armée de l’Air Sir Arthur Harris, continua: «Les armes nucléaires sont, bien entendu, beaucoup plus puissantes de nos jours, mais ce serait une grave erreur de croire qu’après leur éventuelle suppression, des avions utilisant des armes conventionnelles ne pourraient réduire de grandes villes en cendre et provoquer d’effrayants massacres. Supprimer la crainte des représailles nucléaires — qui font que la guerre totale équivaut à une annihilation mutuelle — serait permettre à l’éventuel agresseur d’être séduit par le recours à la guerre conventionnelle». Sir Robert Saundby pensa che «la puissance nucléaire nous a enfin permis d’entrevoir la fin de la guerre généralisée».
[2] Nessuno è in grado di formulare un piano di questo genere perché la guerra è un fenomeno che non dipende dal libero arbitrio degli uomini bensì dalla natura della attuale organizzazione politica dell’umanità (in questo quadro le armi nucleari rappresentano l’embrione di una nuova situazione). E’ vero che, nonostante l’esperienza di tutto il corso della storia, molte persone, e persino dei federalisti (ma senza coscienza teorica del federalismo) credono ancora che il ricorso alla forza, e la scelta del tipo di forze da impiegare, dipendano esclusivamente dalla eventuale cattiva volontà dei governanti, quale che sia la ragione della loro cattiva volontà (il capitalismo, il comunismo, il nazionalismo o altro). Si pensa ancora che la guerra stia nelle loro mani come il fulmine in quelle di Giove; si sente ancora dire, da parte di scienziati o esperti, che la volontà di potenza sarebbe una malattia che colpisce i popoli, come se gli Stati potessero garantire la loro sicurezza senza la potenza militare, come se i loro rapporti non fossero rapporti di forza, come se gli Stati non fossero dei barili di polvere in un ambiente saturo di scintille. E’ un fatto tuttavia che i governanti parlano della pace e del diritto quando lo status quo è a vantaggio del loro Stato, della forza o della guerra quando esso è a svantaggio del loro Stato, e che, siccome questa situazione muta, e siccome ci sono sempre degli Stati cui conviene la modificazione dello status quo la guerra ha sempre imperversato e imperverserà sempre fino a quando, un quando ormai prevedibile, non sarà divenuta materialmente impossibile.
[3] Chi ne dubiti non ha che da tener presente che in casi di questo genere la disubbidienza ad un ordine si può verificare anche negli Stati più evoluti e persino nel settore militare, vale a dire là dove i comportamenti di comando e di obbedienza si manifestano al massimo del loro rigore. Basta ricordare, ad esempio, il generale Challe, per non parlare di Salan e degli altri generali dell’OAS. Più interessante è comunque far osservare che Bruno Leoni ha definito lo Stato e il potere politico proprio sulla base di siffatto potere negativo («il potere di ottenere rispetto, tutela o garanzia dell’integrità e dell’uso di beni che ogni individuo considera fondamentali e indispensabili alla propria esistenza: la vita, il possesso di taluni mezzi per conservare la vita, la possibilità di creare una famiglia e di preservare la vita dei suoi membri e così via»), o meglio sulla base dello scambio di tali poteri. (Per il brano citato cfr. Bruno Leoni, «Diritto e Politica» in Rivista internazionale di filosofia del diritto, a. XXXVIII, f. 1, p. 106). Si può dire dunque, secondo la teoria di Bruno Leoni, che, nei casi di cui parliamo, cessa di esistere lo Stato e subentrano dei puri e semplici rapporti di forza.
[4] Il fatto che il diritto di decidere l’impiego delle armi nucleari sia riservato al capo dell’esecutivo, ci sembra che debba essere interpretato nel senso che si è voluto togliere di mezzo la volontà delle singole persone, e che lo si è affidato pertanto alla persona che più di ogni altra dipende da tutti. E’ un fatto che, se si pensa al diritto in modo esclusivamente formale, e se si attribuisce di conseguenza al solo libero arbitrio del capo dell’esecutivo la possibilità di impiegare le armi nucleari, si attribuisce al diritto una realtà diversa da quella che gli uomini gli conferiscono effettivamente con la loro condotta reale. Si pensi in concreto ad una grave situazione internazionale, in seguito alla quale il capo dell’esecutivo di uno Stato che possiede armi nucleari abbia convocato i suoi più stretti collaboratori; si pensi ancora che questo capo manifesti l’intenzione di impiegarle, e ci si chieda come egli apparirà ai suoi collaboratori. E’ certo che la sua qualifica giuridica non costituirà affatto uno schermo magico, tale da impedire loro di vederlo per quello che è, un uomo come gli altri che non ha il «diritto» di sterminare l’umanità.
[5] Ciò spiega il passaggio della politica europea degli USA dal concetto della risposta nucleare immediata a quello della flexible response. Quanto abbiamo detto mostra che si può stabilire il ricorso alle armi nucleari solo per i casi in cui la propria sicurezza è minacciata direttamente e immediatamente. In ogni altro caso no, perché in teoria ciò provocherebbe la risposta dell’avversario, cioè la propria distruzione. Orbene, è vero che in Europa una guerra limitata non è concepibile, che un attacco convenzionale degenererebbe nella guerra generalizzata, che con i mezzi convenzionali l’Europa non potrebbe difendersi, e quindi anche che, con l’occupazione di tutta l’Europa, l’America stessa sarebbe minacciata direttamente e immediatamente, ossia che si troverebbe nel caso della risposta senza averla minacciata per tempo. Ma ciò non mette in evidenza una alternativa americana alla versione americana della teoria della flexible response per quanto riguarda l’Europa, alternativa che non esiste perché è pazzesco coprire con la propria risposta nucleare qualcosa che si situa un pollice più in là della propria sicurezza diretta e immediata (e l’Europa occidentale prima dell’avanzata russa si trova giusto un pollice più in là di tale sicurezza americana). Ciò mette invece in evidenza una contraddizione fondamentale dell’attuale sistema atlantico, contraddizione che può essere rimossa in ultima istanza, come vedremo, solo da un governo europeo, e da una copertura nucleare europea del territorio europeo.
[6] I. Kant, Idea di una storia universale da un punto di vista cosmopolitico, Tesi VII. Pubblicando nel 1784 questo saggio Kant appose al titolo la seguente nota: «Un cenno tra le Notizie brevi del fascicolo XI delle ‘Gazzette erudite di Gotha’ di quest’anno, ricavato certamente da una mia conversazione con uno studioso di passaggio, mi obbliga a questa spiegazione, senza la quale quel colloquio non avrebbe alcun senso comprensibile». Ciò mostra che Kant non voleva che sorgessero equivoci rispetto alle sue idee in proposito, ossia che ci teneva molto. Egli, occupandosi poi del contenuto del saggio, continua: «Prima che quest’ultimo passo, cioè questa federazione di Stati, sia compiuto, essendo ancora l’umanità solo a metà del suo sviluppo, la natura umana dovrà sostenere durissimi mali sotto la ingannevole apparenza del benessere esteriore; e Rousseau non aveva torto a preferire lo stato selvaggio, sempreché si astragga da quest’ultimo stadio cui la nostra specie deve ancora elevarsi».
[7] La Francia, si osserva, non è forte abbastanza per difendere l’Europa, ma la sua force de frappe farebbe entrare in campo, per la difesa dell’Europa e al momento voluto dall’Europa, l’America del Nord e questo basterebbe. Ma non è vero. Le forze della Francia essendo insufficienti, la Germania deve giocare nello stesso tempo sulla Francia per la tempestività della difesa e sull’America del Nord per la potenza della difesa. Questo dualismo tedesco, d’altra parte, mina le relazioni franco-tedesche, ossia l’epicentro dell’integrazione europea e della collaborazione atlantica, ostacolando, invece di promuovere, lo sforzo comune per la comune difesa.
[8] Si parla, come è noto, di risposta nucleare adeguata o proporzionata. Nei confronti di uno Stato grande uno Stato medio o piccolo sarebbe difeso qualora fosse in grado non di distruggerlo completamente, ma di procurargli un danno pari al vantaggio che lo Stato grande ricaverebbe occupandolo o distruggendolo. In teoria, e in alcuni casi, ciò può essere vero. Ma è certo che non si può difendere la Francia in questo modo. La Francia è in gioco quando è in gioco l’Europa occidentale. Basta del resto immaginarsi a che cosa si ridurrebbe la forza della Francia se si recidessero, sul solo piano economico, i legami che la legano al resto dell’Europa occidentale.
[9] Paul-Henri Spaak, attualmente il più autorevole «europeista» fra gli uomini di governo, ha affermato recentemente: «Naguère, nous concevions la formation des Etats Unis d’Europe un peu comme celle des Etats-Unis d’Amérique: avec une Constitution fédérale présentée aux gouvemements et fondant une construction harmonieuse (n.d.r.: la Costituzione federale americana fu presentata al popolo dei tredici Stati, non ai governi). C’était une erreur, comme l’expérience l’a prouvé. Cependant, nous avons fait une autre expérience, positive celle-là, avec le Marché Commun. Personne ne peut en effet contester que ses succès proviennent essentiellement du dialogue qui s’y est établi entre une Commission communautaire et les gouvernements nationaux. Pourquoi ne pas utiliser cette méthode, qui a fait ses preuves, dans le domaine politique, et singulièrement en matière d’affaires extérieures, de défense et de politique culturelle?» (Le 20e Siècle fédéraliste, 11 settembre 1964, n. 346).
Non c’è dubbio che ci sono molte persone che troverebbero del tutto ragionevole questa proposta di Spaak, senza rendersi conto che essa costituisce esattamente il contrario della nostra osservazione, effettivamente banale, secondo la quale non c’è difesa efficace di un territorio senza un governo, idea che essi troverebbero tuttavia altrettanto ragionevole. Riflettendoci, si trova la ragione di questa contraddizione. Senza considerare qui il fatto che Spaak attribuisce il successo del Mercato Comune al «dialogo» tra la Commissione e i governi nazionali, ossia a qualcosa di meno di una soprastruttura, si può dire che egli si sbaglia perché confonde ciò che è servito per compiere la marcia di avvicinamento all’Europa da parte dei governi con ciò che è necessario per concluderla. Orbene, per quanto riguarda l’unificazione europea è indubbio per un verso che si è vicini alla conclusione perché non resta più nulla da unificare salvo la politica estera e la difesa (questi sono ormai gli scogli del processo integrativo), e per l’altro che bisogna ormai costruire un potere vero e proprio perché (lasciando in pace la cultura che un buon federalista dovrebbe attribuire ai governi nazionali, ai governi regionali, alle libere associazioni e mai ad un centro europeo) la difesa e la politica estera non si possono unificare senza unificare la volontà politica, ossia senza creare uno Stato.