IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XVII, 1975, Numero 2, Pagina 95

 

 

La politica internazionale*
 
SERGIO PISTONE
 
 
Politica internazionale e Stato sovrano.
L’espressione indica nei termini più generali il complesso di rapporti intercorrenti fra gli Stati intesi sia come apparati, sia come comunità o società; essa implica pertanto la distinzione di una sfera specifica di rapporti internazionali dalla sfera dei rapporti interni agli Stati. Di fatto si può parlare con un senso pregnante di politica internazionale, e la si può fare oggetto di studio abbastanza rigoroso, in riferimento a contesti storici nei quali siano effettivamente distinguibili con un minimo di determinatezza le relazioni fra gli Stati rispetto a quelle interne agli Stati. In altre parole la condizione primaria dell’individuabilità della politica internazionale è l’esistenza degli Stati moderni (o di entità politiche ad essi assimilabili), di Stati caratterizzati cioè dalla sovranità, la quale in senso sostanziale significa il monopolio tendenziale della forza fisica da parte dell’autorità suprema dello Stato. In effetti è il fenomeno della sovranità a fare emergere ed a rendere quindi percepibile la diversità fra i rapporti subordinati precisamente alla sovranità ed i rapporti fra entità sovrane, non subordinati cioè ad un’autorità superiore.
Concretamente, la situazione storica che corrisponde in modo paradigmatico a questi requisiti è quella dell’Europa moderna (e poi del mondo intero in seguito all’affermarsi nel secolo attuale di un sistema globale di rapporti internazionali), la quale si è venuta formando in seguito alle trasformazioni prodottesi fra la fine del Medio Evo e la pace di Vestfalia, che rappresenta nello stesso tempo un momento decisivo nel processo di realizzazione e consolidamento del monopolio della forza all’interno dello Stato ed il momento in cui viene formalmente riconosciuta la sovranità assoluta dello Stato sul piano internazionale ed in cui vengono pure definiti ufficialmente i fondamenti del diritto internazionale, del diritto cioè diretto a regolare le relazioni fra Stati sovrani. A questa situazione si contrappongono paradigmaticamente, per opposte ragioni, sia la condizione medioevale di dispersione della sovranità, nella quale, nessuna autorità essendo effettivamente sovrana, è estremamente problematico distinguere le relazioni interne da quelle fra gli Stati, sia l’epoca in cui l’impero romano dominò in modo pressoché completo l’area della civiltà classica mediterranea, avendo in essa eliminato ogni Stato indipendente. È al contrario riscontrabile una certa analogia fra l’Europa moderna e la situazione delle città-Stato dell’antica Grecia nel periodo della loro massima fioritura e della loro indipendenza, e pure quella dei principati italiani nel ‘400. In generale, le situazioni appena indicate costituiscono gli indispensabili modelli di riferimento alla luce dei quali analizzare le situazioni intermedie e quelle emergenti in altri contesti culturali.
Delimitato, sulla base del concetto di sovranità, il campo della politica internazionale, si tratta ovviamente di individuare le leggi, in senso scientifico, che regolano tale complesso di fenomeni, onde poterne fornire una descrizione ed una spiegazione scientifica nella misura più ampia possibile e poter quindi formulare in ordine ad esso delle previsioni. In questo contesto la teoria (delle relazioni internazionali) che si sviluppa in modo più organico e rigoroso partendo dal concetto di sovranità, e che rappresenta il punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia affrontare seriamente questa problematica, è quella emergente nel quadro della tradizione di pensiero fondata sulla dottrina della ragion di Stato.
 
Anarchia internazionale ed equilibrio delle potenze.
Il concetto-cardine della dottrina della ragion di Stato è quello di anarchia internazionale che permette di individuare la differenza strutturale esistente fra le relazioni interne, cioè subordinate alla sovranità e quelle interstatali, cioè fra entità sovrane. La differenza non è definibile in riferimento al contenuto delle relazioni, bensì essenzialmente in riferimento al modo in cui sono regolate. In entrambe le sfere abbiamo relazioni di contenuto politico, economico, sociale, culturale, ecc., di carattere conflittuale o di carattere collaborativo, le quali relazioni però escludono normalmente, all’interno dello Stato, il ricorso alla violenza, essendo essa monopolizzata dall’autorità sovrana, mentre, nei rapporti fra Stati, esse si svolgono sempre «all’ombra della guerra» (Raymond Aron), implicando cioè la possibilità permanente della guerra o della minaccia di essa e l’esperienza frequente della guerra, e sono quindi da tale possibilità e da tale esperienza profondamente influenzate. In sostanza, non potendo i contrasti che insorgono nelle relazioni fra Stati essere risolti attraverso le decisioni di un potere sovrano (in ciò è appunto l’essenza dell’anarchia internazionale), gli Stati ricorrono in ultima analisi alla prova di forza e sono costretti, in previsione di essa, ad armarsi o ad appoggiarsi alle armi altrui. Qui è la radice profonda della politica di potenza, della guerra, dell’imperialismo, inteso quest’ultimo, nel suo contenuto più generale, sia come espansione degli Stati più forti a danno di quelli più deboli, sia come imposizione della volontà e degli interessi dei primi ai secondi. Qui è la ragione del formarsi di una ferrea gerarchia fra gli Stati, che discrimina le «grandi potenze», cioè gli Stati capaci di tutelare in modo autonomo, cioè con la propria forza, i propri interessi, dalle medie e piccole potenze, le quali devono ricercare la protezione di una delle grandi potenze, a meno che queste non ne accettino concordemente la neutralità. Queste condizioni strutturali — si può dire in prima approssimazione — influenzano il contenuto delle relazioni internazionali nel senso di renderle più instabili e precarie rispetto a quelle interne per il fatto di essere subordinate agli esiti delle guerre, e nel senso di renderne più difficile lo svolgimento anche nei momenti di pace, essendo esso sempre comunque subordinato all’esigenza della sicurezza militare (la possibilità della guerra), la quale introduce un ulteriore e decisivo elemento di complicazione oltre a quelli che già di per sé rendono complesso ogni rapporto fra gruppi umani.
Sviluppando ed approfondendo il concetto di anarchia internazionale, si giunge al concetto di sistema degli Stati che permette di individuare ulteriori e più specifiche costanti che caratterizzano le relazioni fra gli Stati. Con l’affermazione che nelle situazioni storiche in precedenza ricordate (città-Stato dell’antica Grecia, principati italiani del ‘400, e soprattutto Europa moderna e sistema internazionale mondiale contemporaneo) i rapporti internazionali si inquadrano in un sistema di Stati, si intende fondamentalmente mettere in luce che fra le grandi potenze dominanti in ciascuna di tali situazioni si è venuto a realizzare un equilibrio di potenza duraturo, tale da impedire ad ognuna di esse di sovrastare tutte le altre, ed implicante quindi l’automatico imbrigliamento di ogni tentativo egemonico tramite il formarsi di una coalizione delle altre grandi potenze contro lo Stato più forte (o anche in seguito alla capacità di resistenza di una sola potenza nel caso di un sistema formato da due sole grandi potenze). L’esistenza di un tale equilibrio non ha evidentemente implicato l’eliminazione dell’anarchia internazionale con le sue manifestazioni violente e bellicose. In realtà nei sistemi di Stati le guerre sono un fenomeno normale e di fatto ogni grande potenza, che non abbia la possibilità oggettiva di aspirare all’egemonia, deve costantemente operare in modo tale da impedire che uno Stato accumuli forze superiori a quelle dei suoi rivali coalizzati e deve quindi rafforzare senza interruzioni la sua potenza ed essere pronta a fare guerra proprio per mantenere l’equilibrio. D’altra parte l’equilibrio così inteso è il meccanismo che ha impedito la formazione nelle situazioni storiche considerate di un unico Stato assorbente l’autonomia dei rimanenti Stati ed implicante quindi la stessa eliminazione di una sfera di rapporti internazionali distinti da quelli interni. Tale meccanismo in sostanza garantisce anzitutto l’autonomia delle grandi potenze, che sono tali proprio in quanto costituiscono dei poli autonomi dell’equilibrio (gli attori principali del sistema), ma nello stesso tempo è in grado di garantire un minimo di autonomia anche alle medie e piccole potenze (gli attori secondari), le quali possono appoggiarsi ad una delle grandi potenze del sistema e non si trovano quindi di fronte ad una sola grande potenza sovrastante tutte le altre, nel qual caso verrebbe meno ogni autonomia.
L’equilibrio, che è dunque il fondamento insostituibile del sistema degli Stati, costituisce inoltre la condizione che induce gli Stati a riconoscersi reciprocamente anche in modo formale come Stati sovrani e che, nel caso dell’Europa moderna, ha reso di fatto possibile l’affermarsi e il progressivo estendersi del diritto internazionale, garantendone in misura più o meno ampia l’efficacia, nonostante che esso non promani da un potere sovrano. In effetti secondo il punto di vista fondato sulla dottrina della ragion di Stato (Hintze) le norme del diritto internazionale che vengono effettivamente osservate dagli Stati derivano la loro validità fattuale non tanto dal principio «pacta sunt servanda», che costituisce essenzialmente un giudizio di valore, quanto piuttosto dal fatto che, dato l’equilibrio, cioè l’impossibilità fattuale di eliminare la sovranità degli altri Stati, gli attori del sistema internazionale hanno dovuto riconoscere la necessità di convivere in qualche modo, pur non rinunciando alla politica di potenza ed alla guerra come extrema ratio, e quindi di regolare in qualche modo tale convivenza di carattere anarchico, dando vita ad un diritto sui generis, in quanto legittima l’uso normale della violenza. In sostanza, se non vi è un potere sovrano che garantisce il rispetto del diritto internazionale, vi è comunque una situazione di potere, l’equilibrio fra le potenze, che ottiene almeno in parte tale effetto.
 
Sistemi pluripolari e sistemi bipolari.
Individuata, a un livello di forte astrazione, nella tendenza da parte di ogni potenza ad impedire che in uno Stato si accumulino forze superiori a quelle dei suoi rivali coalizzati la caratteristica più generale e costante di un sistema di Stati, questa teoria della politica internazionale si sforza di affinare la propria capacità analitica chiarendo come i rapporti all’interno dei sistemi di Stati acquistino caratteristiche più specifiche ed individuali, al di là della suddetta tendenza generale, a seconda della configurazione del rapporto delle forze. I due modelli più tipici di configurazione del rapporto delle forze sono quello pluripolare e quello bipolare: o gli attori principali, le cui forze non sono troppo dissimili, sono relativamente numerosi; oppure due soli attori dominano a tal punto i loro rivali che ciascuno di essi diventa il centro di una coalizione e gli attori secondari sono costretti a prendere posizione rispetto ai due «blocchi», schierandosi con l’uno o con l’altro, a meno che non abbiano la possibilità, derivante in parte dalla loro posizione geopolitica, ma soprattutto dall’accordo formale o tacito delle superpotenze, di restare neutrali. Sono possibili modelli intermedi a seconda del numero degli attori principali e del maggiore o minore distacco, soprattutto nella configurazione bipolare, fra le massime potenze e quelle medie. Vediamo ora le caratteristiche principali dei due modelli più tipici e che fungono da paradigmi anche per l’analisi delle situazioni intermedie e la comprensione delle variazioni che in esse intervengono.
L’esempio fondamentale di equilibrio pluripolare (vi si avvicina, con alcune riserve in relazione al processo ancora incompleto di formazione dello Stato moderno, il sistema dei principati italiani del ‘400, nel cui ambito si affermò, tra l’altro, la prassi delle ambasciate stabili, il cui scopo originario era precisamente quello di seguire da vicino l’evoluzione della potenza degli altri Stati, onde prendere le misure adeguate al mantenimento dell’equilibrio) è rappresentato dal sistema europeo degli Stati, il quale ha potuto mantenere tale configurazione fino al suo dissolvimento nell’attuale sistema mondiale soprattutto a causa del ruolo costante di ago della bilancia svoltavi dalla potenza insulare inglese, da una potenza, cioè, che, proprio in ragione della sua particolarmente fortunata posizione geopolitica, ha sempre potuto costituire il perno incrollabile delle coalizioni contro quella che di volta in volta era la più forte potenza continentale, ed è sempre riuscita a ristabilire l’equilibrio contro i successivi tentativi egemonici.
La caratteristica più evidente dell’equilibrio pluripolare è, in prima approssimazione, una relativa elasticità sotto due aspetti. Anzitutto sotto l’aspetto delle alleanze, che tendono a non irrigidirsi, ma anzi a mutare a seconda delle esigenze della conservazione dell’equilibrio, le quali spingono gli Stati a coalizzarsi contro il più forte fra essi e in generale a formare controalleanze di fronte ad alleanze che appaiono minacciose per l’equilibrio, prescindendo generalmente nella scelta degli alleati e nel mutamento degli schieramenti da considerazioni relative alla solidarietà ideologica, cioè alla somiglianza o meno dei regimi interni agli Stati. In secondo luogo le potenze medie e piccole hanno, rispetto alla configurazione bipolare, una relativamente maggiore possibilità di scelta e quindi autonomia, e ciò sia perché sono più numerosi gli attori principali ai quali ci si può appoggiare, sia perché il passaggio dal campo di una grande potenza a quello di un’altra può essere facilmente tollerato date le possibilità di riequilibrio offerte dall’esistenza di «terze persone» a cui possono appoggiarsi gli attori che subiscono una diminuzione del proprio potere.
A queste indicazioni occorre aggiungere, per rendere il quadro concettuale più adeguato alla complessità dell’evoluzione del sistema europeo, un’importante precisazione. Quando le differenze fra le forze degli attori principali diventano molto piccole, e quindi nessuno di essi può di fatto perseguire mire egemoniche o comunque aspirare a mutamenti rilevanti della situazione di potere a proprio vantaggio, il sistema diventa molto stabile nel senso che garantisce lunghi periodi di pace o di guerre limitate nei mezzi e moderate negli obiettivi. In queste condizioni (pensiamo in particolare a gran parte del periodo fra i trattati di Utrecht e Rastadt e l’inizio delle guerre scatenate dalla rivoluzione francese e ancor più al periodo dal Congresso di Vienna all’inizio dell’era guglielmina), specie nei momenti di massima stabilità dell’equilibrio, tendono ad affermarsi in modo vincolante alcune regole semiformali di comportamento degli Stati, le quali mirano a moderare la politica di potenza, a subordinarla cioè in modo deliberato e consapevole, al di là del vincolo oggettivo costituito dall’equilibrio delle forze, alle esigenze generali della preservazione dell’equilibrio. E diventa addirittura possibile la formazione di strutture quasi-formali, quale il concerto europeo dell’epoca della Santa Alleanza (di cui può essere considerato un precedente la Lega Italica, costituita all’interno del sistema italiano nella seconda metà del ‘400), dirette a risolvere pacificamente nella misura più ampia possibile le controversie fra gli Stati e a preservare collettivamente l’ordine internazionale. Per contro, quando le differenze di potenza diventano molto rilevanti per il fatto che un attore principale accumula una tale forza da sovrastare gli altri e la impiega per modificare radicalmente a suo vantaggio il quadro esistente delle relazioni internazionali, e quando di conseguenza emerge una spinta egemonica che provoca la coalizione (che resta stabile finché permane il pericolo egemonico) degli altri attori principali, la configurazione pluripolare tende di fatto ad avvicinarsi a quella bipolare con le caratteristiche di rigidità nelle alleanze, instabilità del sistema, tensione continua, dimensione totale delle guerre, che vedremo ora essere tipiche di questa configurazione. Nel sistema europeo situazioni di questo genere si sono verificate precisamente in occasione delle guerre egemoniche della Francia di Luigi XIV e di Napoleone e della Germania guglielmina e poi nazionalsocialista (i tentativi egemonici della Spagna di Carlo V e di Filippo II si collocavano in un periodo in cui il sistema europeo si trova ancora nel processo della sua formazione).
Veniamo ora al modello di equilibrio bipolare, che trova la sua realizzazione più completa nel sistema mondiale formatosi in seguito all’esito della seconda guerra mondiale, ed al quale si approssimano sia le fasi di guerre egemoniche nel sistema europeo (ma in questo caso si potrebbe dire che la configurazione bipolare ha un carattere più congiunturale che strutturale), sia il sistema delle città-Stato greche fondato sulla preminenza di Atene e Sparta. La sua caratteristica più netta è costituita dalla rigidezza della politica di equilibrio attuata dai due attori principali, dal fatto cioè che essi hanno un’estrema difficoltà o impossibilità a rinunciare a posizioni di potere anche minime e quindi anche ad accettare il passaggio di un alleato al blocco contrapposto. Ciò dipende fondamentalmente dal fatto che, in assenza di «terze persone» in grado di controbilanciare gli spostamenti dell’equilibrio, una qualsiasi anche relativamente piccola diminuzione della forza di uno dei poli dell’equilibrio avvantaggia automaticamente ed unilateralmente l’altro polo ed implica quindi in maniera immediata un pericoloso squilibrio. In effetti nella configurazione bipolare la corsa agli armamenti è sempre più accentuata che in quella pluripolare, le crisi connesse ai mutamenti o tentativi di mutamento di schieramento assai più pericolose per il mantenimento della pace, e infine la guerra fra gli attori principali, quando scoppia, tende fatalmente ad acquistare un carattere totale, sia nel senso di coinvolgere l’intero sistema, sia nel senso dell’impegno di tutte le energie disponibili da parte delle massime potenze.
Per quanto riguarda gli attori minori, la formazione di blocchi fortemente egemonizzati da una potenza-guida — inevitabile, data la limitatissima libertà di scelta che nella configurazione bipolare hanno le potenze medie e piccole — implica necessariamente, soprattutto nelle zone di grande importanza strategica, la limitazione in misura rilevantissima della stessa autonomia di decisione interna degli Stati subordinati. Con ciò si intende la possibilità di imporre ai «satelliti» scelte ideologiche e quindi l’adozione od il mantenimento di strutture politiche ed economico-sociali omogenee o comunque vantaggiose rispetto alle esigenze del sistema politico ed economico-sociale della potenza egemone, la quale è d’altra parte in una certa misura costretta a cercare di impedire profonde trasformazioni interne negli Stati appartenenti alla sua zona di influenza proprio onde evitare il loro passaggio al blocco contrapposto.
Queste caratteristiche di fondo dell’equilibrio bipolare tendono a stemperarsi man mano che la differenza di potenza fra gli attori principali e quelli secondari diminuisce mettendo perciò in crisi la posizione di preminenza delle superpotenze. Inoltre un fattore decisivo che deve essere tenuto presente, per capire il funzionamento del sistema mondiale postbellico e per coglierne l’originalità rispetto ad ogni altro sistema di Stati che lo ha preceduto, è la presenza delle armi di distruzione totale, le quali, rendendo del tutto assurda ed inconcepibile la guerra generale e diretta fra le superpotenze, ne hanno di fatto impedito lo scoppio nonostante l’elevatissima intensità della gara degli armamenti e, in generale, la rigidità e la tensione proprie di una configurazione bipolare, ed hanno perciò aperto la strada alla possibilità di controllo ed anche di limitazione degli armamenti.
 
Politica estera e politica interna.
Uno dei problemi più complessi che si pongono alla teoria della politica internazionale è quello del rapporto fra politica estera e politica interna. Per l’approccio teorico fondato sulla dottrina della ragion di Stato, ma nello stesso tempo affrancato dalle opzioni ideologiche proprie della dottrina tedesca dello Stato-potenza, questo problema non può essere risolto nei termini semplicistici di una scelta a favore della tesi del primato della politica estera di contro alla tesi opposta del primato della politica interna. In realtà il discorso è assai più complesso ed ha il suo punto di partenza nel riconoscimento dell’autonomia relativa della politica estera rispetto alle strutture interne degli Stati. Con ciò si afferma in sostanza che, se da una parte i contenuti politici, economici, sociali, culturali dei rapporti internazionali, e quindi, dei conflitti che in essi insorgono, variano a seconda delle diverse epoche e quindi delle diverse strutture politiche ed economico-sociali interne agli Stati (le quali strutture in parte riflettono le condizioni generali, il livello di civiltà, di un’epoca, e in parte divergono da Stato a Stato nella stessa epoca), dall’altra parte gli strumenti con cui gli Stati regolano tali rapporti, e cioè la politica di potenza, la politica di equilibrio, la guerra (i quali strumenti lasciano, come si è visto, un certo spazio di efficacia alle norme del diritto internazionale), restano sostanzialmente gli stessi, a parte i condizionamenti che l’evoluzione tecnologica esercita sugli armamenti e la condotta della guerra, finché permane l’anarchia internazionale, cioè la pluralità degli Stati sovrani. In effetti i più radicali cambiamenti di regime succedutisi nella storia moderna, dalla rivoluzione francese a quella sovietica, hanno certo mutato profondamente le condizioni del sistema internazionale nel suo complesso, e quindi i contenuti della politica internazionale e dei conflitti relativi e anche gli schieramenti, ma non hanno fatto venir meno le leggi fondamentali dei rapporti di potenza e di equilibrio.
Individuati i termini più generali dell’autonomia relativa della politica estera dalle strutture interne, è successivamente possibile inquadrare in modo adeguato sia le forme nelle quali si manifesta più nettamente l’influenza della situazione internazionale sull’evoluzione interna degli Stati, sia quelle in cui si verifica il fenomeno opposto.
Circa il primo punto, si può constatare come l’anarchia internazionale, costringendo gli Stati a creare e rafforzare costantemente, e sovente ad usare, gli apparati militari per la difesa esterna, esplichi in generale un’influenza sull’evoluzione interna degli Stati nel senso di favorire il rafforzamento del potere centrale dello Stato, sia di fronte alla società civile (gruppi sociali e singoli), sia di fronte ai poteri locali, ed in particolare esasperi, negli Stati la cui sicurezza è più facilmente attaccabile, data la loro posizione nel sistema degli Stati, la tendenza all’accentramento del potere, sia nel senso sopraddetto, sia nel senso della prevalenza del potere esecutivo rispetto alle rappresentanze parlamentari ed alla magistratura. In proposito va ricordata la differenza fra Stati insulari e Stati continentali nel sistema europeo e, per quanto riguarda l’attuale sistema mondiale, l’influenza in senso accentratore ed autoritario sull’evoluzione interna delle due superpotenze derivante dalla corsa agli armamenti, dalla spartizione del mondo in zone d’influenza e, in generale, dalle condizioni di tensione ed instabilità proprie dell’equilibrio bipolare. Quanto invece all’influenza che le grandi potenze esercitano sull’evoluzione interna delle medie e piccole potenze, si tratta di un fenomeno conseguente direttamente alla mancanza di autonomia internazionale da parte di queste ultime.
Venendo al secondo punto, il fenomeno più rilevante da prendere in considerazione è la tendenza da parte degli Stati con forti tensioni politico-sociali interne a cercare di controllarle e comprimerle anche attuando una politica di espansione esterna o comunque di esasperazione della tensione internazionale, la quale politica comporta generalmente il consolidamento del governo o del regime che la attua, a meno che non conduca alla sconfitta o addirittura al crollo dello Stato in questione, nel qual caso le tensioni interne che si era cercato di dirottare all’esterno sboccano quasi immancabilmente in fenomeni di cambiamento rivoluzionario del regime.[1] Questa tendenza (detta anche «bonapartismo») si traduce indubbiamente in un’influenza rilevante dell’evoluzione interna di uno Stato sulla sua politica estera e quindi sulla situazione internazionale. Tuttavia non si deve cadere nell’errore di vedere nel bonapartismo la causa centrale ed assorbente dei processi internazionali dei quali pur costituisce un importante fattore. In realtà la manovra bonapartistica presuppone e non è essa a creare l’anarchia internazionale con la connessa autonomia relativa della politica esteta, e d’altra parte nella storia del sistema europeo degli Stati gli esempi più rilevanti di politica bonapartistica (la politica estera della Germania nazista è l’ultimo e più clamoroso esempio) riguardano esclusivamente le potenze continentali, nelle quali la tendenza a dirottare all’esterno le tensioni interne si innesta sia sul carattere già di per sé bellicoso ed espansionistico della loro politica estera, dipendente oggettivamente dalla posizione continentale, sia sull’influenza in senso accentratore, autoritario e conservatore (tutti fattori di accentuazione delle tensioni interne) esercitata dalla posizione continentale sull’evoluzione interna.
All’opposto il fenomeno della difficoltà oggettiva che gli Stati fortemente decentrati o federali e con una effettiva separazione dei poteri hanno ad attuare una politica estera bellicosa ed espansionistica (in quanto l’equilibrio fra i poteri dello Stato ostacola la rapidità di decisione ed intervento sul piano internazionale), se mette in luce un momento importante di influenza, in senso evidentemente opposto al caso precedente, delle strutture interne sulla politica estera, deve d’altra parte essere pure inquadrato nel contesto più ampio dell’influenza che la posizione nel sistema degli Stati ha sulla politica estera e quindi sull’evoluzione interna di certi Stati. È chiaro che ci riferiamo qui alla problematica dello Stato insulare.
 
Critiche al modello dicotomico sovranità statale-anarchia internazionale.
Mentre la teoria della politica internazionale, di cui abbiamo or ora esposto l’intelaiatura concettuale essenziale, emerge da una tradizione di pensiero riconducibile nei suoi fondamenti più generali fino a Machiavelli, anche se è stata arricchita in modo decisivo dai più recenti contributi degli studiosi che in tale tradizione si collocano, lo studio delle relazioni internazionali come disciplina accademica e scienza autonoma nell’ambito della più comprensiva scienza politica è un fenomeno relativamente recente, che, dopo alcune anticipazioni fra le due guerre mondiali, si è sviluppato soprattutto in questo dopoguerra ad opera principalmente di studiosi anglosassoni. In quali rapporti stanno fra di loro questi due orientamenti?
In parte vi può essere un rapporto di integrazione reciproca. Ciò vale in particolare per quanto riguarda la raccolta di una sterminata quantità di dati empirici (che costituisce uno dei contributi più notevoli, anche se è di per sé insufficiente, della scienza americana delle International Relations), i quali possono essere utilizzati con profitto dall’approccio teorico sopra esaminato, le cui analisi richiedono appunto in non pochi casi di essere corredate da una più completa ed organica raccolta di dati. Per quanto riguarda l’impiego da parte degli studiosi di International Relations della metodologia comportamentistica, dei procedimenti di quantificazione dei dati, della teoria generale dei sistemi, della teoria dei giochi, di complessi modelli cibernetici, si può osservare che tali sofisticati approcci metodologici non sono di per sé contraddittori rispetto agli insegnamenti derivanti dalla dottrina della ragion di Stato. Come esempio assai significativo si può in proposito indicare lo sforzo di rendere più rigoroso il discorso sui sistemi di Stati inquadrandolo nella teoria generale dei sistemi (Morton A. Kaplan). Ciò detto, non vanno d’altro canto dimenticate le recenti assai diffuse critiche al comportamentismo ed alla connessa tendenza alla quantificazione e matematizzazione dei dati, le quali critiche stanno portando ad una generale e sostanziale rivalutazione dell’approccio tradizionale, apparendo sempre più chiaro che il perfezionismo metodologico e soprattutto la tendenza ad operare solo su dati quantificabili costringono la ricerca a concentrarsi su temi marginali.
Al di là degli aspetti che possono con alcune riserve essere considerati complementari, emergono per altro nel panorama delle International Relations talune tesi alternative nei confronti della teoria delle relazioni internazionali fondata sulla dottrina della ragion di Stato. In sostanza secondo un modo di vedere abbastanza diffuso i concetti basilari di sovranità statale e di anarchia internazionale apparirebbero sempre più privi di capacità descrittiva ed esplicativa nella realtà contemporanea in seguito alla presenza di alcuni fenomeni di grande rilievo implicanti tutti in diversa misura una sostanziale limitazione della sovranità, sia nei rapporti internazionali, che in quelli interni, e quindi il venir meno del fondamento stesso della differenza qualitativa fra relazioni internazionali ed interne. I fenomeni più generalmente citati sono i seguenti:
l’interdipendenza crescente fra tutti gli attori del sistema mondiale, che si esprime in rapporti sempre più intensi e profondi sul piano politico, economico, sociale, culturale a livello planetario, e che ha dato origine ad uno sviluppo incomparabile, rispetto ad ogni altra epoca, delle strutture dell’organizzazione internazionale (di cui l’O.N.U. è l’esempio fondamentale), aventi appunto il compito di gestire sulla base di organi interstatali tale interdipendenza;
lo svilupparsi e l’approfondirsi di tale interdipendenza, all’interno dei blocchi e delle zone di influenza in cui è articolato l’attuale sistema mondiale, in forme di integrazione sopranazionale sul piano militare e/o economico (N.A.T.O., Patto di Varsavia, C.E.E., Comecon, ecc.), che ben poco hanno a che fare con le tradizionali alleanze, poiché limitano sostanzialmente la sovranità internazionale ed interna;
la pratica impossibilità di una guerra generale fra i massimi attori del sistema a causa dell’esistenza delle armi di distruzione globale, e quindi il venir meno (o la sua riduzione nei limiti delle guerre locali) della caratteristica preminente della sovranità statale, cioè della possibilità effettiva del ricorso alla guerra.
L’esistenza di questi fenomeni è evidentemente indiscutibile. Non fondata ci sembra invece la tesi che essi mettano in crisi la validità dello schema teorico precedentemente delineato, fondato sulla dicotomia sovranità statale-anarchia internazionale. In proposito appaiono necessari alcuni chiarimenti. Anzitutto l’esistenza di una certa interdipendenza (ovviamente variabile nelle sue forme e nei suoi contenuti da epoca a epoca) fra le società i cui Stati fanno parte di un sistema di Stati è, a ben vedere, una delle condizioni dell’esistenza di un sistema di Stati, il quale appunto costituisce quella situazione complessa caratterizzata dall’esistenza di relazioni costanti fra certi gruppi umani e nello stesso tempo dall’assenza di un potere sovrano comune in grado di regolare tali relazioni con gli stessi strumenti applicabili nelle relazioni interne. Di fatto, alla luce dell’analisi storica, i sistemi di Stati appaiono sempre collegati all’esistenza di una qualche forma di società transnazionale, che nei termini più generali costituisce una civiltà comune ed implica perciò un’interdipendenza più o meno profonda fra tutti gli attori del sistema, che anche le guerre più terribili non riescono mai a interrompere completamente o definitivamente. Quanto ai fenomeni d’integrazione sopranazionale, essi sono in certi casi le specifiche forme assunte dai rapporti fortemente gerarchici fra attori principali e secondari caratterizzanti i sistemi bipolari (N.A.T.O., Patto di Varsavia e Comecon), mentre in altri casi (soprattutto l’integrazione dell’Europa occidentale) corrispondono alla tendenza — manifestatasi nel secolo scorso, ad esempio, con l’unificazione italiana e quella tedesca — a creare entità statali più ampie in zone in cui l’interdipendenza è particolarmente accentuata, e nelle quali solo attraverso l’unificazione sopranazionale è possibile recuperare o raggiungere un ruolo di attori principali del sistema internazionale. Infine le armi di distruzione totale hanno certo introdotto dei cambiamenti rilevanti nel quadro delle relazioni internazionali, sostituendo in particolare nei rapporti fra le grandi potenze il fenomeno della dissuasione a quello della guerra generale, ma non hanno eliminato i dati di fondo dell’anarchia internazionale, vale a dire i rapporti di forza, la politica di equilibrio, la gerarchia fra le potenze, ecc., con le loro implicazioni.
Fatti questi chiarimenti per quanto riguarda il permanere, nella realtà internazionale contemporanea, della capacità esplicativa della dicotomia sovranità-anarchia internazionale, rimane d’altra parte aperta la questione se tali fenomeni di crescente interdipendenza dei rapporti umani su scala mondiale — la possibilità di distruggere il mondo deve essere considerata in questo contesto una forma di interdipendenza negativa — non indichino che la struttura anarchica della società interstatale è sempre più inconciliabile con le esigenze di sopravvivenza e di sviluppo del genere umano, e non pongano perciò il problema di un governo mondiale e delle vie, e delle eventuali tappe intermedie, attraverso cui giungere a tale obiettivo.
 
Politica internazionale ed evoluzione del modo di produrre.
Per ultimo rimane da affrontare il problema di fondo posto dal pensiero di orientamento marxista, vale a dire l’esigenza di individuare le strutture economico-sociali che stanno alla base, oltre che delle istituzioni statali, anche del sistema internazionale, la quale esigenza si sviluppa nel tentativo di fondare una vera e propria teoria dialettica della politica internazionale, una teoria cioè che sappia inquadrare il sistema internazionale nella totalità delle sue interconnessioni fra gli aspetti strutturali e quelli sovrastrutturali. A questo problema, la cui soluzione è effettivamente di importanza fondamentale per lo sviluppo degli studi sulla politica internazionale, non hanno dato finora a nostro avviso una risposta convincente le teorie marxiste dell’imperialismo a causa della loro incapacità di affrancarsi dalla tesi del primato della politica interna. Per contro riteniamo che la strada giusta da seguire in questo campo sia quella di una sintesi fra l’approccio teorico fondato sul materialismo storico e quello fondato sulla dottrina della ragion di Stato, la quale sintesi dovrebbe trovare nel concetto di autonomia relativa delle sovrastrutture il suo punto cruciale di interconnessione. A questo riguardo proponiamo qui a titolo esemplificativo alcune linee di analisi.
Si tratta anzitutto di chiarire nei termini più generali il rapporto esistente fra anarchia internazionale ed evoluzione del modo di produrre. A questo proposito si può osservare, con riferimento all’esempio concreto del sistema europeo, e poi mondiale, degli Stati, come il formarsi di tale sistema rifletta l’affermarsi del modo capitalistico di produzione, il quale è da un lato alla base del moderno Stato sovrano (il monopolio della forza fisica diventa indispensabile per permettere il funzionamento di un tipo di società più complessa rispetto a quella feudale e con nuove forme di conflitti sociali), e dall’altro lato dà vita progressivamente al cosiddetto mercato mondiale, cioè ad una crescente interdipendenza fra gli attori del sistema europeo e poi mondiale, tale da produrre relazioni costanti fra le società che lo compongono (da produrre una più o meno sviluppata società transnazionale), ma non tale da determinare il superamento della pluralità di Stati sovrani in un’unica comunità politica. Individuata la base materiale del sistema degli Stati, si deve subito dopo riconoscere l’influenza autonoma che il sistema stesso esercita, nei termini indicati dalla teoria della ragion di Stato, sullo svolgimento della politica internazionale fino a quando permane la pluralità degli Stati sovrani, fino a quando, in altre parole, l’evoluzione del modo di produrre non avrà prodotto un tale approfondimento dell’interdipendenza dell’attività umana su scala mondiale da render inevitabile, pena il completo arresto dello sviluppo delle forze produttive, il superamento dell’anarchia internazionale.
Entro questi termini generali del rapporto fra evoluzione del modo di produrre ed anarchia internazionale occorre poi chiarire più in profondità come le fasi successive dell’evoluzione del modo di produrre determinino la progressiva estensione delle dimensioni della comunità politica (passaggio dallo Stato regionale allo Stato nazionale ed a quello continentale, cui corrisponde l’evoluzione dal sistema italiano degli Stati a quello europeo ed a quello mondiale), il mutamento dei rapporti economici, sociali, ecc. fra gli Stati (i rapporti ed i relativi conflitti propri del primo capitalismo sono diversi da quelli del capitalismo industriale, del capitalismo di Stato, ecc.), il mutamento dei regimi interni agli Stati (il che non può non influenzare la politica internazionale: l’affermarsi dei regimi socialisti, ad esempio, non ha eliminato, ma ha modificato profondamente la struttura del mercato mondiale, ed inoltre i rapporti fra Stati socialisti, pur non essendo fra essi venute meno la politica di potenza e le tendenze imperialistiche, presentano nette differenze soprattutto sul piano economico e sociale rispetto ai rapporti fra Stati capitalisti).
Il rapporto così individuato fra struttura e sovrastruttura nel contesto della politica internazionale non ha per altro un carattere meccanico proprio per il fatto che le condizioni sovrastrutturali, in ragione della loro autonomia relativa, sono in grado di bloccare o sviare per lunghi periodi storici il processo di adeguamento della sovrastruttura all’evoluzione strutturale. L’esempio più significativo che può essere citato a questo proposito è la risposta che è stata data dalle potenze europee al problema della creazione di una comunità politica di dimensioni continentali, che il passaggio alla fase della produzione industriale di massa ha posto agli europei a cominciare dalla fine del secolo scorso. A questo problema, che richiedeva quale unica valida risposta l’integrazione europea, le classi dirigenti dei principali Stati europei hanno cercato, fin quando questi Stati hanno potuto conservare una posizione di effettive potenze autonome nel sistema internazionale, di dare una risposta compatibile con la conservazione della sovranità assoluta e insieme dello status di attori principali del sistema degli Stati; hanno cioè cercato di crearsi uno spazio più ampio (lo «spazio vitale») con l’espansione imperialistica, dapprima a spese dei popoli arretrati e poi a spese l’un dell’altro. La scelta a favore dell’integrazione europea ha per contro potuto affermarsi, sia pure fra molte difficoltà e contraddizioni e, finora, non ancora in modo irreversibile, solo dopo il crollo della potenza degli Stati nazionali in seguito all’esito della seconda guerra mondiale ed all’affermarsi del sistema mondiale bipolare, che ha posto gli europei di fronte al dilemma fra l’accettazione definitiva di un ruolo subordinato nel contesto internazionale e il recupero di un ruolo autonomo con l’unità. In sostanza la sovrastruttura-sistema europeo degli Stati, fondata sulla tendenza plurisecolare da parte degli Stati europei al mantenimento ed al rafforzamento della rispettiva autonomia e potenza (tendenza che, a livello di concreti comportamenti umani, deriva dall’interesse di ogni classe dirigente a non accettare alcuna limitazione del proprio potere, finché non vi è costretta da una forza superiore), ha cominciato ad entrare in contraddizione fin dalla fine del secolo scorso con l’evoluzione delle forze produttive vieppiù trascendenti le dimensioni nazionali; ma il processo di adeguamento delle condizioni sovrastrutturali all’evoluzione della base materiale, cioè il superamento del sistema europeo di Stati sovrani con l’integrazione europea, ha potuto mettersi in moto solo allorché un fatto rivoluzionario quale l’esito della seconda guerra mondiale ha spezzato la potenza degli Stati nazionali e quindi la loro capacità di ostacolare l’espansione delle forze produttive al di là delle frontiere nazionali.
Un altro esempio significativo è rappresentato dalla politica di tipo bonapartistico (che, come si è visto, ha il suo presupposto nella autonomia relativa delle relazioni internazionali) che permette di rimandare la trasformazione del regime interno di uno Stato fin quando non intervenga il crollo della sua potenza.
 
 
BIBLIOGRAFIA
 
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Politica di potenza e imperialismo (antologia con testi di Aron, Dehio, Hamilton, Hintze, Lothian, Meinecke, Ranke, Robbins), a cura di S. Pistone, Milano, 1973.
Per l’orientamento critico nei confronti della dicotomia sovranità statale-anarchia internazionale:
K.W. Deuthsch, The Analysis of International Relations, Englewood Cliffs, 1968 (trad. it., Le relazioni internazionali, Bologna, 1970).
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Per l’approccio di ispirazione marxista:
Internationale Beziehungen, a cura di E. Krippendorf, Colonia, 1973.


* Si tratta di una voce redatta per il Dizionario di Politica di prossima pubblicazione per i tipi della U.T.E.T., qui pubblicata per cortese concessione della Casa editrice.
[1] Per questo, se c’è una situazione di equilibrio stabile (come all’epoca della Santa Alleanza) in cui i tentativi espansionistici in grande stile sono condannati in partenza all’insuccesso, tende piuttosto a prevalere una cauta politica estera anche per evitare di mettere in pericolo i regimi esistenti.

 

 

 

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