Anno XXXY, 1993, Numero 3, Pagina 175
Manifesto di Milano
MAURICE DUVERGER
Combattuta tra un federalismo immobile e un nazionalismo in espansione, l’Europa del 1993 non deve essere confrontata soltanto alle tesi profetiche sviluppate da Altiero Spinelli nel 1941 e nel 1943, ma anche al progetto concreto del Trattato che istituisce l’Unione europea che egli aveva fatto votare nel 1984 dal Parlamento di Strasburgo, e alle conseguenze del crollo del sistema sovietico che Spinelli non ha conosciuto e che allarga il campo di questa Unione, varata ufficialmente da venticinque giorni dai dodici Stati membri della Comunità, fino alle foci del Danubio.
Tentiamo di fare qui tale confronto nel quadro del mandato che i cittadini di Milano, Roma, Torino, Firenze, Genova, Perugia e Urbino hanno affidato a un professore di diritto costituzionale e di scienze politiche scegliendolo come l’unico deputato di questa Comunità al quale convenga esattamente l’aggettivo di europeo. Infatti, questo cittadino francese rappresenta l’Italia ed è vincolato così a una duplice fedeltà verso la patria di nascita e quella d’elezione. Una simile impresa non è priva di rischi, perché porta i federalisti a una revisione radicale del loro pensiero e i parlamentari europei ad un’audacia inconsueta nelle loro decisioni.
Oggi Milano rappresenta simultaneamente il pericolo principale e la speranza fondamentale: contrasto che dilania l’Europa e guida il suo avvenire. Agitata da un secessionismo teatrale, questa città subisce, in una delle regioni più moderne del continente, una forma populista del tribalismo, una degenerazione del nazionalismo che in paesi meno sviluppati, come l’Irlanda e la Jugoslavia, arriva fino alla guerra civile. Iniziatrice dell’idea europea nel 1943, Milano può adesso rinnovarne la teoria ed accelerarne la pratica, così come fece Altiero Spinelli prima nel 1941 e poi nel 1984.
I. Verso un neofederalismo aperto.
E’ giunto il momento di abbozzare una teoria del federalismo che non si basi unicamente sugli esempi degli Stati Uniti d’America e della Confederazione elvetica, ma che tenga presenti anche quelli della Germania, dell’Austria e del Belgio, che hanno apportato innovazioni importanti pur restando nell’ambito dello Stato federale. La Comunità europea potrebbe andare molto più lontano passando da questi federalismi statali a un federalismo aperto, a condizione di uscire dall’immobilismo in cui oggi l’imprigiona la rinascita dei nazionalismi. Solo i parlamenti potranno svegliare la «Bella addormentata nel bosco».
Il federalismo classico.
In origine il federalismo è stato inventato per formare piccoli Stati attraverso il raggruppamento di entità indipendenti più simili alle antiche città che agli Stati nazionali. Gli Stati Uniti inglobavano meno di tre milioni d’abitanti nel 1787, quando le tredici ex colonie britanniche decisero di trasformare in federazione la confederazione poco costrittiva che avevano costituito qualche mese dopo la loro Dichiarazione d’indipendenza del 1776. La Svizzera aveva dimensioni analoghe nel 1848, nel momento in cui avviò la trasformazione di una confederazione che non era più costrittiva, sebbene fosse più antica, dato che era stata formata nel 1292.
L’originalità di questo federalismo classico sta nella divisione del parlamento in due Camere elette direttamente dai cittadini: una proporzionalmente alle popolazioni rispettive delle unità federate, l’altra invece con un numero di rappresentanti uguale per ognuna di esse. La prima impedisce che le grandi unità federate, meno numerose, siano dominate da una coalizione delle piccole. La seconda, invece, protegge le piccole da un’egemonia delle grandi, dato che l’uguaglianza delle rappresentanze era per esse accettabile perché, negli Stati Uniti del 1787, non c’era una grande differenza di dimensioni essendo tutte le unità federate abbastanza piccole: si andava dai 538.000 abitanti della Virginia ai 45.000 del Rhode Island.
La giustapposizione della maggioranza della popolazione e della maggioranza degli Stati, attenuata fin dall’origine a livello dell’esecutivo, è stata soppressa molto presto negli Stati Uniti dall’evoluzione del sistema elettorale per la nomina del Presidente. Affidata dalla Costituzione a grandi elettori scelti da ogni Stato in numero uguale a quello dei senatori e dei rappresentanti che esso invia al Congresso, essa si basava in partenza su una combinazione non egualitaria delle due rappresentanze. La maggioranza della popolazione ha avuto partita vinta quando s’è imposta la designazione dei grandi elettori col suffragio universale. Esso ha costretto naturalmente i grandi elettori a far campagna sul nome di un candidato alla Casa Bianca e a votare poi per lui. Così, un potere esecutivo forte e stabile, dotato di un diritto di veto sul legislativo, poggia ormai sulla maggioranza dei cittadini.
Nelle costituzioni federali degli Stati parlamentari moderni, come l’Austria del 1920 e il Belgio del 1993, la rappresentanza delle province alla Camera ad esse riservata ormai è solo semiproporzionale alla popolazione. Lo sviluppo della democrazia nel XX secolo mal si adatta a una parità di rappresentanza fra i piccoli e i grandi elementi federati. La sua correzione costituisce il primo stadio di un neofederalismo, ma non il più importante.
Il neofederalismo del XX secolo.
La via di un autentico federalismo è stata aperta dalla Germania fin dalla sua prima Costituzione repubblicana, votata a Weimar nel 1920. Essa stabiliva un Reichsrat composto come il Bundesrat attuale della Costituzione votata a Bonn nel 1949: formato non da deputati eletti dai cittadini, ma da membri dei governi di ogni Land, che dispongono dai 3 ai 6 voti espressi in blocco, a seconda che i Länder abbiano meno di 2 milioni di abitanti o più di 7. L’innovazione è fondamentale e corrisponde alla logica del federalismo. Dal momento che le seconde Camere esprimono l’autonomia degli Stati federati, questa autonomia è rappresentata meglio dai governi locali che l’incarnano esattamente, più che dagli eletti il cui numero uguale per ognuna simbolizza l’uguaglianza delle unità federate, ma rappresenta opinioni più che una capacità decisionale autonoma. In diritto, l’equilibrio relativo dei governi federati non è conforme all’uguaglianza teorica dei territori che essi dirigono. In pratica, esso corrisponde al fatto che l’entità della popolazione conferisce un’influenza più o meno grande al livello federale, senza che questa sia esattamente proporzionale alla popolazione.
La rappresentanza delle unità federate nella seconda Camera, attraverso i loro governi e non gli eletti del popolo in numero uguale per tutte, costituisce l’elemento fondamentale del neofederalismo del XX secolo. L’equilibrio relativo dei voti di questi governi secondo livelli di popolazione ne è soltanto il complemento. La prima innovazione deriva dalla nozione giuridica del federalismo. La seconda corregge gli eccessi di questa nozione con un compromesso politico. L’importanza che hanno assunto i governi federati, elevati così a co-legislatori federali a fianco d’una prima Camera che rappresenta le popolazioni, stabilisce una confusione di poteri di un genere completamente inedito, dato che i membri degli esecutivi federati entrano nel legislativo federale. In questo senso, essi partecipano un poco alla sovranità dello Stato federale.
Tuttavia, ciò non cambia nulla al fatto che il neofederalismo e il federalismo classico sono entrambi variazioni dello Stato nazionale, il solo titolare della sovranità definita come un potere supremo e indipendente che evita qualsiasi obbligo di sottomettersi ad un’autorità superiore. Come ogni Stato nazionale, lo Stato federale è sottoposto ad obblighi solo se li ha accettati con un impegno contrattuale con i suoi pari, che sono gli altri Stati sovrani. Le unità federate non sono Stati. Del resto, sono così chiamate solo negli Stati Uniti dove il termine «Stato» designa soltanto gli Stati federati: lo Stato federale è qualificato come Unione dalla Costituzione e dal linguaggio corrente. Altrove, le unità federate si chiamano cantoni, province, regioni, paesi. Esse hanno una grandissima autonomia interna, ma in nessun caso sono sovrane. Lo Stato federale non è che uno Stato nazionale molto decentralizzato, le cui competenze sono generalmente definite da attribuzioni precise; tutte quelle che la costituzione non gli riconosce appartengono alle unità federate.
Il federalismo aperto della Comunità.
I federalismi classici e il neofederalismo tedesco sono fermi allo Stato federale, unico titolare della sovranità nell’insieme costituito da esso e dalle unità federate. Fra gli Stati membri della Comunità, ognuno dei quali è un vero e proprio Stato, titolare dell’essenziale della sovranità, nessuno è pronto a cambiare statuto per diventare una semplice unità federata. Sia esso grande, medio o piccolo, non c’è uno Stato che ritenga vantaggioso per la Comunità fondersi in uno Stato federale che con i suoi dodici membri attuali già raggiunge 345 milioni di abitanti.
Con i sei Stati dell’AELE e con la dozzina di ex democrazie popolari, esso diventerebbe un gigantesco Stato federale di 500 milioni di abitanti, con la fusione di una trentina di nazioni situate fra l’Atlantico e le foci del Danubio, il Capo Nord e Cipro. Ingovernabile all’interno, questo mostro si troverebbe fortemente limitato nelle relazioni internazionali disponendo di un solo voto all’Assemblea generale dell’ONU e di un solo diritto di veto al Consiglio di Sicurezza, come gli Stati Uniti, invece della sua trentina di voti attuali e dei suoi due diritti di veto. Altiero Spinelli non auspicava questo federalismo chiuso che, creando un super Stato, avrebbe allontanato un po’ di più dai popoli il potere di decidere sovranamente.
«L’unità internazionale» di cui parla il Manifesto di Ventotene può solo essere un federalismo aperto che riunisca in un insieme strutturato Stati nazionali che la storia ha costituito intorno ad una civiltà comune di cui essi incarnano forme particolari, ognuna delle quali, peraltro, è minacciata dalla mondializzazione delle economie e dei mass media. In tale prospettiva, la Comunità appare come un sistema originale, che si sviluppa a partire dal federalismo classico e dal neofederalismo. Essi saranno così i precursori di un nuovo modello di società politica, il terzo inventato e sperimentato, dopo la Città democratica e lo Stato nazionale. Società politica che si preciserà con la divisione della sovranità fra gli Stati membri, che all’inizio la detenevano in esclusiva, e le autorità comunitarie che ne hanno già ricevuto una parte.
Ma questa Comunità non è ancora che allo stato larvale. Si trasforma molto lentamente in organismo adulto. Ha adottato solo molto parzialmente le istituzioni legislative del neofederalismo. Il Parlamento europeo assolverebbe le funzioni di una Camera dei rappresentanti del popolo se avesse il pieno potere legislativo. Il Consiglio vi simboleggerebbe una Camera degli Stati rappresentati da ministri dei loro rispettivi governi, come nel Bundesrat tedesco, se non assorbisse l’80% del potere legislativo e una buona parte dell’esecutivo. L’autorità governativa rimane debole e disordinata. E rischia di diventare anarchica se l’allargamento della Comunità attualmente in corso non è preceduto da una profonda riforma delle istituzioni. I governi non sono disposti a farla né a lasciare che altri la facciano. Ma i parlamenti, se volessero, potrebbero assumersi l’incarico.
II. L’ora dei parlamenti.
Ridurre il Consiglio dei Ministri alle sole funzioni legislative che gli farebbero meritare il titolo di Consiglio degli Stati, trasferire alla Commissione tutte le funzioni esecutive di competenza della Comunità, elevare il Consiglio europeo a Consiglio supremo dell’Unione che eventualmente potrebbe riunirsi a livello dei ministri degli Affari esteri per portare avanti la cooperazione e le politiche comuni in materia diplomatica e di sicurezza, dare al Parlamento europeo un potere codecisionale generale per ogni atto comunitario di natura legislativa: sono queste le principali riforme che permetterebbero di sviluppare un vero federalismo aperto, fondato su una divisione della sovranità con gli Stati membri. I governi non lo faranno, ma il Parlamento europeo ha il mezzo per costringerli ad avviarne alcune e i parlamenti nazionali possono cooperare con esso per trasformare la Comunità.
Il potere del Parlamento europeo.
La procedura d’adesione dei nuovi membri offre al Parlamento europeo la stessa occasione d’imporre la propria autorità che il Parlamento britannico aveva trovato nel potere d’autorizzare la riscossione delle imposte quando le subordinò al rispetto delle sue esigenze, qualche secolo fa. La Corona non ha mai concesso nulla spontaneamente ai deputati: si sono conquistati tutte le loro prerogative con la tecnica del «sì, a condizione che…». I governi degli Stati che siedono al Consiglio della Comunità non concederanno mai un potere importante al Parlamento europeo se non sono obbligati a farlo. Oggi vogliono che l’Austria, la Finlandia, la Norvegia e la Svezia raggiungano i Dodici. Ma ciò non è possibile senza il parere conforme dei deputati, che richiede la maggioranza assoluta di questi, cioè 260 voti. Nulla impedisce al Parlamento di subordinare questo accordo a riforme istituzionali che si applicherebbero simultaneamente all’adesione. Con questo mezzo, esso può imporre trasformazioni importanti.
I cittadini capirebbero benissimo tale esigenza, perché corrisponde all’interesse evidente e urgente della Comunità. Citeremo solo una di queste riforme, perché essa aprirebbe la strada ad una cooperazione più stretta fra il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali, cosa che è indispensabile. Questa riforma riguarda la designazione dei commissari per porre fine a un’anomalia che guasta tutto il funzionamento della Commissione. In teoria, i suoi membri non rappresentano gli Stati, ma in pratica essi sono designati dai governi. Il Trattato di Maastricht prevede solo una consultazione del Presidente designato prima della nomina di ciascuno di loro. Perché non fare un passo avanti facendo un gesto in favore dei parlamenti nazionali che corrisponda alla logica dell’istituzione? Basterebbe che il Parlamento europeo, fra le condizioni sine qua non del suo parere favorevole a ogni nuova adesione, desse spazio a una formula di questo genere: «I membri della Commissione sono scelti dal suo Presidente dopo la sua designazione, ognuno su una lista di sei nomi stabilita dal Parlamento dello Stato in ragione di quattro nomi per la sua maggioranza e di due per la sua minoranza».
La cooperazione dei parlamenti nazionali.
E’ indispensabile far partecipare i parlamenti nazionali alle decisioni della Comunità, dove gli Stati sono oggi rappresentati esclusivamente dai governi. Questo monopolio, naturale nelle relazioni diplomatiche, diventa inammissibile in una struttura plurinazionale dove i popoli devono essere rappresentati non solo nella loro volontà d’unione dal Parlamento europeo, ma anche nelle loro diversità nazionali dai parlamenti degli Stati. Altiero Spinelli aveva voluto che il progetto di Trattato costituente del 1984 fosse inviato direttamente a questi ultimi affinché ne discutessero prima dei loro governi. I parlamenti degli Stati non hanno esaminato il testo perché era troppo lontano dalle loro preoccupazioni. La «Conferenza dei parlamenti della Comunità» riunita a Roma nel novembre del 1990 ha gettato un ponte sull’abisso d’incomprensione che allora separava le due categorie di rappresentanti del popolo. Essa associava un terzo dei deputati europei a due terzi di parlamentari degli Stati affinché questi (che sono settemila) fossero rappresentati meglio, dato che l’esigenza di una maggioranza dei due terzi per tutti i voti ristabiliva l’equilibrio. Senza difficoltà, le due categorie hanno potuto discutere insieme in un’eccellente atmosfera riunendosi secondo gruppi parlamentari, dove gli eletti di partiti analoghi si sono facilmente collocati.
Un nuovo potere costituente.
Votata con una maggioranza schiacciante, dopo la discussione di 200 emendamenti, la «Dichiarazione finale» non aveva valore giuridico: ma era il primo testo costituente della Comunità che poggiava indiscutibilmente su una duplice legittimità democratica.
Il relatore del Parlamento europeo ha proposto che questa Conferenza dei parlamenti della Comunità diventasse un elemento di una vera e propria procedura costituente. Il Parlamento europeo voterebbe innanzitutto, in prima lettura, un progetto di Costituzione limitato a qualche punto essenziale. Questo progetto verrebbe poi dibattuto da una Conferenza dei parlamenti. La «Dichiarazione finale» votata da questa dovrebbe fornire indicazioni al Parlamento europeo per una sua deliberazione in seconda lettura, il cui testo potrebbe essere infine inviato al Consiglio dell’Unione o a una Conferenza intergovernativa, eventualmente dopo una seconda spola con la Conferenza dei parlamenti.
Sarebbe difficile allora per il Consiglio dell’Unione o per la Conferenza intergovernativa non tener conto di un progetto costituzionale redatto in queste condizioni. Allo stadio attuale dello sviluppo dell’Unione, non è possibile prevedere una procedura costituente fondata unicamente sul Parlamento europeo. Ma non si può più tollerare una procedura costituente ricalcata sulle sole tecniche diplomatiche, come se l’oggetto fossero Trattati ordinari e come se la Comunità e l’Unione non esistessero.
I governi e i parlamenti degli Stati, come anche la Corte costituzionale tedesca, dovrebbero meditare anche sull’esempio di due confederazioni democratiche, quando hanno modificato il loro statuto confederale. Solo dodici Stati degli Stati Uniti hanno votato la Costituzione del 1787, il Rhode Island ha addirittura rifiutato di inviare dei deputati alla Convenzione di Filadelfia, e la Costituzione è stata applicata non appena nove Stati l’hanno ratificata. Solo quindici cantoni e mezzo, su ventidue, hanno ratificato la Costituzione federale svizzera del 1848, che gli altri cantoni hanno finito per applicare successivamente. La Comunità europea è oggi molto più integrata di quanto non lo fossero la Confederazione degli Stati Uniti prima del 1787 e la Confederazione elvetica prima del 1848. Ecco perché la teoria del federalismo, della confederazione e della Comunità merita di essere esaminata più a fondo che in queste poche pagine.