Anno XXXVI, 1994, Numero 1, Pagina 10
Il futuro della scuola nell’era del modo di produrre scientifico e dell’unificazione mondiale
FRANCO SPOLTORE
1. La scuola e le nuove sfide
La sfida della rivoluzione scientifica e tecnologica.
In tutto il mondo la scuola è al centro di un processo di profonda trasformazione della società e delle istituzioni. Si tratta di un processo che ha avuto inizio almeno vent’anni orsono, quando nei paesi industrializzati si sono manifestati i primi effetti della rivoluzione scientifica e tecnologica e della internazionalizzazione dell’economia. Il sistema educativo come è stato ereditato dal modo di produrre industriale e dall’impostazione nazionalistica delle politiche di educazione segna il passo di fronte al fenomeno della crescente disoccupazione, dell’aumento del tempo libero e dell’importanza della circolazione dell’informazione rispetto alla produzione di beni materiali. Il sistema che aveva favorito nell’arco dell’ultimo secolo la progressiva scolarizzazione di massa delle società industriali, affermando un modello di istruzione subordinato alle necessità produttive e alla ragion di Stato, si rivela sempre più inadeguato non solo per le generazioni che si affacciano per la prima volta al mondo del lavoro, ma anche per quelle che hanno bisogno di riqualificarsi professionalmente o di innalzare il loro livello di istruzione. Di fronte a questa sfida tanto i sistemi decentrati e misti (pubblico-privato) dell’organizzazione scolastica (di tipo anglosassone), quanto quelli accentrati (di tipo napoleonico) non riescono a sanare la contraddizione che si è venuta a creare fra i valori educativi ai quali la scuola dovrebbe sempre riferirsi ed i contenuti che essa dovrebbe trasmettere.
La sfida del tempo libero.
Stiamo entrando in un’era in cui si sta affermando un nuovo modo di concepire il tempo dedicato al lavoro e quello dedicato al tempo libero, ma le politiche degli Stati per l’educazione sono ancora modellate sulla base delle esigenze del modo di produrre taylorista-fordista.
Con il diffondersi del modo di produzione scientifico il lavoro non può più essere valutato in relazione al rendimento uomo-macchina per ora.[1] La nuova pietra di paragone della civiltà è diventato il tempo libero. Una produzione diventa efficiente nella misura in cui evita all’uomo di dedicarsi alla produzione materiale a discapito della programmazione, della progettazione, del controllo e della gestione dell’informazione. In questo contesto l’occupazione veramente produttiva diventa quella che accresce il livello medio di educazione e di formazione nella società, in modo da moltiplicare le opportunità di sfruttamento e di miglioramento delle innovazioni scientifiche e tecnologiche, non quella che punta sullo sfruttamento della manodopera. In una situazione in cui i progressi della produttività possono avvenire senza aumenti dei posti di lavoro, e in cui comunque i paesi più avanzati non possono competere con i paesi in via di sviluppo nella produzione di massa con costi del lavoro minimi, la scuola diventa spesso il capro espiatorio su cui riversare le colpe della disoccupazione intellettuale — in base a questa critica sarebbero troppi i giovani che studiano rispetto alle esigenze reali — e della scarsa competitività delle economie nazionali. Ma è davvero necessario limitare l’accesso all’istruzione?
Nei primi decenni del XIX secolo ogni anno l’operaio medio o il contadino riuscivano ad aumentare la loro produttività dello 0,3%. Alla fine del secolo la produttività cresceva per queste stesse persone ad un ritmo sei volte superiore.[2] Con i ritmi attuali di aumento annuale della produttività (circa 3%), sarebbe già possibile in gran parte d’Europa ridurre la settimana lavorativa a quattro giorni senza alcuna diminuzione dei beni prodotti. Se ciò non avviene ancora, questo è perché la politica e l’economia non sono ancora riuscite ad adeguarsi al profondo cambiamento del modo di produrre di fronte al quale ci troviamo. La crisi della scuola affonda dunque le sue radici nella crisi della politica e dell’economia.
Mentre nello sviluppo industriale tradizionale la scuola e l’educazione in genere rappresentavano un momento specifico e limitato nel tempo nel processo educativo degli individui, nella attuale fase dello sviluppo basato su di un intensivo ricorso alla scienza e alla tecnologia l’istruzione diventa un elemento permanente del nuovo modo di produrre. Essa deve cioè diventare lo strumento attraverso il quale conciliare la specializzazione, necessaria per mantenere i contatti con il progresso (ma scarsamente formativa), con una solida formazione culturale umanistica e scientifica (necessaria per affinare le capacità e per coltivare la creatività individuale). La nostra società non si trova più di fronte al dilemma tra accettare una riduzione generale del livello di vita in nome di una migliore distribuzione delle ricchezze e scegliere di mantenere metodi produttivi in contraddizione con una necessaria ricerca di competitività, oppure promuovere la ricchezza e il comfort di una minoranza. Il nuovo dilemma delle società moderne è rappresentato piuttosto dalla scelta fra adeguare le istituzioni al modo di produrre scientifico, cercando di valorizzare tutte le risorse umane, oppure mantenere in vita modelli produttivi ed educativi obsoleti.
2. Dai modelli scolastici nazionali ai modelli scolastici continentali
I due modelli di riferimento dei sistemi scolastici nazionali sono stati, fino a qualche decennio fa, quello di tipo anglosassone, controllato dai poteri locali e da istituzioni private, e quello di tipo napoleonico, basato sulla scuola di Stato e sulla rigida gestione da parte del potere centrale nazionale. Questa distinzione non è più così netta. Da un lato i sistemi educativi nazionali sono sempre più sottoposti a vincoli imposti dalla concorrenza internazionale. D’altro lato, nel tentativo di sperimentare nuove politiche scolastiche, i paesi di tradizione anglosassone — Gran Bretagna e USA — stanno introducendo elementi di controllo gerarchico, mentre i paesi di tradizione napoleonica, come la Francia, stanno cercando di valorizzare alcune competenze locali in materia educativa. Generalmente le spinte al cambiamento in atto nei diversi paesi sono presentate come specifiche scelte di carattere nazionale. Una rapida rassegna di quanto sta accadendo in campo scolastico nelle principali aree del mondo è sufficiente per rendersi conto che in realtà queste spinte sono sempre più il frutto di pressioni e vincoli creati dal nuovo quadro internazionale.
La rivalutazione dell’organizzazione centralizzata dell’educazione nel mondo anglosassone: i limiti dei modelli statunitense e britannico.
Gli Americani hanno recentemente scoperto di aver ignorato l’ammonimento del Presidente Jefferson secondo cui «se uno Stato spera di rimanere ignorante, libero e civile, spera in qualcosa che non è mai accaduto e mai accadrà». Infatti, come ha messo in evidenza l’economista americano Lester Thurow, una delle ragioni delle recenti difficoltà degli USA nella competizione economica internazionale è rappresentata proprio dalla debolezza del suo sistema educativo. Si tratta di un sistema ancora fortemente decentrato (16.000 distretti scolastici, ma erano 110.000 nel 1942), ognuno dei quali gode di un’elevata autonomia in quanto il consiglio di gestione (school board) è eletto da chi vive nel distretto oppure è nominato dalle autorità locali per un breve mandato (1-3 anni) e decide sui fondi da utilizzare per le scuole raccolti attraverso tasse locali, sull’assunzione e pagamento di chi insegna, sul tipo di materie da inserire nelle high schools (le materie comuni a tutte le high schools sono un numero molto limitato e chi studia può scegliere tra una miriade di materie opzionali).[3] Il modello americano si è finora basato sulla formazione di una élite molto qualificata di formazione universitaria, trascurando la diffusione di livelli di istruzione secondaria qualitativamente elevati. Questa scelta, conseguente al modo di produrre taylorista-fordista, basato su di una organizzazione del lavoro in cui era sufficiente avere un numero limitato di quadri e tecnici qualificati capaci di dirigere una massa molto ampia di persone sostanzialmente poco o niente qualificate, si riflette ancora nella composizione sociale americana. Gli USA sono infatti al primo posto nel mondo come numero di persone laureate e specializzate post laurea grazie ad una enorme diffusione dei Community colleges, passati da 532 percorsi biennali con 110.000 studenti nel 1933-34 a 1219 con cinque milioni di studenti nel 1983-84. Sul fronte dell’istruzione secondaria, pur essendo molto elevata la scolarità di chi ha 16-17 anni, il tasso di preparazione dei giovani americani resta ad un livello mediamente basso: conoscenze scarse in matematica e scienze rispetto a chi studia in Europa e Giappone, alta percentuale di giovani che restano senza una formazione professionale (il 45% degli occupati secondo un’indagine condotta tra il 1986 e il 1989). In un’epoca in cui la concorrenza è diventata mondiale, una situazione di questo tipo non poteva essere sostenuta a lungo.
Dopo aver constatato che gli Stati membri della Federazione americana investivano sempre meno nei rispettivi sistemi scolastici, facendo passare gli USA dal secondo posto a livello mondiale come percentuale del reddito nazionale destinato all’istruzione nel 1975, al quindicesimo posto nel 1990, l’amministrazione Bush, con il progetto America 2000, è stata costretta a lanciare un piano federale per innalzare il livello di istruzione in USA. Questo programma prevede tuttora la creazione di almeno 535 scuole modello, almeno una per ogni distretto congressuale, per ovviare al fatto che tuttora il 30% della forza lavoro qualificata degli USA esce dall’1,5% dei distretti scolastici. Il programma elettorale del Presidente Clinton ha ripreso questo piano sottolineando tra l’altro come «nell’economia globale di oggi tutto è mobile: il capitale, le fabbriche, persino interi settori industriali. La sola risorsa che sia davvero radicata nella nazione, la fonte principale della sua ricchezza è la gente. Il solo modo in cui l’America può competere e vincere nel ventunesimo secolo è di avere la forza lavoro più istruita e meglio formata del mondo insieme ad una rete di trasporti e comunicazioni seconda a nessuno».
L’amministrazione americana ha individuato nell’eccessiva indipendenza degli Stati membri dell’Unione e dei governi locali in materia scolastica il collo di bottiglia del sistema educativo statunitense. A livello federale si insiste perciò sulla necessità di affermare degli standards e dei curricula comuni nazionali. Ma il modello federale americano non prevede un coordinamento nel settore educativo e quindi la questione è affidata ad una prova di forza fra l’amministrazione di turno in carica a Washington e gli altri livelli. Il governo centrale parte favorito in questo confronto. Finora il livello federale aveva contribuito alla spesa scolastica per una percentuale minima (l’8,7% nel 1986 contro un massimo del 10,7% nel 1970), mentre gli Stati membri non hanno ulteriori risorse per promuovere una riconversione dei loro sistemi scolastici. D’altro canto il settore privato, pur essendo ben radicato nel mondo della scuola statunitense, non si è dimostrato capace di farsi carico della diffusione di un modello scolastico qualitativamente adeguato al di fuori di settori strettamente legati allo sfruttamento della ricerca. Gli investimenti privati nel campo dell’educazione rappresentano, da trent’anni, meno di un decimo degli investimenti pubblici a livello di istruzione primaria e secondaria, e la metà per quanto riguarda Colleges ed università. Sul terreno educativo gli USA hanno adottato un approccio di tipo intergovernativo. Per esempio l’assenza di meccanismi istituzionali ha fatto sì che il piano di Bush potesse prendere il via nel 1989 solo grazie ad un education summit con i governatori degli Stati membri (summit presieduto dall’allora governatore dell’Arkansas Clinton). E’ a seguito di questo summit che i governatori hanno sottoscritto il programma di Bush sui National Educational Goals per gli anni 2000.[4] I precedenti in questo campo non sono comunque incoraggianti. Infatti i tentativi di un massiccio intervento del livello federale nel campo dell’istruzione sono finora falliti. Clamoroso fu il fallimento del progetto di incrementare l’istruzione scientifica pre-universitaria alla fine degli anni Cinquanta, promosso a seguito della sfida spaziale lanciata dai Sovietici. E altrettanto clamoroso è stato il fallimento del programma di scienze sociali (National Science Foundation), attaccato dai conservatori repubblicani e democratici nel Congresso agli inizi degli anni Settanta e bollato come un’offesa ai tradizionali valori americani ed un’inammissibile interferenza del livello federale nelle politiche degli Stati. Il principale limite dell’esperienza di rinnovamento del sistema educativo scolastico americano consiste dunque proprio in un limite istituzionale, che fa sì che non sia previsto alcun meccanismo di coordinamento della pianificazione dell’istruzione fra i diversi livelli di governo. Il tentativo di conquistarsi nuove competenze nel campo scolastico da parte del livello federale riflette una tendenza centralizzatrice del modello federale americano già in atto da circa un secolo. Sul terreno della ridefinizione delle competenze in materia di educazione si sta giocando negli USA un’importante battaglia istituzionale, il cui esito però non appare così scontato a favore del potere di Washington come ai tempi della prima guerra mondiale e del New Deal per due motivi. Il primo motivo è che, con la fine della guerra fredda, il governo federale ha sì più risorse finanziarie da dedicare alla politica scolastica, ma non può contare su di una massiccia mobilitazione dell’opinione pubblica al suo fianco e contro i livelli di governo inferiore adducendo i supremi interessi di sicurezza nazionale. Il secondo motivo è rappresentato dall’ingresso degli USA nella grande area di libero scambio del Nord America (NAFTA). Nella misura in cui verranno alimentate nella società crescenti aspettative per il successo del mercato unico americano, saranno le stesse forze sociali e produttive a premere affinché i modelli educativi di USA, Canada e Messico si integrino sempre di più, sull’esempio di quanto è accaduto e sta accadendo per l’Europa. In questa prospettiva diventa più probabile l’avvio di un processo di integrazione su scala nordamericana dei modelli educativi, e non una riorganizzazione in senso centralistico a livello nazionale degli attuali sistemi scolastici canadese, statunitense e messicano. La ridefinizione delle competenze in materia di educazione è destinata così a diventare uno dei principali temi del dibattito politico sul futuro del federalismo negli USA.
Il carattere elitario della scuola britannica si è rivelato inadeguato sia nel confronto con la sfida della rivoluzione scientifica e tecnologica, sia da un punto di vista economico. Per esempio essa ha alimentato una tale corsa verso l’alto dei costi che le famiglie devono sostenere per garantire una decorosa istruzione ai propri figli presso le migliori independent schools, da indurre il potere centrale ad occuparsi direttamente (attraverso politiche nazionali) o indirettamente (attraverso facilitazioni e borse di studio) del problema di un più equilibrato rapporto fra potere centrale, poteri locali e scuole private. La competizione fra scuole pubbliche e private, alimentata da una corsa alla selezione di un élite di privilegiati, che tende ad espellere i giovani dalla scuola più che a spingerli avanti nei livelli di istruzione, è tuttora molto accesa. Pubblicazioni annuali sulle graduatorie delle performances delle diverse scuole tengono vivo il dibattito intorno a questi temi sulla stampa nazionale. Le league tables del Financial Times pubblicano annualmente la graduatoria delle prime 1000 scuole del paese, per accedere alle quali molte famiglie britanniche stipulano mutui pluriennali, e si affidano ad agenzie specializzate per predisporre per tempo piani finanziari. Questo sistema tuttavia comincia a mostrare dei gravi limiti, se è vero che da qualche anno a questa parte le state schools cominciano a guadagnare dei punti sulle independent schools e che il numero dei bambini che beneficiano di esenzioni o tagli anche sulle tasse scolastiche delle scuole private è arrivato ormai ad un quarto del totale. Sulla scia della crisi economica degli anni Ottanta, era stata avviata una prima riforma che, pur preservando una struttura decentrata (104 Local Educational Authorities), aveva cercato di migliorare il sistema educativo spostandosi verso politiche più centralizzate soprattutto nel campo dell’istruzione post-diploma. Ma alle soglie degli anni Novanta la Gran Bretagna faceva ancora registrare la più bassa percentuale fra i paesi industrializzati di studenti in età pre-diploma e l’estrema libertà di scegliere tra diversi curricula faceva sì, ancora nel 1987, che più della metà degli studenti non studiasse una seconda lingua, più di un terzo non studiasse fisica, ecc. Il privilegiare esclusivamente il livello della istruzione superiore non si era dimostrato efficace nei confronti dei nuovi processi produttivi, più specializzati e flessibili, che richiedevano sia livelli sufficientemente diffusi di istruzione generale che più livelli di formazione professionale. Con il passare del tempo le carenze di questa riforma sono apparse così evidenti da far varare agli inizi degli anni Novanta una ulteriore riforma (la precedente era del 1988) che, contraddicendo una secolare tradizione britannica, prevede l’introduzione di curricula nazionali ed una nuova organizzazione della formazione professionale basata su crediti e certificazioni a livello nazionale (National Vocational Qualification), sul modello francese e tedesco. E’ in questa ottica che il governo sta cercando di diminuire l’influenza delle local authorities, promettendo finanziamenti solo sulla base del numero di studenti che le singole scuole riescono ad attrarre, e cercando di sottrarre alle local authorities il controllo sulle scuole con l’affiancare loro dei nuovi consigli che dovrebbero cooperare direttamente con le industrie. Anche in Gran Bretagna quindi è in atto una ridefinizione delle priorità nella formazione, sempre meno orientata alla esclusione di larghe fasce di giovani dall’istruzione secondaria, e una redistribuzione delle competenze in materia scolastica per bilanciare lo strapotere della scuola privata con una maggiore valorizzazione di quella pubblica.
La nascita del nuovo modello continentale europeo franco-tedesco.
In Europa lo sviluppo del processo di integrazione e la progressiva demilitarizzazione degli Stati, che dalla fine della seconda guerra mondiale non hanno più un’effettiva sovranità né in campo militare né nel campo della politica estera, hanno accelerato la convergenza fra sistemi scolastici che erano rimasti per decenni impermeabili fra loro. La progressiva creazione del mercato unico e l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht hanno fatto sì che, anche nel campo dell’educazione, venissero poste le basi della delegittimazione del principio della competenza esclusiva di questo o quel livello di governo in materia di educazione. Da questo punto di vista Francia e Germania rappresentano i due più importanti punti di riferimento e di convergenza.
In Francia, dove continua a vigere un’organizzazione della scuola di tipo centralizzato, dalla metà degli anni Ottanta è in atto un processo che tenta di associare i livelli di governo regionali e locali nella politica educativa. La grande sfida di fronte alla quale si trova il sistema francese, il cui titolo più prestigioso è tuttora rappresentato dal Baccalauréat, è analoga a quella del mondo anglosassone: innalzare quantitativamente e qualitativamente il livello di istruzione secondaria. L’obiettivo è quello di far raggiungere il diploma o titolo equivalente all’80% di una generazione entro il 2000. Per raggiungere questo obiettivo la Francia incoraggia strategie scolastiche più articolate sul territorio che valorizzano anche il ruolo del livello locale nelle politiche di orientamento, di formazione, di diffusione di nuove tecnologie. I punti di forza di questa politica, che mira a combattere la disoccupazione con lo spostamento in avanti dei livelli generali di istruzione, sono da un lato il tradizionale sistema scolastico di tipo liceale e dall’altro lato il nuovo (per il modello francese) settore della formazione professionale sul quale gli ultimi governi hanno puntato per riassorbire nel sistema educativo tutti quei giovani che non entrano nelle università e tutti coloro i quali, pur essendo già inseriti nel mondo del lavoro, hanno bisogno di riqualificarsi. A questo proposito, con una legge del 1991 la Francia ha riconosciuto il diritto alla formazione per chi lavora, imponendo alle imprese di investire una piccola percentuale dei profitti (1%) in programmi formativi. I cambiamenti quantitativi in atto sono consistenti. Nel 1990 aveva raggiunto il diploma o titolo equivalente il 57% di una generazione, nel 1992 oltre il 60% (nel 1987 questa percentuale era del 43%, una situazione vicina a quella stimata per l’Italia agli inizi degli anni Novanta).
In Germania il sistema scolastico fa perno sui Länder, ma il potere di coordinamento a livello federale nazionale è paragonabile più al sistema francese che a quello anglosassone. Vale la pena di soffermarsi un po’ sulla struttura della scuola tedesca per metterne in evidenza le specificità. I giovani, terminato il ciclo di istruzione primaria (4 o 6 anni a seconda dei Länder), possono scegliere di accedere ad un corso di studi (Gymnasium) che porta al diploma (Abitur), che non dà però diritto ad entrare automaticamente all’università in quanto dal 1973 è stato introdotto il numero chiuso in molte facoltà, per cui le domande d’iscrizione devono essere inoltrate ad un’agenzia nazionale specializzata che decide sull’ammissibilità alle diverse università. Se non si iscrivono al Gymnasium i giovani possono accedere ad indirizzi di studio di tipo umanistico (Hauptschule) o di tipo tecnico professionale (Realschule). Quest’ultima scelta ha coinvolto fino alla fine degli anni Ottanta due terzi delle nuove generazioni nella RFT (alla fine degli anni Ottanta l’82%dei giovani in età pre-diploma seguiva questi studi). Dunque il centro del sistema formativo tedesco seguito dalla grande maggioranza dei giovani è costituito dal cosiddetto sistema duale, che rappresenta una transizione dalla scuola al lavoro organizzata da due soggetti: il sistema scolastico vero e proprio e il mondo del lavoro, costituito dalle imprese e dalla strutture lavorative pubbliche e private. Questo rapporto fra sistema scolastico e mondo del lavoro vanta tradizioni lontane, e valorizza la figura del maestro artigiano (Meister). Fino a qualche decennio fa il sistema duale incanalava gli studenti sin dal loro ingresso nel sistema scolastico secondario in due percorsi paralleli: uno che consentiva uno sbocco universitario, l’altro senza sbocco universitario. In seguito alla riforma attuata nel 1974, il sistema duale consente di accedere alla Berufsakademie, che permette di arrivare ad un titolo post-diploma equivalente ad una laurea breve. La crisi delle grandi imprese, che hanno avuto un importante ruolo nel sostenere finanziariamente questo sistema di formazione, il progressivo orientamento della popolazione giovanile verso il sistema di studi che offre uno sbocco universitario e la riunificazione con la RDT, il cui sistema scolastico era di tipo centralizzato e scarsamente orientato alla formazione professionale, stanno però ponendo anche in Germania il problema di una riforma del sistema scolastico (che ha comunque visto scendere nella ex-RFT il numero di giovani inseriti nelle forme di apprendistato previste dal sistema duale da 765.000 nel 1984 a 600.000 nel 1990).
L’Italia è in una posizione molto arretrata sia per quanto riguarda la laurea di persone aventi una istruzione superiore (76 laureati su mille persone nel 1987, contro 128 della RFT, 159 della Francia, 223 del Giappone e 241 degli USA), sia per quanto riguarda il numero di persone con diplomi post-diploma (la riforma che li prevede è recentissima), sia infine per quanto riguarda i diplomati (il 49% di una generazione arriva al diploma o titoli equivalenti, contro il 95% in Giappone, il 64% in Francia e l’80% in Germania). La prospettiva del mercato unico europeo dopo il 1992 e quella del completamento del processo di unificazione economica e politica dell’Europa hanno costretto l’Italia ad introdurre la laurea breve; la stanno costringendo a sciogliere il nodo della riforma della scuola professionale in un’ottica che si rifà al modello duale tedesco, per poter assimilare le qualifiche professionali conseguite in Italia a quelle degli altri paesi europei; la stanno costringendo ad affrontare il problema della riforma di tutta la scuola media superiore, in un’ottica che fa ampiamente riferimento al sistema liceale francese. Sul piano organizzativo la crisi della finanza pubblica sta mettendo in discussione il modello centralizzato della scuola italiana: il Ministero della Pubblica Istruzione non è più in grado di gestire sul piano finanziario e burocratico l’intero sistema. Il centro tende a liberarsi degli attuali compiti di gestione e a concentrarsi, come del resto cercano di fare Francia, Germania e Gran Bretagna, sugli aspetti di programmazione, coordinamento, sostegno, verifica e valutazione.
Le spinte alla trasformazione del modello tecnocratico centralizzato asiatico.
Un discorso a parte merita il modello asiatico, centrato fondamentalmente sul modello giapponese e su quello cinese, che fondano la tradizione centralizzata dei loro sistemi scolastici sulla teorizzazione della stretta interdipendenza tra istruzione, sviluppo industriale e sicurezza, fatta a partire dalla seconda metà del secolo scorso in Giappone, e agli inizi di questo secolo con Sun Yat-sen in Cina.
In Giappone il frequentare le scuole di maggior prestigio e di migliore qualità dipende certamente dall’impegno dei giovani nello studio e dal superamento degli esami. Ma ciò non basta: questo sistema meritocratico non è sinonimo di uguali opportunità di studio offerte a tutti. Non si può infatti accedere ad una importante università se non si è seguito un iter scolastico molto costoso, a partire dalle scuole materne; generalmente occorre avere una madre laureata o diplomata uscita dal mondo del lavoro — la percentuale di donne giapponesi che lavorava tra i 30-34 anni era nel 1989 del 51%, contro medie occidentali dal 62 al 72% — che segua i figli nel difficile iter scolastico e nell’inferno di tests ed esami (Shiken Jigoku), anche se sull’enfasi data al clima d’incubo regnante nelle scuole giapponesi non tutte le indagini concordano, almeno per quanto riguarda l’istruzione primaria; è meglio essere maschi, poiché la divisione del lavoro fra maschi e femmine è ancora talmente accentuata che ancora nel 1989 le femmine iscritte all’università rappresentavano il 15% del totale. Le scuole secondarie e le università sono così stratificate che solo le scuole di maggior prestigio garantiscono l’entrata nelle grandi corporations giapponesi con possibilità di carriera. Questa struttura non mira all’espulsione dei giovani dal sistema scolastico, infatti la percentuale di diplomati o con titolo equivalente è la più alta al mondo (il 95% di ogni generazione), ma tende ad incanalare i giovani in ruoli professionali e sociali ben precisi. Il successo e il limite di questo sistema è rappresentato dalla subordinazione quasi totale del sistema scolastico alle finalità del mondo produttivo e alle politiche nazionali.
La predominanza del modello tecnocratico ha fatto sì che le materie di insegnamento di tipo tecnico-scientifico avessero largamente il sopravvento su quelle di tipo umanistico, ed ha valorizzato il lavoro dei diplomati nell’industria. Questi ultimi tengono ancora il passo con i laureati in termini di salario al punto che, mentre negli USA tra il 1979 e il 1987 i guadagni dei diplomati si sono ridotti notevolmente, nello stesso periodo i diplomati giapponesi hanno visto aumentare i loro guadagni del 13%.
L’esasperata centralizzazione del sistema scolastico ha mantenuto rituali (alzabandiera all’inizio delle lezioni, alunni in divisa) e libri di testo uniformi in tutto il paese, e tende a sviluppare un forte spirito di gruppo e sentimenti di lealtà nazionale. D’altro canto il sistema di certificazione nazionale degli studi resta sotto il rigido controllo del Ministero del Lavoro che certifica ed incoraggia livelli elevati di istruzione e/o addestramento per tutti i mestieri e per tutte le professioni. Così, anche per svolgere l’attività di parrucchiere/a o di commesso/a o di operaio, occorre seguire dei corsi biennali post-diploma, perché nella logica giapponese si vuole comunque dare a chi svolge queste attività un senso di orgoglio professionale, di appartenenza ad una categoria che svolge una professione onorevole e socialmente utile. In Giappone almeno il 50% di una generazione di diplomati che entra nel mercato del lavoro deve seguire dei corsi di formazione professionale post-diploma.
Di fronte ai primi sintomi di insofferenza manifestatisi recentemente nei confronti di questo sistema, lo Stato ha cercato di creare scuole post-laurea meno tradizionali affinché «i giovani buttino alle ortiche tutto quello che la scuola tradizionale ha loro insegnato, perché noi chiediamo loro di svilupparsi ed emergere come individui e non come ingranaggi» (scuola Matsushita).
Un sistema analogo per quanto riguarda l’organizzazione gerarchica della scuola e il grande valore dato alla formazione dello spirito di gruppo e allo spirito di sacrificio, vige anche in Cina, Taiwan, Corea del Sud. Non va poi dimenticato che in tutti questi paesi il sistema educativo incomincia precocemente a stimolare a fondo le capacità di apprendimento dei bambini, ai quali viene richiesta la conoscenza di diverse migliaia di caratteri entro la fine del ciclo elementare.[5] Ciò si è rivelato particolarmente efficace per stimolare una maggiore abilità degli adolescenti asiatici rispetto ai coetanei occidentali nell’apprendere processi matematici e argomenti tecnico-scientifici. Ma la trasformazione cui stanno andando incontro anche le società asiatiche sta intaccando i principi gerarchici e tecnocratici su cui si reggono questi sistemi educativi. Ed anche per il Giappone e la Cina si annuncia il tempo di una riorganizzazione della scuola che deve tener conto, per esempio, di una maggiore scolarizzazione della popolazione femminile e di una crescente apertura di queste società agli scambi, anche culturali, con il resto del mondo. Tutto ciò avviene in un clima di crescente insofferenza da parte della popolazione verso la subordinazione degli obiettivi educativi alle esigenze dei processi produttivi.
3. Istituzioni educative ed istituzioni politiche
Nessun ordinamento scolastico nazionale riesce oggi a garantire una trasmissione della cultura, un addestramento alle nuove professioni ed una promozione dell’educazione scientifica adeguati alle esigenze della nuova società. Questa situazione, come abbiamo visto, sta portando tutti i paesi ad avviare delle profonde riforme scolastiche che stanno marciando nella direzione di una maggiore integrazione dei sistemi educativi nazionali in una più ampia rete educativa internazionale e mondiale. Stiamo cioè entrando in una nuova fase della storia dell’educazione, in cui vengono rimesse in discussione le competenze in materia scolastica dei diversi livelli di governo e le caratteristiche e le funzioni della scuola. In passato si sono già verificate nella storia dell’educazione, soprattutto occidentale, analoghe trasformazioni a livello di città, regioni o Stati.
Oggi siamo alle soglie della creazione di un sistema educativo mondiale.
Dall’educazione a carattere urbano all’educazione a carattere nazionale.
Nei secoli undicesimo e dodicesimo il compito di fornire una più ampia istruzione secolare era stato assunto dalle scuole cattedrali (soprattutto in Francia), subordinate a vescovi ed abati, che, a partire dalle loro forme embrionali del sesto e del settimo secolo, si erano estese rapidamente per soddisfare i bisogni di apprendimento ed erudizione nel periodo di vivace attività economica e intellettuale che seguì alla rinascita europea del decimo secolo. Quasi nello stesso periodo, sotto la spinta delle forze sociali dell’Europa commerciale che inducevano gli studenti a cercare un appropriato apprendimento professionale, nacque un istituto di istruzione completamente nuovo, l’universitas, che aveva dei caratteri tipicamente corporativi, e che aveva come scopo prioritario non quello di impartire tutto il sapere, ma solo quella parte del sapere utile a delle specifiche professioni.[6] Questa organizzazione del sistema educativo si rivelò insufficiente da sola a far fronte alle crescenti esigenze prima della società rinascimentale italiana e poi di quella europea. Così incominciarono a diffondersi, a partire dalle città, alcune istituzioni scolastiche stabili, non riservate ai soli nobili, articolate dal livello d’istruzione per i fanciulli fino agli adulti, basate sull’insegnamento della cultura umanistica per scopi pratici. Le città europee, a differenza di quelle orientali, cominciarono così ad integrare nel loro tessuto urbano una nuova struttura ed una nuova funzione. Oltre alle mura, nate per scopi difensivi, oltre alle botteghe e alle piazze, che erano indispensabili per svolgere funzioni commerciali, e oltre agli edifici religiosi, le città europee incominciarono ad inglobare edifici adibiti all’istruzione pubblica. Fino all’Ottocento, cioè fino all’avvento dello Stato napoleonico e al propagarsi della rivoluzione industriale, le istituzioni scolastiche restarono sostanzialmente sotto il controllo delle istituzioni cittadine. Ma alla fine del XIX secolo la maggior parte dei bambini in Europa ed in America studiava già la storia della nascita delle loro nazioni e dei loro eroi e imparava a scrivere, leggere e parlare la lingua nazionale. Questo tipo di istruzione si era diffusa, nella stessa epoca, ai Balcani e alla Russia. Nel Novecento, con l’estendersi del controllo dello Stato nazionale sui livelli dell’istruzione secondaria superiore — soprattutto nell’Europa continentale — si formò una classe di quadri dirigenti educata alla lealtà nei confronti del potere nazionale e degli interessi nazionali. Questo modello educativo incominciò ad entrare in crisi in Europa occidentale al termine della seconda guerra mondiale, radicandosi invece in URSS e negli USA fino alla fine della guerra fredda. Oggi esso sopravvive in Asia e nei sistemi educativi che gli Stati nati dalla disintegrazione dell’ex impero sovietico stanno cercando di organizzare.
La fine dell’era dell’educazione a carattere nazionale.
Con il progressivo venir meno della sovranità militare ed economica degli Stati europei, e con le profonde trasformazioni sociali introdotte dal modo di produrre scientifico, il carattere nazionale dell’educazione è diventato un ostacolo da superare sulla strada della formazione di un nuovo tipo di cittadino. In meno di cinquant’anni la figura dominante della società avanzata è passata dal contadino all’operaio, dall’operaio al tecnico, e dal tecnico allo studente: oggi l’Unione europea conta oltre sessanta milioni di studenti e quattro milioni di insegnanti. Anche per questo la Commissione europea ha indicato nella formazione del cittadino europeo l’obiettivo principale da perseguire da parte delle scuole dell’Unione europea. Un obiettivo palesemente in contraddizione con i sistemi educativi sviluppatisi per anni nella prospettiva di formare dei buoni Inglesi, dei buoni Tedeschi, dei buoni Francesi e dei buoni Italiani, ma che non può evidentemente ridursi alla sostituzione dell’educazione di tipo nazionale con un’educazione nazionalistica europea.
L’accresciuta eterogeneità della società, sempre più multirazziale, multireligiosa, multilingue, la mobilità economica e la nascita di profili professionali che ormai hanno un senso solo se sono riconosciuti internazionalmente, mettono ogni sistema scolastico nazionale di fronte ad una scelta: o chiudersi a difesa di anacronistiche tradizioni nazionali e/o locali, oppure accettare la sfida di una educazione di carattere cosmopolitico. In passato, quando la tutela dei diritti umani fondamentali non era ancora garantita costituzionalmente nella maggior parte degli Stati, la prima strada fu seguita da tutte quelle minoranze all’interno di una città o di una nazione che cercavano, attraverso l’istituzione di scuole indipendenti e a carattere prevalentemente confessionale, di difendere tradizioni, lingua e religione. Esempi in questo senso si possono trovare, nel mondo anglosassone, nelle scuole delle città americane sorte nell’Ottocento su iniziativa di gruppi di immigrati che volevano salvaguardare le loro origini ebraiche, cattoliche, nazionali, ecc., oppure nelle più costose independent schools britanniche, nate e sviluppatesi per mantenere una formazione elitaria di una minoranza della società.[7] Lo Stato nazionale, mitizzando la storia, la tradizione linguistica e le origini comuni delle popolazioni che vivevano al suo interno, estese alle comunità nazionali i sistemi educativi che erano stati tipici, sino al secolo scorso, solo di esigue minoranze o élites. La vittoria definitiva degli Stati nazionali per affermare in campo scolastico l’esclusività e la superiorità delle rispettive culture nazionali è, come ha mostrato lo storico Hobsbawm, un fenomeno relativamente recente, e sostanzialmente coincide con la conquista da parte dell’amministrazione nazionale, verso la fine del secolo scorso, del controllo sull’educazione secondaria.
Il processo di internazionalizzazione del sistema produttivo e la rivoluzione nel campo della circolazione dell’informazione, ormai disponibile virtualmente nello stesso momento per tutti gli uomini, ha fatto cadere il velo nazionalistico che aveva impedito di riconoscere i limiti dei sistemi educativi fondati sull’esaltazione della cultura e delle scoperte scientifiche nazionali e sull’esaltazione del monolinguismo nazionale. Oggi la missione della scuola non può ormai più identificarsi nella trasmissione di un credo ideologico, linguistico o culturale nazionale o sub-nazionale. La missione della scuola si identifica sempre di più con il compito di coniugare una formazione di tipo cosmopolitico con la necessità di articolare le politiche scolastiche e educative dal livello cittadino al livello internazionale.[8]
L’era dell’educazione a carattere cosmopolitico.
Spesso si trascura il fatto che l’educazione degli individui è un processo difficile. Come ha messo in evidenza Kant, «l’uomo può diventare uomo solo con l’educazione. Egli è ciò che l’educazione fa di lui. Bisogna però considerare che l’uomo è educato da altri uomini e da uomini che a loro volta sono stati educati. Solo se un essere di natura superiore si facesse carico della nostra educazione, si potrebbe vedere che cosa si potrebbe fare di un uomo. Ma poiché l’educazione si limita o a insegnare agli uomini alcune nozioni o a sviluppare in loro certe qualità, è impossibile sapere fino a che punto possono arrivare le doti naturali dell’uomo. Se almeno con l’aiuto dei grandi di questo mondo e riunendo le forze di molti uomini si tentasse questa impresa, ciò ci darebbe dei lumi su fin dove l’uomo potrebbe arrivare. Ma la maggior parte dei grandi non pensa che a sé e non partecipa mai all’importante esperienza dell’educazione».[9]
Il modo di produrre scientifico sta finalmente imponendo agli uomini ed alle istituzioni di occuparsi sempre di più «dell’esperienza dell’educazione», pena il rischio del declino della civiltà. Ma ciò sta ancora avvenendo tenendo conto più del mondo attuale che del mondo futuro e del destino dell’umanità. A questo proposito Kant ricorda come di solito i genitori allevino i loro figli in vista di un loro inserimento nel mondo attuale e solo in funzione del successo. D’altra parte, prosegue Kant, chi regge lo Stato ha a cuore l’educazione solo dal punto di vista della trasformazione dei sudditi in docili strumenti per perseguire i propri progetti. «I genitori pensano alla casa, i principi allo Stato. Gli uni e gli altri non hanno per obiettivo finale il bene universale e la perfezione alla quale l’umanità è destinata e per la quale sono dotati. Eppure il concetto di un piano educativo deve ricevere un orientamento cosmopolitico. Significa forse questo che il bene universale è un’idea che può nuocere al bene particolare? In nessun modo. Perché anche se può sembrare che occorra sacrificargli qualcosa, grazie a questa idea si lavora meglio anche per il bene presente. La buona educazione è la vera sorgente da cui scaturisce tutto il bene di questo mondo».
Queste intuizioni possono finalmente diventare d’attualità grazie alla necessità di prender coscienza da parte di tutti gli uomini del valore del cosmopolitismo in un’epoca in cui la dimensione mondiale dei problemi, in particolare quelli ecologici e quelli della pace, assume di giorno in giorno dei connotati ben visibili e drammatici.
Sul terreno dei contenuti, esiste ormai un consenso pressoché unanime sul fatto che occorre adeguare il livello di istruzione medio di tutti i cittadini al grado di avanzamento delle grandi discipline culturali.[10] Questo implica che le nuove generazioni imparino ad avere allo stesso tempo un’immagine fisica e biologica del mondo che hanno ereditato e di quello che lasceranno alle generazioni future, che abbiano una visione del processo storico dal punto di vista della specie umana nel suo complesso, e non di questa o quella tribù nazionale, che acquisiscano infine le conoscenze di base dei meccanismi che governano i comportamenti politici ed economici degli individui e gli elementi attraverso i quali possano ripercorrere il difficile cammino seguito dall’umanità per crearsi una visione razionale dell’Universo in cui vivono.
Sul terreno istituzionale, poiché l’istruzione deve diventare lo strumento attraverso il quale tutti i cittadini di uno Stato devono imparare a cooperare con i cittadini degli altri Stati, anziché ad odiarli e combatterli, la scuola sarà uno dei principali campi di applicazione del coordinamento delle politiche nazionali.
4. Scuola, diritti dei cittadini e Costituzione federale europea
Mercati ed economie nazionali fanno ormai parte di un unico mercato globale. O i sistemi scolastici prendono atto di questa nuova realtà oppure sono destinati a trasformarsi in templi per la trasmissione di una cultura fine a sé stessa e di una formazione professionale di basso profilo. Da questo punto di vista l’Europa rappresenta il più avanzato laboratorio di trasformazione dei sistemi educativi. Con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht non solo sono state attribuite delle competenze legislative specifiche al Parlamento europeo in materia di educazione ma, con il riconoscimento del diritto alla cittadinanza europea e alla libera circolazione, sono state poste le premesse per il reciproco riconoscimento dei titoli di studio da parte di tutti i paesi membri dell’Unione europea. E’ in questa ottica che occorrerebbe analizzare dei fenomeni in apparenza contraddittori come la progressiva perdita di importanza che sta avendo il valore legale del titolo di studio nazionale, l’affermarsi dell’esigenza di una più ampia libertà di insegnamento e di una più ampia condivisione delle competenze scolastiche fra diversi livelli di governo.
Il Trattato di Maastricht ha creato in Europa un contesto giuridico unico al mondo per quanto riguarda la cooperazione nel campo dell’istruzione fra diversi livelli istituzionali. Accanto alle competenze degli Stati membri dell’Unione e, al loro interno, dei Länder in Germania, delle Local Authorities in Gran Bretagna, delle Regioni in Italia, dei Dipartimenti in Francia, ecc., per la prima volta è stata riconosciuta alla Comunità la possibilità di «contribuire allo sviluppo di un’istruzione di qualità» a livello europeo ed è stato attribuito al Parlamento europeo, seppure con una procedura complessa, un limitato potere legislativo da condividere con il Consiglio e la Commissione europea nel campo educativo, della formazione, della ricerca e dello sviluppo tecnologico. In questo modo si è aperta la strada per il riconoscimento del principio secondo il quale più livelli di governo nell’ambito dell’Unione possono avere delle competenze in campo scolastico. Il Trattato ha cioè recepito l’articolo già presente nel progetto di Trattato d’Unione promosso da Spinelli ed adottato dal Parlamento europeo nel febbraio 1984, secondo il quale in campo educativo deve essere esercitata una competenza concorrente da parte dell’Unione e degli Stati membri. Gli Stati membri hanno così rinunciato a parte della loro sovranità in campo scolastico.
Tuttavia non esiste ancora un quadro costituzionale federale europeo che garantisca i cittadini da un intervento da parte degli stessi Stati per modificare unilateralmente a loro favore il quadro delle competenze in materia scolastica. Il fatto è che, per il momento, gli Stati europei si sono trovati costretti ad includere l’istruzione fra quelle politiche sulle quali è ormai necessario condividere la sovranità, ma rivendicando nel contempo il rispetto della loro responsabilità per quanto riguarda il contenuto dell’insegnamento e l’organizzazione del sistema d’istruzione, come precisa il Trattato di Maastricht. Delle responsabilità che però hanno già, o che potrebbero assumere, altri livelli di governo, come le regioni e le città, non si tiene conto. Questa ambiguità è già emersa nel corso del dibattito di ratifica del Trattato, quando i governi regionali dei Länder tedeschi hanno giustamente espresso i loro timori di un ridimensionamento delle competenze che essi già hanno in materia scolastica.
Il Trattato di Maastricht ha dunque posto un problema, quello del coordinamento delle politiche scolastiche, senza riuscire a risolverlo.
Se, come sembra ormai evidente, i poteri nazionali sono destinati a veder ridotto il loro ruolo in campo scolastico, è auspicabile che parallelamente e progressivamente si accrescano le competenze dell’Unione nel campo dell’educazione? Oppure è auspicabile una estensione delle competenze a più livelli di governo? L’Unione non dispone attualmente di alcuno strumento per decidere né in un senso né nell’altro, non essendo ancora stata adottata una Costituzione che definisca i diritti fondamentali degli individui per quanto riguarda l’insegnamento e l’educazione e che stabilisca le regole per emendare in modo democratico, e non attraverso accordi intergovernativi, gli impegni assunti dagli Stati e dalle istituzioni europee nei confronti dei cittadini.[11]
«Sono diritti naturali quelli che spettano all’uomo in virtù della sua esistenza. A questo genere appartengono tutti i diritti intellettuali, o diritti della mente… che non siano lesivi dei diritti naturali altrui». Così si esprimeva nel 1791 Thomas Paine, già attivo sostenitore della rivoluzione americana, a difesa della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino approvata dall’Assemblea nazionale francese nel 1789. Come ai tempi di Paine oggi gli Europei sono di fronte al problema di creare un potere comune nuovo per conservare i loro diritti. E’ una contraddizione cercare di affermare dei diritti attraverso l’istituzione di un nuovo quadro di potere? Secondo Paine la risposta è negativa, in quanto «i diritti naturali che non vengono conservati sono tutti quelli per cui, sebbene il diritto sia perfetto nell’individuo, il potere di metterlo in atto è insufficiente» Lo sviluppo del processo di unificazione europea ha messo gli Europei di fronte al fatto di non poter più conservare i propri diritti intellettuali in un ambito puramente locale, regionale o nazionale. In questo senso i diritti degli Europei possono ormai essere pienamente garantiti solo da una Costituzione federale europea.
Ma la conservazione di questi diritti è, come abbiamo visto, anche sempre più legata al tipo di riforma del sistema scolastico che verrà intrapresa. Da questo punto di vista la novità contenuta nel Trattato di Maastricht a proposito delle competenze concorrenti in campo scolastico non potrà avere tutti gli effetti sperati se non verrà recepita, ma estendendola a tutti i livelli di governo territoriale presenti nell’Unione, dalla Costituzione europea. Solo in questa prospettiva potranno essere valorizzate le competenze regionali e locali. Infatti è illusorio pensare che la riforma della scuola possa consistere in una semplice riforma del Ministero della Pubblica Istruzione, dove questo già esiste (come in Francia e in Italia), o in una sua introduzione, dove questo non è neppure previsto (come in Germania o, addirittura, a livello europeo). Se è vero che il nuovo modo di produrre e i processi regionali d’integrazione impongono un maggiore coordinamento delle politiche scolastiche, ciò potrà avvenire istituendo innanzitutto dei meccanismi di verifica — controllabili e trasparenti — della diffusione sul territorio di adeguati strumenti di insegnamento e dell’effettivo innalzamento dei livelli di istruzione. Questi meccanismi non sono paragonabili a una gestione e ad un controllo di tipo centralistico, ma al contrario sono inquadrabili nella creazione di agenzie scolastiche articolate sul territorio. Infatti, nella prospettiva di una diffusione e condivisione delle competenze scolastiche a tutti i livelli di governo, la circolazione delle informazioni sulla qualità e sul tipo di educazione disponibili nei diversi ambiti territoriali, praticamente inesistente (perché inutile) in un sistema di istruzione pubblica imperniato sulle direttive nazionali e sulle gerarchie amministrative, diventa il fulcro della programmazione delle politiche scolastiche.
L’era della gestione di tipo esclusivo della scuola, solo a livello nazionale o solo a livello regionale o locale, è definitivamente tramontata. Occorre ormai creare delle istituzioni capaci di conciliare l’esigenza del coordinamento delle politiche scolastiche con la salvaguardia dell’indipendenza dei diversi livelli di governo.
In questo senso la battaglia per il rinnovamento della scuola coincide con la battaglia per rinnovare le istituzioni e, più precisamente, per accelerare il superamento della dimensione nazionale dello Stato a favore di una dimensione federale sovranazionale. Nella misura in cui il mondo, e in primo luogo l’Europa, dove questa transizione è ormai a portata di mano, sapranno incamminarsi su questa strada, la scuola potrà davvero contribuire a rispondere alle sfide poste dal nuovo modo di produrre e dalla mondializzazione dei problemi.
[1] Radovan Richta, «La rivoluzione tecnologico-scientifica e le alternative della civiltà moderna», in Progresso tecnico e società industriale, Milano, Jaca Book, 1977.
[2] Robert Reich, L’economia delle nazioni, Milano, Il Sole 24 Ore Libri, 1993.
[3] Vittorio Capecchi, «Scuola e formazione professionale in Giappone, Stati Uniti e Europa», in Scuola e città, n. 4, Anno XLIV, 1993.
[4] Tim Beardsley, «Trends in Science Education — Teaching Real Science», in Scientific American, ottobre 1992.
[5] Harold W. Stevenson, «Learning from Asian Schools», in Scientific American, dicembre 1992.
[6] James Bowen, Storia dell’educazione occidentale, Milano, Mondadori, 1980.
[7] Ronald K. Goodenow-William, E. Marsden, The City and Education in Four Nations, Cambridge, Cambridge University Press, 1992.
[8] Francesco Rossolillo, Il problema della democrazia nella scuola, I problemi della lotta politica nella società moderna, Fascicolo n. 7, Pavia, febbraio 1973.
[9] Immanuel Kant, Réflexions sur l’education, Parigi, Libraire Philosophique J. Vrin, 1987.
[10] José Ortega y Gasset, La missione dell’Università, Napoli, Guida,J972.
[11] Norberto Bobbio, L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1992.